Anno XLVII (2019) Fasc. 1, N. 182

Anno XLVII (2019) Fasc. 1, N. 182

  1. Saggi
    • GIANNI OLIVA

      «Questi, che mai da me non fia diviso» (Inf. V, 135) – pp. 3-12

      Il celebre episodio di Paolo e Francesca è qui rivisitato da un’interpretazione
      singolare che cancella definitivamente l’alone romantico che su di esso si era
      accumulato nel corso del tempo. Facendo leva su alcuni aspetti non sufficientemente
      considerati che il testo stesso ci indica e, soprattutto, sul sistema della
      poena sensus sul quale poggia il principio del contrapasso, il saggio insiste sulla
      inusuale condizione in cui sono ritratti i corpi dei due amanti e su una nuova
      visione della pietas di Dante che ne provoca l’irrepetibile svenimento.

      The famous episode of Paolo and Francesca is here revisited by a singular interpretation
      that definitively cancels the romantic halo that had accumulated over
      the course of time. Leveraging on some aspects not sufficiently considered that
      the text itself indicates to us and, above all, on the poena sensus system on which
      the principle of contrapasso rests, the essay insists on the unusual condition in
      which the bodies of the two lovers are portrayed and on a new vision of the
      pietas of Dante which causes the unrepeatable fainting.

    • Gáldrick de la Torre Ávalos

      Garcilaso de la Vega lettore di Vittoria Colonna: per una interpretazione del sonetto Clarísimo
      marqués, en quien derrama*
      – pp. 13-39

      Nel presente studio si realizza una lettura critica del sonetto XXI di Garcilaso,
      diretto a un «clarísimo marqués», che alcuni studiosi hanno identificato nella
      persona del marchese del vasto alfonso d’avalos. attraverso un esame delle fonti
      e un’analisi del ritratto poetico del marchese nel contesto più ampio del petrarchismo
      e dell’umanesimo meridionale, con particolare attenzione al cenacolo
      d’ischia, si apportano nuovi elementi a favore di tale identificazione.

      The present study furnishes a critical reading of Garcilaso’s sonnet XXI, addressed
      to a «clarísimo marqués», whom some scholars have associated with
      the marquis of Vasto Alfonso d’Avalos. By means of an examination of the
      sources and an analysis of the poetic portrait of the marquis within the wider
      context of Petrarchism and southern Humanism, with particular reference to the
      cenacle in Ischia, it supplies new evidence in support of such an identification.

    • Alviera Bussotti

      Alfieri e i soggetti storici moderni nelle pagine del «Conciliatore» – pp. 41-58

      L’articolo affronta il dibattito sorto nella rivista milanese «il Conciliatore» sui
      soggetti storici moderni e sul loro impiego nella tragedia di Alfieri. Prendendo
      in esame i contributi e le recensioni di Silvio Pellico, Ermes visconti, Giuseppe
      Nicolini e Ludovico Di Breme, il saggio intende mostrare come i giudizi espressi
      sulla produzione dell’Astigiano siano da ricondurre alla promozione da parte
      del ‘foglio azzurro’ di una tragedia ‘nazionale’ italiana fondata sul recupero
      della storia medievale e moderna.

      This articles looks at the debate that developed in the Milanese journal «Il Conciliatore
      » concerning modern historical subjects and their utilization in Alfieri’s
      tragedies. By examining contributions and reviews by Silvio Pellico, Ermes Visconti,
      Giuseppe Nicolini and Ludovico Di Breme, it sets out to show how their
      opinions on Alfieri’s writing go back to the journal’s promotion of a ‘national’
      Italian tragedy founded on medieval and modern history.

    • RAFFAELE CAVALLUZZI

      La vita degli uomini come “storia di sangue e corpi nudi”. Personaggi omodiegetici del Sentiero dei
      nidi di ragno di I. Calvino
      – pp. 59-75

      Violenza bestiale dei nazifascisti, rancorosa crudeltà dei combattenti di una
      guerra di liberazione che sfiora il conflitto ‘civile’, estrema miseria degli ultimi,
      misoginia di un sesso senza remore, nel primo grande romanzo di Calvino sono
      filtrati dallo sdoppiato punto di vista dei due personaggi omodiegetici del piccolo
      Pin e del commissario comunista Kim, mentre la spietatezza della vicenda
      è avvolta, in fondo, dall’ingenuo alone fiabesco – tenero e ad un tempo ruvidamente
      realistico – di un riscatto di sapore chapliniano.

      Beastly Nazi violence, spiteful cruelty of soldiers in a war of liberation that
      borders on a ‘civil’ conflict, extreme misery of the latter, misogyny of a sex without
      any scruples, in Calvino’s first great novel are filtered through the twin
      viewpoints of two homodiegetic characters, the little Pin and the Communist
      commissioner Kim, whilst the ruthlessness of events is surrounded, deep
      down, by a naïve, fairy-tale halo – at the same time tender and roughly realistic
      – of redemption in a Chaplinesque sense.

    • GIOVANNI DE LEVA

      La guerra dei padri. Beppe Fenoglio e il primo conflitto mondiale – pp. 77-92

      Il saggio ripercorre l’inchiesta storico – narrativa sul primo conflitto mondiale
      che Beppe Fenoglio sembra svolgere tra Un giorno di fuoco (1955) e I penultimi
      (1962-1973), alla ricerca d’un raccordo politico e morale tra la Grande Guerra e
      la Resistenza. Si tratta d’un percorso accidentato, che tra l’altro vede lo scrittore
      cambiare radicalmente posizione sul conflitto, prima di riuscire a tracciare una
      linea genealogica e una tradizione culturale di riferimento.

      This essay surveys the historical-narrative inquiry into the First World War that
      Beppe Fenoglio seems to carry out between Un giorno di fuoco (1955) and I penultimi
      (1962-1973) in a search for political and ethical links between the Great War
      and the Resistance. It is a bumpy ride in which the author alters radically his
      position concerning the war, prior to tracing a family tree and a cultural tradition
      on which to base his research.

  2. Meridionalia
    • FLORA DI LEGAMI

      Un ironico gioco di contrappunti. Il Decameroncino di Luigi Capuana – pp. 95-114

      Il Decameroncino è testo emblematico, nell’officina letteraria di Capuana, di una
      costante ricerca teorica sulla forma della novella moderna. Il rapporto esibito
      con l’opera di Boccaccio permette allo scrittore di Mineo di istituire un sapiente
      gioco di riprese e ribaltamenti, tessuto col doppio filo del contrappunto ironico.
      L’organico sistema del Decameron è rimodulato nel senso del frammentario.
      Tramite un fantastico inquieto e paradossale, la narrazione sospende criteri di
      realismo determinista per alludere alla complessità del vero e della scrittura che
      lo figura.

      Within Capuana’s literary output, the Decameroncino displays a constant theoretical
      interest in the form of the modern short story. The relationship with Boccaccio’s
      work allows the writer skillfully both to reuse and to turn upside-down
      the source text in an ironic counterpoint. The organic system of the Decameron
      is transformed into something more fragmentary. By way of a restless and paradoxical
      imagination, the narration suspends all criteria of deterministic realism
      so as to allude to the complexity of reality and that writing which recreates
      it.

  3. Contributi
    • Elisa Tinelli

      Prolegomeni all’edizione critica del De regno et regis institutione di Francesco Patrizi da
      Siena
      – pp. 113-134

      Il saggio si propone di presentare alcune delle più rilevanti tematiche eticopolitiche
      affrontate da Francesco Patrizi da Siena, vescovo di Gaeta dal 1464, nel
      ponderoso trattato De regno et regis institutione, ch’egli offrì ad alAfonso ii d’aragona,
      figlio di Ferdinando i, nel 1484, nonché di inquadrare l’opera nel più
      generale contesto della letteratura politica d’età umanistico-rinascimentale. si
      offre, infine, la descrizione della tradizione superstite, manoscritta e a stampa,
      del De regno.

      This essay aims to present some of the most important ethical-political issues
      dealt with by Francesco Patrizi from Siena, bishop of Gaeta from 1464 onwards,
      in a weighty treatise, De regno et regis institutione, which he offered to Alfonso II
      of Aragon, son of Ferdinand I, in 1484, setting the work into the wider context
      of political literature during the age of Humanism and the Renaissance. It also
      describes the surviving manuscript and printed tradition of De regno.

    • Stefano Evangelista

      Idealismo e modernismo nella cultura letteraria fin de siècle alla luce delle corrispondenze
      fogazzariane
      – pp. 135-160

      Alla fine del diciannovesimo secolo l’ideologia fogazzariana si proiettò sullo
      sfondo di un clericalismo riformista di ascendenza cattolica, mentre il suo coinvolgimento
      in quel movimento che prendeva il nome di Modernismo si rifletté
      soprattutto sulla composizione de Il Santo. Finalità del saggio è descrivere
      l’ambiente culturale in cui Fogazzaro sviluppò la sua ideologia e la sua poetica,
      tenendo nel giusto conto anche la fortunata ricezione estera delle sue opere e le
      relazioni con i suoi corrispondenti in Italia, Francia, Inghilterra e Stati Uniti.

      At the end of the nineteenth century, Fogazzaro’s ideology projected itself on
      the background of a reformist clericalism of Catholic ancestry, while his involvement
      in the Modernist movement influenced above all the composition of
      his novel Il Santo. The aim of the essay is to describe the cultural environment in
      which Fogazzaro developed both his ideology and his poetics, taking into account
      the successful reception of his works in foreign countries and the relationships
      with his correspondents in Italy, France, England and the United States.

    • Virginia di Martino

      «In terra d’oltremare» o «in una villa solitaria»: l’esilio nei Colloqui di Guido Gozzano
      pp. 167-177

      Nella poesia di gozzano l’esilio coincide con una situazione di esclusione: dalla
      vita, dall’amore, paradossalmente anche dalla morte. Quest’ultima, come leggiamo
      nei versi della Signorina Felicita, «esilia» il poeta «in terra d’oltremare»,
      in un altrove che assume presto le caratteristiche di una stampa esotica. diverso
      l’isolamento al quale si autocondanna Totò Merumeni che, definitivamente
      chiuso nella sua «villa triste», canta «l’esilio e la rinuncia volontaria».

      In Gozzano’s poetry exile coincides with a situation of exclusion: from life, love
      and paradoxically even from death. The latter, as we read in the verses of La
      signorina Felicita, «exiles» the poet «overseas», in an elsewhere that soon takes
      on the features of an exotic print. Totò Merumeni condemns himself to a different
      type of isolation: definitively shut up in his «sad villa», he sings of «exile
      and voluntary renouncement».

    • Carlangelo Mauro

      Sull’ultimo Cucchi. Ritorno alle origini senza affanno – pp. 179-195

      Nell’ultimo libro di Maurizio Cucchi, Paradossalmente e con affanno, che comprende
      testi giovanili e il poemetto La sciostra, scritto invece nel 2013, l’attimo di
      onirica «sospensione felice» del poemetto è il riappropriarsi, da parte del soggetto,
      del tempo più autenticamente vissuto, proprio nel momento di pausa,
      tregua e sosta, che equivale ad uno stadio di ‘decrescita felice’ (Latouche) a
      contatto con la frugalità, la semplicità, la manualità di cui la «sciostra» è, in
      senso letterale, depositaria. Il magazzino sul naviglio è il correlativo di un ritorno
      alle origini della propria storia, in un tempo e in uno spazio ‘ritrovati’.

      In Maurizio Cucchi’s latest book, Paradossalmente e con affanno, including juvenilia
      and the long poem La sciostra dating back to 2013, the moment of dreamlike
      «happy suspension» of the long poem means, for the subject, a re-appropriation
      of the past in its authenticity, precisely in a break, truce and stop that may
      be equated to a phase of «happy decrease» (Latouche) in contact with that frugality,
      simplicity and manual skill of which the «sciostra» is, literally, a depositary.
      The warehouse on the waterway represents the correlative of a return to
      the origins of one’s own history, in a ‘newly discovered’ time and space.

  4. Note e discussioni
    • Francesco Tateo

      Fortuna di un (presunto) errore testuale: Aulo Gellio, 1, 23, 8; Giovanni Pontano, Aegidius,
      44
      – pp. 191-196

  5. Recensioni
    • Umberto Lorini

      Gabriele d’Annunzio, «La miglior parte della mia anima». Lettere alla moglie (1883-1893), a cura di
      Cecilia Gibellini,
      Milano 2018
      – pp. 197-199

    • Alberto Comparini

      C’è un lettore in questo testo? Rappresentazioni della lettura nella letteratura italiana, a cura
      di Giovanna Rizzarelli
      e Cristina Savettieri, Bologna 2016
      – pp. 205-208

    • Irene Pagliara

      Fabio Moliterni, Sciascia moderno. Studi, documenti e carteggi, Bologna 2017 205
      – pp. 199-202

    • Paolo L. Bernardini

      Clara Leri, “Questo strano, lunghissimo viaggio”. Cristina Campo tra dialogo epistolare e bellezza
      liturgica, Alessandria
      2018
      – pp. 202-205

GIANNI OLIVA
«Questi, che mai da me non fia diviso» (Inf. V, 135)
Il celebre episodio di Paolo e Francesca è qui rivisitato da un’interpretazione
singolare che cancella definitivamente l’alone romantico che su di esso si era
accumulato nel corso del tempo. Facendo leva su alcuni aspetti non sufficientemente
considerati che il testo stesso ci indica e, soprattutto, sul sistema della
poena sensus sul quale poggia il principio del contrapasso, il saggio insiste sulla
inusuale condizione in cui sono ritratti i corpi dei due amanti e su una nuova
visione della pietas di Dante che ne provoca l’irrepetibile svenimento.

The famous episode of Paolo and Francesca is here revisited by a singular interpretation
that definitively cancels the romantic halo that had accumulated over
the course of time. Leveraging on some aspects not sufficiently considered that
the text itself indicates to us and, above all, on the poena sensus system on which
the principle of contrapasso rests, the essay insists on the unusual condition in
which the bodies of the two lovers are portrayed and on a new vision of the
pietas of Dante which causes the unrepeatable fainting.
Un’alternanza di suoni forti e meno densi, come un’orrenda, lugubre
sinfonia, accompagna l’entrata di Dante e Virgilio nel passaggio dal
primo al secondo cerchio. Se la vista stenta a distinguere le immagini
in un luogo avvolto nel buio (d’ogni luce muto, v. 28), la percezione
uditiva è fortemente stimolata, prima dal grido ringhioso di Minosse,
poi dal lamento incessante dei dannati (le dolenti note, v. 25), nonché
dall’incalzare delle loro bestemmie risentite. La parola chiave è lamento,
che implica il dolore e il pianto che si ripercuotono nell’aura
nera (v. 51), mentre nelle tenebre si ode, ma si avverte anche al tatto,
l’impressionante «mugghiare» della bufera che somiglia al rumore di
un mare tempestoso battuto da venti contrari. Quel verbo, appunto,
sta a indicare gli urli raccapriccianti simili a muggiti intensi di mucche
Saggi
Autore: Università di Chieti; prof. ordinario di Letteratura italiana; g.oliva@
unich.it
4 gianni oliva
e di tori (ha forse un senso richiamare in questo contesto il Minotauro,
figlio della violenza lussuriosa di un toro mandato da Giove ai danni
di Pasifae, moglie di Minosse?), un cupo rumoreggiare di gemiti,
espressioni di un antico e lussurioso godimento ora trasformato in
dolore perenne e insostenibile, suoni ora forti ora più lievi e modulati
a seconda delle distanze di provenienza, che davano al luogo una colonna
sonora impressionante. Ovidio, alludendo al senso traslato, non
a caso in altro contesto aveva scritto: mugiet, et veri vox eri illa bovis
(Trist. III XI48; per altre probabili fonti dantesche cfr. ED, III, 1053). È
la sorda musicalità che scuote «i peccator carnali» (v. 38). Una dietro
l’altra passano in rassegna le figure femminili dell’antichità, da Semiramide,
a Didone, a Cleopatra, a Elena, e con loro «più di mille ombre
» (vv. 67-68) indistinte1.
Le vittime dell’amore, coloro che si sono affidate al talento e alla
volontà d’amare, alla naturalità dell’eros senza condizionamenti né
freni inibitori, al di là delle regole e delle convenzioni, popolano questo
tratto dell’Inferno sospinte dalla violenta forza del vento che le
trascina e sballotta senza tregua (ad auras aetherias: Aen. VI, 735-751).
Francesca appartiene a quella schiera di donne innamorate che hanno
mosso e continueranno a muovere il mondo nel presente e nel futuro.
Nel meccanismo che scatta nel processo d’amore i suoi tempi imponevano
la gentilezza, che è sì nobiltà d’animo, ma soprattutto disponibilità
a innamorarsi, ad accogliere quel seme che, germogliando, rischia
di ingigantirsi a tal punto da diventare incontrollabile, oltre la
stessa ragione, fino a sottomettere il soggetto con le catene del desiderio
e della passione. Francesca espone la dottrina d’amore, dall’inna-
1 Tra «le donne antiche», anche se Dante non ne fa cenno, avrebbe forse potuto
trovar posto anche Lilith, la signora dell’aria, spirito notturno e dea del vento. Non
poche le affinità con Francesca avvolta nella bufera-tempesta notturna, attratta
dalla sessualità che porta alla morte. Lilith, com’è noto, è la donna che avrebbe
preceduto Eva, creata dalla terra come Adamo; i due erano uniti in una sola anima
e in un solo corpo prima di diventare rispettivamente primo uomo e prima donna
dell’umanità. Ma non sono che semplici suggestioni e associazioni di lettura che
rinviano a simbologie lontane, mesopotamiche ed ebraiche, probabilmente non
giunte alla percezione dantesca. Su questa materia, che mescola amore e morte,
saranno espliciti i pittori preraffaelliti, da Dante Gabriel Rossetti (Lady Lilith, 1866-
1868) a John Collier (Lilith, 1892), i quali riprenderanno il mito della donna ammaliatrice,
prima moglie di Adamo. Scriverà Rossetti: «Ecco, mentre gli occhi di quel
giovane si accendono nei tuoi, / il tuo incanto è penetrato in lui ed ha piegato il
suo collo rigido» («Bellezza del corpo», in La Casa di Vita, trad. di R. Pàntini, Firenze,
Le Monnier, 1921, p. 87)
[ 2 ]
«questi, che mai da me non fia diviso» (inf. v, 135) 5
moramento al travolgimento totale, quasi per giustificare la propria
colpa che determina la miseria del presente.
Quello stesso amore, vissuto senza limiti, condusse i due amanti,
Paolo e Francesca, ad una morte, cioè a morire insieme, trafitti simultaneamente
dalla spada di Gianciotto (il cui destino è ora affidato alla
giustizia divina che relega il colpevole nelle zone più profonde: Caina
attende chi a vita ci spense, v. 107) che li sorprende in flagrante facendo
irruzione nella stanza silenziosa ove i due avevano ceduto all’impulso
della reciproca attrazione trasformando la concupiscenza in atto materiale.
I due sono anime ferite, colpite dal castigo del loro stesso amore.
Erano giunte in volo composte e complici (ora però in modo involontario),
di un piacere concentrico, incollate e sfibrate, tormentate
(affannate, v. 80), punite nella loro indecenza, che né la dolcezza delle
parole di Francesca, né il pianto silenzioso di Paolo riescono del tutto
ad attenuare. Di qui la compunzione di Dante, la sua esitante meditazione
non sfuggita a Virgilio (Che pense?, v. 111), sul potere dell’amorepassione,
accompagnata però sia da qualche probabile riflessione autobiografica
sui trascorsi giovanili, sia dallo sgomento per quanto visto,
dal dramma in cui i due sono rappresentati nella loro sorte sventurata.
Dante uomo e poeta si assume la responsabilità delle sue antiche
convinzioni e ne mostra le possibili devianze: «Ora egli sa – ha
osservato Umberto Bosco – che l’amore che eleva, che è segno di anima
nobile, è un altro amore: quello che non ha bisogno di alcuna “sensibile
dilettazione”, anzi addirittura di qualsiasi corresponsione; che,
posto in essere dalla bellezza, è tuttavia soltanto sforzo interiore di
migliorare; è insomma amore-virtù, non amore-passione: neppure
una passione che si nutre, o s’illude di nutrirsi, di virtù. È l’amore che,
secondo Dante maturo, i poeti stilnovisti, anche senza rendersene conto,
cantavano o avrebbero voluto cantare; un amore che non solo non
può produrre peccato, ma non può dare neppure dolore, né in terra né
nell’oltremondo»2. Dante si chiede come essi siano stati indotti a cedere
al «doloroso passo», all’abisso del peccato, quale occasione li abbia
indotti a non frenare il desiderio con la forza della ragione (quanto disio,
v. 113); come fu che il sospirare si trasformò in atto carnale diventando
colpa? («la concupiscenza della carne, quando la ragione le si
oppone, non è peccato: S. Tommaso, Summa Th I, II, 9, 30). La compar-
2 Umberto Bosco, Dante vicino, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1966, ma anche
Recupero e reinterpretazione dello stilnovo nel “Purgatorio”, «L’Alighieri», XVII, 1-2,
1976, pp. 3-13; anche Commento di Bosco-Reggio, Inferno, Firenze, Le Monnier,
1988, p. 69.
[ 3 ]
6 gianni oliva
tecipazione del visitatore a quanto ha davanti agli occhi è tale che non
può non prendere atto della umana fragilità, come spiega del resto la
maggior parte dell’esegesi di ieri e di oggi. Ma non basta. Egli è a dir
poco sorpreso, angosciato, emozionato, in preda ad un profondo turbamento
della coscienza, soprattutto per la inusuale condizione che
ritrae i due corpi così come erano stati colti da vivi, fisicamente stretti
nell’amore per l’eternità, quasi come due statue in un unico blocco o,
se si vuole, come un plastico bassorilievo. Essi sono uniti nell’amore
ma non in astratto, come vincolo spirituale, per quanto tenace, come
fedeltà all’idea della corrispondenza, ma fisicamente accoppiati, riproposti
come nell’atto della morte. Non a caso Paolo – dice Francesca
– è colui che non sarà mai diviso da lei (questi, che mai da me non fia diviso,
v. 135), costretto per sempre nell’atto d’amore3. E il participio diviso
presuppone senza dubbi l’unità, un vincolo materiale, cioè si divide
solo ciò che è unito. Siamo dinanzi ad una situazione paradossale,
unica, ma oggettiva e inequivocabile, per quanto si voglia negare l’evidenza.
L’episodio di Lancillotto e di Ginevra stura la passione con
l’esempio dell’impeto amoroso4 e Paolo segue l’istinto senza più controllo,
tant’è che al ricordo piange per essere stato lui causa determinante
di quell’azione illecita che ora si perpetua in modo singolare. La
pietà di Dante insomma, su cui si è tanto insistito, si rafforza oltre ogni
limite e diviene sgomento proprio per l’enormità di ciò che egli vede,
di quel contrapasso crudele a cui assiste.
Il meccanismo del contrapasso, appunto, che, si sa, non è sempre
perfettamente funzionale nella corrispondenza tra colpa e pena (c’è
un limite anche alla fantasia di Dante), in questa zona dell’Inferno calza
in modo esemplare, per analogia, cioè esagerando la situazione
peccaminosa di partenza: si vuol dire che così come i due amanti scelsero
in terra la dolcezza dell’amore carnale, ora sono costretti a viverlo
intensamente in eterno, senza scampo, come un incessante dolore. Già
nel poema virgiliano Anchise spiega che dopo la morte le anime non
perdono del tutto i mali e le malattie e neppure i molti vizi che, a lungo
induritisi, attecchiscono profondamente in strani modi (Hinc metuunt
cupiuntque, dolent gaudentque, neque auras / dispiciunt clausa etene-
3 Forse un’indiretta riprova dell’interpretazione autentica da noi proposta, è il
silenzio imbarazzato sul v. 135 del pur documentato commento di Giovanni Fallani:
Inferno, a cura di G. Fallani e S. Zennaro, Roma, Newton Compton, 1993, p. 63.
4 Sulla funzione della letteratura come suggestione e modello di vita cfr. la
lettura di Giorgio Bàrberi Squarotti, Canto V, in Lectura Dantis Neapolitana, Inferno,
a cura di P. Giannantonio, Napoli, Loffredo, 1986, pp. 59-86.
[ 4 ]
«questi, che mai da me non fia diviso» (inf. v, 135) 7
bris et caercecaeco / Quin et supremo cumlumine vita reliquit, / non tamen
omne malum miseris nec funditu somnes/ corporeae excedunt pestes, penitusque
necesse est / multa diu concreta modi sino lescsremiris: Aen. VI,
733-738). Di riflesso nell’Inferno – ha scritto Pasquazi – «si tratta di
porre in evidenza quel misero modo di esistere in cui si fissa chi resta
avvinto al suo peccato»5 e questo perché la giustizia divina opera in
modo che certi peccatori sopportano una pena analoga al peccato e le
anime sono nell’impossibilità di essere altre da quel che furono nell’esistenza
terrena. È il sistema della poena sensus, cioè «quella specificatamente
connessa con i vari peccati e che determina le diverse condizioni
in cui Dante vede le anime; ed è alla poena sensus che devesi ricondurre
la legge del contrapasso, la quale non deve intendersi come
ritorsione vendicativa, bensì come proseguimento di decisioni operate
nella vita terrena»6. I dannati, dunque, risultano integrati con il peccato
stesso e soffrono a causa di quella stessa specifica condizione desiderata
e perseguita da vivi. Esempi di poena sensus non mancano nei
primi canti dell’Inferno: gli ignavi, che scelsero di non scegliere, sono
condannati a stimoli senza scopo e a sollecitudini fastidiosissime; i
golosi a loro volta hanno come oggetto di alimentazione la «materia
prima» di ciò che hanno mangiato; gli avari e i prodighi continuano ad
accumulare e a disperdere; persino gli abitanti del Limbo, che non
hanno conosciuto Dio perché non si è loro rivelato, sono rappresentati
persi nel loro senso di carenza di cui non sanno spiegarsi l’origine.
Come si vede, se Dante applica una simmetrica misura nelle prime
tappe del suo tragitto, non poteva fare altrimenti per i lussuriosi, trascinati
sì dalla bufera come da vivi si adagiarono nella loro passione,
ma anche aggravati, nel caso di Paolo e Francesca, nella loro congiunzione
che li aveva distolti nei confronti della dimensione spirituale
dell’amore. Forse è inutile ribadire che le anime sono quel che decisero
di essere nella loro esistenza storica, nel contesto e nelle condizioni
in cui vissero. La loro vita è prefigurazione (figura) di ciò che sarà
nell’al di là dopo il giudizio di Dio, trasformando le anime da figurae
in figurae implete, completate e confermate nel loro carattere. La «concezione
figurale degli avvenimenti – secondo Auerbach – ebbe larga
diffusione e una profonda influenza fino al medioevo e oltre […]. A
nessuno studioso del medioevo può sfuggire che essa costituisce la
base generale dell’interpretazione medioevale della storia, e che spes-
5 Silvio Pasquazi, Il contrapasso, s.v. in ED, II, 181-183, poi in Id., All’eterno dal
tempo, Firenze, Le Monnier, 19722, p. 50.
6 Ivi, p. 54.
[ 5 ]
8 gianni oliva
so essa interviene anche nell’intendimento della semplice realtà
quotidiana»7.
Certo, per avvalorare questa tesi occorre uscire dalla retorica del
non detto e dell’ipocrisia (persino del falso pudore) e, senza equivoci
interpretativi, pensare a Paolo e Francesca come due amanti che, trucidati
insieme con un unico colpo di spada proprio mentre consumavano
l’atto d’amore, si ritrovano fissati nell’eternità come corpo unico,
avvinghiati, congiunti. I due amanti uccisi da Gianciotto erano dunque
figurae, prefigurazioni di quelle che ora sono davanti a Dante
viaggiatore, fissate nella condanna definitiva dal giudizio divino.
Dante, ad analizzare bene il testo, dà in questo senso più di un segnale.
Non a caso distingue i due nella folta schiera di singoli, tra le
«più di mille ombre» vittime di Amore, accomunate da un tragico destino
di morte nella loro umana debolezza8. Parla di loro come quei due
che ’nsieme vanno dando rilievo alla coppia che procede come corpo
unico e non certo solo in atteggiamento affettuoso o «fianco a fianco»,
come voleva il Caretti9. Inoltre essi paion sì al vento esser leggieri perché
a differenza delle altre anime le due in questione costituiscono un corpo
solo anche per la docile accondiscendenza alla forza della bufera
infernale, guidate come sono dall’amore che ancora li governa e non
permette la loro disgiunzione. Dante li chiama a sé incuriosito e stupito
proprio in nome della condizione eccezionale (per quello amor chei
mena, v. 78) in cui si presentano, impietosito dal loro affanno, dal loro
tormento amoroso, dolce in terra ma orribile e intollerabile nella dimensione
eterna. Al richiamo (l’affettuoso grido, v. 87) essi planano verso
l’interlocutore di cui intuiscono l’indulgenza e si rendono disponibili
a rivelarsi e a raccontarsi. Addirittura, se fosse stato in loro potere,
se fosse stato loro permesso, avrebbero pregato per la sua pace, in linea
con le maniere eleganti e cortesi della loro formazione e, nel caso
7 Erich Auerbach, Studi su Dante, Milano, Feltrinelli, 19713, pp. 210-211.
8 Dante è afflitto dall’enorme massa di persone che tinsero «il mondo di sanguigno
», un danno che ha indubbiamente un alto valore morale e anche – come è
stato osservato – sociale: «Vittime della sensualità ma anche elementi disgregatori
e portatori di rovina, a tener conto degli exempla prodotti dalla rassegna degli antichi
amanti, quei dannati si obbligano nelle parole di Francesca a un’autodefinizione
allusiva alla propria sorte e insieme agli effetti inquinanti della loro vicenda
sulla terra» (Achille Tartaro, Nei cerchi dell’incontinenza, in Lectura Dantis Modenese.
Inferno, Banca Popolare dell’Emilia, 1984, p. 79).
9 Lanfranco Caretti, Il canto di Francesca, Lucca, Lucentia, 1951, ma cit. da
Questioni di critica dantesca, a cura di P. Giannantonio e G. Petrocchi, Napoli,
Loffredo, 1987, p. 405.
[ 6 ]
«questi, che mai da me non fia diviso» (inf. v, 135) 9
di Francesca, della sensibilità femminile, come sarà per la Pia. Ma, si
sa, la privazione di Dio è la condanna maggiore per i condannati e
alla miseria presente non c’è rimedio.
La condizione di coppia è ribadita da altre espressioni al plurale
come noi che, il nostro mal perverso, noi udiremo e parleremo, se il vento ci
permetterà di farlo. I due vanno ormai alla ricerca proprio di quella
pace augurata a Dante ma che essi, avvinti nel tormento dell’amore,
non avranno, a differenza del Po che la troverà nell’abbraccio «co’ seguaci
sui». L’aspetto della sensualità, della fisicità è confermata nell’espressione
la bella persona di Francesca che le fu tolta, cioè il corpo.
L’amore che di solito trova la strada spianata nel «cor gentile», si trasformò
per loro in un amore materiale talmente forte che, secondo il
senso etimologico ancora vince, tocca, urta, colpisce, ancor m’offende
(da ob fendere). Non a caso le due anime sono nuovamente definite offense
(v. 109), cioè vinte, travagliate. Pertanto quella condizione è causa
del male che mortificò e continua a mortificare la verecondia di
Francesca. A proposito dell’espressione e ’l modo ancor m’offende (v.
102) già definita da De Sanctis «frase oscura e perciò di poco effetto»10,
prevale di solito, com’è noto, la lectio facilior adottata dalla principale
tradizione critica che interpreta indicando il modo violento adottato
da Gianciotto nel punire la moglie adultera. Tuttavia, va tentata, anche
se apparentemente stravagante, una soluzione diversa, rispettosa
della radice etimologica del verbo offendere, ossia, alla lettera, “quel
modo che ancora mi tiene vincolata a lui e che è causa del mio male e
del mio perenne tormento”. Tanto più che in questo caso potrebbe
valere il senso specifico della parola modo, che non sta per generica
maniera, ma per modus, nel senso latino di posizione amorosa, indicante
una sessualità esplicita, come, per intenderci, nelle antiche raffigurazioni
classiche11, riprese in seguito nei modi rinascimentali di Giulio
Romano e Marcantonio Raimondi12, fino addirittura ai Sonetti sopra
i XVI modi dell’Aretino. In questa esposizione, dunque, che la ritrae in
10 Francesco De Sanctis, Francesca da Rimini, in Saggi critici, a cura di L. Russo,
II, Bari, Laterza, 1965, p. 250.
11 Cfr. B. Simonetta-Renzo Riva, Le tessere erotiche romane, Lugano, Francesco
Chiesa editore 1981; A. Campana, Le spintriae: tessere romane con raffigurazioni erotiche,
in La donna romana. Immagini e vita quotidiana, Atti del convegno (Atina, 7 marzo
2009), Cassino, Editrice Diana, 2009, pp. 43-96.
12 «In quanti diversi modi, attitudini e positure giacciono i disonesti uomini
con le donne» (Giorgio Vasari, Vita di Marcantonio Bolognese e d’altri intagliatori di
stampe, in Le vite dei più eccellenti pittori…, Introduzione di Maurizio Marini, Roma,
Newton Compton, 1993, pp. 838-854).
[ 7 ]
10 gianni oliva
tal modo così inequivocabile, Francesca sente venir meno anche la propria
dignità di donna. Il testo e il contesto possono venire in soccorso
in questa direzione, come anche la spiegazione del celebre e complicato
v. 103 Amor, ch’a nullo amato amar perdona. Certo, tutte le pezze d’appoggio
riportate sono legittime e appropriate, tanto che costituiscono
documenti inoppugnabili per venire a capo del significato stesso, cioè
Amore che non permette (perdona, v. 103) che uno che sia amato non
riami, ossia non ricambi l’amore che riceve. È il senso letterale ed è
quello più evidente. Ma il significato in sé è davvero da intendersi in
modo universale (se così fosse sarebbero stati scongiurati tutti gli
amori infelici di questo mondo e della storia), o ci si vuol riferire, come
è più probabile, ad un contesto preciso e circoscritto com’è quello cortese
in cui Dante stesso colloca Francesca? Si vuol dire che secondo
quella cultura la corresponsione di omaggio alla bellezza era nei termini
del comportamento legittimo di dame e cavalieri ben educati (come
dimostra fra gli altri Andrea Cappellano: De amore, II. 8, reg. IX:
Amare nemo potest nisi qui amoris suasione compellitur; e ancora: Amor nil
posset amori denegare), rispettosi l’uno dell’altro nel teatrino delle movenze
amorose. I codici culturali rinviano anche – come ha notato
qualche studioso – a Giordano da Pisa che nelle Prediche trasmette il
concetto che «non è nullo che, sentendosi che sia amato da alcuno,
ch’egli non sia tratto ad amar lui incontanente»13. Fra Giordano però
intende l’interscambio di sentimenti esclusivamente nell’ambito religioso,
fra uomo e Dio. Il verso successivo del passo dantesco però (mi
prese del costui piacere sì forte, v. 104), rivela una donna innamorata che
non si è limitata all’intesa platonica, ma è stata catturata dal piacer,
dall’attrazione fisica per il giovane, dalla forte carica sensuale di Paolo
che, com’è evidente (come vedi, v. 105), la tiene legata a sé per l’eternità
(ancor non m’abbandona, v. 105).
L’assenza di testimonianze certe nelle cronache dell’epoca su quanto
accaduto in quel giorno funesto ha permesso la discussione più
aperta e talvolta più accesa sull’episodio riferito da Dante, che costituisce
la base primaria di tutte le intuizioni psicologiche costruite nel
tempo. La trasformazione della storia in letteratura autorizza i significati
più diversi, spesso giustificandoli con pari dignità nel loro insie-
13 Cfr. Commento a cura di G. Giacalone, Inferno, Roma, Signorelli, 1968, p. 79.
Sul frate domenicano cfr. almeno S. Pasquazi, Giordano da Pisa. Tradizione manoscritta
e cronologia delle prediche, Roma, Gismondi (“Bibliotechina della “Rassegna
di cultura e vita scolastica”), 1955; Carlo Del corno, Giordano da Pisa e l’antica
predicazione volgare, Firenze, Olschki, 1975.
[ 8 ]
«questi, che mai da me non fia diviso» (inf. v, 135) 11
me e singolarmente. Pertanto non è il caso di dimenticare che l’autore
è spesso molto più realistico di quanto si possa credere e non rifugge
dalla rappresentazione di situazioni inusuali, anche se scabrose, soprattutto
nell’Inferno. Si tenga conto inoltre che «l’acclimatamento di
Dante alla realtà e alla legge dell’Inferno avviene sotto il segno di una
problematica appassionata piuttosto che di una impassibile dogmatica,
di una carica emotiva ancora intrisa delle condizioni e delle ragioni
umane del peccato»14. Alcuni critici hanno sfiorato il significato ultimo
dell’episodio e ne hanno dato un’interpretazione convincente a proposito
dell’energia che proviene dall’amore passionale. Non ci si è posti
però il problema di come i due amanti si presentano agli occhi di
Dante, la cui reazione è sì di pietà, di commiserazione e di tristezza
per gli errori umani, ma anche di sgomento e di angoscia, di profondo
turbamento e di smarrimento di fronte alla drammaticità della scena,
aggravata dal pianto disperato di Paolo, primo responsabile dell’inquietante
visione15. L’intensità del loro amore, insomma, perdura e
14 Mario Marcazzan, Considerazioni su Francesca, «Cultura e Scuola», nn. 13-
14, gennaio-giugno 1965, p. 416.
15 A dire il vero di «eterno amplesso», ma solo come ipotesi suggestiva da non
prendere in considerazione, ha parlato di sfuggita Michele Barbi: «Più difficile sarà
persuadere che non è necessario alla bellezza del canto figurarsi una donna con
sentimenti e atteggiamenti risentiti e senz’altra preoccupazione fuor dell’amore
per il suo Paolo, ch’ella stringa convulsamente a sé, in un eterno amplesso». (Michele
Barbi, Dante. Vita, Opere, fortuna, con due saggi su Francesca e Farinata, Firenze,
Sansoni, 1933).È stata forse proprio la «bellezza del canto», con la suggestione
delle parole della protagonista, a far dimenticare il particolare niente affatto trascurabile
della loro rappresentazione. Utile per i puntuali riscontri del testo dantesco
con le probabili fonti medioevali, in particolare con il romanzo di Tristano, è
l’interpretazione di Giorgio Inglese, secondo cui peraltro Francesca avrebbe interpretato
«teologicamente l’amore sensuale» procedendo ad una «scandalosa traslitterazione
» dell’amore divino in quello umano. Inoltre, nell’intervento non si nega
la congiunzione dei due corpi, anche se – precisa lo studioso – si tratta di un «abbraccio
eternamente vano», data la mancanza di fisicità delle anime, preda di «un
desiderio infinitamente doloroso» (Giorgio Inglese, Francesca e le regine amorose.
Per l’interpretazione di Inferno v. 100-107, «La Cultura», a. XLII, n. 1, aprile 2004, pp.
45-60.)
Tra le interpretazioni dell’amore che diventa passione non si può non ricordare
quella classica di Antonino Pagliaro (Ulisse. Ricerche semantiche sulla D.C., Messina-
Firenze, D’Anna, 1966), messa in discussione prima da Giorgio Padoan (Fine di una
troppo fine interpretazione in Miscellanea di studi in onore di V. Branca, vol. I, Firenze,
Olschki, 1983, pp. 273-283) e di recente da Giancarlo Rati, che la vede «ripresa
quasi alla lettera» dall’Epistola dell’erudito e dantofilo del primo Ottocento Luigi
Muzzi (Epistola di Luigi Muzzi contenente la nuova esposizione di un luogo del Petrarca
e di alcuni di Dante, Bologna, presso Annesio Nobili e comp., 1825, p. XLII). Cfr.
[ 9 ]
12 gianni oliva
materialmente li avvince, ma si è trasformato per sempre, da dolce che
era, nel loro tormento e nella loro condanna. La tragicità della poena
sensus nasce dalla sua condizione di verità.
Gianni Oliva
Università di Chieti
Giancarlo Rati, L’amore di Francesca, in Inferno, Lectura Dantis Interamnensis, Roma,
Bulzoni, 2006, p. 31 e prima ancora in Id., La pietà negata. Letture e contributi
danteschi, Roma, Bulzoni, 2000, pp. 11-20. Tra gli ultimi interventi di un certo interesse
sull’episodio, ma senza che si affronti il punto della questione, vanno almeno
segnalati Selene Sarteschi, Francesca e il suo poeta. Osservazioni su Inferno V, «L’Alighieri
», XLII, luglio-dicembre 2001; Lino Pertile, Il modo di Paolo, in Miscellanea
di studi offerta dall’Università di Urbino a Claudio Varese per i suoi novantanni, a cura
di Giorgio Cerboni Baiardi, Manziana, Vecchiarelli Editore, 2001, pp. 623-33;
Sebastiano Valerio, Trittico per Francesca. Perché «il modo ancor m’offende»: riflessioni
sul peccato di Paolo e Francesca, «L’Alighieri», n. 28, 2006, pp. 5-13; L. Renzi, Le
conseguenze di un bacio. L’episodio di Francesca nella Commedia di Dante, Bologna, Il
Mulino, 2013.
[ 10 ]
Gáldrick de la Torre Ávalos
Garcilaso de la Vega lettore di Vittoria Colonna:
per una interpretazione del sonetto
Clarísimo marqués, en quien derrama*
Nel presente studio si realizza una lettura critica del sonetto XXI di Garcilaso,
diretto a un «clarísimo marqués», che alcuni studiosi hanno identificato nella
persona del marchese del vasto alfonso d’avalos. attraverso un esame delle fonti
e un’analisi del ritratto poetico del marchese nel contesto più ampio del petrarchismo
e dell’umanesimo meridionale, con particolare attenzione al cenacolo
d’ischia, si apportano nuovi elementi a favore di tale identificazione.

The present study furnishes a critical reading of Garcilaso’s sonnet XXI, addressed
to a «clarísimo marqués», whom some scholars have associated with
the marquis of Vasto Alfonso d’Avalos. By means of an examination of the
sources and an analysis of the poetic portrait of the marquis within the wider
context of Petrarchism and southern Humanism, with particular reference to the
cenacle in Ischia, it supplies new evidence in support of such an identification.
L’ultimo c’have in man la riccha spada
È quel d’Auolo Alfonso à Carlo fido
Di cui luoco non è doue non uada
L’alto nome immortal, con chiaro crido.
(Giovan Battista Pino, Il Triompho di Carlo V)
Clarísimo marqués, en quien derrama
el cielo cuanto bien conoce el mundo,
si al gran valor en qu’el sujeto fundo
y al claro resplandor de vuestra llama
Autore: Universitat de Girona; Investigador predoctoral; galdric.t.a@gmail.com
* Questo saggio si inscrive nel Proyecto de investigación FFI2015-65093-P
(«Garcilaso de la Vega en Italia. Estancia en Nápoles») finanziato dal Ministerio de
Economía y Competitividad de España.
Ringrazio il professore Tobia R. Toscano per le generose correzioni e per i molti
suggerimenti. Desidero ringraziare inoltre Antonietta Molinaro per alcuni suggerimenti
nella traduzione del testo.
14 gáldrick de la torre ávalos
arribare mi pluma y do la llama
la voz de vuestro nombre alto y profundo,
seréis vos solo eterno y sin segundo,
y por vos inmortal quien tanto os ama.
Cuanto del largo cielo se desea,
cuanto sobre la tierra se procura,
todo se halla en vos de parte a parte;
y, en fin, de solo vos formó natura
una estraña y no vista al mundo idea
y hizo igual al pensamiento el arte1.
Il sonetto XXI di Garcilaso ancora oggi è uno dei più sconosciuti e
meno studiati del poeta, nonostante la sua indubbia perfezione formale
riconducibile al periodo napoletano. La ragione di questo scarso
interesse, al di là della tipologia testuale, che lo colloca all’interno della
cosiddetta produzione cortigiana o encomiastica – con quello che
ciò comporta soprattutto in termini di qualità2 –, probabilmente la si
deve al fatto che il destinatario della poesia non sia stato ancora identificato3.
Fu Francisco de Herrera, nella sue Anotaciones a la poesía de
1 Testo tratto dall’edizione di Bienvenido Morros: Garcilaso de la Vega,
Obra poética y textos en prosa, studio preliminare di Rafael Lapesa, Barcelona,
Crítica, 1995.
2 «Garcilaso’s Sonnet XXI belongs to a genre that has not attracted the interest
of subsequent readers, being the praise of a patron with the implied lack of sincerity.
The sonnet of praise was a well-cultivated genre in Italian, where it has met
the same cold critical reception» (Daniel L. Heiple, Garcilaso de la Vega and the
Italian Renaissance, Pennsylvania, The Pennsylvania State University Press, 1994, p.
274). D’altra parte, sembra da preferirsi l’espressione utilizzata da Heiple, «the
sonnet of praise», rispetto al termine che viene usato abitualmente, poesie cortigiane,
che fa riferimento piuttosto alla logica del contesto, e non a una particolare tipologia
di composizione. Da questo punto di vista, sia la egloga sia il sonetto potrebbero
essere entrambi considerati poesie cortigiane, dato che è all’interno di
questo spazio e universo ideologico che nascono entrambi i generi.
3 I n questo senso, rappresentano un’eccezione le pagine che a questo argomento
dedica Antonio Gargano nel suo studio La «doppia gloria» di Alfonso d’Avalos
e i poeti-soldati spagnoli (Garcilaso, Cetina, Acuña), in cui confronta il sonetto di
Garcilaso, per alcuni indirizzato ad Alfonso d’Avalos, con il ritratto poetico a lui
dedicato da altri autori, anch’essi spagnoli, che facevano parte della corte del marchese
a Milano, durante gli anni Quaranta del Cinquecento (in La espada y la pluma:
il mondo militare nella Lombardia spagnola cinquecentesca. Atti del Convegno Internazionale
di Pavia, 16, 17, 18 ottobre 1997, Lucca, Mauro Baroni, 2000, pp. 347-360).
Questo studio si propone un’indagine, nell’ambito del petrarchismo meridionale,
durante il decennio precedente, quando d’Avalos si trovava ancora ad Ischia. Per
tutto quel che riguarda il contesto ed il mecenatismo di Alfonso d’Avalos, cfr.
Gáldrick de la Torre Ávalos, Garcilaso y Alfonso d’Avalos, marqués del Vasto, in
[ 2 ]
garcilaso de la vega lettore di vittoria colonna 15
Garcilaso, il primo ad indicare le due ipotesi che hanno poi prevalso
nella critica4: si sarebbe trattato o di Pedro de Toledo, come ha continuato
a sostenere la maggior parte della critica, soprattutto quella spagnola,
basandosi sull’importanza che questo viceré ebbe nella vita del
poeta toledano, oppure di Alfonso d’Avalos, marchese del Vasto, come
sostenne Tamayo de Vargas5 e come ha rivendicato già qualche
anno fa Daniel L. Heiple6.
Il problema di fondo è una certa genericità del dettato. Siccome si
tratta di una poesia laudativa, cortigiana, si utilizzano espressioni
«tan vagas e indeterminadas, que pueden adaptarse sin dificultad al
uno o al otro»7. Così lo intese l’ispanista Eugenio Mele nel suo già
classico e fondamentale studio sul soggiorno italiano di Garcilaso.
Mele aggiungeva poi un dettaglio, forse minimo, ma che non per questo
va sottovalutato. Se alla fine si sbilanciava a favore di uno dei due
candidati è perché intuiva che l’espressione «gran valor» si adattava
meglio alla figura del marchese del Vasto8.
Contexto latino y vulgar de Garcilaso en Nápoles. Redes de relaciones de humanistas y
poetas (manuscritos, cartas, academias), a cura di Eugenia Fosalba e Gáldrick de la
Torre Ávalos, Bern, Peter Lang, 2018, pp. 221-247.
4 «Este soneto fue escrito a don Pedro de Toledo, Marqués de Villafranca i
Virrei de Nápoles, aunque algunos piensan que a don Alonso d’Ávalos, Marqués
del Vasto, grande amigo de Garci Lasso» (Francisco de Herrera, Anotaciones a la
poesía de Garcilaso, a cura di Inoria Pepe e José María Reyes Cano, Madrid, Cátedra,
Letras Hispánicas, 2001, p. 411).
5 Tomás Tamayo de Vargas (ed.), Garcilasso de la Vega natvral de Toledo principe
de los Poetas Castellanos, Madrid, Luis Sánchez, 1622, c. 10r.
6 Si rimanda alle pagine corrispondenti dell’edizione di B. Morros, in cui si
ricostruisce il dibattito critico (cfr. G. de la Vega, Obra poética y textos en prosa, cit.,
pp. 396-397). A tale panoramica si aggiungono adesso i riferimenti di Heiple, Garcilaso
de la Vega and the Italian Renaissance, cit., pp. 267-275; Gabriele Morelli,
Esperienze letterarie di Alfonso d’Avalos, governatore di Milano, in «Cancioneros» spagnoli
a Milano, a cura di Giovanni Caravaggi, Firenze, Nuova Italia, 1989, pp.
233-259 (p. 236, nota 8), e A. Gargano, La «doppia gloria» di Alfonso d’Avalos e i poeti-
soldati spagnoli (Garcilaso, Cetina, Acuña), cit., che sembrano propendere per la
figura del marchese. Ugualmente, si rimanda anche alla recente edizione di Julián
Jiménez Heffernan e Ignacio García Aguilar, in cui si affronta la questione
semplicemente senza optare per l’uno o l’altro candidato; cfr. Poesía castellana, studio
preliminare di Pedro Ruiz Pérez, Madrid, Akal, Vía Láctea 10, 2017, pp. 160-
161.
7 Eugenio Mele, Las poesías latinas de Garcilaso de la Vega y su permanencia en
Italia, «Bulletin Hispanique», XXV (1923), pp. 108-148 (p. 121, n. 2), pp. 361-370, e
26 (1924), pp. 35-51.
8 «[…] la expresión el gran valor (v. 4) mejor se aplica al marqués del Vasto»
(ibidem, il corsivo è mio).
[ 3 ]
16 gáldrick de la torre ávalos
Pertanto, sebbene sia certo che in ogni componimento cortigiano
c’è un elemento implicito di sublimazione che rende difficile il riconoscimento
dell’identità del destinatario – e ancor di più in questo caso,
in cui d’Avalos costituiva uno dei maggiori, se non il principale, nemico
del viceré Pedro de Toledo, protettore di Garcilaso9 –, d’altra parte,
esistono certi elementi minimi di caratterizzazione riconoscibili solo a
partire dal contesto cortigiano e che tendono a ripetersi nelle diverse
composizioni dedicate alla stessa figura, in questo caso quella di Alfonso
d’Avalos. L’unione dei due elementi di sublimazione e di caratterizzazione
darebbe luogo al ritratto poetico, in cui la realtà si fonde
con l’ideale. In un caso, si obbedirebbe a un senso estetico e ideologico,
più o meno comune al gusto classico degli autori rinascimentali,
mentre nell’altro prevarrebbe un senso sociologico che permetterebbe
di interpretare questi elementi comuni alle distinte poesie come una
forma di convenzionalismo sociale riducibile al contesto della corte
ma anche allo spazio artistico della poesia come manifestazione di
questo contesto. È ciò che accade, nel campo dell’arte, con il ritratto
pittorico e le cosiddette imprese. Anche se si tratta di modalità espressive
differenti, in esse l’oggetto rappresentato viene sottoposto ad una
certa idealizzazione che parte dalla realtà, attraverso un motivo storico
– come nella Allocuzione di Alfonso d’Avalos, di Tiziano – o una ragione
biografica che permetta che gli elementi contenuti nella rappresentazione,
alcuni di essi, siano riconoscibili grazie alla cornice sociale,
come succede nella spiegazione delle già citate imprese, o con l’allegorismo
che, all’epoca, ispirava il fondo storico del genere cortigiano per
eccellenza: l’egloga.
È quello che succede anche, per esempio, con la denominazione di
Maria de Cardona quale decima abitante del Parnaso nelle poesie di
Garcilaso, Gutierre de Cetina e Giovan Battista Pino10, e che si ripete
9 Cfr. G. de la Torre Ávalos, Garcilaso y Alfonso d’Avalos, marqués del Vasto, cit.
10 Probabilmente, seguendo l’esempio di Sannazaro, che in uno degli epigrammi
latini (III, 2) si riferisce in questo modo a Cassandra Marchese: «Quarta Charis,
decima es mihi Pieris, altera Cypris, / Cassandra, una choris addita diva tribus».
Si cita dall’edizione di Michael C. J. Putnam: Jacopo Sannazaro, Latin Poetry,
Cambridge-London, The I Tatti Renaissance, 2009, p. 356. Per le poesie di Gutierre
de Cetina e Giovan Battista Pino, cfr., rispettivamente, Sonetos y madrigales
completos, a cura di Begoña López Bueno, Madrid, Cátedra, 1981, Ilustre honor del
nombre de Cardona, p. 314, e Il triompho di Carlo Qvinto, Napoli, Sultzbach, 1536: «O
di la stirpe, e, il nome di Cardona […] / Calliope, Vrania, Erato, Euterpe e, Clio /
Con l’altre quattro lor degne sorelle». Si riferisce anche alla poesia di Battista Pino
B. Morros nella sua citata edizione (p. 45). Per una interpretazione del sonetto di
[ 4 ]
garcilaso de la vega lettore di vittoria colonna 17
con alcuni degli elementi che appaiono in questo sonetto probabilmente
dedicato a Alfonso d’Avalos. Il sonetto andrebbe situato
nell’ampia tradizione delle composizioni dirette al marchese e in generale
alla mitificazione della casa d’Avalos, frutto del mecenatismo
in cui la famiglia si prodigava, in diverse tappe, dalla fine del secolo
precedente11. Bisogna infatti tener presente lo sfondo cortigiano e la
sua manifestazione nelle composizioni dedicate al ritratto poetico del
marchese, nel contesto del petrarchismo meridionale, di cui d’Avalos
fu uno dei fautori dalla fine degli anni Venti fino alla morte (1546). Da
questo sfondo potranno estrarsi alcuni dati che, anche se non risultino
dirimenti, saranno utili almeno per offrire qualche indizio in più per
l’identificazione del destinatario con il marchese.
Il sonetto in questione si articola in due parti. Una prima parte metapoetica
in cui si esalta la figura del marchese, ma dove – così come
avveniva nel caso del sonetto dedicato a Maria de Cardona – l’encomio
è messo in relazione alla stessa attività del comporre12, espressa in
forma ipotattica attraverso una frase condizionale che occupa la seconda
metà della prima strofa, fino ad arrivare alla fine della seconda:
«si al gran valor […] / arribare mi pluma […] / seréis vos solo eterno
y sin segundo / y por vos inmortal quien tanto os ama»: questa è la
parte che, potremmo dire, rende manifesto il proposito del sonetto; e
una seconda parte, comprendente le terzine, in cui troviamo una chiara
esaltazione del marchese. Le due parti sono relazionate concettualmente:
se nella prima si esprime in maniera metaforica quello che in
definitiva non è altro che lo stesso atto del comporre, nella seconda
parte questo viene interpretato in chiave neoplatonica attraverso l’uso
atipico del binomio natura/arte13, contribuendo a rendere ancora più
esclusiva l’idea del marchese e la sua rappresentazione nell’opera di
Garcilaso. A questo si deve che sia la natura, imperfetta secondo l’epistemologia
di Platone, a rendere perfetta e unica l’idea del marchese,
eguagliando il pensiero all’arte14.
Garcilaso in relazione al contesto storico legato all’elogio di Maria de Cardona, cfr.
Eugenia Fosalba, Implicaciones teóricas del alegorismo autobiográfico en la égloga III de
Garcilaso, «Studia Aurea», III (2009), pp. 39-104 (p. 70 e segg).
11 Cfr. G. de la Torre Ávalos, Garcilaso y Alfonso d’Avalos, marqués del Vasto, cit.
12 Cfr. Antonio Gargano, Reescrituras garcilasianas, en El texto infinito. Tradición
y reescritura en la Edad Media y el Renacimiento, Salamanca, SEMYR, 2014, pp.
83-111.
13 Cfr. A. Gargano, La «doppia gloria» di Alfonso d’Avalos e i poeti-soldati spagnoli
(Garcilaso, Cetina, Acuña), cit., pp. 354-355.
14 D’altra parte, anche in Petrarca è possibile ritrovare il motivo della natura
[ 5 ]
18 gáldrick de la torre ávalos
Si tratta di un concetto della creazione simile a quello descritto nel
secondo libro del Dialogus de viris et foeminis aetate nostra florentibus di
Giovio, la cui azione si svolge a Ischia nel novembre 1527, poco prima
del soggiorno di Garcilaso15. Lì Giovio, in compagnia di Alfonso d’Avalos
e Giovan Antonio Muscettola, gli altri due interlocutori, distingue
una natura interna, che trasmette i ritmi, movimenti occulti e perenni
dell’anima, e che è materia della letteratura, da una seconda
natura, esterna, che è invece oggetto della rappresentazione dell’arte16.
In linea con quanto esposto da Castiglione nel primo libro de Il
Cortegiano, dove si tratta il termine di naturalezza o sprezzatura – opera
con cui il Dialogo condivide non pochi elementi17 –, per Giovio la felicità
espressiva è in relazione con la natura:
Nam sicuti iisdem parentibus conceptos partuque editos, alii atque alii
vultus et varii maxime oculorum et genarum habitus consecuntur, ita
nobis etiam insunt occultae quaedam et perennes animae motiones
spiritusque mensurae, quibus ipsa uniuscuiusque natura, tanquam
peculiaribus et definitis utitur instrumentis ad exprimendas res omnes
quae cogitatione ac internis sensibus agitantur: ita ut quae in singulorum
sermone atque oratione tam varia esse videmus tractus, sonos,
intervalla, periodos, commissuras, a propriis vique coelesti congenitis
animae numeris deducta esse, atque inde profluere iudicentur (p. 280);
e poco più avanti: «Sed huiusce rei felicitatem naturae potius quam
arti et studiis adscripserim» (ibidem).
Interpretando il componimento di Garcilaso in chiave allegorica,
come metafora della creazione poetica e del processo narrato nel suo
intento di rappresentare poeticamente il marchese, l’immagine di arricreatrice
di idee: «In qual parte del ciel, in quale ydea, / era l’exempio, onde Natura
tolse, / quel bel viso leggiadro, in ch’ella volse / mostrar qua giù quanto lassù
potea?» (Rvf, 159). Si cita dall’edizione di Marco Santagata: Petrarca, Canzoniere…
nuova edizione aggiornata, Milano, Mondadori, 20104.
15 Cfr. lo studio introduttivo di Franco Minonzio nella sua edizione del Dialogo
sugli uomini e le donne illustri del nostro tempo, Torino, Aragno, 2011. Anche lì
segnala la presenza di numerosi anacronismi, che indicherebbero come il processo
di redazione dell’opera si protrasse per alcuni anni, nel corso degli anni Trenta del
Cinquecento.
16 Cfr. ivi, p. 279 in avanti fino al termine del secondo libro.
17 Cfr. lo studio citato di Minonzio, oltre a Eugenia Fosalba, Tracce di una
precoce composizione (ca. 1525-1533) del De Poeta di Minturno. A proposito della sua
possibile influenza su Garcilaso de la Vega, «Critica letteraria», XLIV (2016), pp. 627-
650 (a pp. 647 e segg.), in cui si richiama l’attenzione anche sulle analogie delle due
opere a partire dal possibile modello comune nel De sermone de Pontano.
[ 6 ]
garcilaso de la vega lettore di vittoria colonna 19
vare con la penna fino alla fiamma o al fulgore del cielo, dove si trovano
riunite e da dove procedono tutte le sue virtù, significherebbe essere
capace di portare a termine il suo ritratto raggiungendo mentalmente
l’idea generata dalla natura perfetta; o, detto in altro modo:
seguire il cammino di perfezione tracciato dalla natura che, secondo
Giovio, riprodurrebbe quei ritmi delle parole occulte contenute nell’anima.
Per Giovio l’opera perfetta è il risultato della scarsa o nulla partecipazione
del pensiero, che, a differenza della poesia di Garcilaso,
non designa l’idea ma una specie di coscienza artistica. Se si omette o
si minimizza la presenza del pensiero – dal momento che, dice Giovio,
gli ornamenti dell’espressione sono il frutto di un’arte precisa e attenta18
–, allora la natura potrà esprimere liberamente, attraverso il poeta,
le parole e i ritmi dell’anima, perfetti per la loro origine celestiale.
Questa idealizzazione della natura si concretizza nel sonetto di Garcilaso
per la sua capacità di generare idee perfette, come quella del marchese,
e spiega che il pensiero – qui riferito all’idea – può essere uguale
all’arte, per Giovio grazie al minimo intervento del pensiero in quanto
coscienza creatrice. In questo modo, se Garcilaso è capace di trasmettere
questa idea perfetta generata dalla natura – innalzando la sua penna
al cielo, da cui procedono le virtù del marchese –, il risultato, l’arte, di
conseguenza sarà anch’esso perfetto, come il marchese, e per questa
sua perfezione come giungerà all’immortalità, alla stregua del poeta.
Si tratta di un motivo caro ai poeti napoletani nelle opere encomiastiche,
l’idea del soggetto letterario e di raggiungere, attraverso di esso,
l’immortalità, grazie alle sue qualità eccelse. È ciò che accade, per
esempio, nel famoso sonetto di Vittoria Colonna Ah quanto fu al mio sol
contrario il fato!, in cui si invita tacitamente Bembo a diventare immortale
– «dal secondo morire sempre guardato» – scegliendo come «suggetto
» la gloria del marchese di Pescara, defunto marito di Vittoria
Colonna; o come avviene anche nell’altro suo sonetto Le belle opre d’Enea
superbe e sole, in cui sia Virgilio sia lo stesso Francesco si lamentano
di essere nati in epoche differenti: «l’uno per non aver trovato il poeta
in grado di glorificarlo, l’altro per aver mancato una materia che
avrebbe potuto rendere veramente eterno il suo poema»19; inoltre, sce-
18 «Neque tamen negaverim ab accurata arte ac diligentia magna elocutioni
ornamenta comparari, inductis passim et prudenter coaptatis numerorum modulis,
quibus sic puto serviendum sicuti Cicero docuit, ut dissimulanter observentur,
et nihil ad lenocinii nomen mulcendis auribus dedita opera quaesitum esse videatur
» (ibidem).
19 Vittoria Colonna, Sonetti in morte di Francesco Ferrante d’Avalos marchese di
[ 7 ]
20 gáldrick de la torre ávalos
gliendo il Marchese di Pescara, eroe cristiano, e non Enea, mitico eroe
pagano, come materia del poema, Virgilio avrebbe potuto esaltarne la
gloria paradisiaca, in tal modo rendendo più vivida la sua gloria poetica:
Non già che la materia il nome eterno
toglia a quel degno auttor, né a questi effetti
merto e ragion non faccian chiara istoria;
ma condur questo in Ciel, non ne l’Inferno,
lodar vera virtù con saggi detti,
farian più viva e l’una e l’altra gloria.
Tornando al sonetto di Garcilaso, bisognerebbe anche considerare
che in questa relazione concettuale tra il proprio atto del comporre e
l’oggetto rappresentato – entrambi perfetti – avrebbe un ruolo l’ambiguità
della parola piuma e il modo con cui appare caratterizzata, quale
strumento per scrivere e per volare letterariamente, con le ali del pensiero,
verso l’«idea» del marchese, e in particolare verso il suo «gran
valor» e «claro resplandor»20. Qualcosa di simile accade con il movimento
espresso dal fiume Tago nel sonetto che Garcilaso dedica a Maria
de Cardona, anch’essa poesia encomiastica, che è stata interpretata
Pescara. Edizione del ms. XIII.G.43 della Biblioteca Nazionale di Napoli, a cura di Tobia
R. Toscano, Milano, Giorgio Mondadori, 1998, p. 71, nota ai versi 7 e 8. Anche il
sonetto dedicato a Bembo è contenuto in questa raccolta. Si privilegia la lettura del
manoscritto napoletano delle rime di Vittoria Colonna sia per la sua origine sia per
la vicinanza temporale al periodo che interessa, «che consentirebbe di assumere la
fine del 1531 come termine ante quem del suo allestimento» (p. 22). A ciò si aggiunge
che «tra tutti i manoscritti noti N è l’unico che in qualche misura potrebbe conservare
tracce di un allestimento d’autore» (p. 50). Per quanto concerne F1, il manoscritto
editato da Bullock (Vittoria Colonna, Rime, Bari, Laterza, 1982), sebbene
contenga una raccolta più ampia – motivo per cui, indicandolo puntualmente,
si prenderanno da qui alcune poesie –, non è dimostrato che corrisponda alla
cosiddetta «raccolta di Francesco della Torre», che lo farebbe teoricamente diventare
il melior. Tuttavia, «il ms. F1 potrebbe conservare intatto il suo valore di testimone
fondamentale della produzione “amorosa” di Vittoria Colonna a condizione
che il testo trasmesso, attraverso un’analisi dei processi variantistici che il Bullock
non tenta neppure, si dimostri un oggettivo punto di approdo per la lezione e per
la strutturazione della raccolta» (pp. 25-26). Per tutto ciò che riguarda i problemi
testuali di F1, si rimanda alle relative pagine che Tobia R. Toscano dedica nella sua
edizione del manoscritto napoletano: cfr. p. 23 e segg.
20 «The “pluma” in line 5 is not only a pen, but a feather, or by metonymy a
bird, that will achieve poetic flight» (Heiple, Garcilaso de la Vega and the Italian Renaissance,
cit., p. 274).
[ 8 ]
garcilaso de la vega lettore di vittoria colonna 21
allegoricamente21; con la sola eccezione che lì il fiume svolge un movimento
orizzontale – riflesso della vena italiana della poesia di Garcilaso
– mentre qui la piuma costituisce la base del volo poetico, un movimento
verticale.
Dopo aver completato una lettura generale del sonetto, passo al
commento dei singoli versi. La prima cosa che salta agli occhi è l’incipit,
forse ispirato, per legami familiari, a quello che Cariteo dedicò
allo zio del marchese del Vasto, l’omonimo Alfonso d’Avalos22: «Marchese,
ad cui natura diede ingegno / Diverso dal maligno volgo,
insano»23. Quando Heiple commenta questi versi24, difendendo l’identificazione
con il marchese, utilizza un argomento che non va tralasciato,
perché, nel caso Garcilaso si dirigesse al viceré, risulterebbe
strano che lo facesse utilizzando un titolo di rango inferiore a quello
che gli corrispondeva come rappresentante del potere monarchico25. A
questo aggiunge che la menzione «Clarísimo marqués» era la formula
utilizzata generalmente in alcuni governi degli stati italiani per riferirsi
a questo titolo nobiliare26. Tuttavia, lo studioso non trovava nessun
dato evidente che gli permettesse di mettere in relazione questa
espressione con la figura del nostro marchese. Ho potuto invece rintracciare
un esempio in Pietro Aretino, che risulta in contatto con Alfonso
d’Avalos già agli inizi degli anni Trenta, in una lettera firmata a
Venezia il 15 febbraio 1541 in cui il poeta fa riferimento al «chiaro marchese
del Vasto»27. Nulla vieta di pensare che si trattasse di un’espressione
utilizzata precedentemente per riferirsi al marchese, che era in
quel momento al culmine della sua fama. Ciononostante, l’aspetto interessante
dell’epiteto è che esso non ha solo un senso sociologico,
corrispondente alla dignità del destinatario – rafforzato in termini lau-
21 A. Gargano, Reescrituras garcilasianas, cit., p. 89 e segg.
22 Cfr. le Notas complementarias della già citata edizione di B. Morros, p. 397.
23 Benedetto Gareth «Il Cariteo», Le Rime del Chariteo. Parte seconda, a cura
di Erasmo Pèrcopo, Napoli, Accademia delle Scienze, 1892, p. 112.
24 Cfr. Garcilaso de la Vega and the Italian Renaissance, cit., pp. 267-275.
25 Ivi, p. 272.
26 Ivi, pp. 273-274.
27 La lettera, indirizzata «al Capitan Palazzo», si trova in Pietro Aretino, Il
secondo libro de le lettere, Parigi, Matteo il Maestro, 1609, p. 194. Contiene un errore
tipografico nella data, che indica MDLXI quando in realtà si tratta di MDXLI. Per
quanto concerne il rapporto tra Pietro Aretino e Alfonso d’Avalos, si rimanda alla
prefazione dell’edizione di Alessandro Luzio del Pronostico satirico de 1531 (Bergamo,
Istituto Italiano D’Arti Grafiche, 1900), così come al già citato studio di G.
Morelli Esperienze letterarie di Alfonso d’Avalos, che dedica un paragrafo a questo
argomento.
[ 9 ]
22 gáldrick de la torre ávalos
dativi dall’uso del superlativo –, ma anche un senso poetico, inscritto
nella semantica della luce presente nel corpo del poema nelle menzioni
alla «llama» e al «claro resplandor»: una dimostrazione ulteriore,
dunque, dell’ambiguità che caratterizza questi versi e li avvicina precocemente
al manierismo letterario che interessa l’evoluzione della
letteratura napoletana nella seconda metà del secolo.
«…en quien derrama / el cielo cuanto bien conoce el mundo»
I due primi versi segnalano un altro elemento presente nelle composizioni
dedicate al marchese dai poeti coevi e, in particolare, da
quelli che frequentavano il circolo poetico dei d’Avalos a Ischia: l’origine
celestiale delle sue virtù come spiegazione delle sue doti soprannaturali;
un’idea a cui ritorna in seguito Garcilaso nella prima terzina:
«Cuanto del largo cielo se desea, / cuanto sobre la tierra se procura, /
todo se halla en vos de parte a parte». Non è un caso che i versi che
Garcilaso dirige al marchese, riecheggino di nuovo quelli che Vittoria
Colonna dedicò al defunto marchese di Pescara: «Quanto di ben Natura
al mondo diede / […] quanto discopre il sol, quanto s’addita, /
che del poter divin ne faccian fede, / dispreggia il cor […]»28, ricorrendo
inoltre al dantesco: «Ella è quanto de ben pò far natura» (XIX, 11)29.
Con le sue poesie dedicate a Francesco Ferrante la marchesa contribuì
a diffondere un’immagine divinizzata del marito, a cui vengono attribuiti
alcuni elementi presenti nel ritratto poetico della Beatrice dantesca30;
come accade, per esempio, con la caratterizzazione luminosa –
28 Cfr. Toscano (ed.), sonetto VI. Le analogie si estendono al sonetto LXI della
stessa edizione, al verso dedicato all’alloro: «quanto di bello il Cielo in sé raccoglie
».
29 Dante, Vita Nuova. Rime, a cura di Donato Pirovano e Marco Grimaldi,
introd. di Enrico Malato, Roma, Salerno Editrice, 2015, I, p. 165. Per questo dato
ringrazio il mio amico e compagno di fatiche, professore Adalid Nievas.
30 Nella propria tesi di laurea, Mirna Čudić parla diffusamente di questa relazione,
a partire dalla caratterizzazione luminosa: cfr. I motivi della luce in Dante,
Petrarca e Vittoria Colonna, Zagreb, University of Zagreb, 2013. Per quanto concerne
la mitizzazione e la diffusione dell’immagine divinizzata – «divin governo» (IX)
– di Francesco Ferrante – alla quale contribuì anche Alfonso d’Avalos facendo conoscere
al di fuori di Napoli le poesie della marchesa di Pescara: cfr. Tobia R. Toscano,
Due allievi di Vittoria Colonna: Luigi Tansillo e Alfonso d’Avalos, «Critica letteraria
», XVI (1988), pp. 739-773 –, esse si possono notare sia nel sonetto introduttivo
che apre il manoscritto napoletano, sia nei prestiti che derivano dagli scambi poetici
mantenuti con altri scrittori, dei quali rende testimonianza anche lo stesso ma-
[ 10 ]
garcilaso de la vega lettore di vittoria colonna 23
di cui si parlerà più avanti – e con il motivo dell’origine celestiale
dell’essere amato, da cui procedono le sue virtù31. Parte di questo rinoscritto.
Per quanto riguarda il sonetto, si mette in evidenza il carattere terapeutico
della scrittura di Vittoria Colonna, che la porta a volersi sfogare della morte
del marito, scartando così la possibilità di celebrarlo; dice la poetessa: «Scrivo sol
per sfogar l’interna doglia» e – aggiunge di seguito – «et non per giunger lume al
mio bel Sole»; è per questo che si aspetta che siano altri, più capaci, a contribuire a
rendere immortale il suo nome: perché «per altra voce è più saggi parole / convien
ch’a morte il gran nome si toglia». Ecco che, sebbene apparentemente la sua intenzione
non sia quella di celebrare il marito – cosa che in fondo finisce per fare, dato
il duplice carattere lirico e, al contempo, panegirico dell’opera –, allo stesso tempo
conserva la speranza che siano altri a farlo. È qui che acquista senso il lamento del
sonetto LXIV che la scrittrice rivolge a Bembo e in cui tacitamente, come già segnalato,
invita il veneziano a sceglierlo come materia letteraria. Lo stesso si può dire
del sonetto A2:23 – secondo la numerazione di Bullock (ed.), Rime, cit. –; lì la
marchesa, testimone oculare delle «chiare consparte» virtù del marchese che, dal
cielo, condivide «fra noi», si rivolge a «voi, spirti eletti / ch’adornate sì rari alti
concetti» e aggiunge: «onorate di lui le vostre carte». Di questa intenzione, più o
meno consapevole, di proiettare l’immagine dell’amato nell’opera di altri scrittori
dà riprova anche la caratterizzazione luminosa nelle poesie di Bernardo Tasso e
Francesco Berni. Iniziando da quest’ultimo (LXIVa), collocato nel manoscritto napoletano
dopo quello di Bembo, si recupera l’immagine del sole e altre espressioni
provenienti dalla semantica della luce, come il «lume sereno», per rendere estendibili
al ritratto poetico della marchesa di Pescara, «sol secondo», certi elementi luminosi
riscontrabili nella caratterizzazione del marchese. Altrettanto si può affermare
riguardo ai versi che Tasso gli dedica, nello stesso periodo, nella poesia che
apre la sezione delle odi del secondo libro de Gli Amori: «Sì che del suo splendore
/ Vivranno i chiari raggi» (XCI), su cui ha recentemente scritto Anderson Magalhães,
studioso dell’opera del Tasso e Vittoria Colonna: «La lettura di quest’ode
crea forti suggestioni in ordine alla sua assimilazione tematica con la produzione
della Colonna stessa» (cfr. Salda Colonna, alto sostegno e fido»: Bernardo Tasso e il mecenatismo
di Vittoria Colonna alla corte d’Ischia, in Donne, terme e bellezza a Ischia nel
Rinascimento. Atti del Convegno internazionale di studio, organizzato dall’Istituto
Nazionale di Studi sul Rinascimento Meridionale, a cura di Carmen Reale, Napoli,
Ischia, 2-6 maggio de 2017 [in stampa]). Ne approfitto per ringraziare il professor
Magalhães per avermi fornito le bozze del suo studio di prossima pubblicazione.
Infine, quanto all’influenza di Dante nell’opera poetica di Vittoria Colonna,
bisogna dire che la critica non vi si è soffermata a sufficienza, nonostante Dante
rappresenti un elemento fondante della sua formazione poetica e letteraria giovanile,
come mostra la dedica di Andrea Torresano, «detto l’Asolano», del Dante col
sito et forma dell’inferno tratta dalla istessa descrittione del Poeta, Venezia, nelle case
d’Aldo et d’Andrea di Asola, agosto del 1515, riproduzione dell’edizione aldina
del 1502 curata da Bembo: cfr. Mirella Scala, Encomi e dediche nelle prime relazioni
culturali di Vittoria Colonna, «Periodico della Società Storica Comense», LIV (1990),
pp. 100-101.
31 Sono numerose le poesie in cui Vittoria Colonna mette in risalto, direttamente
o indirettamente, l’origine celeste del marchese di Pescara; un tratto, fonte del
[ 11 ]
24 gáldrick de la torre ávalos
tratto, come vedremo, verrà assunto più tardi anche da Alfonso d’Avalos
nelle composizioni a lui dedicate da Vittoria Colonna, in cui per
un vincolo di consanguineità e per essere stato educato militarmente
sotto gli ordini del Pescara, si rivela come l’unico degno successore
della grandezza e delle virtù del marchese.
Questo è il motivo per cui anche Bernardo Tasso, che fu al servizio
di d’Avalos a Ischia32, in uno dei vari poemi che gli dedica nel secondo
libro degli Amori, sottolinei questa origine celestiale, quel cielo a cui
era tornato Ferrante per toccare la gloria e dove prima o poi lo avrebbe
raggiunto Alfonso d’Avalos. I versi di Tasso, sebbene mantengano
questo significato, si allontanano dalla lectio garcilasiana:
Ben sai che più bell’alma
Dal ciel mai non discese
Per vestirsi qua giù l’umana salma.
E poco dopo:
Con benigno ascendente
Da le più liete stelle
Qui venne, di virtù calda et ardente;
E ’ntenta a l’opre belle,
Fa ch’ognuno di lui scriva e favelle33.
La stessa cosa si può affermare riguardo ai versi che Ariosto gli
dedica nella terza edizione dell’Orlando, in cui fa riferimento anche
alla sua origine celeste34: «quando nascerà in lei [Ischia] quel
suo carattere divino, che condivide con la Beatrice dantesca: «Ella si va, sentendosi
laudare, / benignamente d’umiltà vestuta; / e par che sia una cosa venuta / dal
cielo in terra a miracol mostrare» (Vita nuova, XXVI, 6). Tuttavia, l’aspetto interessante
è che Vittoria recupera questo motivo, inserito nella lirica amorosa attraverso
il Petrarca (Rvf, 159), per conferirgli un significato nuovo nel contesto panegirico
della lode del marchese. Alcuni esempi dell’applicazione di questo motivo li troviamo
nei sonetti S’a pena i spirti avean intera vita (A1: 22), in cui si fa riferimento a
«il Ciel» e al «bel celeste aspetto» di Francesco Ferrante, e anche nel sonetto LXII
del manoscritto napoletano, che segnala indirettamente la sua origine celeste nel
verso «come fulgente alla tu stella andasti».
32 Cfr. Gáldrick de la Torre Ávalos, «…al servitio de la felice memoria del Marchese
del Vasto». Notas sobre la presencia de Bernardo Tasso en la corte poética de Ischia,
«Studia Aurea», X (2016), pp. 363-392.
33 Cfr. poema XCV. Si cita dall’edizione moderna di Domenico Chiodo: Bernardo
Tasso, Rime, Torino, RES, 1995, I, p. 218.
34 Sull’assegnazione annuale di cento ducati d’oro che fece diventare Ariosto
un protetto di Alfonso d’Avalos, avvenuta nell’ottobre del 1531 durante il soggior-
[ 12 ]
garcilaso de la vega lettore di vittoria colonna 25
gran marchese / ch’avrà sì d’ogni grazia il ciel cortese» (XXXIII,
29)35.
L’impronta di Vittoria Colonna nel sonetto di Garcilaso si mostra
evidente anche nella ripetizione di alcuni sintagmi, come per esempio
il «largo cielo» petrarchesco (Rvf, 213), che nei sonetti dedicati a Francesco
Ferrante si contrappone a volte al «Tempo avaro» della sua vita
(XLIV), alla «stella» della stessa marchesa (LVIII), che dovette affrontare
la sua morte prematura, e anche come riferimento alla sua incapacità
di raggiungere con la mente questo luogo, che diede origine a suo marito
(XXV) e che poi l’avrebbe conservato gelosamente (LX). Un altro
sintagma da includere, anch’esso petrarchesco, è «de parte a parte»,
anche se in questo caso, considerato il tema amoroso, il significato di
detta espressione nel sonetto di Vittoria Colonna (A2: 28) si avvicina di
più a quello utilizzato dal poeta di Arezzo (Rvf, 18), che rappresenta gli
effetti dell’amore nel cuore dell’innamorato; mentre Garcilaso allude
alle virtù del mondo, il cielo e la terra, riunite nella figura del marchese.
«si al gran valor en que el sujeto fundo»
Come è stato segnalato, l’idea del soggetto letterario è molto presente
tra le composizioni cortigiane dei poeti del petrarchismo merino
del marchese a Correggio, nel circolo di Veronica Gambara, che spiegherebbe,
in seguito, le citazioni del marchese nella terza edizione dell’Orlando, come quelle
di Vittoria Colonna e di altri membri della famiglia, cfr. gli studi di T. R. Toscano,
Due allievi di Vittoria Colonna: Luigi Tansillo e Alfonso d’Avalos, cit., e Tra Ludovico
Ariosto e Alfonso d’Avalos: sull’attribuzione del cap. XXVII, «Arsi nel mio bel foco un
tiempo quieto», in Id., L’Enigma di Galeazzo di Tarsia: Altri studi sulla letteratura a Napoli
nel Cinquecento, Napoli, Loffredo, 2004, pp. 67-78.
35 Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, a cura di Cristina Zampese, commento
de Emilio Bigi, Trebaseleghe, BUR Rizzoli, 2016, p. 1080. Fa riferimento all’origine
celeste del marchese in una serie di poesie composte in questo periodo – forse
dopo la vittoria africana dell’estate del 1535, come si deduce dalla prima di esse –,
anche Agostino Beaziano nella poesia D’Aualo sangue generoso, et chiaro, con il verso,
ispirato probabilmente da Vittoria Colonna (XXV, XLIV): «se come il ciel non ui
fu punto avaro» (cfr. De le cose volgari et latine del Beatiano, Venetis, Bartholomaeum
de Zanettis de Brixia, 1538, c. D1v), così come nell’ottava Chi è costui, che
fuor de gli occhi piove, in cui Alfonso appare con la «morte […] ne la mano, [e] il ciel
nel uolto» (c. F8r). D’altra parte, anche Gandolfo Porrino indica indirettamente
questa origine soprannaturale, parlando di «quell’aspetto real» del marchese: «de
le vere virtuti al cielo amiche» (cfr. Rime di Gandolfo Porrino, Venetia, Michele
Tramezzino, 1551, c. 39).
[ 13 ]
26 gáldrick de la torre ávalos
dionale. Lo ricordavamo con l’esempio di Vittoria Colonna e Bembo,
nel sonetto in cui chiede al veneziano che con il suo stile ornato, «che
dà scorno agli antiqui», provi a rendere immortale letterariamente il
marchese di Pescara ma anche se stesso. D’altra parte, è stata letta
nell’espressione fundo un possibile riferimento celato al marchese36.
Accadrebbe lo stesso nel verso «la voz de vuestro nombre alto y profundo
», che ricorda l’«alto nome inmortal» con cui vi si riferisce Giovan
Battista Pino (cfr. Il triompho di Carlo Qvinto) – che allude inoltre
alla difficoltà di cantare i suoi meriti –, e al «tan alto nombre» con cui
vi si riferirà più tardi Hernando de Acuña»37. Alcuni anni fa il professor
Alberto Blecua suggerì, con enorme perspicacia, che poteva trattarsi
di una traduzione castigliana delle parole catalane alt e fons, secondo
un tipo di anagramma frequente tra i petrarchisti38; celato riferimento
che gli evitava di intromettersi nella rivalità tra il marchese e
il viceré Pedro de Toledo39.
Per quanto invece riguarda il valore del marchese, la maggior parte
della critica (eccetto Eugenio Mele) l’ha inteso come una qualità
inerente al carattere laudativo del sonetto e non strettamente riferibile
al soggetto rappresentato. Tuttavia, se si tiene presente la traiettoria
biografica del marchese, la sua rapida ascesa nella carriera militare,
che lo portò alla metà degli anni Trenta, ad appena 28 anni, ad assumere
la carica di capitano generale, e la sua maniera di comportarsi in
combattimento, caratterizzata da una aggressività e una veemenza
che gli permisero, sotto la guida del marchese di Pescara, di catturare
36 Cfr. B. Morros (ed.), Garcilaso de la Vega. Obra poética y textos en prosa, cit., p.
39, nota al verso 3.
37 Cfr. Hernando de Acuña, Varias poesías, a cura di Luis F. Díaz Larios,
Cátedra, Madrid, 1982, poesia XXIV, p. 242. Da parte sua, Heiple aggiunge quanto
segue: «Also the marquis’s title, Vasto, would fit the idea described in line 6:
“vuestro nombre alto y profundo.” His name is “alto” because it is high-sounding
and expresses greatness, and “profundo” because it has the deeper meaning
that describes the character and learning of the marquis» (p. 269). Un gioco di
significati simile lo ritroviamo nella Vita che gli scrive Filonico Alicarnasseo,
quando si riferisce a «don Alfonso del Vasto: vasto veramente, largo, spazioso ed
ampio per la materia abbondante che in tal soggetto prezioso si trova, e fine, principio
e mezzo eguale al suono e significazion del suo nome, soggetto universal ed
cognome di ogni illustre e generoso affare» [il corsivo è mio]: Filonico Alicarnasseo,
Vita di don Alfonso d’Avalos, in Vite di alcune personi illustri del secolo XVI,
ms. X. B. 67 della Biblioteca Nazionale di Napoli, c. 113v (secondo la numerazione
a matita).
38 Cfr. nelle Notas complementarias della edizione di B. Morros, p. 397.
39 Cfr. G. de la Torre Ávalos, Garcilaso y Alfonso d’Avalos, marqués del Vasto, cit.
[ 14 ]
garcilaso de la vega lettore di vittoria colonna 27
Francesco I nella celebre battaglia di Pavia40, non può essere un caso
che Garcilaso faccia riferimento a questo elemento che è alla base della
sua fama41. Tra i versi e le poesie dedicati a Alfonso d’Avalos dai
poeti del petrarchismo meridionale, come per esempio quelli di Ferrante
Carafa, Angelo di Costanzo, Giulio Cesare Caracciolo, Bernardino
Martirano, Giovan Battista Pino, Bernardo Tasso e Berardino Rota,
e anche dagli spagnoli che erano nel seguito di d’Avalos a Milano,
come Gutierre de Cetina e Hernando de Acuña, oltre alle menzioni
nell’Orlando furioso e nelle rime di Vittoria Colonna, non c’è un solo
componimento in cui non si faccia riferimento al valore del marchese42.
Testimonianza in prosa lo offre la Descrittione dei luoghi antichi di
Benedetto di Falco, pubblicata nel 1548. Qui si finisce di dimostrare
che, effettivamente, il riferimento al valore del marchese non faceva
parte della retorica cortigiana; dice di Falco:
Dell’altro illustre Marchese del Vasto una sola cosa dirò, (conciosiacosa
che parlar di duo tali gran personaggi in sí basso stile saria vituperargli),
che essendo egli nato d’una meravigliosa bellezza, potea senza
biasmo, mirando tante vive imagini de’ suoi illustri avi, starsene quietamente
e viver senza travagli di guerra. Ma, perché fiso guardandole
piú s’infiammava ansioso d’imitargli, di quattordeci anni seguí il gran
Marchese di Pescara alla rotta di Ravenna e poi, per alquanti anni appresso
giovanetto, essendo colo|nello de’ Lanzichinec, in la giornata
della presa di Re di Franza, di passo in passo in diverse guerre racqui-
40 Per tutto ciò che riguarda la biografia del marchese, si rimanda alla già citata
Vita di F. Alicarnasseo.
41 Lo stesso Alicarnasseo ricorda un episodio a Marsiglia, dove si distinse per
essere stato capace, con pochi soldati, di punire i nemici dell’impero e quasi di
conquistare la città: «che, se l’uscio con triplicate guardie guardato non si trovava
e con grossa e scelta mano di gente armata, l’avrebbe presa»; e racconta anche l’aneddoto
secondo cui, dopo che un giorno venne ignorato dal marchese di Pescara,
si rese protagonista di un’impresa pericolosa e da allora «non vi fu cosa pericolosa
ed arriscata, che per mano del Vasto indi innanzi trattata, avventurata ed eseguita
non fusse. Delle quali rendendo egli ciascuna volta desiato ed onorevole conto,
cresceva in credito fra’ soldati, ed in reputazione da giorno in giorni tra’ capi» (cc.
120v-121r).
42 Alla lista potrebbe aggiungersi, tra gli altri, la testimonianza di Filonico Alicarnasseo,
che fa riferimento al valore nella Vita del marchese; Giovanni Filocalo
da Troia, che come Garcilaso parla anche di «gran valor» (vid. infra), Scipione Capece,
Niccolò Franco, oltre ad alcuni autori di fuori dal regno con i quali d’Avalos
rimase in contatto durante il periodo milanese, come Bernardo Cappello, Pietro
Aretino e Girolamo Muzio (sul rapporto con questi ultimi tre cfr. G. Morelli, Esperienze
letterarie di Alfonso d’Avalos, governatore di Milano, p. 245 e segg.).
[ 15 ]
28 gáldrick de la torre ávalos
stò il nome di valente e di una singolare fedeltà, posto in Milano per
locotenente di Vostra Magestà in Italia43.
«y al claro resplandor de vuestra llama / arribare mi pluma»
Giungiamo così al nodo centrale di questo discorso. Uno degli
aspetti più interessanti del sonetto, oltre alla semantica della luce, quel
«claro resplandor» della «llama», è soprattutto il fatto che quest’ultima
– la «llama» – venga allegoricamente situata in un piano di superiorità,
nel cielo da cui provengono le virtù del marchese e al quale
Garcilaso deve aspirare mentalmente e poeticamente con la sua «pluma
». Tale immagine, per la sua qualità e l’altezza in cui appare situata
nel sonetto di Garcilaso ricorda l’immagine del «bel sole» con cui Vittoria
Colonna descrive, secondo una caratterizzazione luminosa dantesca,
nei Sonetti in morte (I, XI, XIV, XIX, XXIX, XXXI…), la figura di
Francesco Ferrante44, uomo angelicato che la poetessa divinizza e colloca
appunto in cielo, come Beatrice in Dante e la fiamma del marchese
in Garcilaso45.
Si tratta di un’immagine, l’immagine del sole, presente già nella
poesia di Dante – per esempio, nella Divina Commedia, dove serve per
43 Benedetto di Falco, Descrittione dei luoghi antichi di Napoli e del suo amenissimo
distretto, con un saggio di Gennaro Toscano, introd. di Tobia R. Toscano e
testo critico a cura di Marcella Grippo, Ercolano, CUEN, 1992, pp. 178-179. Anche
Luca Contile, che fu il segretario del marchese durante il suo soggiorno a
Milano, in una lettera al vescovo di Tolone scritta il 22 aprile 1541 insisterà sui suoi
meriti reali, che sono superiori alle lodi: «Credami pure, che di questo Principe
son’assai maggiori le vertù, che le laudi. Anzi chi lo pratica, & per la bellezza singulare
del suo corpo & per la gratia, che lo fa d’aspetto divino & per la natural
eloquentia, onde niun da lui si parte mal sodisfatto» (Lettere, Venezia, 1564, Libro
I, c. 69r); frammento cit. in G. Morelli, Esperienze letterarie di Alfonso d’Avalos, governatore
di Milano, cit., pp. 235-6, nota 7.
44 Sono numerose le espressioni tipo «raggio ardente» (II), «bella luce» (II),
«chiaro lampo» (III), «le luci» (I), «vivo splendor» (V), e altre («imaginata luce»,
XX, e un lungo etc.), usate per riferirsi sia all’anima del marchese, definita il più
delle volte «il mio bel sole» (I, XI), sia a tutto ciò che sta intorno alla sua figura,
prolungamento dei suoi meriti nel mondo (XI, XIV) e degli effetti che producono
nell’io lirico (XXIV, II). Questo è ciò che avviene con i sostantivi, ai quali si potrebbe
aggiungere i relativi verbi: «fulgura» (III), «manda» (I), «riluce» (V), «scalda»
(XIV), «rifulge» (XIX), «fiammegia» (XXV) e altri.
45 Per i rapporti tra Vittoria Colonna, Dante e Petrarca a partire dai motivi
della luce, si rimanda nuovamente al già citato studio di M. Čudić.
[ 16 ]
garcilaso de la vega lettore di vittoria colonna 29
riferirsi a Dio –46, in seguito utilizzata da Petrarca in senso amoroso
(Rvf, 9, 22, 90, 119, 133, 173, 175, 363…) e poi ereditata dai poeti del
petrarchismo meridionale Sannazaro e il Cariteo47. Quest’ultimo, inoltre,
aggiunge alla metafora un senso panegirico nella lode di Fernando
il Cattolico, che descrive come «Aragonio sol»48. L’immagine, nei
due sensi, panegirico e amoroso, dato il carattere lirico e allo stesso
tempo celebrativo della raccolta di versi, è impiegata, in chiave neoplatonica49,
da Vittoria Colonna tanto per riferirsi all’autorità militare
46 M. Čudić, I motivi della luce in Dante, Petrarca e Vittoria Colonna, cit., p. 23 et
passim.
47 Cfr. Sannazaro, Sonetti et canzone (Napoli, Sultzbach, 1530), XLVII, LX,
LXVII, tra gli altri. Si cita dall’edizione di Alfredo Mauro: Opere volgari, Bari,
Laterza & Figli, 1961.
48 Cariteo, Le Rime, cit., soneto IV, p. 10. Riguardo l’identificazione con Fernando
il Cattolico, cfr. Giovanni Parenti, Benet Garret detto il Cariteo. Profilo di un
poeta, Città di Castello, Leo S. Olschki Editore, 1993, p. 15. In esso si specifica che la
metafora, destinata originariamente a Ferrante II, passa a designare Fernando il
Cattolico in conseguenza del passaggio del Regno di Napoli al sistema del viceregno,
che obbliga il poeta a cercare protezione presso il nuovo monarca.
49 I l neoplatonismo di Vittoria Colonna, oltre alla lettura del quarto libro de Il
Cortegiano, il discorso di Bembo, e forse anche de Gli Asolani (cfr. Raffaella de
Vivo, Vittoria Colonna e gli umanisti napoletani, in Napoli Viceregno spagnolo: una capitale
della cultura alle origini dell’Europa moderna (sec. XVI-XVII), a cura di Monika
Bosse e André Stoll, Napoli, Vivarium, 2001, vol. 2, pp. 50-51), andrebbe messo
in relazione con l’ambiente letterario napoletano dei primi decenni del Cinquecento,
in particolare con l’influenza esercitata tra gli accademici pontaniani dall’umanista
romano Egidio da Viterbo (cfr. M. Čudić, I motivi della luce in Dante, Petrarca e
Vittoria Colonna, cit., passim). Viterbo fu discepolo e amico di Marsilio Ficino, con il
quale perfezionò la dottrina neoplatonica, specialmente in merito alla sua compatibilità
con i principi cristiani; durante i suoi vari viaggi a Napoli fece conoscere
queste idee provenienti dall’Accademia Fiorentina. Frutto di questa influenza è il
De partu Virginis di Sannazaro (cfr. Marc Deramaix, La genèse du De partu Virginis
de Jacopo Sannazaro et trois églogues inédites de Gilles de Viterbe, «Mélanges de l’Ecole
française de Rome. Moyen-Age», CII (1990), n. 1, pp. 173-276), opera che, a sua
volta, influenzò il contesto del cenacolo di Ischia, come dimostra il fatto che Alfonso
d’Avalos le dedicasse una delle sue poesie nel Vocabulario di Fabrizio Luna
(Napoli, Sultzbach, 1536) e che uno dei volumi di lusso conservati dell’opera fosse
dedicato alla marchesa di Pescara, a cui si riferisce con le iniziali V. e C (cfr. Charles
Fantazzi e Alessandro Perosa, Introduzione, in Iacopo Sannazaro, De partu
Virginis, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 1988, pp. XLVIII e XLIX). Anche Magalhães,
nel suo già citato articolo, sottolinea questo rapporto tra gli ambienti della
pontaniana e del cenacolo di Ischia: «La devozione religiosa della poetessa in quegli
anni risulta essere stata rinvigorita proprio dal contatto con il neoplatonismo di
stampo ficiniano, che a cavallo tra Quattro e Cinquecento travalicò i confini
dell’Accademia Fiorentina per diffondersi nella vita spirituale di svariati ambienti
[ 17 ]
30 gáldrick de la torre ávalos
del marito, quanto alla sua condizione di oggetto dell’esperienza
amorosa; immagine che la poetessa poteva aver già coltivato in vita
del marchese50 e che è probabile che si fosse già diffusa negli ambienti
letterari di Napoli prima ancora che viaggiasse per la Penisola alla fine
degli anni Venti e soprattutto a partire dalla decade del 1530, come
risultato di un ampliamento della circolazione manoscritta delle rime
della Colonna51. Un esempio di quella prima proiezione locale della
metafora la ritroviamo nella poesia di Girolamo Britonio, autore de La
Gelosia del sole anch’egli vincolato alla corte poetica di Ischia, in particolare
nella seconda decade del Cinquecento52.
culturali della penisola […] L’approccio della marchesa di Pescara a queste dottrine
appare propiziato dalla frequentazione di quegli eruditi che gravitavano attorno
all’ambiente platonizzante dell’Accademia Pontaniana, in particolare il cardinale
agostiniano Egidio da Viterbo che alla Colonna dedicò sei madrigali».
50 Cfr. la Vita di Vittoria Colonna scritta da F. Alicarnasseo e pubblicata con
l’epistolario da Ermanno Ferrero e Giuseppe Müller: Vittoria Colonna, Carteggio,
con supplemento di Domenico Tordi, Torino, Loescher, 18922, pp. 487-518.
Qui Filonico fa riferimento a sette incipit di poesie perdute, una delle quali è un
sonetto scritto per la partenza da Pescara verso la corte di Fernando il Cattolico. Il
sonetto recita: «Vanne lieto, mio sol, vanne sicuro / Con lieto augurio ovunque il
ciel ti guida» (p. 497), elemento che dimostrerebbe che già allora questo era il modo
che la poetessa utilizzava per riferirsi al marchese. Il frammento in questione
compare citato in M. Scala, Encomi e dediche nelle prime relazioni culturali di Vittoria
Colonna, cit., p. 102.
51 Cfr. il già citato studio di T. R. Toscano Due allievi di Vittoria Colonna…, in
cui parla anche del ruolo svolto da Alfonso d’Avalos nella diffusione delle poesie
della marchesa di Pescara. D’altra parte, agli esempi di Francesco Berni e di Bernardo
Tasso citati nella nota 30, si possono aggiungere come conseguenza di quella
diffusione dentro e al di fuori di Napoli, la prosa di Benedetto di Falco e i versi
che Ariosto le dedica nel terzo Furioso: «Conciosiacosa che il legato di Papa Clemente
settimo, mandato in Lombardia a vedere la fine di sí gran guerra, scrisse al
Papa che ’l gran Marchese di Pescara non altramente distribuiva li chiari raggi della
sua virtú tra li soldati imperiale, che ’l sole i suoi sopra la terra, donde riescono
indubitati effetti» (Descritione dei luoghi antichi di Napoli, cit., p. 178; cfr. anche il
commento degli editori, nota 244: «La metafora del sole riferita al marchese di
Pescara era molto diffusa in scritti poetici di quell’epoca, cfr. tra l’altro le Rime di
Vittoria Colonna e la Gelosia del sole (Napoli, 1519) di Girolamo Britonio». Gli stessi
termini nei quali si esprime Ariosto quando traccia il ritratto della marchesa di
Pescara: «ch’orna a’ dì nostri il ciel d’un altro sole» (XXXVII, 17) e che utilizza
Agostino Beaziano in un sonetto a lei dedicato: Se ben il vostro Sol del cielo in parte
(De le cose volgari et latine, cit., c. C8v).
52 R iguardo al significato che la metafora acquisisce nell’opera di Britonio, sebbene
alcuni studi suggeriscano che, effettivamente, si tratti di un riferimento al
marchese di Pescara (cfr. Marcella Grippo, La Gelosia del sole di Girolamo Britonio,
«Critica Letteraria», XXIV (1996), pp. 5-55 (p. 36), non vengono scartate nean-
[ 18 ]
garcilaso de la vega lettore di vittoria colonna 31
È stato segnalato precedentemente che Alfonso d’Avalos ereditò in
parte alcuni degli elementi che Vittoria Colonna attribuì al ritratto poetico
del marchese di Pescara dovuto al vincolo di consanguineità che
univa i due marchesi e al fatto che Alfonso d’Avalos ne seguisse i passi
nella carriera militare53. Nelle poesie che Vittoria Colonna all’epoca,
intorno agli anni ’30, dedica al marchese del Vasto si può apprezzare
questa transizione a livello letterale, quando invita d’Avalos a seguire
l’esempio del marchese di Pescara54:
Ite, Signor, per l’orme belle, ond’io
riveggia intero in voi quel lume chiaro
del mio Sol vivo, e questo parco e avaro
Ciel venga a forza largo al desir mio (E:2)55;
ma anche sul piano simbolico, in cui detta transizione può vedersi riflessa
nella maniera in cui appare caratterizzato poeticamente Alfonso
d’Avalos, come bagnato dalla luce solare del marchese di Pescara:
Or che quel Sol, che solo in voi risplende,
non mostra in terra i divin raggi ardenti
ma con luce maggior là su contende,
godo che ’l vostro cor, avendo spenti
i contrasti e l’insidie, s’erge e accende
di sempre farsi conto a l’alte menti (ibidem).
che altre interpretazioni. Sulla questione, cfr. lo studio preliminare di Mauro Marrocco
alla sua edizione dell’opera in Girolamo Britonio, Gelosia del Sole, Roma,
Sapienza Università Editrice, 2016, p. 8 e segg.
53 Anche Ariosto suggerisce questa identificazione nominandoli insieme in vari
passaggi del terzo Furioso: «Vedete duo marchesi, ambi terrore / di nostre genti,
ambi d’Italia onore; / ambi d’un sangue, ambi in un nido nati» [il corsivo è mio]
(XXXIII, 46-7).
54 «[…] lo’nuita à seguitare per li vestigii del suo Sole, lodando il suo valore, &
il desiderio, ilquale essa intende, che egli ha di farsi per la virtù sua CONTO, cioè
conosciuto a l’alte menti de i spirti valorosi» (commento di Rinaldo Corso, in
Tutte le rime della illustriss. et eccellentiss. signora Vittoria Colonna, a cura di Girolamo
Ruscelli, Venetia, Giovan Battista et Melchior Sessa Fratelli, 1558, p. 320).
55 Si riferisce ad Alfonso d’Avalos con l’esempio del marchese di Pescara anche
nel sonetto Cercan le Muse i più pregiati allori (E:6), la parte in cui dice «Del gemino
valor perpetua gloria / vi veggio aver, e pria di cangiar pelo / d’ambe corone ornar
le tempie belle; / ch’or la spada, or lo stil di chiara istoria / vi faran degno,
onde ’l mio Sol in Cielo / sente che ’l vostro onor giunge alle stelle». Sull’identità
del destinatario del sonetto con Alfonso d’Avalos, cfr. i commenti degli editori di
Vittoria Colonna, A. Bullock, Rime, cit., p. 508, Osservazioni, e T. R. Toscano, Sonetti
in morte…, cit., p. 42, nota 110.
[ 19 ]
32 gáldrick de la torre ávalos
Questa eredità simbolica tra il marchese del Vasto e il marchese di
Pescara a partire dalla metafora del sole, diffusa in area meridionale
dalla poesia di Vittoria Colonna, dovette influire sulla caratterizzazione
di Alfonso d’Avalos da parte degli altri poeti petrarchisti56. Troviamo
un chiaro esempio nella Canzone che l’umanista Giovanni Filocalo
da Troia, legato al cenacolo di Ischia57, scrive nel 1530 a Alfonso d’Avalos58.
Qui l’autore descrive il d’Avalos come epigono della gloria di
Francesco Ferrante. Tuttavia, l’aspetto più interessante è che se Alfonso
è un «giocondo / Sole», il marchese di Pescara, da parte sua, è «l’altro
sol»59:
Cosi no fusser chiusi anchor i Raggi
De l’altro sol, che n’ illustró pur dianzi
Gran conforto al’Italiche ruine.
Io parlo, del maggior de tutti saggi,
Aualo, ornato di Virtù diuine,
Quai non sia piu chi adegui, non che auanzi,
Chi nel tolse dinanzi
Quando piu d’anni, et piu d’honor fioria?
Quando de ’l uiuer suo piu staua lieto?
Quando de L’alpi havea chiusa ogni uia?
56 «Il nome di Vittoria compare negli anni ’30 soprattutto in relazione a quello
di Alfonso d’Avalos, marchese del Vasto e cugino di Ferrante: nelle sue imprese
militari i contemporanei, e sopratutto gli umanisti, coglievano la realizzazione di
quell’ideale eroico realizzato dal Pescara» (R. de Vivo, Vittoria Colonna e gli umanisti
napoletani, cit., p. 53).
57 Sul rapporto di Giovanni Filocalo con i d’Avalos e con Vittoria Colonna, cfr.
R. de Vivo, Vittoria Colonna e gli umanisti napoletani, cit., p. 52 e segg.
58 Cfr. Giovanni Filocalo da Troia, Canzone del Philocalo recitata in Napoli
all’illustrissimo s. don Alfonso Aualo marchese del Guasto capitano generale de la infantaria
cesarea glorioso invitto, Napoli, Sultzbach, 1531. Nella lettera introduttoria, datata
da Roma al primo di giugno 1530 e diretta «Al’eccellente s. Giovan’ Antonio
Mvsettvla (sic)», Filocalo spiega che la «dedicai [la canzone] a quella unica Donna
de nostri tempi, Vittoria Colonna», e aggiunge che «ne io harei havuto ardir di
farla imprimere» senza il «giudicio ancor di quella». Alla fine, parla di «Cento
Epigrammi, ch’io ho del detto S. scritto» e che «presto li uedrete, et se ne fara quanto
a voi S. et al Giouio sara grato». A quanto pare, uno di questi cento epigrammi
si trova nel colofone della stampa.
59 L’idea dei due soli è presente anche in Petrarca: «Quella fenestra ove l’un sol
si vede, / quando a lui piace, et l’altro in su la nona (Rvf, 100, 1-2); «Così mi sveglio a
salutar l’aurora, / e ’l sol ch’è seco, et più l’altro ond’io fui / ne’ primi anni abagliato,
et son anchora. / I’ gli ò veduti alcun giorno ambedui / levarsi inseme, e ’n un punto
e ’n un’hora / quel far le stelle, et questo sparir lui (219, 9-14; il corsivo è mio); cit.
in M. Čudić, I motivi della luce in Dante, Petrarca e Vittoria Colonna, cit., p. 38.
[ 20 ]
garcilaso de la vega lettore di vittoria colonna 33
Et quel gran Re Francesce aspro inquieto,
Fece inchinar humile, et mansueto,
Et del suo error ingiusto
Dimandarne mercede a Carlo Augusto? [il corsivo è mio].
E di nuovo il riferimento al valore del marchese e la caratterizzazione
di Francesco Ferrante come guida o maestro:
Et quel chiaro, et beato
Com’ interra ti fu Maestro, et guida,
Cosi da ’l Ciel, pietoso ancor ti scorge,
Et dentro di tuo cor di et notte grida,
Che poi che ’l Ciel tanto fauor ti porge,
Et co ’l tuo gran ualor sua fama sorge
Intenda il mondo ognihora,
Che’ uita essendo tu, uiu’ egli ancora.
Un altro esempio di questa eredità simbolica lo troviamo in Bernardo
Tasso, al quale abbiamo già fatto riferimento riguardo all’origine
celeste delle virtù di Alfonso, presente anche nella descrizione del
marchese di Pescara. Tasso gli dedica un sonetto in cui viene esaltato
ancora una volta il valore del marchese del Vasto utilizzando la metafora
del sole:
L’ardente Sol del vostro alto valore
Spars’ha, Signor, cotanti raggi intorno,
Che tanti l’altro, allor che porta il giorno,
Non manda a noi da’ suoi begli occhi fuore60.
60 Cfr. la poesia XIII del secondo libro de Gli Amori. Sul fronte italiano, ulteriori
esempi di questa transizione simbolica attraverso la metafora del sole, e in generale
della caratterizzazione luminosa, li ritroviamo sul versante italiano in molte
delle poesie che gli dedicarono altri umanisti e scrittori, sia dentro che fuori il regno
di Napoli. Tra i primi, è opportuno citare Angelo di Costanzo, che lo definisce
«lucido raggio […] di vera virtù» (Rime di diuersi illustri signori napoletani, e
d’altri nobiliss. ingegni… Libro quinto, Vinegia, Giolito, 1552, p. 86), in Berardino
Rota associato al valore: «del valor vostro il vivo raggio» (Sonetti et canzoni…, con
l’Egloghe pescatorie, Napoli, Gio. Maria Scotto, 1560, p. 60). Così, tra i secondi, Pietro
Aretino, che in apertura dell’Angelica si riferisce al «valor di che lampa e idol
sei» (cit. in G. Morelli, Esperienze letterarie di Alfonso d’Avalos, governatore di Milano,
cit., p. 248). Da parte sua, Niccolò Franco, nel Dialogo… doue si ragiona delle
Belleze (Venetiis, Antonium Gardane, 1542, c. 75r), si riferisce al marchese utilizzando
direttamente la metafora del sole: «Onde chiunque cerca con invidia gareggiarli,
paia solamente ombreggiare il lume d’un tanto Sole», così come Agostino Beaziano:
«Di Marte un lume, un sol, per cui rischiari / L’oscuro del pensiero […]»
[ 21 ]
34 gáldrick de la torre ávalos
Giunti a questo punto, tenendo presente l’altezza in cui si trova la
fiamma nel sonetto di Garcilaso, bisognerebbe chiedersi se, al momento
di comporre la poesia, il toledano non pensasse anche all’immagine
del sole, a cui avrebbe potuto rinunciare, per essere eccessivamente
evidente, a causa della rivalità tra Alfonso d’Avalos e Pedro de Toledo.
Non sembra accettabile, invece, la proposta di Heiple, secondo il quale
il poeta prese l’immagine della fiamma da un’impresa dedicata al
marchese in cui una fiamma, inestinguibile, era rappresentata sull’altare
del tempio di Giunone attraversata dai venti che si infilavano tra
le colonne, quale simbolo della sua costanza amorosa davanti ai dubbi
di una dama napoletana che si sentiva abbandonata da lui61. Infatti
dice al riguardo Berardino Rota, nel dialogo di Scipione Ammirato Il
Rota overo delle imprese, che fu un errore perpetrato da Giovio nel suo
dialogo sulla stessa materia. E lo spiega con un argomento inoppugnabile,
ossia che l’aria, invece di spegnere, ravviva la fiamma, ragion
per cui non rappresenta nessun ostacolo per mantenere accesa la passione
amorosa62.
(De le cose volgari et latine, cit., c. D1r) e anche Filonico Alicarnasseo, che, nella
Vita (cit., c. 113) del marchese – vale a dire molto tempo dopo, quando era già morto
– lo descrive ancora utilizzando la stessa immagine come termine di paragone:
«[…] figge i lumi a mirarlo, la mente a considerarlo, il giudicio a conoscerlo e l’intelletto
ad investigar la sua natura. La qual risplendendo più del carbonchio, sendo
più stabile del diamante, più casta del smeraldo, più sobrina dell’amatisto, più
salutifera del zaffiro, più vaga bella perla, e più nobile e più perfetta dell’oro, fa,
come il sole per il suo lume, l’operazione virtuosa visibile e manifesta, e la speculativa
e sublime conosciuta ed aperta, scaldando gli animi con raggi ardenti negli onorati
e gloriosi affari, come quel gran pianeta la terra arida e tenebrosa, perchè produca
per mezzo del calor suo erbe salutifere e care, vaghi e giocosi fiori, e frutti di
giocondo e saporito gusto». Sul fronte spagnolo, Gutierre de Cetina e Hernando
de Acuña, che facevano parte della corte di d’Avalos a Milano, lo descrivono in
questi termini quando, il primo, fa riferimento alla «luz» della «gloria vuestra» che
«tanto resplandece» e che «mientra de otros errores escurece / la fama, más que el
sol clara se muestra» (Sonetos y madrigales completos, cit., son. 223, p. 304), e, nel caso
del secondo, nel sonetto «Aquella luz que a Italia esclarecía», e che «con morir la
ha escurecido» (Varias poesías, cit., son. XXV, p. 243).
61 «The weak metaphor in line 4, “vuestra llama”, indicating the patron’s soul,
is so contrived that it seems to be a veiled reference to the marquis’s coat-of-arms
or a device. The Marqués del Vasto did have such a device. Paolo Giovio in his
treatise on devices describes several designed for the Marqués del Vasto, one of
which represented the eternal flame of the temple of Juno as a symbol of the marquis’s
constancy in love. This would be the device to which Garcilaso refers with
the phrase “vuestra llama”» (Heiple, Garcilaso de la Vega and the Italian Renaissance,
cit., p. 268).
62 «”CAM[BI]. Ma di che mi era io dimenticato? questo tempio non dice il Gio-
[ 22 ]
garcilaso de la vega lettore di vittoria colonna 35
Al fatto che Garcilaso pensasse all’immagine del sole, oltre che
all’altezza della fiamma, contribuirebbe anche il riferimento ad altre
metafore afferenti al campo semantico della luce come, per esempio, il
«claro resplandor». Queste metafore, secondo il doppio carattere lirico
e allo stesso tempo celebrativo dei Sonetti in morte, riflettono in Vittoria
Colonna gli effetti della passione amorosa, da un lato, mentre che,
da l’altro, sono le manifestazioni luminose nel mondo delle virtù
esemplari del marchese di Pescara. Questo ci porta a parlare del significato
della metafora della fiamma nel sonetto di Garcilaso, che tradizionalmente
si associa all’anima del marchese63. Senza tralasciare la
possibilità che possa essere così, dato che è il significato che acquista
la metafora del sole nella produzione lirica di Vittoria Colonna, rappresentato
dall’unione neoplatonica delle due anime; d’altra parte il
carattere laudativo della raccolta, a cui ci riferivamo prima, ci porta a
pensare che potrebbe trattarsi anche di un’immagine della fama di
Alfonso d’Avalos64. Nel caso del marchese di Pescara, le metafore luminose
sono anche un modo di esprimere allegoricamente la gloria
raggiunta in cielo e la sua manifestazione nel mondo secondo il valore
esemplare che aveva all’epoca la fama, a cui andava unita l’idea del
nome. Questo poté essere anche il significato della metafora nella poesia
di Garcilaso, in cui il «claro resplandor» della fiamma dovrebbe
riferirsi esattamente al valore esemplare delle virtù del marchese, rafforzato
a sua volta dal «nombre alto y profundo».
vio essere stata impresa del S. Marchese del Vasto con quelle parole? Iunoni Laciniae
dicatum. RO[TA]. Perdonimi il Giouio; egli scambiò talmente i termini in raccontar
questa cosa; che se egli fè cosí nell’istorie; sia detto con honor suo, le fauole
d’Isopo, & le trasformationi d’Ouidio non l’andranno molti inanzi. In prima la
coltre di mio fratello à san Domenico, che morì nel xxviii, ne fa fede, che con l’arme
della casa è ancor posta questa impresa. Appresso che cosa dice egli di fuoco, se gli
scrittori fauellano di cenere? & poi quando fuoco fosse, vediamo, che ’l vento l’accende
piu tosto, che lo spegne. Simile error prese delle corna, & de i versi posti nel
palazzo del Prencipe di Salerno; percioche iui non furono mai i versi, che egli dice.
Et le corna; come egli potea molto ben sapere; furono à molto diuerso fine, che altri
per aventura non crede, prese per cimiero dalla casa Sanseuerina; essendo più tosto
segno di dignità, di potenza, di fortezza, d’autorità, & d’imperio, che di vergogna,
o d’infamia. Onde infin nella sagra scrittura si legge di Mose, esser comparito
inanzi al popolo Ebreo con le corna» (Scipione Ammirato, Il Rota overo dell’imprese,
Napoli, Gio. Maria Scotto, 1562, p. 39).
63 Cfr. B. Morros (ed.), in G. de la Vega, Obra poética y textos en prosa, cit., p.
39, nota al v. 4.
64 Per altre possibili interpretazioni della metafora, rimando al già citato studio
di A. Gargano La «doppia gloria» di Alfonso d’Avalos…, cit., pp. 354-355.
[ 23 ]
36 gáldrick de la torre ávalos
Per quanto riguarda la pluma, come indicato, essa rappresenta una
forma ambigua atta ad esprimere allegoricamente sia il proprio atto
del comporre che l’impresa intellettuale che presumeva arrivare fino
all’idea del marchese. Va detto che forse in riferimento a questo aspetto
poté essere un’altra volta decisiva la presenza di Vittoria Colonna.
Come già segnalato a suo tempo da Tobia Toscano65, il tema del volo
di Icaro, divenuto di moda con Sannazaro tra i poeti del petrarchismo
meridionale come emblema dell’audacia amorosa66, fu utilizzato da
Vittoria Colonna in alcune delle sue rime senza i suoi evidenti richiami
mitologici (II, XV, XXXVI, XLV) – ad eccezione del sonetto XXVIII –,
semplicemente con la menzione delle ali (XXVII, LX) e a volte della
piuma (XXVII)67. In queste poesie l’immagine serve per esprimere, in
senso neoplatonico68, lo sforzo intellettuale di giungere all’immagine
65 «Il tema del volo temerario di Icaro, la cui folle impresa ha comportato tuttavia
il premio dell’eternità assicurato dal mare che ne tramanda il nome, costituisce
uno dei nuclei forti del petrarchismo napoletano, rampollato dal sonetto
LXXIX di Sannazaro (Icaro cadde qui: queste onde il sano), e prima di passare a Tansillo
declinato in contesto privo di immediati richiami mitologici da Vittoria Colonna
nel sonetto Da sì degno excellente alto pensero (A1: 87), che, pur cosciente dell’impossibilità
di attingere le impervie altitudini della lode adeguata alla memoria del
defunto Ferrante Francesco d’Avalos si dichiara tuttavia pronta ad affrontare il
naufragio come arra di immortalità» (Tobia R. Toscano, I petrarchisti napoletani e il
Siglo de Oro, in Il Petrarchismo. Un modello di poesia per l’Europa. Atti del Convegno
internazionale di studi (Bologna, 6-8 ottobre 2004), a cura di Loredana Chines,
Roma, Bulzoni, «Europa delle Corti», 128, 2007, I, p. 218).
66 Cfr. per esempio il dittico di Luigi Tansillo Amor m’impenna l’ale, e tanto in
alto e Poi che spiegate ho l’ale al bel desio, e anche i madrigali dedicati alla Farfalla, i
quali si ispirano alla stessa idea dell’audacia amorosa che implica volare verso la
luce. Riguardo alla influenza di Vittoria Colonna e la consonanza tematica che si
registra nella figura di Icaro, si rimanda al già citato studio di T. R. Toscano Due
allievi di Vittoria Colonna: Luigi Tansillo e Alfonso d’Avalos. Il mito viene trattato anche
nella Gelosia del sole di Girolamo Britonio (cfr. 363, vv. 21-30) e in un sonetto
di Honorato Fascitelli (Icaro io son, che con cerate piume / m’innalzo al Sol del vostro
immenso onore, pubblicato in Rime et versi in lode della Ill.ma et Ecc.ma S.ra D.na Giovanna
Castriota, Vici Aequensis, Iosephum Cacchium, 1585, p. 99), entrambi citati
da Ezio Raimondi in Il petrarchismo nell’Italia meridionale, in Atti del Convegno Internazionale
sul tema: “Premarinismo e pregongorismo” (Roma, 10-12 aprile 1971), Roma,
Accademia Nazionale dei Lincei, 1973, p. 109, nota 26.
67 U lteriori esempi in Bullock (ed.): A1:80, A2:15, A2:44 e A2:14.
68 Cfr. Leo Spitzer, The Poetic Treatment of a Platonic-Christian Theme [Du Bellay’s
sonnet of the Idea], in Id., Romanische Literaturstudien 1936-1956, Tübingen, Max
Niemeyer Verlag, 1959, pp. 130-159. Qui Spitzer stabilisce un legame tra il senso
intellettuale che acquista la metafora del volo nel mito di Icaro e la sua possibile
origine nel Fedro di Platone: «In that dialogue we find indeed the simile of the
[ 24 ]
garcilaso de la vega lettore di vittoria colonna 37
– idea – dell’essere amato, – in questo caso il sole – a cui Vittoria Colonna
può aspirare, nel migliore dei casi, appena per pochi secondi
(XLV)69. Non va scartata nemmeno la possibilità che Garcilaso, che
aveva già imitato Sannazaro trattando il tema nel sonetto XII, interpretasse
questa sfumatura intellettuale che acquista la piuma, presente
anche in Vittoria Colonna, che la sviluppa in varie poesie, per rappresentare,
in senso metapoetico, il suo tentativo di raggiungere l’idea
del marchese con le ali del pensiero e che aggiungesse a questo il rifewings
applied to the soul. The soul (of the gods and of man) is compared there to
a chariot, the charioteer and the two horses of which are winged» (p. 144). Di fatto,
per Spitzer: «Plato’s myth of the soul soaring toward the Idea is obviuosly conceived
as a foil to the traditional myth of Icarus embodying the hybris of man who
attempts to transcend his own humanity and must be dashed headlong into the
ocean» (nota 1, p. 144). È nel Rinascimento che si sarebbe recuperata questa interpretazione
platonica del mito: «The association of the Platonic myth with the Icarus
motif was re-established in the Renaissance period, the rapprochement being
made, for example, by Sannazaro, whose sonnet on Icarus’ death (64) follows immediately
one (63) in which the loving soul, inspired by “l’aria del bel desío” of the
belved, “convien che al ciel si leve ed erga”. And it was only natural that a Platonist
poet like Tansillo should infer that it is love that lifts the soul of an Icarus to
heavenly heights, only to let this victim of love find a tragic but a glorious death»
(ibidem).
69 Come già rilevava Spitzer (cfr. nota precedente), esiste un antecedente
dell’interpretazione platonica del mito nel sonetto di Sannazaro Mentre a mirar vostr’occhi
intento io sono (SeC, LXXVIII): «onde la mente innamorata e vaga, / seguendo
in sogno l’aria del bel viso, / convien che infin al ciel si leve et erga» (vv. 9-11);
sonetto che curiosamente precede il più famoso Icaro cadde qui: queste onde il sanno
(LXXIX), dove si fa esplicitamente riferimento al mito, sebbene non in un senso intellettuale.
Se è pur vero che la poesia di Sannazaro potette offrire a Vittoria Colonna
un esempio precoce e vicino di tale interpretazione, dall’altro lato, l’idea di elevarsi
mentalmente verso il cielo ed in particolare fino ad arrivare al sole dell’amato,
senza rinunciare per questo all’intelligenza è presente, in senso religioso, anche in
vari punti della Commedia di Dante (ringrazio per l’osservazione il professor Marco
Federici); è così nei vv. 73-81 del primo canto del Paradisso, in cui il sole è Dio, riflesso
dell’amore universale: «S’i era sol di me quel che creasti, / novellamente, amor
che ’l ciel governi / tu ’l sai, che col tuo lume mi levasti. / Quando la rota che tu
sempiterni / desiderato, a sé mi fece atteso / con l’armonia che temperi e discerni
/ parvemi tanto allor del cielo acceso / de la fiamma del sol, che pioggia o fiume /
lago non fece mai tanto disteso». Allo stesso modo, Beatrice «E quella pïa che guidò
le penne / de le mie ali a così alto volo» (Pd., XXV, vv. 29-50). Sulla tematica del
volo in Dante cfr. anche l’articolo di Antonietta Bufano nella Enciclopedia dantesca
(1970), s. v. «volo», disponibile in rete sulla pagina Treccani: http://www.treccani.
it/enciclopedia/volo_%28Enciclopedia-Dantesca%29/; e anche il già citato studio
di Spitzer che associa l’idea delle ali dell’anima alla possibile fonte in Boezio (pp.
146-147).
[ 25 ]
38 gáldrick de la torre ávalos
rimento alla composizione poetica, che avrebbe costituito un ulteriore
esempio dell’innovazione garcilasiana70.
«y, en fin, de vos solo formó natura / una estraña y no vista al mundo idea /
y hizo igual al pensamiento el arte»
Infine, si possono riportare un altro paio di esempi in cui la produzione
di Vittoria Colonna, e degli altri poeti del petrarchismo meridionale,
potette esercitare un certo influsso sulla caratterizzazione del
marchese nei versi che concludono il sonetto di Garcilaso. Senza entrare
nell’analisi del suo contenuto, a cui ho già fatto riferimento nel
commento generale del sonetto, mi limito a far notare come possibili
fonti i versi «quanto volse Natura [in] l’opra ottenne» (XXV)71, che di
nuovo rimandano, nella raccolta della Colonna, alla perfezione del
marchese di Pescara, e anche i versi di Bernardo Tasso: «Che natura
cortese / A farla sol tra noi perfetta intese» (Amori II, XCV), in cui, in
questo caso, la perfezione di Alfonso d’Avalos appare caratterizzata
anche da una certa idealizzazione della natura che, come nella poesia
del toledano, contribuirebbe a rendere unica, perfetta, l’idea del marchese,
come risulta anche perfetto il sonetto di Garcilaso.
Verso una conclusione
L’analisi stilistica, e delle fonti, così come dichiarato all’inizio, non
ci permette di definire chiaramente il destinatario del sonetto, aspetto
per il quale sarebbero necessarie altre prove di carattere storico; ad
ogni modo, ci colloca sul sentiero delle composizioni che videro la
luce nell’ambito del petrarchismo meridionale, all’interno dell’ambiente
della famiglia Avalos-Colonna, del cenacolo di Ischia e di quei
poeti che, alla fine degli anni Venti e durante tutti gli anni Trenta del
Cinquecento, celebrarono la gloria del marchese. All’interno della lo-
70 Cfr. A. Gargano, Reescrituras garcilasianas, cit., in cui si spiega come Garcilaso
non solo è interessato ad imitare la tradizione, in maniera composita, ricorrendo
alla fonte dei suoi modelli, ma pratica anche un esercizio di superamento.
71 Forse sulla poetessa una certa influenza la potette esercitare il modello di
Petrarca, nei versi già citati: «In qual parte del ciel, in quale ydea / era l’exempio,
onde Natura tolse, / quel bel viso leggiadro, in ch’ella volse / mostrar qua giù
quanto lassù potea?» (Rvf, 159).
[ 26 ]
garcilaso de la vega lettore di vittoria colonna 39
gica sociale cortigiana, che caratterizza il sistema di corti del regno,
molti di essi erano personaggi vicini a Garcilaso: Luigi Tansillo, Bernardo
Tasso… e altri erano scrittori con i quali poteva essere entrato in
contatto durante il suo soggiorno napoletano; come per esempio Berardino
Rota e Vittoria Colonna, tra gli altri72. I loro componimenti
presentano elementi comuni con quelli della poesia di Garcilaso: il
platonismo, l’idea del soggetto letterario, l’impossibilità della lode delle
sue virtù, la sua origine celeste, la caratterizzazione luminosa, il
mito di Icaro… tutti aspetti presenti anche nella composizione del sonetto
XXI. D’altra parte, come abbiamo già messo in evidenza, il grado
di complessità formale e concettuale che presenta la poesia, simile a
quello di altri componimenti di quel periodo, indurrebbe a pensare
che si tratti di un sonetto scritto durante i suoi ultimi anni. Se fosse
effettivamente accertato che il destinatario della poesia sia Alfonso
d’Avalos, ci sarebbe soltanto da aggiungere che, in tal caso, l’ipotesi
più probabile sarebbe che il sonetto sia stato scritto dalla fine del 1534
in poi, ovvero dal momento in cui pare che la frequentazione tra Garcilaso
e il marchese si fosse fatta più stretta73.
Gáldrick de la Torre Ávalos
Universitat de Girona
72 Cfr. G. de la Torre Ávalos, Garcilaso y Alfonso d’Avalos, marqués del Vasto, cit.
73 Ibidem.
[ 27 ]

Alv iera Bussotti
Alfieri e i soggetti storici moderni
nelle pagine del «Conciliatore»
L’articolo affronta il dibattito sorto nella rivista milanese «il Conciliatore» sui
soggetti storici moderni e sul loro impiego nella tragedia di Alfieri. Prendendo
in esame i contributi e le recensioni di silvio Pellico, ermes visconti, Giuseppe
Nicolini e ludovico Di Breme, il saggio intende mostrare come i giudizi espressi
sulla produzione dell’Astigiano siano da ricondurre alla promozione da parte
del ‘foglio azzurro’ di una tragedia ‘nazionale’ italiana fondata sul recupero
della storia medievale e moderna.

This articles looks at the debate that developed in the Milanese journal «Il Conciliatore
» concerning modern historical subjects and their utilization in Alfieri’s
tragedies. By examining contributions and reviews by Silvio Pellico, Ermes Visconti,
Giuseppe Nicolini and Ludovico Di Breme, it sets out to show how their
opinions on Alfieri’s writing go back to the journal’s promotion of a ‘national’
Italian tragedy founded on medieval and modern history.
Gli interventi di M.me De Staël, A. W. Schlegel e S. de Sismondi sulla
decadenza della letteratura italiana, posta a confronto con le letterature
europee, stimolano nei letterati di primo Ottocento una rinnovata attenzione
verso il rapporto fra la tragedia e la storia, che vanta, come è
stato dimostrato, una lunga e articolata tradizione, consolidatasi tra il
Cinquecento e il Settecento1. La questione non manca di animare le pa-
Autore: Università Sapienza di Roma; dottore di ricerca in Italianistica; bussottialviera@
gmail.com
1 Sul rapporto tra storia, storiografia e tragedia cfr. Beatrice Alfonzetti,
Dramma e storia da Trissino a Pellico, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2013, in
particolare vd. Introduzione, ivi, pp. XI-XXIX. Per i contributi di De Staël, Schlegel e
Sismondi cfr. Germaine De Staël, De la littérature considerée dans ses rapports avec
les institutions sociales, Paris, chez Maradan, 1800 [i. e. 1799-1800], ora Ead., Della
letteratura, a cura di Anna Bellio, Firenze, La Nuova Italia, 2000; August Wilhelm
Schlegel, Über dramatische Kunst und Literatur. Vorlesungen von A. W. Schlegel, Heidelberg,
Mohr & Zimmer, 1809-1811; per la traduzione italiana cfr. Corso di lettera42
alviera bussotti
gine di una delle riviste più significative del panorama culturale di questi
anni, «Il Conciliatore», e rivela, al di là del rigido schematismo classico-
antico vs. romantico-moderno, implicazioni profonde legate alla
metamorfosi della situazione politica nell’arco di circa un ventennio2.
Letterati come Pellico, Berchet, Di Breme, Borsieri, Nicolini, troppo
giovani o non ancora nati negli anni della Rivoluzione francese, si ritrovano,
tuttavia, a fare i conti con l’eredità di quest’ultima e, ancora
di più, con l’esperienza napoleonica e della Restaurazione. La riflessione
sugli argomenti storici e il loro impiego nella drammaturgia dei
letterati-patrioti del primo Ottocento scandiscono questo itinerario,
contribuendo a definire proposte e istanze letterarie in cui è evidente
l’investimento identitario; un percorso complesso, questo, in cui le diverse
spinte indipendentiste e patriottiche di fine secolo si integrano,
o sono costrette a integrarsi, prima nel regime napoleonico per fare i
conti, dopo, con il ritorno degli Austriaci3.
Già nel Settecento, l’universo intero, per parafrasare Truchet, si era
profilato sulla scena4: a partire da Gravina e Conti fino ad Alfieri e al
teatro del triennio giacobino, la storia, con la sua portata attualizzante,
aveva offerto un campo vasto per la sperimentazione tragica. Diverse
proposte convivono sulla scena: dai ‘drammi repubblicani’, con l’analogia
tra le virtù degli eroi romani – Bruto, Virginia – e quelle dei loro
tura drammatica del Signor A. W. Schlegel. Traduzione italiana con note di Giovanni
Gherardini, Milano, dalla stamperia P. E. Giusti, 1817 (ora vd. ed. a cura di Mario
Puppo, Genova, Il Melangolo, 1977); Jean Charles Léonard Simonde de Sismondi,
De la littérature du Midi de l’Europe, Paris, Treuttel et Würtz, 1813.
2 Cfr. Umberto Carpi, Appunti su ideologia postrivoluzionaria e riflessione storiografica
dopo il triennio giacobino, «Rivista di letteratura italiana», IX (1991), nn. 1-2,
pp. 177-269; Carlo Capra, La condizione degli intellettuali negli anni della Repubblica
italiana e del Regno Italico, 1802-1814, «Quaderni storici», VIII (1973), n. 22, pp. 471-
490. Per i riferimenti al «Conciliatore» si cita da Il Conciliatore. Foglio scientifico letterario,
a cura di Vittore Branca, voll. 3, Firenze, Le Monnier, 1948-1954. Sulla
rivista milanese cfr. almeno Idee e figure del “Conciliatore”, Atti del Convegno di
Gargano del Garda, 25-27 settembre 2003, a cura di Gennaro Barbarisi e Alberto
Cadioli, Milano, Cisalpino, 2004.
3 Cfr. Umberto Carpi, Premessa, in Id., Patrioti e napoleonici. Alle origini dell’identità
nazionale, Pisa, Edizioni della Normale, 2013, in partic. pp. XVI-XVII; Anna
Maria Rao, La costruzione della nazione dal triennio repubblicano all’Unità, in L’Italia
verso l’Unità. Letterati, eroi, patrioti, a cura di Beatrice Alfonzetti, Francesca
Cantù, Marina Formica, Silvia Tatti, Roma, Ed. di Storia e Letteratura, 2011,
pp. 3-18.
4 «Au XVIIIe […] c’est l’univers entier qui défile sur la scène»: Jacques Truchet,
Introduction au Théâtre du XVIIIe siècle, textes choisis, établis, présentés et
annotés par Jacques Truchet, voll. 2, Paris, Gallimard, 1972-1974, I, p. XXIX.
[ 2 ]
alfieri e i soggetti storici moderni nelle pagine del «conciliatore» 43
emuli contemporanei, secondo un’associazione tra tragedia classicista
e rivoluzione che avrebbe suscitato l’aperta critica di Alessandro Manzoni5;
ai soggetti preromani, italici e greci, nonché moderni, locali, della
tragedia ‘nazionale’. Attraverso la ripresa dei domestica facta, letterati
patrioti come, ad esempio, Francesco Saverio Salfi, intendevano favorire
da un lato il coinvolgimento del pubblico, la sua istruzione,
all’insegna dell’utile e del piacere; dall’altro intessere un dialogo con
interlocutori scelti, a cui spesso questi testi erano dedicati6.
La questione dei soggetti perdura nel diverso contesto della Restaurazione,
complici le recenti osservazioni di Schlegel sul primato di
una letteratura del Nord, con a capo Shakespeare, da opporre alla
tragédie classique: la tragedia nostrana, Alfieri compreso, era reputata
dal critico tedesco poco originale, suddita dei modelli stranieri, in particolare
di quello francese7. Pesava su questo giudizio di Schlegel una
5 Cfr. B. Alfonzetti, Dramma e storia, cit., p. XIII. Sull’equivalenza tra «pratica
tragica e pratica politica» cfr. Ead., I trenta tiranni di Salfi e Fabbri declamati nei circoli
della Cisalpina, in Ead., Congiure. Dal poeta della botte all’eloquente giacobino (1701-
1801), Roma, Bulzoni, 2001, pp. 233-249. Per il repertorio alfieriano vd. Federico
Doglio, Rappresentazioni alfieriane nella Milano del 1796, in Studi sulla cultura lombarda
in memoria di Mario Apollonio, voll. 2, Milano, Vita e Pensiero, 1972, I, pp. 204-216. Cfr.
inoltre Alberto Granese, Divina libertà. La rivoluzione della tragedia, la tragedia della
rivoluzione: Pagano, Galdi, Salfi, Salerno, Edisud, 1999; Luciano Bottoni, Il teatro, il
pantomimo e la rivoluzione, Firenze, Olschki, 1990. Si rimanda a titolo esemplificativo
all’intervento di Francesco Saverio Salfi, Teatro nazionale, «Termometro politico
della Lombardia», n. 10, VIII termidoro IV repub. (martedì 26 luglio 1796), ora in
Termometro politico della Lombardia, voll. 4, a cura di Vittorio Criscuolo, Roma, Istituto
storico italiano per l’età moderna e contemporanea, 1989-1996, I, pp. 161-165.
6 Cfr. Francesco Saverio Salfi, Virginia bresciana, Brescia, Dalla Stamperia
nazionale, VI. R. F. [1797], p. XV. Si pensi anche al precedente del Corradino di Francesco
Mario Pagano (1789), dove l’utile e il piacere ricavati da una storia ‘nazionale’
sono finalizzati all’istruzione del popolo. Anche Salfi è autore di un Corradino,
uscito anonimo, sotto la falsa indicazione di Londra, nel 1790; è, questo, un soggetto
sul quale ritornerà poi negli anni Trenta dell’Ottocento. Per Pagano cfr. Francesco
Mario Pagano, Corradino re di Svevia. Tragedia, Napoli, presso Filippo Raimondi,
1789 (ma ora vd. l’ed. a cura di Grazia Distaso, Bari, Palomar, 1994). Cfr.
Beatrice Alfonzetti, La tragedia di argomento storico, in Ead., Teatro e tremuoto. Gli
anni napoletano di Francesco Saverio Salfi (1787-1794), nuova edizione rivista e ampliata,
Franco Angeli, 20132, pp. 36-70; Ead., La tragedia nazionale, in Ead., Dramma
e storia, cit., pp. 131-151.
7 Cfr. Giuseppe Antonio Camerino,“Il Conciliatore” e la cultura tedesca, in Idee
e figure del “Conciliatore”, cit., pp. 441-465; Id., L’Alfieri di Schlegel. Una polemica pregiudiziale,
in Id., Dall’età dell’Arcadia al «Conciliatore»: aspetti teorici, elaborazioni testuali,
percorsi europei, Napoli, Liguori editore, 2006, pp. 133-148. Vd. inoltre Daniela
Goldin Folena, Alla ricerca di un’identità nazionale: traduzioni e teatro italiano tra
[ 3 ]
44 alviera bussotti
rivendicazione di autonomia e indipendenza politica rispetto alla
Francia, secondo un’esigenza che si rintraccia non solo tra le file dei
romantici, ma anche nell’ambiente classicista tedesco, espressa soprattutto
nella predilezione per il modello greco, ideale di perfezione,
anteposto per originalità a quello latino, a cui la tragedia francese e
italiana erano a loro volta associate8. Si creava così quella distinzione
tra classico, esclusivamente proprio dell’antichità greca, e classicismo,
ovvero fondato sull’imitazione del classico, ripresa poi con variazioni
all’interno della rivista milanese9.
A partire da queste premesse si pone dunque per i redattori del
«Conciliatore» un interrogativo generale che ha implicazioni non puramente
estetiche, ma anche identitarie: quali siano i soggetti da impiegare
nella tragedia, se gli antichi o i moderni. Su questi due poli e
sulla loro possibile conciliazione si muove la ricerca di un’identità letteraria
nazionale, per la quale Alfieri è una presenza imprescindibile10.
La partita si gioca solo a un livello esteriore sull’aderenza o meno al
classicismo o al romanticismo11, soprattutto quando si tratta di giudicare
l’opera dell’Astigiano. L’obiettivo comune a gran parte dei redattori
del ‘foglio azzurro’ è infatti quello di individuare un modello di
tragedia nazionale e originale collocabile accanto agli altri modelli
europei, in cui il pubblico, appunto, si è già riconosciuto e possa anco-
Schlegel e Rusconi, in Italia e Italie. Immagini tra Rivoluzione e Restaurazione, Atti del
Convegno di Studi, Roma, 7-9 novembre 1996, a cura di Silvia Tatti, Roma, Bulzoni,
1999, pp. 193-235.
8 Cfr. Mario Puppo, Poetica e critica nel romanticismo italiano, Roma, Edizioni
Studium, 1988, in partic. pp. 10-11.
9 Cfr. Silvia Tatti, Classicismo/Neoclassicismo, in Classicismo e culture di Antico
regime, a cura di Amedeo Quondam, Roma, Bulzoni, 2010, pp. 181-195; Ead., Classico:
storia di una parola, Roma, Carocci editore, 2015.
10 I l dibattito su Alfieri inaugurava l’Ottocento con il celebre giudizio di Bettinelli,
che riteneva l’Astigiano «uomo politico che vuol fare il poeta»: Saverio Bettinelli,
Lettera diretta al signor Canonico De Giovanni sopra le tragedie del Co. Alfieri, in
Id., Opere, Venezia, Cesari, 1801, XX, p. 236. Cfr. Arnaldo Di Benedetto, Alfieri e le
passioni, «Giornale storico della letteratura italiana», CLVIII (1981), n. 103, pp. 321-
343. Per Alfieri nel «Conciliatore» cfr. Id., Apprezzare Alfieri rendendo giustizia ai suoi
rivali: un tema cruciale del «Conciliatore», in Id., Sekundärliteratur. Critici, letterati, eruditi,
Firenze, Società editrice fiorentina, 2005, pp. 3-24. Cfr. inoltre Marco Sterpos,
Ottocento alfieriano, Modena, Mucchi, 2009. Per il recupero in chiave risorgimentale
di Alfieri, accanto a Parini, cfr. Silvia Tatti, Parini e Alfieri: due icone risorgimentali,
in Ead., Il Risorgimento dei letterati, Roma, Ed. di Storia e Letteratura, 2011, pp. 42-58.
11 I l quesito è per Pellico puramente retorico. Questa prospettiva è assunta anche
da Gherardini nelle sue note alla traduzione del Corso di Schlegel (ed. 1817):
cfr. A. W. Schlegel, Corso di letteratura drammatica, cit., II, p. 273 , nota 14.
[ 4 ]
alfieri e i soggetti storici moderni nelle pagine del «conciliatore» 45
ra riconoscersi12. La produzione alfieriana, del resto, ben si presta a un
esame fondato sui soggetti da parte del «Conciliatore», toccando effettivamente
tutta la tavolozza del genere tragico: il mito, la storia antica,
greca e romana, la storia moderna declinata secondo gli argomenti
anti-dispotici o locali.
Si entra nel vivo della trattazione con gli articoli di Pellico dedicati
alla dissertazione sulla Vera idea della tragedia di Vittorio Alfieri di Gaetano
Marré, il quale, in polemica con un precedente intervento del
classicista Giovanni Carmignani, scendeva ora in difesa dell’Astigiano13.
L’analisi di Carmignani, passato da attore nelle rappresentazioni
delle tragedie alfieriane a loro principale detrattore, in effetti si fondava
sul riconoscimento di un elevato tasso di politicità nell’opera
dell’Astigiano, ritenuta pericolosa perché poteva favorire facili letture
attualizzanti14. E di fatto i soggetti libertari e antidispotici trattati da
Alfieri, assimilati ormai alla retorica giacobina, nonostante il misogallismo
professato dall’Astigiano, potevano offrire il fianco a rivendicazioni
di autonomia nei confronti della dominazione francese. Il conte-
12 Su questo aspetto mi si consenta di rinviare al mio contributo L’Alfieri nazionale
del «Conciliatore»: né classico né romantico, in Alfieri europeo, Atti del Convegno
di Asti-Alba, 18-20 maggio 2017, in corso di pubblicazione. Cfr. inoltre il recente
saggio di William Spaggiari, Alfieri e i polemisti romantici, «Rassegna della letteratura
italiana», a. 122 (2018), n. 2, in corso di pubblicazione (ringrazio l’autore per
avermi concesso la lettura del suo saggio ancora inedito). Più in generale vd. Enrico
Ghidetti, Alfieri e la coscienza nazionale italiana, «Révue des études italiennes
», t. 50 (2004), nn. 1-2, pp. 5-22.
13 Cfr. Silvio Pellico, Vera idea della tragedia di Vittorio Alfieri o sia la Dissertazione
critica […] dell’Avvocato Giovanni Carmignani, in Il Conciliatore, cit., nn. 2 e 8, I, pp.
34-38 e pp. 128-135.
14 L’intervento fu scritto da Carmignani in occasione di un concorso promosso
dall’Accademia napoleonica di Lucca, che invitava a esaminare lo stile, lo spirito, e le
novità utili o pericolose introdotte da Alfieri nella Tragedia e nell’arte drammatica (Lucca,
Bertini, 1806). A questo seguì poi un altro concorso nel 1817, di cui fu promotore il
marchese Arborio Gattinara di Breme e a cui prese parte Gaetano Marré, rispondendo
alle critiche di Carmignani. Quest’ultimo era stato interprete del Saul a Pisa
(1797) e aveva partecipato alle letture private della tragedia nel 1795 e nel 1804. Per
la ricostruzione della polemica tra Carmignani e Marré e per la bibliografia di riferimento
cfr. Laura Melosi, Agli inizi della critica alfieriana: la polemica Carmignani –
De Coureil, in Alfieri in Toscana, Atti del Convegno Internazionale di Studi di Firenze,
19-21 ottobre 2000, voll. 2, a cura di Gino Tellini e Roberta Turchi, Firenze,
Olschki, 2002, I, pp. 167-199. Per le polemiche innescate fin da subito da Carmignani
cfr. Angelo Colombo, Critici ‘lillipuziani’ e poeti ‘giganti’. Vincenzo Monti e Giovanni
Salvatore de Coureil, in Id., Società letteraria e cultura politica nella formazione di Vincenzo
Monti. 1779-1807, Roma, Ed. di Storia e Letteratura, 2009, pp. 195-219.
[ 5 ]
46 alviera bussotti
sto del concorso, l’Accademia Napoleone di Lucca, presieduta da Elisa
Baciocchi, sorella di Bonaparte, premeva su questa interpretazione
di Alfieri, la cui opera era avvertita come una minaccia al mantenimento
dell’ordine15. Pienamente in linea con questa prospettiva, Carmignani
raccordava la drammaturgia alfieriana alla recente «cattiva
tentazione» di «attribuire alla tragedia uno scopo politico»; pertanto
suggeriva di confinare la produzione alfieriana alla lettura privata «in
un ristretto cerchio di scelta udienza senza gli aiuti della scena»16. La
recensione del contributo di Marré, che mirava a una rivalutazione di
Alfieri, consente a Pellico di criticare apertamente le posizioni di Carmignani
e di dichiarare l’inutilità della comparazione tra drammaturgie
afferenti a sistemi lontani e diversi, specie nel caso dell’Astigiano.
L’unico criterio valido con cui misurare le tragedie di Alfieri, come del
resto il Saluzzese anticipava anche in una lettera al fratello Luigi, è la
«poca o molta o nessuna impressione che fanno nelle nazioni a cui
furono destinate»17. Per Pellico la letteratura va infatti giudicata in base
al suo valore educativo, poiché i libri non sono soltanto «l’espres-
15 Va segnalato che fin dal 1803 Gaetano Melzi d’Eril aveva escluso dalla liberalizzazione
delle pubblicazioni a stampa le produzioni teatrali in generale e, in
particolare, il repertorio alfieriano; lo stesso accade nel 1810. Significativamente
Foscolo scriveva a Isabella Teotochi Albrizzi (11 maggio 1811) sui suoi timori circa
una censura dell’Ajace e citava, come riprova della sua giustificata preoccupazione,
la proscrizione del Filippo di Alfieri. Cfr. Ugo Foscolo, Epistolario, a cura di
Plinio Carli, Firenze, Le Monnier, 1953, III, pp. 513-514. Altrettanto sintomatica
l’edizione Piatti della Vita del 1806, pubblicata con falso luogo e falsa data di stampa
(Londra, 1804): cfr. Luigi Fassò, Introduzione, in Vittorio Alfieri, Vita scritta da
esso, edizione critica e stesura definitiva a cura di Luigi Fassò, Asti, Casa d’Alfieri,
1951, I, pp. XXVI-XXXIII. Cfr. inoltre Mariagabriella Cambiaghi, Vittorio Alfieri
e la civiltà teatrale milanese tra Sette e Ottocento, in Il teatro a Milano nel Settecento. I
Contesti, a cura di Annamaria Cascetta e Giovanna Zanlonghi, Milano, Vita e
Pensiero, 2008, I, pp. 499-500.
16 Giovanni Carmignani, Prefazione, in Id., Dissertazione accademica sulle tragedie
di Vittorio Alfieri, Pisa, Molini-Landi, 1807, p. XII e nota p; per la citazione cfr. ivi,
p. 170. Interessante notare che Cesarotti dichiarava proprio a Carmignani che Alfieri
aveva reso la «tragedia una scuola perpetua di massime tiranniche e rivoluzionarie
ancora più perniciose alla morale che all’arte drammatica»: cfr. Melchiorre
Cesarotti, lettera a Carmignani (Padova, 25 novembre 1806), in Id., Opere
scelte, a cura di Giuseppe Ortolani, Firenze, Le Monnier, 1946, II, p. 454. Su
questa linea si situa anche il giudizio di Pietro Schedoni, Sopra le tragedie di Vittorio
Alfieri, Mantova, dalla tipografia Virgiliana, 1806, in partic. pp. 51-52.
17 S. Pellico, Vera idea della tragedia di Vittorio Alfieri […], in Il Conciliatore, cit.,
I, n. 2, p. 37. Per la lettera al fratello Luigi (14 marzo 1818) cfr. Id., Lettere milanesi, a
cura di Mario Scotti, «Giornale Storico della Letteratura italiana», suppl. al n. 28
(1963), p. 134.
[ 6 ]
alfieri e i soggetti storici moderni nelle pagine del «conciliatore» 47
sione del secolo che li ha prodotti», ma «agiscono anche sul secolo
seguente». Alfieri, al pari di Schiller, Racine e Rousseau, dimostra che
è possibile modificare i costumi e le immaginazioni dei popoli18. Poco
importa allora se le tragedie alfieriane siano ligie o meno alle regole
classiciste: «Alfieri fu grandissimo scrittore e la sua gloria non si distrugge
paragonando le sue produzioni a quelle di chicchessia». Il
cuore della questione per Pellico è la capacità dell’Astigiano di scuotere
gli animi con le sue tragedie, avendo egli acceso «passioni fortissime
» e toccato gli argomenti più adatti alle «intenzioni del suo secolo»,
ed essendo stato in grado di dare «una tragedia all’Italia»19.
L’interesse della ‘nazione’ è dunque criterio indispensabile nella
selezione dei soggetti. Pellico si chiede se appunto siano più adatti gli
argomenti propri di una nazione o gli argomenti stranieri, quelli mitologici
o storici, quelli più antichi o più recenti20. Il Saluzzese aveva già
riflettuto sull’argomento ancor prima della collaborazione con la rivista:
in una lettera a Stanislao Marchisio del 1813 rimarcava l’importanza
della storia per le tragedie e rintracciava nei Greci, così come in
Shakespeare, la capacità di ritrarre «alle loro nazioni le memorie sacre
degli antenati»; ed era questo secondo Pellico «il vero, vero dell’Alfieri
». La riflessione ritorna, avvalorata dall’attività drammaturgica di
Pellico, quando, alle prese con la stesura della sua tragedia Francesca
da Rimini, egli scriveva al fratello che l’arte drammatica doveva anzitutto
celebrare «gli eroi della patria» ed essere libera di ritrarre la
«Natura»21. La storia, serbatoio della memoria, doveva fornire gli argomenti
da rappresentare. La bussola è allora la recente storiografia,
in primo luogo l’Histoire des républiques italiennes di Sismondi che, gettando
una nuova luce sul progressivo delinearsi della libertà nel contesto
del Medioevo italiano, fornisce un ampio e nuovo bagaglio per
la drammaturgia ottocentesca: Pellico (I Bresciani, Matilde, Eufemio da
Messina), Foscolo (Ricciarda) e Manzoni (Il conte di Carmagnola), oltre
che dalla storiografia italiana, traggono spunti e argomenti dalla celebre
opera del ginevrino22. Grazie al supporto dei lavori storiografici, il
18 Id., lettera al fratello Luigi (24 luglio 1818), ivi, pp. 106-107.
19 Id., Vera idea della tragedia di Vittorio Alfieri, in Il Conciliatore, cit., nn. 2 e 8, I,
pp. 35-37 e p. 133.
20 Ivi, n. 8, pp. 134-135.
21 Cfr. la lettera a Stanislao Marchisio (3 gennaio 1813), in Id., Lettere milanesi
(Appendice I), cit., p. 405. Per la lettera al fratello (27 giugno 1815), vd. ivi, p. 16.
22 Cfr. Jean Charles Léonard Simonde de Sismondi, Histoire des Républiques
italiennes du moyen âge, Zurich, Gessner, 1807-1818 (cfr. ora l’ed. a cura di Pieran-
[ 7 ]
48 alviera bussotti
Medioevo cristiano è visto come epoca luminosa che sancisce il primato
culturale dell’Italia rispetto alle altre nazioni europee e che introduce,
sotto il vessillo dell’unità, una prima idea di Europa, naturalmente
cristiana e scevra da superstizioni. Ciò implica la cesura nei confronti
della civiltà pagana greco-romana, come del resto confermano Berchet
e Borsieri negli articoli sulla Storia della poesia e della eloquenza di Friedrich
Bouterwek e sullo stesso lavoro storiografico di Sismondi23. In
particolare, la Roma conquistatrice degli altri popoli è associata alla
più recente epoca napoleonica e contrapposta alla nuova civilizzazione
medievale cristiana, da cui ha origine la poesia moderna e la «nuova
nazione»24.
Tale predilezione, in opposizione anche alle letture attualizzanti
della romanità legate alla parabola napoleonica (Napoleone è a più
riprese definito un Cesare), guida la trattazione degli argomenti storici
negli articoli di Pellico dedicati alla recente edizione del Théatre di
Marie Joseph Chénier, autore divenuto oggetto fin da subito di censure
e divieti di rappresentazione25. Ancora una volta è impossibile pregelo
Schiera, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, e la Presentazione del curatore, ivi,
pp. IX-XCVI).
23 Cfr. Il Conciliatore, cit., n. 9 (1 ottobre 1818), I, pp. 145-154; n. 13 (15 ottobre
1818), ivi, pp. 212-222; n. 14 (18 ottobre 1818), ivi, pp. 223-234. Su queste prospettive
cfr. B. Alfonzetti, La tragedia nazionale, cit., pp. 144-145.
24 Pietro Borsieri, Storia delle repubbliche italiane nel medio evo, in Il Conciliatore,
cit., n. 14, pp. 228-230. Questa associazione è dimostrata anche dal recupero della
storia romana all’interno dei poemi. Si pensi al Camillo o Vejo conquistata di Carlo
Botta, poema filonapoleonico stampato a Parigi nel 1815, ma iniziato a partire dal
1809: cfr. Giulio Firpo, Eroi romani dell’Ottocento in Italia, «Rivista storica italiana»,
CXXIII (2011), n. 1, pp. 111-152.
25 Silvio Pellico, Théatre de Marie Joseph de Chénier, in Il Conciliatore, cit., n. 46
(7 febbraio 1819), II, pp. 167-171; Id., Philippe II. Tragédie de M. J. De Chénier, ivi, n.
62 (4 aprile 1819), pp. 396-402; Id., Henri IV, ivi, n. 64 (11 aprile 1819), pp. 434-439;
Id., Charle IX, ou la Saint-Barthélemi, tragédie de Chénier […], ivi, num. 69 (29 aprile
1819), pp. 505-514 (il sottotitolo rispetta la versione della tragedia posteriore alle
edizioni del 1790 e del 1793). Come Pellico, già Lemercier, scrivendo per la «Révue
encyclopedique» tre articoli sul teatro di Chénier, aveva proposto il parallelo tra il
Philippe II del francese e le rispettive opere con medesimo soggetto di Alfieri e
Schiller: cfr. «Révue encyclopedique», I, 1819, pp. 111-134, 298-307 e 487-502; gli
articoli sono stati ristampati poi in Marie Joseph De Chénier, Oeuvres, Paris,
Guillaume, 1826, t. I, pp. 3-64. Per i rapporti tra le due riviste in merito a questi
articoli cfr. Daniela Delcorno Branca, Pellico tra Alfieri e Chénier, in Tra storia e
simbolo. Studi dedicati a Ezio Raimondi, Firenze, Olschki, 1994, pp. 207-224. Per la
fortuna del teatro di Chénier cfr. Clementina De Courten, La fortuna del teatro di
G. M. Chénier in Italia, «Giornale storico della letteratura italiana», LXXXII (1923),
pp. 87-112; Pietro Themelly, Il teatro patriottico tra rivoluzione e impero, Roma, Bul-
[ 8 ]
alfieri e i soggetti storici moderni nelle pagine del «conciliatore» 49
scindere da Alfieri. Nel primo articolo, in cui si dichiara che «in questa
età» la tragedia merita «il titolo di poema eminentemente nazionale»26,
Alfieri, Schiller e Chénier sono accomunati da un unico principio,
l’«amore del vero e del giusto e quindi della patria». La tragedia nazionale
è definita alla luce di specifici argomenti storici, dai quali l’universo
greco-romano è escluso. Sono scelte infatti come più rappresentative
di questo genere tre opere di Chénier: il Carlo IX, Fénélon e
Giovanni Calas. Basate su fatti moderni e nazionali, legati alla polemica
antimonarchica e anticuriale, nonché alla questione dell’intolleranza
religiosa, le tre tragedie sono accomunate da un’aspirazione alla conciliazione
fondata sul recupero dei valori morali del cristianesimo in
armonia con le idee illuministiche della tolleranza. La trattazione di
questi temi, già oggetto dell’attenzione del teatro patriottico (in primo
luogo di Salfi27), consente inoltre all’estensore di identificare in parte
della drammaturgia dell’autore francese, così come in quella di Alfieri
e Schiller, i precedenti illustri per la sua idea di tragedia. Il problema
non è, infatti, definire un autore classico o romantico, ma elaborare
soggetti nazionali che sappiano fornire nuovi eroi esemplati sul paradigma
del «plutarchismo cristiano», a cui lo stesso Alfieri aveva contribuito
nel suo poema Etruria vendicata con la coppia Savonarola-Bruto,
e che ora torna rinnovato sul tavolo dei romantici non più attraverso
la chiave anti-tirannica, ma tramite quella patriottico-nazionale28.
La questione è ripresa nell’articolo dedicato al Philippe II di Chénier,
il cui perno è il confronto con l’omonima tragedia alfieriana e con il
zoni, 1991. Su Chénier cfr. inoltre Michel Delon, L’électricité du théâtre: la théorie de
la tragédie nationale selon Marie-Joseph Chénier, in Convegno di studi sul teatro e la Rivoluzione
francese, Vicenza, 14-16 settembre 1989, a cura di Mario Richter, Vicenza,
Accademia Olimpica, 1991, pp. 163-173.
26 Cfr. S. Pellico, Théatre de Marie Joseph de Chénier, cit., p. 167. Per l’edizione
recensita, cfr. Marie Joseph de Chénier, Théatre […], t. I, Paris, Baudovin fils, 1818.
27 Salfi traduce sia il Charles IX, sia il Fénélon, ambedue rappresentate nel 1797.
Per la ricezione delle tragedie di Chénier durante il triennio giacobino cfr. l’articolo
Teatro apparso nel Termometro politico della Lombardia, cit., n. 65 (5 febbraio 1797),
II, p. 120; cfr. inoltre n. 23 (20 settembre 1797), ivi, pp. 181-183. Vd. Eva Susenna
Pubellier, La traduzione giacobina italiana del teatro della Rivoluzione francese: F. S.
Salfi traduttore di J. M. Chénier, «Franco-Italica», nn. 31-32 (2007), pp. 43-86; P. Themelly,
Il teatro patriottico, in Id., Il teatro patriottico tra rivoluzione e impero, cit., pp.
55-118.
28 Cfr. Beatrice Alfonzetti, Storia e dramma, in La letteratura e la storia, Atti del
IX Congresso Nazionale dell’ADI di Bologna-Rimini, 1-2 settembre 2005, a cura di
Elisabetta Menetti, Carlo Varotti, Prefazione di Gian Mario Anselmi, Bologna,
Gedit edizioni, 2007, pp. 57-75.
[ 9 ]
50 alviera bussotti
Don Carlos di Schiller. È importante notare che la trattazione storiografica
dell’argomento è menzionata nel «Conciliatore» anche da Ludovico
Di Breme nel suo articolo sulla Storia critica della Inquisizione di Spagna
di Llorente29, che dà spazio, come già Pellico, alla celebrazione del
Cristianesimo all’insegna dell’accordo dei suoi principi con la «vera
filosofia». L’opera di Llorente, un ex inquisitore poi vicino alla Carboneria,
cercava di fornire dall’interno, attraverso una disamina delle
fonti inedite, un quadro critico sulla storia e sulle contraddizioni
dell’Inquisizione, ritenuta responsabile della decadenza culturale della
monarchia spagnola. Anche in questo caso l’attenzione puntuale di
Di Breme nei confronti dei martiri più recenti denota un interesse verso
vicende attuali degne di una tragedia30. E appunto, come anticipato,
è sulla storia di Don Carlos, oggetto delle tragedie dei tre autori,
che si sofferma la penna dell’estensore, in disaccordo con la versione
fornita da Llorente. Differentemente dall’autore spagnolo, Di Breme
accoglie la tradizione che risale all’abate di Saint-Réal, a cui già Alfieri
aveva attinto in modo originale: non volendo stigmatizzare il giovane
principe come un «mostruoso cuore», l’estensore ne riconduce la condotta
all’«estremo grado di insania» a cui era giunto, discolpandolo
così da una premeditazione fredda e calcolatrice31. Alfieri, «l’egregio
Vittor nostro», con la sua tragedia antidispotica e fedele ai fatti, è chiamato
da Di Breme in soccorso per dimostrare quanto Don Carlos fosse
in realtà un uomo malato da curare, e non un parricida da uccidere,
come invece tendeva a sottolineare Llorente, in difesa dell’azione di
Filippo. Per via indiretta, attenuando il giudizio sull’infante Carlos, Di
Breme riversa la responsabilità degli eventi sull’azione del padre-ti-
29 Cfr. Il Conciliatore, cit., n. 3 (20 settembre 1818), n. 4 (13 settembre 1818), I, pp.
46-54 e pp. 70-78.
30 Ivi, n. 4, pp. 71-73. È il caso in particolare del marsigliese Michele Maffre:
secondo il resoconto di Llorente, piuttosto che finire i suoi giorni sul patibolo
dell’Inquisizione, rinnegando la sua fede, si suicidò in carcere. Su Llorente cfr.
Gérard Dufour, Dall’inquisizione alla carboneria: l’itinerario di Juan Antonio Llorente,
in Sentieri della libertà e della fratellanza ai tempi di Silvio Pellico, a cura di Aldo Alessandro
Mola, Foggia, Bastogi, 1999, pp. 29-36.
31 Il Conciliatore, cit., n. 4, p. 77. Per le fonti di Alfieri cfr. Arnaldo Di Benedetto,
Quasi una fiaba dell’orco. Storia e leggenda nel «Filippo», in Id., Il dandy e il sublime.
Nuovi studi su Vittorio Alfieri, Firenze, Olschki, 2003, pp. 21-37. Più in generale vd.
Ricardo García Cárcel – José Luis Betrán, El abad de Saint-Réal y la fábrica de
sueños sobre el príncipe Don Carlos, «e-Spania», 21 (2015), URL: http://journals.openedition.
org/e-spania/24430; DOI: 10.4000/e-spania.24430 (consultato il 07 ottobre
2018).
[ 10 ]
alfieri e i soggetti storici moderni nelle pagine del «conciliatore» 51
ranno, probabilmente alludendo all’esercizio del potere sul Lombardo-
Veneto da parte degli Austriaci.
Pellico torna appunto su questo argomento storico e sulla sua resa
tragica, confermando la preferenza per i fatti cronologicamente più
vicini e in particolare per un soggetto che è un modello significativo
del dispotismo europeo e dell’intolleranza religiosa32. La prossimità
dell’evento ha una funzione per il pubblico che, attraverso le «ricordanze
moderne», si commuove e può subire, negli auspici dell’autore,
una trasformazione: le tragedie di Chénier, Alfieri e Schiller sono apprezzate
proprio per il ricorso a «un’epoca delle più luminose nella
storia moderna di questi ultimi secoli»33. Analizzandone minutamente
le differenze, i pregi e i difetti, Pellico individua nel Philippe II di
Chénier la tragedia più fedele alla storia. Schiller e Alfieri si sono allontanati
dalle fonti soprattutto a proposito del carattere di Filippo,
avvolto in una «grandezza ideale»: una specie di Tiberio in Alfieri, un
«re del mondo» nell’autore tedesco34. Nella difficoltà di assegnare al
Filippo dell’Astigiano la palma della tragedia storica, il Saluzzese si
sofferma piuttosto sulla sua originalità, attingendo così alla terminologia
romantica. Qualità come la semplicità, il «terribile», il «mistero»
e la rapidità, tracce del sublime peculiarmente alfieriane, collocano a
suo parere quest’opera al di là dell’antinomia classico vs. romantico.
Restando fermo quindi al proposito di non instaurare paragoni tra
testi che manifestano in modo analogo il carattere di ciascuna nazione,
e oscillando tra i poli del patriottismo e del cosmopolitismo, Pellico
ribadisce che l’attenzione del «Conciliatore» verso il Philippe II di
Chénier deriva dalla volontà di attestare «come l’Italia, giustamente
altera del suo Alfieri», sia capace di ammirare «qualunque non indegno
emulo possano le altre nazioni opporre al sommo tragico
italiano»35.
Il superamento delle due categorie ‘classico’ e ‘romantico’ attraverso
un approccio critico non pregiudiziale è ancor più esplicito nella
lettera di Pellico a Rossi di Vandorno, presumibilmente scritta nell’agosto
del 1819. Alla domanda retorica «Alfieri è forse romantico?», il redattore
del ‘foglio azzurro’ risponde conciliando i due poli del contendere:
«Non lo è nelle forme, cioè non ha assunte le forme delle tragedie
32 S. Pellico, Philippe II. Tragédie de M. J. De Chénier […], in Il Conciliatore, cit.,
II, p. 397.
33 Ibidem.
34 Ibidem.
35 Ivi, p. 402.
[ 11 ]
52 alviera bussotti
romantiche ma bensì ha assunto il loro spirito; cioè ha scritto cose che
vivamente importano alla sua nazione e al suo secolo». Sebbene infatti
le tragedie alfieriane abbiano attinto gli argomenti anche dall’antichità,
i loro importanti effetti sul pubblico sono innegabili. Ma soprattutto,
pur avendo trattato soggetti anteriori al Medioevo cristiano, secondo
Pellico egli ha saputo «animarli d’una nuova vita e farli sentire quasi
contemporanei». Quale Alfieri, dunque, preferire? Eccoci nuovamente
ai «soggetti meno antichi», raccomandati da Pellico: il Filippo – «divina
tragedia» – a cui si aggiunge l’argomento altrettanto moderno, ma locale,
della Congiura de’ Pazzi, accomunati in Alfieri da una valenza antitirannica36.
L’apprezzamento spassionato affidato alla scrittura privata
conferma una via che lo stesso Pellico sperimenta nella scrittura
tragica a partire dalla sua Francesca, vale a dire l’uso di soggetti storici,
ora definiti ‘romantici’, sorretti però da una forma classicista. Si badi
infatti che questa linea, come ha dimostrato Alfonzetti, era stata già
tracciata proprio dalle tragedie di Alfieri, Alessandro Verri, Agostino
Tana e Mario Pagano negli anni Settanta del XVIII secolo: accanto alle
figure e agli argomenti simbolo del dispotismo europeo – Filippo II,
Maria Stuarda – stanno le storie nazionali di Milano, Napoli e Firenze,
come appunto la Congiura de’ Pazzi37.
Una più precisa sistematizzazione teorica rispetto alla tragedia storica
si rintraccia ancora nell’articolo di Pellico sul Charles IX, il cui successo
era già stato evidenziato dai patrioti giacobini. Distinguendo le
tragedie che dipingono le passioni umane da quelle che ritraggono un
«grande quadro della storia», è ribadito che la tragedia «storica» è quella
più «istruttiva», «efficace» e «filosofica». Allineandosi alla posizione
espressa da Visconti nelle Idee elementari, Pellico considera «istorica»
non la tragedia «che ci rammenta senza pro alcuni fatti d’antichissimi
annali», ma quella che tratta la storia più recente, domestica, «sovra
tutto de’ nostri avi, delle nostre glorie nazionali e dei memorabili delitti
onde furono contaminate»38. L’analisi del Charles IX apre allora il
campo ai possibili argomenti tragediabili, tanto da suggerire la trattazione
della guerra tra Federico Barbarossa e la Lega dei comuni lombardi,
nata sotto la protezione di papa Alessandro III, conclusa con la
36 Id., Lettere milanesi, cit., lettera del 26 agosto [1819 ?], p. 390. Sulle due tragedie
di Alfieri, in rapporto alla storiografia e al contesto settecentesco, cfr. B. Alfonzetti,
La congiura dei Pazzi in Alfieri e Catani, in Ead., Dramma e storia, cit., pp. 83-99;
Ead., Alfieri fra Parigi e Firenze: la morte di Don Garzia, ivi, in partic. pp. 103-108.
37 Ead., Storia e dramma, cit., in particolare pp. 62-63.
38 S. Pellico, Charle IX, ou la Saint-Barthélemi, tragedie de Chénier […], cit., p. 507.
[ 12 ]
alfieri e i soggetti storici moderni nelle pagine del «conciliatore» 53
sconfitta dell’Imperatore e la sua fuga. Il conflitto, la cui portata simbolica
accompagnerà tutto il Risorgimento, si colloca in effetti nella sfera
degli avvenimenti storici che possono più interessare la nazione, in
particolare «il volgo». Si tratta di eventi che nel frattempo Sismondi
aveva ricostruito nella sua Histoire des républiques italiennes e che generano
l’interesse dei patrioti italiani come Pellico, in virtù della loro portata
allusiva rispetto all’esperienza dell’Impero napoleonico prima e
ora della Restaurazione: il comune intento è indicare la nuova civilizzazione,
da cui hanno origine le spinte indipendentiste e le radici unitarie,
nel Medioevo cristiano delle repubbliche libere, rievocato, secondo
l’uso attualizzante della storia, in funzione antifrancese e antiaustriaca39.
È proprio a partire da questi presupposti che la tragedia di
Charles IX di Chénier è definita da Pellico «nazionale», così come nazionali
potevano allora essere considerati Filippo e la Congiura de’ Pazzi40.
Sul carattere nazionale della poesia insiste, dal canto suo, anche
Ermes Visconti. Capofila del gruppo dei romantici del «Conciliatore»,
egli sistematizza, sulle orme di Schlegel e M.me De Staël, i principi del
Romanticismo nelle sue Idee elementari sulla poesia romantica41. Basilare
per la poesia romantica è, dal suo punto di vista, la ricerca di contenuti
propri e originali, espressione del patrimonio di una nazione e parte
«dell’esperienza sociale». Tutta la storia, sia l’antica che la moderna,
secondo Visconti può essere oggetto della poesia, in particolare dei
drammi, purché, appunto, rispetti «il sapere politico contemporaneo»42.
Pur partendo da questa premessa, è nota la preferenza del redattore
accordata agli argomenti moderni, con una netta censura nei confronti
di tutta la mitologia. Sottoposti al vaglio dell’interesse, del coinvolgimento
emotivo e della cognizione, i fatti più vicini «ci commuovono
più al vivo». Leggendo tra le righe, su questa predilezione per il moderno
pesa anche la declinazione specificamente politica che la storia
antica ha assunto nella retorica e nella drammaturgia giacobine: da
qui il netto rifiuto di una parte della drammaturgia alfieriana. Nell’instaurazione
del connubio tra modello eroico romano e rivoluzione, il
39 Ibidem. Sismondi tratta l’episodio, rappresentativo della nascita delle libertà
in Italia, prima che nel resto d’Europa, nella sua Storia delle repubbliche italiane, cit.,
cap. 3, p. 58 e sgg. Sull’«altissima densità simbolica» di questi eventi nella poesia e
nella storiografia dell’Ottocento, cfr. Amedeo Quondam, Risorgimento a memoria: le
poesie degli Italiani, Roma, Donzelli, 2011.
40 S. Pellico, Charle IX, ou la Saint-Barthélemi, tragedie de Chénier […], cit., p. 507.
41 Cfr. ivi, I, nn. 23-28.
42 Ermes Visconti, Idee elementari, ivi, n. 24 (22 novembre 1818), p. 378; vd.
inoltre ivi, n. 27 (3 dicembre 1818), pp. 421-425.
[ 13 ]
54 alviera bussotti
primo richiamo va infatti ad Alfieri: Bruto e Cassio, spiega Visconti,
furono considerati nell’antichità dei benefattori della patria, ma attualmente,
alla luce delle riflessioni di Montesquieu, Smith, Malthus,
e alla luce anche del corso della storia, specie delle rivoluzioni americana
e francese, i due eroi sono da reputare alla stregua di «ultra». Se
si lodasse l’uccisione di Cesare sulle orme «del Bruto secondo di Alfieri
», per Visconti si considererebbe la congiura positivamente, da classicisti
– e da ultra-révolutionnaires –, sulla scorta di un sapere politico
inattuale, che non tiene conto della «perfettibilità» dell’uomo e del
nuovo valore simbolico assunto da figure come Bruto e Cassio43.
Del resto il decennio 1789-1799 aveva visto la figura di Bruto campeggiare
come paradigma della rivoluzione e delle idee repubblicane;
Bruto e i suoi emuli plutarchiani, letterari e reali, ricorrono nei teatri,
nell’oratoria, nei resoconti storiografici, come emblemi della virtù antica
repubblicana, vivificati dalla rivoluzione44. Ma alla realizzazione
di quest’ultima segue la degenerazione del Terrore: Robespierre, da
Bruto liberatore, diventa tiranno, simbolo di cieca violenza e usurpazione45.
È indispensabile perciò anche per Visconti la sostituzione di
questi eroi con nuovi emblemi di patriottismo, meno sanguinari, più
patetici, più vicini al pubblico. Escluso quindi il ricorso alle storie più
remote, in particolare a quella romana, Visconti raccomanda di desumere
il repertorio dei soggetti tragediabili dalle recenti acquisizioni
storiografiche, che vanno appunto dalle già menzionate Histoire des
Républiques di Sismondi e Storia dell’Inquisizione di Llorente alla Storia
delle crociate di Michaud: si tratta insomma dell’età moderna e, in particolare,
del «feudalesimo», delle crociate, delle «guerre di religione»,
delle persecuzioni del Sant’Uffizio, della genesi, del progresso e della
decadenza delle «repubbliche grandi»; e ancora, tra gli altri, «della rivoluzione
in Francia» e di ciò che ne consegue. Agli eroi dell’antica
43 Cfr. ivi, n. 24, pp. 378-379.
44 Cfr. Rossana Caira Lumetti, Anche tu, Bruto … L’ideale del buon governo tra
letteratura e storia, Roma, Aracne, 2002, p. IX; Marco Cerruti, Luoghi dell’utopia
nella scrittura del triennio, in Id., L’«L’inquieta brama dell’ottimo»: pratica e critica
dell’antico, 1796-1827, Palermo, Flaccovio, 1982, p. 86.
45 Cfr. Jean Starobinski, 1789. I sogni e gli incubi della ragione, Milano, Garzanti,
1981, p. 39. Per il complesso rapporto dei letterati italiani con la Rivoluzione
francese cfr. L’eredità dell’Ottantanove e l’Italia, a cura di Renato Zorzi, Firenze, L.
S. Olschki, 1992. Vd. inoltre il più recente Les écrivains italiens des Lumières et la
Révolution française, sous la direction de Christian Del Vento et Xavier Tablet,
«Laboratoire italien», 9 (2009), URL: http://journals.openedition.org/laboratoireitalien/
542; DOI: 10.4000/laboratoireitalien.542 (consultato il 13 ottobre 2018).
[ 14 ]
alfieri e i soggetti storici moderni nelle pagine del «conciliatore» 55
Roma si sostituiscono così Goffredo, il Cid, «i volontari francesi al
campo di Washington portatori di idee liberali»46. Cosa salvare perciò
della drammaturgia alfieriana? La geometria del sistema teorico di Visconti
non aiuta a trovare una risposta univoca. Il Saul e il Filippo sono
apprezzate dall’autore, ma rientrano nella categoria romantica solo
per «la qualità degli argomenti e de’ pensieri»: la forma, invece, è
«classicistica»47. Più benevolo è il giudizio sul Filippo nel Dialogo di un
Classicista con un Romantico. Qui il personaggio del Romantico, nel criticare
il patetico della Mirra, a suo parere fin troppo lacrimevole, elogia,
nonostante la non completa fedeltà alla storia, la tessitura del Filippo,
in cui la passione nascosta tra Isabella e Don Carlos, personaggi
a cui l’autore ha saputo dare un «carattere proprio e locale», non prevale
sul resto, ma convive felicemente con l’interesse suscitato parimenti
dalla freddezza di Filippo II, dai maneggi della corte contro il
giovane principe, dalla «compassione di Carlo pei Fiamminghi»48.
La posizione di Visconti a proposito di questa tragedia e, in generale,
dell’opera alferiana, sembra allora mutare nel tempo e allontanarsi
dalla visione di un Alfieri classicistico, propria dello stigma
schlegeliano. Nel Dialogo sulle unità drammatiche di luogo e di tempo infatti
Romagnosi, portavoce di Visconti, annulla la differenza tra le due
figure capitali del tragico, Shakespeare e Alfieri: «le scene interessanti
vi possono essere tanto in un dramma alla Shakespeare, quanto in un
dramma all’Alfieri»49. Fino ad allora i due autori erano stati ricondotti,
soprattutto da Schlegel, a due sistemi divergenti, quello della letteratura
‘settentrionale’, ‘romantica’, e quello della letteratura del Sud,
classicista, con in testa la tragédie classique50. Per la diversa lettura di
46 E. Visconti, Idee elementari, in Il Conciliatore, cit., n. 25 (26 novembre 1818),
pp. 391-392 e p. 396. È proprio Visconti a recensire l’opera di Michaud: cfr. ivi, II,
nn. 72, 77, 82. Per quanto riguarda l’Histoire di Sismondi si veda la recensione della
traduzione italiana (a opera di Stefano Ticozzi): Pietro Borsieri, Storia delle repubbliche
italiane del medio evo, ivi, n. 14 (18 ottobre 1818), I, pp. 223-234. Sull’incidenza
dell’Histoire di Sismondi, osservata insieme alla Geschichte der Poesie und
Beredsamkeit di F. Bouterwek, cfr. Luciano Bottoni, Drammaturgia romantica. Il sistema
letterario manzoniano, Lucca, Pacini, 1984, p. 142 e nota 11.
47 E. Visconti, Idee elementari, in Il Conciliatore, cit., n. 26 (29 novembre 1818), I,
p. 406.
48 Ivi, n. 28 (6 dicembre 1818), pp. 442-443.
49 Id., Dialogo sulle unità drammatiche di luogo e di tempo, ivi, n. 42 (24 gennaio
1819), II, p. 100, p. 103. Il secondo articolo appare nel n. 43 (28 gennaio 1819), ivi,
pp. 112-117.
50 Vd. ivi, p. 102. Sulla contrapposizione in Schlegel cfr. Mario Puppo, Introduzione,
in A. W. Schlegel, Corso di letteratura drammatica cit., p. III.
[ 15 ]
56 alviera bussotti
Visconti non è da escludere una convergenza con De Staël e Sismondi:
la prima, proprio nel proporre una tragedia nazionale, nel suo romanzo
Corinne ou l’Italie aveva assimilato Alfieri all’emisfero settentrionale,
reputando a sua volta il drammaturgo inglese un homme du Midi; il
secondo aveva azzardato l’accostamento Shakespeare-Alfieri, definendo
l’omonimo protagonista del Saul alfieriano il primo «fou
héroïque» introdotto nel teatro classico, e ritenendo questa tragedia
«conçue dans l’esprit de Shakespeare, et non dans celui des tragiques
français
»51. Certo, le affermazioni di Visconti vanno prese con cautela:
del resto è molto significativo che egli le nasconda dietro la maschera
di Romagnosi, il quale aveva misconosciuto le etichette di classico e
romantico in favore della definizione di una poesia ‘ilichiastica’52. La
preferenza di Visconti va infatti a Schiller. L’interesse dell’autore tedesco
per la storia dei Paesi Bassi sotto Filippo II e per la guerra dei
Trent’anni fa di lui il padre della tragedia storica, modello «di narrazione
eloquente»53. Ma come per Alfieri, anche in merito a Schiller,
Visconti mostra di avere delle riserve: non tutta l’opera dell’autore
tedesco è infatti raccomandabile. La censura grava sulle tragedie giovanili,
in particolare sui Masnadieri: è rischioso portare in scena gli odi
tra due fratelli, probabile miccia in grado di incendiare gli animi nella
realtà, come del resto era già accaduto54. L’esempio offerto da quest’opera
deve servire da ammonimento, così come il Bruto secondo di Alfieri,
per coloro che si vogliono cimentare nell’arte drammatica: non
essendo diventata «un’arte essenzialmente frivola, cioè di mero diletto,
nemmeno dopo i tanti progressi della civilizzazione, anche oggidì
può produrre de’ beni e de’ mali gravi»; è necessario quindi, per Visconti,
astenersi «da qualunque invenzione pericolosa alla moralità»55.
51 J. C. S. Simonde de Sismondi, De la littérature du midi de l’Europe, cit., t. III, p. 29.
Su Alfieri e Shakespeare nel romanzo di De Staël cfr. B. Alfonzetti, Prima la Giulietta
di Corinne, dopo Ricciarda e Francesca, in Ead., Dramma e storia, cit., pp. 153-176.
52 Cfr. Gian Domenico Romagnosi, Della poesia considerata rispetto alle diverse
età delle nazioni, in Il Conciliatore, cit., n. 3 (10 settembre 1818), I, pp. 55-61. Cfr. inoltre
Id., Due fonti della coltura italiana. Lettera di G. D. R. ai Compilatori del Conciliatore,
ivi, n. 12 (11 ottobre 1818), pp. 201-206.
53 Ermes Visconti, La Pulcella d’Orleans. Tragedia romantica di Federico Schiller
[…], in Il Conciliatore, cit., n. 63 (8 aprile 1819), II, p. 412.
54 Cfr. ivi, p. 413: «Il Dramma produsse su alcuni giovani l’effetto di un libello
incendiario o club, dicesi persino che tentarono d’imitare Carlo il Masnadiere, e che
fu duopo contenerli con forza».
55 Ibidem. Su Bruto secondo si veda la lettura di Silvia Tatti, Bruto secondo, in
Alfieri tragico, a cura di Enrico Ghidetti e Roberta Turchi, «La Rassegna della
letteratura italiana», 107, n. 2 (2003), pp. 748-760. Cfr. inoltre Bartolo Anglani,
[ 16 ]
alfieri e i soggetti storici moderni nelle pagine del «conciliatore» 57
In sintonia con le considerazioni di Visconti su Alfieri è anche un
intervento di Giuseppe Nicolini, autore in questi stessi anni delle tragedie
Canace, Clorinda e Conte di Essex. Nella sua lettera Sulla Poesia
tragica, la poesia romantica è definita appunto «popolare», concepita
secondo i costumi e i caratteri delle istituzioni. Essa può essere solo
«nativa e nazionale»: romanticismo significa infatti richiamare i poeti
alla «nazionalità» e all’«originalità»56. Premessa l’impossibilità di raggiungere
le vette alfieriane, anche Nicolini torna a sua volta sui soggetti:
Alfieri infatti non ha esaurito tutte le vie del tragico, resta ancora
un largo campo di sperimentazione per i tragediografi contemporanei
che vogliano rinnovare il genere allontanandosi dalle sue orme. La
scelta, secondo Nicolini, dovrebbe ricadere non più sul sublime degli
eroi alfieriani, legato al «tema politico delle congiure e dei tradimenti
», bensì sul «patetico» di una tragedia predominata dalla pietà. Dopo
l’Astigiano è «poco prudente porre sulla scena un Bruto che giura sul
sangue di Lucrezia la libertà di Roma» o un «Timoleone che previene
la servitù della sua patria colla strage di un tiranno che gli è fratello»;
né è risparmiato dalle sue critiche anche il più moderno Filippo, «carnefice
del figlio e della sposa»57. Come è stato notato, si apriva con
queste osservazioni una scissione tra i due comprimari della catarsi
tragica aristotelica – il terrore e la pietà –, con la conseguente collocazione
di Alfieri nell’alveo di una tradizione fondata sul phóbos, cioè la
tragedia eroica sublime che fa capo a Corneille, a cui si contrappone
quella che recupera, tramite Lessing e Schlegel, la compassione e la
pietà. Una soluzione, quest’ultima, che Nicolini aveva già sperimentato,
seppure nella direzione di una rigenerazione della forma classicista,
con la scrittura della Canace, dove appunto la ripresa dell’argomento
mitologico all’insegna di un meraviglioso eternamente valido è
Considerazione sui «Bruti», in Id., La tragedia impossibile. Alfieri e la profanazione del
tragico, Roma, Aracne, 2018, pp. 377-400.
56 Giuseppe Nicolini, Sulla Poesia tragica, e occasionalmente sul Romanticismo.
Lettera di un buon critico e cattivo poeta ad un buon poeta e cattivo critico, in Il Conciliatore,
cit., II, n. 79 (3 giugno 1819), pp. 674-677. Su Nicolini cfr. Valerio Camarotto,
Nicolini, Giuseppe, in DBI on-line, URL: http://www.treccani.it/enciclopedia/
giuseppe-nicolini_res-94d5786e-a299-11e2-9d1b-00271042e8d9_(Dizionario-Biografico)/.
Vd. inoltre Fabio Danelon, Giuseppe Nicolini, critico «conciliatore», in
Giuseppe Nicolini nel bicentenario della nascita 1789-1989, Atti del Convegno di Studi
di Brescia, marzo 1990, Brescia, Ateneo di Brescia, Geroldi Editore, 1991, pp. 93-
114; per le tragedie cfr. Elisabetta Selmi, Giuseppe Nicolini tra «Canace» e «Clorinda
» alla ricerca di una Melpomene moderna, ivi, pp. 39-79.
57 G. Nicolini, Sulla Poesia tragica, in Il Conciliatore, cit., n. 79, II, p. 671. Le riserve
di Nicolini riguardano anche l’Oreste, l’Agamennone e il Polinice (Ibidem).
[ 17 ]
58 alviera bussotti
declinata romanticamente in chiave patetica e sentimentale58. Ma l’invito
alla ‘prudenza’, in relazione al «tema politico delle congiure e dei
tradimenti», fa pensare, in linea con quanto osservato da Visconti, al
peso che su questo giudizio di Nicolini potrebbe aver avuto l’Alfieri
dei giacobini e la censura in termini moderati cui il repertorio alfieriano
era stato sottoposto durante gli anni napoleonici59.
Significativamente, l’intera esperienza del «Conciliatore» si chiude
con un interrogativo retorico che in parte racchiude e sintetizza il comune
interesse dei suoi redattori nei confronti della tragedia alfieriana
al di là dello schema oppositivo ‘classico-romantico’. Si tratta di un
articolo apparso anonimo, ma attribuito a Pellico, dal titolo Sulle innovazioni
in letteratura. Qui, chiedendosi quale debba essere la finalità
delle rappresentazioni teatrali, il redattore risponde sostenendo in poche
righe che queste devono «infiammare il cuore e scuotere l’anima
intera della nazione coi grandi esempi e coi grandi modelli che l’hanno
illustrata»60. Alfieri era riuscito nell’intento: con i suoi soggetti moderni
aveva dato una tragedia alla nazione.
Alviera Bussotti
Università Sapienza di Roma
58 Cfr. E. Selmi, Giuseppe Nicolini tra «Canace» e «Clorinda» alla ricerca di una
Melpomene moderna, cit., in partic. pp. 56-65. Sulle categorie timore e terrore cfr.
Fabio Camilletti, ‘Timore’ e ‘terrore’ nella polemica classico-romantica: l’Italia e il ripudio
del gotico, «Italian Studies», vol. 69 (2014), n. 2, pp. 231-245.
59 Vi è una sostanziale differenza tra la rappresentazione delle tragedie alfieriane
durante il triennio giacobino e quella della fase napoleonico-austriaca. Durante
quest’ultima la censura interviene in modo massiccio (vd. Elenco delle rappresentazioni
drammatiche annesse nei teatri del Regno d’Italia nel 1813), escludendo gran
parte delle tragedie di Alfieri portate sulla scena durante il Triennio: cfr. M. Cambiaghi,
Vittorio Alfieri e la civiltà teatrale milanese Sette e Ottocento, cit., in partic. pp.
498-500. Si veda anche Guido Santato, Alle origini del mito alfieriano fra letteratura,
storia e politica, in Id., Tra mito e palinodia. Itinerari alfieriani, Modena, Mucchi, 1999,
in particolare pp. 292-298. Cfr. inoltre Gianluca Albergoni, La censura in Lombardia
durante la Restaurazione: alcune riflessioni su un problema aperto, in Potere e circolazione
delle idee. Stampa, accademie e censura nel Risorgimento italiano, Atti del convegno
di studi nel bicentenario della nascita di Giuseppe Mazzini, Faenza, 24-27
settembre 2005, a cura di Domenico Maria Bruni, prefazione di Natale Graziani,
Milano, Franco Angeli, 2007, pp. 213-236; Id., I letterati e il potere politico all’epoca
del “Conciliatore”. Alcune linee interpretative, in Idee e figure del “Conciliatore”, cit., pp.
13-41. Vd. inoltre William Spaggiari, Il ritorno di Astrea: civiltà letteraria della Restaurazione,
Roma, Bulzoni, 1990.
60 Il Conciliatore, cit., n. 116 (10 ottobre 1819), III, p. 430; per l’attribuzione cfr.
ibidem, nota 1.
[ 18 ]
RAFFAELE CAVALLUZZI
La vita degli uomini come “storia di sangue
e corpi nudi”. Personaggi omodiegetici
del Sentiero dei nidi di ragno di I. Calvino
Violenza bestiale dei nazifascisti, rancorosa crudeltà dei combattenti di una
guerra di liberazione che sfiora il conflitto ‘civile’, estrema miseria degli ultimi,
misoginia di un sesso senza remore, nel primo grande romanzo di Calvino sono
filtrati dallo sdoppiato punto di vista dei due personaggi omodiegetici del piccolo
Pin e del commissario comunista Kim, mentre la spietatezza della vicenda
è avvolta, in fondo, dall’ingenuo alone fiabesco – tenero e ad un tempo ruvidamente
realistico – di un riscatto di sapore chapliniano.

Beastly Nazi violence, spiteful cruelty of soldiers in a war of liberation that
borders on a ‘civil’ conflict, extreme misery of the latter, misogyny of a sex without
any scruples, in Calvino’s first great novel are filtered through the twin
viewpoints of two homodiegetic characters, the little Pin and the Communist
commissioner Kim, whilst the ruthlessness of events is surrounded, deep
down, by a naïve, fairy-tale halo – at the same time tender and roughly realistic
– of redemption in a Chaplinesque sense.
Pin, il protagonista del Sentiero dei nidi di ragno (1946) di Italo Calvino,
è poco più di un bambino di strada (nei vicoli dei carrugi di un paese
del ponente ligure), che vive la sua sfrontata ma infelice infanzia di
povero alla squallida scuola di alticci frequentatori d’osteria, e tra i
reciproci insulti che corrono spesso tra lui e gli abitanti di quel mondo
reso degradato dalla sorte e dalla miseria, e che nel vicolo accompagnano,
nonostante tutto, il prorompere istintivo e gioioso della vita
che viene dallo spontaneo entusiasmo della tenera e già provata età1.
Autore: università di Bari; già prof. ordinario; raffaele.cavalluzzi@gmail.com
1 «Pin ha una voce rauca, da bambino vecchio: dice ogni battuta a bassa voce,
serio, poi tutt’a un tratto sbotta in una risata, in i che sembra un fischio e le lentiggini
rosse e nere gli si affollano intorno agli occhi come un volo di vespe» (p. 30 in
Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, con una Prefazione dell’autore, Torino,
Einaudi 1971, riedizione del volume Einaudi, giugno 1964). Tutte le citazioni che
seguiranno saranno prese da questa edizione, mentre il romanzo fu pubblicato per
60 raffaele cavalluzzi
Pin pensa di non amare, per intanto, vivere, e non è amato dagli altri
suoi coetanei2, mentre s’infogna volentieri nei lerci discorsi degli adulti,
i quali peraltro godono a sfogare su di lui, sulla sua sventurata famiglia
(o su ciò che ne resta: soltanto lui e la giovane sorella maggiore,
“materasso” a disposizione degli uomini), le frustrazioni quasi biologiche
di una condizione di ultimi, in quella realtà disastrata dalla seconda
guerra mondiale e dal bisogno estremo, e, nonostante tutto,
appena solidale.
Il primo capitolo del romanzo già così si conclude, assai amaramente:
«Pin sale per il carrugio, già quasi buio; e si sente solo e sperduto
in quella storia di sangue e corpi nudi che è la vita degli uomini»
(p. 40). Ma la fine del romanzo trova questo ben diverso suggello: «E
continuano a camminare, l’omone e il bambino, nella notte, in mezzo
alle lucciole, tenendosi per mano» (p. 195), quasi a racchiudere, in due
diseguali e distanti explicit, lo scorcio parabolico dell’esistenza che si
disegna nel racconto drammatico che sta nel mezzo: in una sintesi terribile
di un mondo terribile da cui si può uscire, si direbbe, malgrado
ogni crudezza, chaplinianamente, con l’immagine di un monello dagli
occhi simpaticamente «mangiati dalle lentiggini»che dà la mano, divenuto
fiducioso, al«dolce e spietato partigiano» che chiamano “il Cugino”,
ora suo “grande amico”, dirigendosi con lui verso un futuro
che può in qualche modo appartenergli3.
la prima volta nel 1947. Per la bibliografia critica calviniana che nel tempo, com’è
facile immaginare, si fa sempre più ricca di non pochi, importanti contributi, cfr.
Bibliografia della critica calviniana. 1947-2000, in Il fantastico e il visibile. Giornata di
studi su L’itinerario di Italo Calvino dal neorealismo alle Lezioni americane (Napoli 9
maggio 1997), a cura di Caterina De Caprio e U. Maria Olivieri, Napoli, Libreria
Dante & Descartes, 2000.
2 «Le madri hanno ragione: Pin non sa che raccontare storie d’uomini e donne
nei letti e di uomini ammazzati o messi in prigione, storie insegnategli dai grandi,
specie di fiabe che i grandi si raccontano tra loro e che pure sarebbe bello stare a
sentire se Pin non le intercalasse di canzonature e di cose che non si capiscono da
indovinare» (I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, cit., pp. 35-36).
3 I l romanzo ha un grandissimo valore pedagogico, e la sua trama è attraversata
dalla sottile esposizione di una dinamica esemplare nella rappresentazione
del rapporto tra bambino e adulti: di qui anche il significativo riflesso, nella scena
finale, pur al riparo dal puritanesimo anglosassone, del capolavoro cinematografico
di Charlie Chaplin. Calvino, nella Prefazione a questa edizione, per la verità
ricorda che «avevo voluto dedicare un segreto omaggio [a Ippolito Nievo] ricalcando
l’incontro di Pin con Cugino sull’incontro di Carlino con lo Spaccafumo
nelle Confessioni d’un Italiano» (Prefazione cit., p. 17): e Pavese nominò anche questa
tra le predilezioni letterarie intraviste nell’autore del Sentiero.
[ 2 ]
la vita degli uomini come “storia di sangue e corpi nudi” 61
La vicenda di Pin sta interamente nel senso di quella “storia”, in
cui tuttavia, a tratti, emerge il suo infantile trasporto per una dimensione
magica dell’esperienza della realtà, che si coglie, con l’autore,
soprattutto in virtù di una scrittura che in tanti momenti contrappone
alla devastante asprezza degli avvenimenti il sapore lieve della poesia4,
restando acuta e sobria, appena accennata nel suo intento. Non a
caso «Pin è un ragazzo che non sa giocare», o meglio che gioca da
solo, preso esclusivamente dall’incanto della sua fantasia. Abituato a
vivere coi balordi, e ragazzo di bottega di un miserabile ciabattino che
per le sue imprese si è meritato il nomignolo di “rubagalline”, reso
intempestivamente e viziosamente maturo come testimone dello
sconcio mestiere della sorella («la Nera di Carrugio lungo»5, oggetto
peraltro di spudorate allusioni, e di schifati lazzi degli ignobili compagni
di osteria e dei convicini6, nello scenario dello squallore di una
condizione sociale fatalmente abbrutita7), Pin, mentre incombe il san-
4 E della fiaba: «si possono far loro recitare storie meravigliose», pensa ad
esempio Pin a proposito di una vecchia scarpa e di un’arma: «una scarpa, un oggetto
così conosciuto, specie per lui garzone ciabattino, e una pistola, un oggetto
così misterioso, quasi irreale; a farlo incontrare uno con l’altro si possono fare cose
mai pensate» (p. 46).
Sul “fantastico” calviniano cfr. Elio Gioanola, Modalità del fantastico nell’opera
di Italo Calvino, «Nuova Corrente», XXXIV (1987), n. 100, pp. 259-282, e, più in generale,
le indicazioni teoriche di Tzvetan Todorov, La letteratura fantastica. Milano,
Garzanti, 1977. Per la successiva produzione narrativa di Calvino si ricordino,
a questo proposito, soprattutto i capolavori della trilogia dei Nostri antenati e le
Cosmicomiche, oltre la raccolta calviniana delle Fiabe italiane. Parlando delle predilezioni
del giovane scrittore ancora Pavese non solo accennò a L’isola del tesoro di
Stevenson, ma riscontrò per primo anche l’inconsapevole “tono fiabesco” del romanzo
(Prefazione cit, ibidem).
5 Solo verso la fine sapremo che il suo nome è Rina, mentre è spesso evocata
con degradanti attributi e con un misto di disprezzo e risentita ripulsa (talvolta
come “scimmia”, o, peggio, come “rana pelosa”, p. 194).
6 «in fondo Pin non capisce perché tutti gli uomini si interessino tanto di sua
sorella, ha dei denti da cavalla e le ascelle nere di peli, ma i grandi parlando con lui
finiscono sempre per tirare in ballo sua sorella, e Pin s’è convinto che è la cosa più
importante del mondo e che lui è una persona importante perché è fratello della
Nera di Carrugio Lungo. Però è convinto che i nidi di ragno siano più interessanti
di sua sorella e di tutte le questioni di maschi e di femmine» (p. 79).
7 Così, con rapide e asciutte pennellate e un sole che stenta a penetrare per le
strade e per le case indifferenti, si presenta lo scenario di abbandono e ad un tempo
d’impalpabile bellezza all’inizio del romanzo: «Per arrivare fino in fondo al vicolo,
i raggi del sole devono scendere diritti rasente le pareti fredde, tenute discoste a
forza d’arcate che traversano la striscia di cielo azzurro carico./ Scendono diritti i
raggi del sole, giù per le finestre messe qua e là in disordine sui muri, e cespi di
[ 3 ]
62 raffaele cavalluzzi
guinoso conflitto, va conoscendo il peggio della vita. E, destinato appunto
a una meschina “solitudine”, la sua aspirazione non può essere
allora, paradossalmente, che diventare come gli odiosamati “grandi”,
conquistarsene il rispetto, mettersi infine alla prova che gli meriti quel
rispetto.
Per questo, un giorno, ruba la pistola di un marinaio germanico
impegnato in un abituale rapporto di sesso con la sorella, perché così
gli è stato ordinato per un uomo della “guerra contro i tedeschi” che
agisce nel territorio urbano (comicamente il bambino equivoca e immagina,
ingenuo, che lo “sconosciuto” si chiami appunto gap – che in
realtà, come si sa, sta per gruppi di azione patriottica – o “Comitato”,
dall’allusione, che come si capisce è abitualmente politica, degli amici
malavitosi di bisboccia). Il possesso della pistola, sentirla tutta sua, e
andare a nasconderla nella suggestione di un sentiero di campagna,
solo a lui noto, di fantastici (e quelli che chiama) nidi di ragno, ecco
che per il bambino diventa l’approdo alla vertigine dell’azzardo imprevisto,
al mistero tanto atteso; e i luoghi segreti della natura si manifestano
con il fascino di un’avventura eccitante e decisiva rispetto
alla sordidezza della vita degli adulti.
La notte e il silenzio accompagnano Pin in quel suo gioco straordinario
lungo il fossato, e in una complice, rarefatta, e sospesa atmosfera
che sembra togliere il respiro: «Nel buio le reti metalliche che cintano
i semenzai gettano una maglia d’ombre sulla terra grigio-lunare; le
galline ora dormono in fila sui pali dei pollai e le rane sono tutte fuor
d’acqua e fanno cori per tutto il torrente, dalla sorgente alla foce» (p.
150). Peraltro, il fossato e il posto fatato «dove fanno la tana i ragni»
basilico e di origano piantati dentro pentole ai davanzali, e sottovesti stese appese
a corde; fin giù al selciato, fatto a gradini e a ciottoli, con una cunetta in mezza per
l’urina dei muli» (p. 29).
Al proposito uno studio significativo a carattere generale è quello di Patrizio
Barbaro-Fabio Pierangeli. Italo Calvino. La vita, le opere, i luoghi, Milano, Gribaudo,
2009 (ma si veda quanto nella Prefazione lo stesso Calvino dice a proposito del
rapporto tra persone o storie con il paesaggio nel punto della sua rappresentazione,
fino a giungere all’intuizione della sostanza del realismo: «Lo scenario quotidiano
di tutta la mia vita era diventato interamente straordinario e romanzesco: una
storia sola si sdipanava dai bui archivolti della Città vecchia fin su ai boschi; era
l’inseguirsi e il nascondersi d’uomini armati; anche le ville, riuscivo a rappresentare,
ora che le avevo viste requisite e trasformate in corpi di guardia e prigioni;
anche i campi di garofani, da quando erano diventati terreni allo scoperto, pericolosi
ad attraversare, evocanti uno sgranare di raffiche nell’aria. Fu da questa possibilità
di situare storie umane nei paesaggi che il “neorealismo”…», Prefazione,
cit., p. 10).
[ 4 ]
la vita degli uomini come “storia di sangue e corpi nudi” 63
sono spesso ristoro per i momenti in cui l’assale la «tristezza opaca» di
un precoce disagio esistenziale: ed ora è lì che egli può sognare, e occultare
l’arma, dopo, però, che un colpo fortuito (che lo rivelerà nella
notte ai nemici che rastrellano il territorio) ha dato improvvisa e drammatica
smentita a quel sogno solitario8.
Allora Pin è arrestato e condotto dai nazifascisti in una villa-prigione
(circondata da un grande giardino all’inglese che non a caso
gli«sembra uno scenario incantato»), tra i detenuti politici, dove conosce
la bestialità e le brutali frustate dei suoi aguzzini (di impressionanti
«razze imberbi o bluastre»): per lui, i primi frutti più che amari della
guerra. Lì un suo vecchio amico d’osteria, Miscèl il Francese, gli si
svela come passato alla “brigata nera”, nota nella zona per consueti
soprusi e violenze (ma la banda fascista, con le sue prepotenze nello
spadroneggiare, sembra esercitare, per un po’, perfino un certo fascino
sulla sua confusa innocenza, con i simboli delle «teste da morto che
sono molto più d’effetto delle stelle tricolori»). E nella stessa prigione
incontra, prima, come detenuto comune, il suo scalcagnato calzolaio
(«proletariato senza coscienza di classe», p. 68), e poi il leggendario,
giovanissimo partigiano comunista, Lupo Rosso, altrimenti detto “testarasata”.
Quest’ultimo ha in qualche modo dalla sorte il compito, a
questo punto del racconto, di informarlo, con risoluta semplificazione
ideologica, delle cause della guerra:che, per lui comunista, è il preludio
della rivoluzione sociale, il finale della insurrezione armata dei
lavoratori contro i borghesi. E Pietromagro, il “rubagalline” ridotto a
una larva e pieno di pidocchi, lo impressiona forse anche di più per
via della sua misera figura, «con le vene piene di piscio giallo» che
segnalano l’inesorabile imminenza della fine, giacché suscita e gli fa
conoscere la “pietà” forse per l’unica volta. Sono, questi, momenti che
introducono ormai il punto di vista di Pin (che qui più che altrove
gioca un ruolo di alter ego, come si vede, dello scrittore) sulla vita e
sulla morte, effetto del suo essere testimone dei comportamenti e delle
truci convinzioni degli uomini sulla guerra.
8 «Forse un giorno Pin troverà un amico, un vero amico, che capisca e che si
possa capire, e allora a quello, solo a quello, mostrerà il posto delle tane dei ragni.
È una scorciatoia sassosa che scende al torrente tra due pareti di terra ed erba. Lì,
tra l’erba, i ragni fanno delle tane, dei tunnel tappezzati d’un cemento d’erba secca;
ma la cosa meravigliosa è che le tane hanno una porticina, pure di quella poltiglia
secca d’erba, una porticina tonda che si può aprire e chiudere […]. Con uno
stecco lungo si può arrivare fino in fondo ad una tana, e infilzare il ragno, un piccolo
ragno nero, con dei disegnini grigi come sui vestiti d’estate delle vecchie bigotte
» (p. 51).
[ 5 ]
64 raffaele cavalluzzi
Con Lupo Rosso il bambino riesce a scappare dall’incubo della prigione;
però, più avanti, corre a recuperare dal nascondiglio la P.38,
perché il suo compagno di fuga e inflessibile custode l’ha momentaneamente
lasciato solo. Qui, in una pagina di straordinaria suggestione
espressionistica9, lo scrittore sintetizza, in un sogno di Pin che, stanco,
si è nel frattempo addormentato, la perturbante essenza emotiva degli
episodi cruciali che hanno segnato la sua recente avventura:
Pin ora è solo che aspetta. Ora che non c’è più Lupo Rosso tutte le ombre
prendono forme strane, tutti i rumori sembrano passi che si avvicinano.
È il marinaio che sbraita in tedesco in cima al carrugio e adesso
viene a cercarlo fin là, è nudo, in maglietta, e dice che Pin gli ha rubato
anche i pantaloni. Poi viene l’ufficiale con la faccina da bimbo, con un
cane poliziotto al guinzaglio, frustrandolo con il cinturone della pistola.
E il cane poliziotto ha la faccia dell’interprete dai baffi di topo. Arrivano
a un pollaio e Pin ha paura d’esserci lui, nascosto in quel pollaio.
Invece entrano, e scoprono il piantone che ha accompagnato Pin alla
prigione, rannicchiato come una gallina, chissà perché.
Ecco, al nascondiglio di Pin fa capolino una faccia conosciuta che gli
sorride: è Miscèl il Francese! Ma Miscèl si mette il cappello e il suo
sorriso si trasforma in sogghigno: è il berretto della brigata nera con
sopra la testa da morto! Ecco che arriva Lupo Rosso finalmente! Ma un
uomo lo raggiunge, un uomo con l’impermeabile chiaro, lo prende per
un gomito e fa segno di no, indicando Pin, con la sua espressione scontenta:
è Comitato. Perché non vuole che Lupo Rosso lo raggiunga? Indica
i disegni sul serbatoio, disegni enormi che rappresentano la sorella
di Pin a letto con un tedesco! Dietro il serbatoio c’è pieno di spazzatura:
Pin non se n’era accorto prima. Ora vuol scavarsi un nascondiglio
in mezzo alla spazzatura, ma tocca una faccia umana: c’è un uomo vivo
seppellito nella spazzatura, la sentinella con la sua triste faccia tagliuzzata
dal rasoio!» (p. 82).
Poco dopo è tuttavia la desolata realtà oggettiva che così torna a
mostrarsi al ragazzo:
[…] alla foce del torrente nella città vecchia chiusa come una pigna,
dormono gli uomini ubriachi e le donne sazie d’amore. La sorella di
Pin dorme sola o in compagnia e s’è già dimenticata di lui, non pensa
né se è vivo né se è morto. Sulla paglia della sua cella, unico veglia il
9 «L’appuntamento con l’espressionismo – dirà Calvino – che la cultura letteraria
e figurativa italiana aveva mancato nel Primo Dopoguerra, ebbe il suo grande
momento nel Secondo. Forse il vero nome per quella stagione italiana, più che
“neorealismo” dovrebbe essere “neo-espressionismo”» (Prefazione, cit., p. 11).
[ 6 ]
la vita degli uomini come “storia di sangue e corpi nudi” 65
suo padrone Pietromagro, vicino a morire, col sangue che diventa giallo
di piscio nelle vene (p. 84).
E in mezzo, tra sogno e realtà, un cenno di significativa rielaborazione
fantastica – perché Pin si salvi nella fuga – di un episodio celebre
del mondo delle favole, che, evidentemente, già nutriva intensamente
il fervido immaginario calviniano: Pin diventa una sorta di nuovo Pollicino
giacché, per non perdersi, segna il suo percorso con i noccioli di
ciliegie colte da un albero.
La svolta nella narrazione si ha comunque nell’incontro casuale
del protagonista con l’“omone”, appunto il Cugino, che lo colpisce
particolarmente perché «parla d’ammazzare con tristezza, come lo
facesse per castigo» (p. 86), sebbene, in un successivo dialogo, così
pensa, sinteticamente, dei nemici e dell’intera umana vicenda di quei
giorni spietati: «A farci la pelle, vengono. Ma noi gli andiamo incontro
e la facciamo a loro. Questa è la vita» (p. 92). Del resto, sui volti
dei partigiani in cui Pin s’imbatterà di lì a poco10 è disegnato sempre,
più di ogni altro atteggiamento, proprio un emblematico, duro “rancore”;
e, in definitiva, in una pagina inarrivabile del romanzo, con
questi tratti essi gli appaiono pur nella precaria, assai suggestiva e
contraddittoria pace di cose e di uomini, e nella imminenza della battaglia:
Per terra, sotto gli alberi del bosco, ci sono prati ispidi di ricci e stagni
secchi pieni di foglie dure. A sera lame di nebbia si infiltrano tra i tronchi
dei castagni e ne ammuffiscono i dorsi con le barbe rossicce dei
muschi e i disegni celesti dei licheni. L’accampamento s’indovina prima
di arrivarci, per il fumo che si leva sulle cime dei rami e il cantare
d’un coro basso che cresce approfondendosi nel bosco. È un casolare
di sassi, alto due piani, un piano di sotto per le bestie con per pavimento
terra; e un piano di sopra fatto di rami perché ci dormano i pastori.
Ora ci stanno uomini sopra e sotto, su lettiere di felci fresche e fieno, e
il fumo del fuoco acceso a basso non ha finestre per uscire e s’ingolfa
sotto le lavagne del tetto e brucia gole e occhi agli uomini che tossono.
10 «Pin è ripreso dal contagio del peloso e ambiguo carnaio del genere umano:
ed eccolo a occhi strabuzzati e lentiggini fitte che spia gli accoppiamenti dei grilli,
o infilza aghi di pino nelle verruche del dorso di piccoli rospi, o piscia sopra i formicai
guardando la terra porosa sfiggere e sfaldarsi e lo sfangare via di centinaia
di formiche rosse e nere.
Allora Pin si sente attirato ancora dal mondo degli uomini, degli uomini incomprensibili
con lo sguardo opaco e la bocca umida d’ira» (p. 126).
[ 7 ]
66 raffaele cavalluzzi
Ogni sera gli uomini s’acculano intorno alle pietre del focolare acceso
al coperto perché non lo vedano i nemici, e s’accavallano gli uni sopra
gli altri, con Pin in mezzo illuminato dai riverberi che canta a gola
spiegata come nell’osteria del vicolo. E gli uomini sono come quelli
dell’osteria, a gomiti puntati ed occhi duri, solo non guardano rassegnati
il viola dei bicchieri: nelle mani hanno il ferro delle armi e domani
usciranno a sparare contro uomini: i nemici!
Questo è diverso da tutti gli altri uomini: avere dei nemici, un senso
nuovo e sconosciuto per Pin. Nel vicolo c’erano urli e liti e offese di
uomini e di donne, ma non c’era quell’amara voglia di nemici, quel
desiderio che non lascia dormire alla notte. Pin non sa ancora cosa vuol
dire: avere dei nemici. In tutti gli esseri umani per Pin c’è qualcosa di
schifoso come in vermi e qualcosa di buono e caldo che attira la compagnia
(pp. 103-104).
D’altro lato, nel corso del racconto, in concorde rapporto con la
inesorcizzabile efferatezza della guerra, si mostra una sorta di persistente,
si direbbe ossessiva, ontologica misoginia11 di quei perfino
eroici combattenti. Per questo è ancora il Cugino che, alla fine del capitolo
quarto, avverte il ragazzo: «Al principio di tutte le storie che
finiscono male c’è una donna, non si sbaglia. Tu sei giovane, impara
quello che ti dico: la guerra è tutta colpa delle donne» (p. 87). Infatti lui
a causa dell’amante che l’aveva lasciato, pensa che le «questioni di
maschi e femmine»stiano, crudamente, al centro di tutto, sebbene, poco
dopo, all’inizio del capitolo successivo (V), il giorno nuovo torni a
presentarsi a loro due, con il carattere di un dolcissimo idillio, a dar
quiete alle persone e alla natura che le circonda:
Quando Pin si sveglia vede i ritagli di cielo tra i rami del bosco, chiari
che quasi fa male guardarli. È giorno, un giorno sereno e libero con
canti d’uccelli.
L’omone è già in piedi accanto a lui e arrotola la mantellina che gli ha
tolto di dosso.
– Andiamo, presto che è giorno, – dice. Hanno camminato quasi tutta
la notte. Sono saliti per oliveti, poi per terreni gerbidi, poi per oscuri
boschi di pini. Hanno visto gufi, anche; ma Pin non ha avuto paura
perché l’omone col berrettino di lana l’ha sempre tenuto per mano.
– Tu caschi dal sonno, ragazzo mio, – gli diceva l’omone, tirandoselo
dietro, – non vorrai mica che ti porti in braccio?
Difatti Pin faticava a tener gli occhi aperti, e si sarebbe volentieri lascia-
11 Pertanto, nel cuore della battaglia, s’affaccia questo pensiero: «Gli altri uomini,
di là dai boschi e dai versanti, si strofinano sulla terra i maschi con le femmine,
e si gettano l’uno sull’altro per uccidersi» (p. 166).
[ 8 ]
la vita degli uomini come “storia di sangue e corpi nudi” 67
to andare nel mare di felci del sottobosco, fino ad esserne sommerso.
Era quasi mattina quando i due sono arrivati allo spiazzo d’una carbonaia
e l’omone ha detto: – Qui possiamo far tappa.
Pin s’è sdraiato sul terreno fuligginoso e come in un sogno ha visto
l’omone coprirlo con la sua mantellina, poi andare e venire con dei legni,
spaccarli, e accendere il fuoco (p. 88).
Nell’accampamento, frattanto, la feroce, vera parabola sulla voglia
di uccidere12 coinvolge il piccolo protagonista con la scoperta di spie
lì vicino seppellite13, mentre lo incalza l’angoscia di una realtà terrificante:
Ma quand’è in mezzo ai compagni vuol convincersi d’essere uno come
loro, e allora comincia a raccontare cosa farà la volta che lo lasceranno
andare in battaglia e si mette a fare il verso della mitragliatrice tenendo
i pugni avvicinati sotto gli occhi come sparasse.
S’eccita allora: pensa ai fascisti, a quando lo frustavano, alle facce bluastre
e imberbi nell’ufficio dell’interrogatorio, ta-tatatà, ecco che tutti
sono morti, e mordono il tappeto sotto la scrivania dell’ufficiale tedesco
con gengive di sangue. Ecco la voglia d’uccidere anche in lui aspra
e ruvida, d’uccidere pure il piantone nascosto nel pollaio, anche se tonto,
proprio perché è tonto, d’uccidere anche la sentinella triste della
prigione, proprio perché triste e tagliuzzata in faccia dal rasoio. È una
12 «Nel vicolo c’erano urli e liti e offese di uomini e di donne giorno e notte, ma
non c’era quell’amara voglia di nemici, quel desiderio che non lascia dormire alla
notte. Pin non sa ancora vuol dire: avere dei nemici. In tutti gli esseri umani per
Pin c’è qualcosa di schifoso come in vermi e qualcosa di buono e caldo che attira la
compagnia.
Invece costoro non sanno pensare ad altro, come innamorati, e quando dicono
certe parole tremano nella barba, e gli occhi luccicano e le dita carezzano l’alzo dei
fucili. A Pin non chiedono che canti loro canzoni d’amore, o canzonette da ridere:
vogliono i loro canti pieni di sangue e di bufere, oppure le canzoni di galere e di
delitti che sa solo lui, oppure anche canzoni molto oscene che bisogna gridare con
odio per cantarle. Certo, essi riempiono Pin d’ammirazione più di tutti gli altri
uomini: sanno storie di autocarri pieni di gente sfracellata e storie di spie che muoiono
nude dentro fosse di terra» (pp. 103-104).
E ancora Calvino nella Prefazione aggiungerà, a proposito della guerra partigiana:
«Per molti dei miei coetanei, era stato solo il caso a decidere da che parte
dovessero combattere; per molti le parti tutt’a un tratto si invertivano, da repubblichini
diventavano partigiani o viceversa; da una parte o dall’altra sparavano o si
facevano sparare; solo la morte dava alle loro scelte un segno irrevocabile» (Prefazione,
cit. p. 18).
13 «Sotto il casolare i boschi diradano in strisce di prato, e là dicono che ci sono
spie seppellite e Pin ha un po’ di paura di passarci alla notte, per non sentirsi tirare
i calcagni da mani cresciute in mezzo all’erba» (p. 104).
[ 9 ]
68 raffaele cavalluzzi
voglia remota in lui come la voglia di amore, un sapore sgradevole e
eccitante come il fumo e il vino, una voglia che non si capisce bene
perché tutti gli uomini l’abbiano, e che deve racchiudere, a soddisfarla,
piaceri segreti e misteriosi (p. 106).
E la crudeltà del conflitto troverà violenta e ineluttabile conferma
nel culmine della storia.
Tuttavia, quasi al di là di questo, ciò che dà un senso particolare
alla vicenda di formazione che sottende il romanzo calviniano, è poi
l’episodio di Giglia, che, accanto a quello della sorella di Pin, è il momento
di verifica della relazione, secondo i maschi, inevitabilmente
negativa delle donne con la guerra. Nel casolare che ospita il rifugio
dei partigiani egli incontra così il Mancino, il cuoco del gruppo, uno
stravagante e alquanto acido estremista comunista, che rifiuta l’attributo
di “troschista”, e si sente sacrificato nel suo ruolo in qualche misura
di fureria. La sua giovane moglie, Giglia appunto, è riuscita a
scappare dal vicino paese per sfuggire alla caccia vendicativa dei fascisti;
ma i due litigano volentieri, anche se, in fondo, Giglia non disprezza
il marito, pur avendone forse ben donde.
Quando gli altri compagni di lotta tornano al campo, dopo uno
scontro col nemico, l’imprevista promiscuità ha i suoi inconvenienti:
I sogni dei partigiani sono rari e corti, sogni nati dalle notti di fame,
legati alla storia del cibo sempre poco e da dividere in tanti: sogni di
pezzi di pane, morsicati e poi chiusi in un cassetto. I cani randagi devono
fare sogni simili, d’ossa rosicchiate e nascoste sotto terra. Solo
quando lo stomaco è pieno, il fuoco è acceso, e non s’è camminato
troppo durante il giorno, ci si può permettere di sognare una donna
nuda e ci si sveglia al mattino sgombri e spumanti, con una letizia come
d’ancore salpate.
Allora gli uomini tra il fieno cominciano a parlare delle loro donne, di
quelle passate e di quelle future, a fare progetti per quando la guerra
sarà finita, e a passarsi fotografie ingiallite.
La Giglia dorme vicino al muro, al di là di suo marito basso e calvo. Al
mattino ascolta i discorsi degli uomini carichi di voglia, e sente tutti gli
sguardi che s’avvicinano a lei come una schiera di bisce tra il fieno. S’alza
allora, e va alla fontana a lavarsi. Gli uomini rimangono nel buio del casolare
con pensieri di lei che s’apre la camicia e s’insapona il petto (p. 114).
Pin, al solito, canta ed è talora pesantemente allusivo: insomma
tiene allegra la compagnia, ne scalda il morale con spassose canzonette
e con strilli di ottimismo a buon mercato. Intanto, tra il Dritto (il
problematico comandante di un gruppo che, si direbbe, è altrettanto
[ 10 ]
la vita degli uomini come “storia di sangue e corpi nudi” 69
problematico14) e la Giglia, è tutto un intrecciarsi di sguardi e di fedifraghe,
sottili tenerezze (un “armeggio” agli occhi del ragazzo):
La Giglia sta ginocchioni vicino al fuoco, porgendo man mano la legna
sottile al marito che bada a nutrire la fiamma; intanto segue i discorsi e
ride e gira intorno gli occhi verdi. E ogni volta i suoi occhi s’incontrano
con quelli ombrati del Dritto e allora anche il Dritto ride, col suo sorriso
cattivo e malato e rimangono con gli sguardi incrociati, finché lei
non abbassa gli occhi, e sta seria […] il Dritto guarda la Giglia tra le
palpebre ombrate, al di sopra della grossa testa del cuciniere […] – Legna,
– dice Mancino e tende una mano verso Giglia. Giglia gli porge
una scopa d’erica, ma il Dritto tende la mano sopra la testa del cuoco e
la prende […] Mancino ha ancora la mano tesa e il Dritto sta facendo
bruciare l’erica. Poi Giglia allunga sopra la testa del marito una manciata
di rami di saggina, e la sua mano si scontra con quella del Dritto
[…] Il Dritto ha preso la mano di Giglia, con l’altra mano le ha tolto la
saggina e l’ha buttata nel fuoco, ora lascia la mano di Giglia e si guardano
[…] Adesso il Dritto scavalca il cuoco ed è vicino a Giglia […] Il
Dritto s’è acculato accanto alla Giglia: lei gli dà i legni e lui li mette sul
fuoco […] La fiammata ormai è troppo alta: bisognerebbe togliere legna
dal fuoco, non aggiungercene ancora se non si vuole che s’incendi
il fieno del piano di sopra. Ma i due continuano a passarsi stecchi di
mano in mano (pp. 118-121).
La passione che brucia ardente consente ogni distrazione, ed è metafora,
al tempo stesso, della fiammata, dell’incendio reale che casualmente
dà fuoco al casolare, sicché il Dritto(sì: “un’anima trista”) è destinato
a pagarne le conseguenze. Più tardi, comunque, trasferiti tutti
in un fienile anche più malridotto del precedente rifugio, le circostanze
che lo vanno inesorabilmente deprimendo (il Dritto «sembra stia
dirigendo una ritirata dopo un combattimento sfortunato», p. 124)
coincideranno, nonostante tutto, col punto in cui quella passione, nel
cuore della battaglia sopravvenuta, culminerà, in un amplesso tra
l’uomo e la donna, in mezzo ai cespugli della campagna, cui assiste
proprio Pin, già in preda al terrore (sebbene le pistole così, fino ad allora,
gli fossero conseguentemente sembrate: «non sono più arnesi per
uccidere, ma giocattoli strani e incantati», p. 128):
14 Quanto Calvino dice nella Prefazione sui suoi partigiani («non rappresenterò
– egli aveva immaginato – i migliori partigiani, ma i peggiori possibili, metterò al
centro del mio romanzo un reparto tutto composto di tipi un po’ storti» (Prefazione,
cit. p. 13) è una fondamentale chiave di lettura dell’ideologia tutt’altro convenzionale
e partitica, e del respiro autenticamente realistico del suo romanzo (Ivi, pp. 13-14).
[ 11 ]
70 raffaele cavalluzzi
Pin corre a caso per le rive, piangendo. Là, tra i cespugli, una coperta, una
coperta con avvolto un corpo umano che si muove. Un corpo, no, due
corpi, escono due paia di gambe, intrecciate, sussultano (pp. 167-168).
Insomma, mentre gli altri sono personaggi che si affacciano nel
racconto quasi a incarnare la varietà di schemi ideologici (com’è il caso,
per tutti, di Lupo Rosso e del Mancino15), il Dritto, nelle sue umanissime,
angosciose incoerenze, non segue quegli schemi:
Il Dritto è un giovane magro, figlio di meridionali emigrati, con un
sorriso malato e palpebre abbassate dalle lunghe ciglia. Di professione
fa il cameriere; bel mestiere perché si vive vicino ai ricchi e una stagione
si lavora e l’altra si riposa. Ma lui preferirebbe starsene sdraiato
tutto l’anno al sole, con le sue braccia tutte nervi sotto la testa. Invece,
suo malgrado, ha una furia che lo tiene sempre in moto e gli fa vibrare
le narici come antenne, e gli mette addosso un sottile piacere a maneggiare
le armi. Al comando di brigata hanno delle prevenzioni contro di
lui perché sono arrivate informazioni poco buone sul suo conto dal
comitato, e perché nelle azioni vuole sempre fare di sua testa e gli piace
troppo comandare e poco dare l’esempio. Però quando vuole è di
fegato e comandanti ce ne sono pochi: così gli han dato quel distaccamento
su cui non si può fare grande assegnamento, e serve più per
tenere isolati degli uomini che potrebbero rovinare gli altri. Il Dritto è
offeso di questo con il comando, e fa un po’ per conto suo e batte la
fiacca; ogni tanto dice che è malato e passa le giornate sdraiato sul letto
di felci fresche del casolare, con le braccia sotto la testa e le lunghe ciglia
abbassate sugli occhi (p. 123).
E così il suo destino, per tragico paradosso, ne è segnato.
Nel frattempo, in un cosiffatto, conturbante contesto, si realizza
l’incontro decisivo del piccolo protagonista con un personaggio, dal
preciso ruolo politico, della sopravvenuta brigata partigiana: il commissario
comunista Kim. Allora è qui che il profondo dell’essere di
Kimè posto al confronto col profondo della realtà dell’essere del ragazzo,
sicché i due personaggi appaiono, diciamo così, diversamente e
dialetticamente omodiegetici del punto d’osservazione del mondo da
parte dello scrittore.
15 Ecco un’esclamazione che potrebbe sembrare curiosamente pre-pasoliniana
di quest’ultimo: «È la sovrapproduzione la causa dell’imperialismo!» (p. 131). Di
contro alla marcata idealizzazione del Cugino ci sono poi le tragiche contraddizioni
di Pelle – il biondino, il traditore –: un personaggio, nelle sue aporie esistenziali
più che politiche, tipico della “guerra civile” come l’intenderà poi lo storico Claudio
Pavone.
[ 12 ]
la vita degli uomini come “storia di sangue e corpi nudi” 71
Kim, dal nome di battaglia significativamente kiplingiano16, è uno
studente che
«ha un desiderio enorme di logica, di sicurezza sulle cause e gli effetti,
eppure la sua mente s’affolla a ogni istante di interrogativi irrisolti. C’è
un enorme interesse per il genere umano, in lui: per questo studia medicina,
perché sa che la spiegazione di tutto è in quella macina di cellule
in moto, non nelle categorie della filosofia. Il medico dei cervelli,
sarà: uno psichiatra: non è simpatico agli uomini perché li guarda sempre
fissi negli occhi come volesse scoprire la nascita dei loro pensieri e
a un tratto esce con domande a bruciapelo, domande che non c’entrano
niente, su di loro, sulla loro infanzia. Poi, dietro agli uomini, la
grande macchina delle classi che avanzano, la macchina spinta dai
piccoli gesti quotidiani, la macchina dove altri gesti bruciano senza
lasciare traccia: la storia. Tutto dev’essere logico, tutto si deve capire,
nella storia come nella testa degli uomini: ma tra l’una e l’altra resta un
salto, una zona buia dove le ragioni collettive si fanno ragioni individuali,
con mostruose deviazioni e impensati agganciamenti (p. 139).
Ne consegue, nell’ottica dell’autore, che la guerra partigiana e la
storia, sebbene diverse siano le considerazioni che le riguardano, risultano
non soltanto lo sfondo attivo della narrazione, bensì anche le
protagoniste della realtà ritratta. Quelle ideologiche, intanto, sono riassunte
per intere dal personaggio del comandante Ferriera:
Ferriera è un operaio nato in montagna, sempre freddo e limpido: sta
a sentire tutti con un lieve sorriso d’assenso e intanto ha già deciso per
conto suo: come si schiererà la brigata, come s’han da disporre le pesanti,
quando dovranno entrare in azioni i mortai. La guerra partigiana
è una cosa esatta, perfetta per lui come una macchina, è l’aspirazione
rivoluzionaria maturatagli nelle officine portata sullo scenario delle
sue montagne, conosciute palmo a palmo, dove può giocare d’ardire e
d’astuzia» (p. 138).
16 «Con un mio amico e coetaneo, che ora fa il medico, e allora era studente
come me, passavamo le sere a discutere […] Il mio amico era un argomentatore
analitico, freddo, sarcastico verso ogni cosa che non fosse un fatto; l’unico personaggio
intellettuale di questo libro, il commissario Kim, voleva essere un suo ritratto
» (Prefazione, cit, p. 18): è questo l’uomo reale che ispira il personaggio di
Kim, mentre, nel romanzo, di lui si era detto in modo diretto: «La valle è piena di
nebbie e Kim cammina su per una costiera sassosa come sulle rive di un lago. I
larici escono dalle nuvole come pali per attraccare barche. Kim… Kim… chi è Kim?
Il Commissario di brigata si sente come l’eroe del romanzo letto nella fanciullezza:
Kim, il ragazzo mezzo inglese mezzo indiano che viaggia attraverso l’India col
vecchio Lama Rosso per trovare il fiume della purificazione» (p. 152).
[ 13 ]
72 raffaele cavalluzzi
E l’autore invece è portato, con Kim, a vedere la guerra piuttosto
come “guerra civile” (lo aveva già accennato Pavese nella Casa in
collina)17, nella quale prevalgono, accanto all’analisi sociale che la innerva
(e che riguarda l’essenziale, tagliente, articolazione di classe dei
protagonisti combattenti: i contadini, gli operai, gli intellettuali), il
“furore” e la tragica verità del sangue versato:
Kim ha difficoltà ad esprimersi, scuote il capo: – Storie, – dice, – storie.
Gli uomini combattono tutti, c’è lo stesso furore, cioè non lo stesso,
ognuno ha il suo furore, ma ora combattono tutti insieme, tutti ugualmente,
uniti. Poi c’è il Dritto, c’è Pelle… Tu non capisci quanto loro
costi… Ebbene anche loro, lo stesso furore… Basta un nulla per salvarli
o per perderli… (p. 144).
Gli uomini, per Calvino, si portano tutti dentro, infatti, un peso, e
una sorta di «ferita segreta per riscattare la quale combattiamo»18. È lo
stesso Kim che ne avverte la costanza: nel prisma autobiografico che
passa attraverso la consapevolezza del giovane (in lui, come personaggio,
c’è del resto una parte dell’amico medico delle conversazioni
della Prefazione e una parte che riguarda lo scrittore medesimo19).
17 «Fu Pavese che riuscì a scrivere: “Ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene
chiede ragione”, nelle ultime pagine della Casa in collina, strette tra il rimorso di
non aver combattuto e lo sforzo d’essere sincero sulle ragioni del suo rifiuto» (Prefazione,
cit, p. 19).
18 «L’uomo porta dentro in sé le sue paure bambine per tutta la vita. “Forse, –
pensa Kim, – se non fossi commissario di brigata avrei paura. Arrivare a non aver
più paura, questa è la meta ultima dell’uomo”.
Kim è logico, quando analizza con i commissari la situazione dei distaccamenti,
ma quando ragiona andando da solo per i sentieri, le cose ritornano misteriose
e magiche, la vita degli uomini piena di miracoli. Abbiamo ancora la testa piena di
miracoli e di magie, pensa Kim. Ogni tanto gli sembra di camminare in un mondo
di simboli, come il piccolo Kim in mezzo all’India, nel libro di Kyplingtante volte
riletto da ragazzo.
“Kim… Kim… Chi è Kim?…”
Perché lui cammina quella notte per la montagna, prepara una battaglia, ha
ragione di vite e di morti, dopo la sua melanconica infanzia di bambino ricco, dopo
la sua scialba adolescenza di ragazzo timido?» (pp. 148-149)
19 Qui emerge non a caso l’eco di un amore giovanile borghese, con il terrore,
di tutti prima della battaglia, anche dei tedeschi: «Kim pensa alla colonna di tedeschi
e fascisti che forse stanno già avanzando su per la vallata, verso l’alba che
porterà la morte a dilagare su di loro, dalle creste delle montagne. È la colonna dei
gesti perduti: ora un soldato svegliandosi a uno scossone del camion pensa: ti amo,
Kate. Tra sei, sette ore morirà, lo uccideremo; anche se non avesse pensato: ti amo,
Kate, sarebbe stato lo stesso, tutto quello che lui fa e pensa è perduto, cancellato
[ 14 ]
la vita degli uomini come “storia di sangue e corpi nudi” 73
Analogamente anche nel piccolo protagonista s’invera una immatura,
ma non per questo meno autentica, percezione delle cose, tramite cui
si fa però più mediato dalla velatura dell’innocenza (si arriva perfino
a dire che Pin, «con la bocca piena di sugo di fragole e gli occhi pieni
di svolazzi di farfalle», «odia l’aria materna delle donne»), ma meno
paradossalmente idealizzato di quello del commissario, il suo sguardo
sulla verità del reale: è in virtù di esso che prende spazio allora, nel
romanzo, ciò che può definirsi in qualche modo il riflesso omodiegetico
di chi scrive.
Torna per intanto, nell’ultimo capitolo, puntuale, il suo inconfondibile
ritratto si direbbe antropologico:
Pin è seduto sulla cresta della montagna, solo: rocce pelose d’arbusti
scendono a picco ai suoi piedi, e s’aprono vallate, fin giù nel fondo
dove scorrono neri fiumi. Lunghe nuvole salgono per i versanti e cancellano
i paesi spersi e gli alberi. È successo un fatto irrimediabile, ormai:
come quando ha rubato la pistola al marinaio, come quando ha
abbandonato gli uomini dell’osteria, come quando è scappato dalla
prigione. Non potrà più ritornare con gli uomini del distaccamento,
non potrà mai combattere con loro.
È triste essere come lui, un bambino nel mondo dei grandi, sempre un
bambino, trattato dai grandi come qualcosa di divertente e di noioso; e
non poter usare quelle loro cose misteriose ed eccitanti, armi e donne,
non potere far mai parte dei loro giochi. Ma Pin un giorno diventerà
grande, e potrà essere cattivo con tutti, vendicarsi di quelli che non
sono stati buoni con lui: Pin vorrebbe essere grande già adesso, o meglio,
non grande, ma ammirato o temuto pur restando com’è, essere
bambino e insieme capo dei grandi, per qualche impresa meravigliosa.
Ecco, Pin ora andrà via, lontano da questi posti ventosi e sconosciuti,
nel suo regno, il fossato, nel suo posto magico dove fanno il nido i ragni
(p. 185).
Tuttavia, nella imberbe esperienza del bambino, c’è anche qualcosa
di più complesso, che si coglieva peraltro sin dall’inizio del romanzo
in tutta la sua densità. Non è un caso infatti che in lui, allorché, ad
esempio, assiste all’amplesso della sorella, si proponga l’antica sapienza
del mondo che precipita, efficace, nella tremula coscienza infantile:
dalla storia. // Io invece cammino per un bosco di larici e ogni mio passo è storia;
io penso: ti amo, Adriana, e questo è storia, ha grandi conseguenze, io agirò domani
in battaglia come un uomo che ha pensato stanotte: “ti amo, Adriana”» (p. 151)
[ 15 ]
74 raffaele cavalluzzi
La spiegazione di tutte le cose del mondo è lì dietro quel tramezzo; Pin
ci ha passato ore e ore fin da bambino e ci ha fatto gli occhi come punte
da spilli; tutto quel che succede là dentro lui lo sa, pure ancora la
spiegazione del perché gli sfugge e Pin finisce per aggomitolarsi ogni
notte nella sua cuccetta abbracciandosi il petto. Allora le ombre del ripostiglio
si trasformano in sogni strani, di corpi che s’inseguono, si
picchiano e s’abbracciano nudi, finché viene un qualcosa di grande e
caldo e sconosciuto, che sovrasta su di lui, Pin, e lo carezza e lo tiene
nel caldo di sé, e questo è la spiegazione di tutto, un richiamo lontanissimo
di felicità dimenticata […].
Pin vorrebbe sdraiarsi nella sua cuccetta e stare a occhi aperti e fantasticare,
mentre il tedesco di là sbuffa e la sorella fa dei versi come per
un solletico sotto le ascelle […].
Invece ora Pin è carponi sulla soglia della stanza, scalzo, con la testa
già al di là della tenda in quell’odore di maschio e femmina che dà
subito alle narici. Vede le ombre dei mobili nella stanza, il letto, la sedia,
il bidé bislungo con le gambe a trespolo. Ecco: dal letto ora comincia
a sentirsi quel dialogo di gemiti, ora si può avanzare carponi badando
di far piano (pp. 42-44).
Allora, il lato oscuro d’un mondo naturale e al tempo stesso perverso,
sulla soglia di un impietoso materialismo, ci dice forse a questo
punto che la combinazione di sangue e sesso (ricordiamo: la vita degli
uomini è «storia di sangue e corpi nudi») sfuma, destinata a perdurare
illimitatamente, in un’impalpabile, ma coinvolgente angoscia, e, nel
contempo, nel terso effetto della scrittura che ne dà riscontro20. In fondo,
dunque, non c’è consolazione, e, se il finale di cui si è all’inizio
fatto cenno può apparire da questa condizionato, esso è (amicizia che
compensa solitudine) ancor più il risultato di un frutto letterariamente
avveduto e ossimoricamente ancora acerbo della vicenda del bambino
dei nidi di ragno, e del già grande scrittore21, che in questa sua prima e
20 Valga per tutti gli altri casi questo delicatissimo passaggio descrittivo: «Il
mare che ieri era un torbido fondo di nuvola ai margini del cielo, si fa una striscia
d’un cupo sempre più denso ed ora è un grande urlo azzurro al di là d’una balaustra
di colline e di case» (p. 187).
21 Per un essenziale richiamo alla sua bibliografia critica cfr. almeno le seguenti
voci relative a colui che è poi diventato, tra l’altro, l’insuperabile autore del Castello
dei destini incrociati e di Lezioni americane, e l’autore del primo, fra i pochi
classici della letteratura della Resistenza, che si pone, e raggiunge forse, “obiettivi
smisurati” (è la sua, poi dichiarata, aspirazione): Italo Calvino. Atti del Convegno
Internazionale. Firenze 26-28 febbraio 1987, a cura di Giovanni Falaschi, Milano,
Garzanti 1988 (in cui occorre fare riferimento per il Sentiero a G. Falaschi, Negli
[ 16 ]
la vita degli uomini come “storia di sangue e corpi nudi” 75
complessa prova riuscì a prendere la dolceamara tenerezza dei suoi
panni.
Raffaele Cavalluzzi
Università di Bari
anni del neorealismo, pp. 113-140; Giuseppe Nava, La geografia di Calvino, pp. 149-
165; Enrico Ghidetti, Il fantastico ben temperato di Italo Calvino, pp. 171-185; Giorgio
Raimondo Cardona, Fiaba, racconto e romanzo, pp. 187-201; Pier Vincenzo
Mengaldo, La lingua dello scrittore, pp. 203-224; Alberto Asor Rosa, Il “punto di
vista” di Calvino, pp. 261-276); Claudio Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su
Italo Calvino, Milano, Garzanti, 1990; Giorgio Bertone, Italo Calvino. Il castello della
scrittura, Torino, Einaudi, 1994; Marco Belpoliti, L’occhio di Calvino, Torino,
Einaudi, 2006; Mario Barenghi, Italo Calvino, Le linee e i margini, Bologna, Il Mulino,
2007.
E per Calvino nel secondo Novecento cfr. Domenico Scarpa, Italo Calvino, Milano,
Bruno Mondadori, 1999, e, sopra ogni altro, A. Asor Rosa, Stile Calvino. Cinque
Studi, Torino, Einaudi, 2001.
[ 17 ]

GIOVANNI DE LEVA
La guerra dei padri.
Beppe Fenoglio e il primo conflitto mondiale
Il saggio ripercorre l’inchiesta storico – narrativa sul primo conflitto mondiale
che Beppe Fenoglio sembra svolgere tra Un giorno di fuoco (1955) e I penultimi
(1962-1973), alla ricerca d’un raccordo politico e morale tra la Grande Guerra e
la Resistenza. Si tratta d’un percorso accidentato, che tra l’altro vede lo scrittore
cambiare radicalmente posizione sul conflitto, prima di riuscire a tracciare una
linea genealogica e una tradizione culturale di riferimento.

This essay surveys the historical-narrative inquiry into the First World War that
Beppe Fenoglio seems to carry out between Un giorno di fuoco (1955) and I penultimi
(1962-1973) in a search for political and ethical links between the Great War
and the Resistance. It is a bumpy ride in which the author alters radically his
position concerning the war, prior to tracing a family tree and a cultural tradition
on which to base his research.
1. Il parentado alla Grande Guerra
Nell’ultima fase della sua carriera di scrittore, interrotta nel 1963 dalla
morte, Beppe Fenoglio svolge un’operazione di tipo storico, ripensa
cioè all’eredità della Grande Guerra in rapporto all’Italia repubblicana1.
Un chiaro segnale in questo senso emerge nel 1959, lo stesso anno
del film La Grande Guerra di Mario Monicelli, quando a marzo compare
sulla «Fiera letteraria» Tradotta a Roma. Si tratta del sesto capitolo di
Primavera di bellezza (1959), uscito il mese successivo, e quindi d’una
sorta di anteprima del romanzo.
Autore: Università di Bologna; tutor didattico; giovanni.deleva@gmail.com
1 Sul lavoro di scavo del passato che è sotteso più in generale all’opera dello
scrittore, cfr. Roberto Bigazzi, Fenoglio, Roma, Salerno Editrice, 2011, e Id., Taricco’s
Memory, in Memories and Representations of War. The Case of World War I and
World War II, a cura di Elena Lamberti e Vita Fortunati, Amsterdam-New
York, Rodopi, 2009, pp. 303-316.
78 giovanni de leva
A fare riferimento alla Grande Guerra è il padre del protagonista,
Johnny, che nell’estate del 1943 attende alla stazione di Moana la tradotta
per la capitale. «La nostra guerra era molto più sentita»2, osserva
allora il primo, dopo avere notato l’assenza di festeggiamenti della
popolazione. Johnny gli domanda: «Come ti sentisti a Caporetto?» e il
padre, «imbarazzato», spiega che in un esercito allo sbando «vai come
pula al vento»3; seguendo il filo dei ricordi, rammenta poi l’intervento
decisivo dei «giovani del novantanove», che «ricevettero ciascuno un
fucile, una manciata di cartucce e un sacco a terra da riempire sulla
riva del Piave. Nessuno aveva più un’unghia»4.
Le parole del reduce non hanno soltanto un valore retrospettivo,
ma contengono anche una premonizione di ciò che accadrà al figlio
soldato: all’indomani dell’8 settembre, che lo travolge non diversamente
da come la rotta del 1917 aveva fatto col padre, Johnny passa da
un conflitto imposto dal regime ad una guerra «sentita», ossia alla Resistenza,
i cui protagonisti ricordano per età e penuria di equipaggiamenti
i ragazzi del Novantanove. Attraverso le figure dell’ex combattente
e del futuro partigiano, La Tradotta mette quindi in scena una
sorta d’incontro tra il primo e il secondo conflitto mondiale, con l’effetto
d’inserire la lotta antifascista nella Storia d’Italia, e proprio nel
solco di cui il Fascismo si arrogava la discendenza.
Fenoglio recepisce dunque idealmente la lezione di Emilio Lussu,
intuisce cioè che alla Grande Guerra madre del fascismo (1935), per citare
Alfredo Bajocco, se ne contrappone un’altra, e non genericamente nazionale,
come appare dal film di Monicelli, ma specificatamente resistenziale5.
Per chi, come lo scrittore partigiano, appartiene ad una generazione
successiva a quella dell’autore di Un anno sull’Altipiano,
passato di persona dalle trincee alla lotta antifascista, non è d’altra
parte affatto scontato individuare i nessi politici e morali tra i due
eventi. Di qui l’immagine della Grande Guerra non particolarmente
originale che traspare dai ricordi del reduce, con la ferita sempre aper-
2 Beppe Fenoglio, Primavera di bellezza, Torino, Einaudi, 1991, p. 45.
3 Sul valore paradigmatico di questa immagine, cfr. Giancarlo Alfano, Un
orizzonte permanente. La traccia della guerra nella letteratura italiana del Novecento,
Torino, Nino Aragno Editore, 2012, pp. 182-185.
4 B. Fenoglio, Primavera di bellezza, cit., p. 46.
5 Cfr. Giovanni de Leva, La guerra sulla carta. Il racconto del primo conflitto
mondiale, Roma, Carocci, 2017, pp. 228-248, e Id., Mario Monicelli: La Grande
Guerra, in Italienische Filme des 20. Jahrhunderts in Einzelinterpretationen, a cura di
Andrea Grewe e Giovanni di Stefano, Berlino, Erich Schmidt Verlag, 2015, pp.
89-105.
[ 2 ]
la guerra dei padri. beppe fenoglio e il primo conflitto mondiale 79
ta di Caporetto, l’eroico sacrificio dei più giovani, e in generale l’idea
d’un conflitto «sentito»6, quando invece lo stesso Monicelli metteva in
luce l’estraneità delle classi popolari ad ogni forma di interventismo.
Quella di Primavera di bellezza, però, è soltanto una tappa intermedia
di un’inchiesta storico-narrativa assai più articolata di quanto sostiene
la critica7, e che giungerà a tutt’altri risultati nei Penultimi, e nei
tre racconti immediatamente precedenti, databili tutti attorno al 1962:
La licenza, Il mortorio Boeri e Un Fenoglio alla prima guerra mondiale8. Da
quest’ultimo titolo si desume l’intento generale dello scrittore: passare
in qualche modo dal partigiano Johnny al reduce suo padre, stabilire in
altre parole una genealogia morale e politica9, insomma, per dirla con
Italo Calvino, risalire indietro nel tempo alla ricerca degli antenati10.
Proprio all’autore della trilogia, riferendosi con ogni probabilità
alle novelle sulla Grande Guerra, nel 1961 Fenoglio annuncia peraltro
6 «Quella era una guerra onesta, diversissima da questa, molto più pulita»,
dice d’altra parte la madre a Johnny: B. Fenoglio, Il partigiano Johnny [Prima redazione],
in Id., Opere, ed. critica diretta da Maria Corti, a cura di Maria Antonietta
Grignani, Torino, Einaudi, 1978, vol. I, t. II, p. 640.
7 Gino Rizzo, Su Fenoglio tra filologia e critica, Lecce, Edizioni Milella, 1976, ritiene
soltanto sporadico l’interesse dello scrittore per la prima guerra mondiale.
Eduardo Saccone, Le guerre di Fenoglio, in Id., Ritorni. La seconda lettura, Napoli,
Liguori, 2010, pp. 291-292 e p. 299, nega che tra la prima e la seconda guerra mondiale
sussista alcun legame profondo per Fenoglio, che si volgerebbe al passato per
un interesse di natura identitaria, anziché storica. Nella direzione di Saccone va
l’introduzione di Gabriele Pedullà, Figli e padri, in B. Fenoglio, Un Fenoglio alla
prima guerra mondiale, Torino, Einaudi, 2014, pp. V-XVIII.
8 Si tratta degli ultimi lavori di Fenoglio, interrotti dall’aggravarsi della malattia
che lo avrebbe condotto alla morte. I testi, manoscritti, si leggono in unico quaderno
(il n. VIII del Fondo di Alba), che da un lato contiene La licenza, Il mortorio
Boeri e la prima versione dei Penultimi (titolo non attestato negli autografi, ma
d’autore, secondo la testimonianza della moglie), dall’altro la prima stesura di Un
Fenoglio alla prima guerra mondiale. Cfr. al proposito la Nota di G. Rizzo, a cui si
deve la trascrizione e la pubblicazione dei testi per Einaudi nel 1973, in B. Fenoglio,
Un Fenoglio alla prima guerra mondiale, cit., pp. 177-179; la Nota ai testi, in B.
Fenoglio, Opere, cit., Racconti sparsi editi e inediti, a cura di Piera Tomasoni, Torino,
Einaudi, 1978, vol. III, pp. 555-561; e le Schede critiche, in B. Fenoglio, Romanzi
e racconti, a cura di Dante Isella, Torino, Einaudi, 2001, pp. 1741-1744 e p. 1755.
Sulla vicenda editoriale e sulle varianti testuali, cfr. G. Rizzo, Su Fenoglio tra filologia
e critica, cit., pp. 100-167.
9 Più che biologica e proiettata su un orizzonte ancestrale, come sostiene invece
G. Pedullà, Figli e padri, cit., p. VI.
10 Sull’intento storico sotteso alla Trilogia degli antenati, e condiviso idealmente
tra gli altri da Fenoglio, cfr. R. Bigazzi, Le risorse del romanzo. Componenti di genere
nella narrativa moderna, Pisa, Nistri-Lischi, 1996, pp. 256 e segg.
[ 3 ]
80 giovanni de leva
una nuova raccolta di «racconti del parentado»11. In quello che avrebbe
poi dato il titolo alla prima serie, pubblicata postuma nel 1963, cioè
in Un giorno di fuoco12 (1955), l’eredità del conflitto era già riaffiorata. Il
narratore del racconto segue infatti la vicenda attraverso la prospettiva
morale d’un reduce. Si tratta dello «ziastro», a cui anche gli altri
compaesani chiedono di spiegare la battaglia in corso tra Pietro Gallesio,
barricatosi in casa dopo avere commesso una serie di omicidi in
una contrada vicina, e i carabinieri, sopraggiunti in numero tale da
dare l’immagine dello Stato, che è poi quello fascista. Al reduce spetta
anche il giudizio conclusivo: qualunque siano stati i motivi del gesto,
Gallesio, che si suicida per non arrendersi, è andato fino in fondo, «è
stato al gioco»13.
L’immagine ha una notevole importanza, in primo luogo perché si
rivolge ad un giovane in via di formazione com’è il narratore, combattuto
tra la linea paterna e quella materna come tra due modi d’essere,
che sono collettivi oltre che individuali14: «mia madre veniva dal più
clericale dei clericali paesi dell’Oltretanaro, da una gente che aveva
per bandiera proprio quello che i Fenoglio, secondo lei, si mettevano
facilmente sotto i piedi: il timor di Dio e l’onore del mondo»15. Le parole
del reduce, che assecondano la predilezione del nipote per l’etica
dei Fenoglio, attraversano d’altra parte l’intera raccolta, in modo letterale
oltre che metaforico, e fungono da precetto, in un duplice senso:
rimanere coerenti a sé stessi, cioè come Gallesio «stare al gioco», e, se
quest’ultimo risulta truccato, rovesciare il tavolo, anche al prezzo della
vita16.
11 B. Fenoglio, Lettere, a cura di Luca Bufano, Torino, Einaudi, 2002, p. 141.
12 Sulla vicenda editoriale, cfr. D. Isella, Itinerario fenogliano, in B. Fenoglio,
Romanzi e racconti, cit., pp. 1413-1419; sul racconto, emblematico dell’opera dello
scrittore, cfr. E. Saccone, Fenoglio. I testi, l’opera, Torino, Einaudi, 1998, pp. 97-123.
13 B. Fenoglio, Un giorno di fuoco. Racconti del parentado, a cura di Dante
Isella, Torino, Einaudi, 2000, p. 19.
14 Sul tema, e più in generale sulla raccolta di racconti, cfr. R. Bigazzi, Fenoglio,
cit., pp. 217-226.
15 B. Fenoglio, Un giorno di fuoco, cit., p. 27. Com’è stato più volte osservato, il
passo ricalca una pagina del Diario: «Io li sento tremendamente i vecchi Fenoglio,
pendo per loro (chissà se un futuro Fenoglio mi sentirà come io sento loro). A formare
questa mia predilezione ha contribuito anche il giudizio negativo che su di
loro ho sempre sentito esprimere da mia madre. Lei è d’oltretanaro, d’una razza
credente e mercantile, giudiziosissima e sempre insoddisfatta. Questi due sangui
mi fanno dentro le vene una battaglia che non dico», B. Fenoglio, Opere, cit., vol.
III, pp. 208-209.
16 Come Gallesio, agiscono i protagonisti dei due racconti successivi: Catinina,
[ 4 ]
la guerra dei padri. beppe fenoglio e il primo conflitto mondiale 81
In Un giorno di fuoco, dunque, l’ex combattente non indirizza affatto
la generazione successiva al valore del sacrificio, come accadrà in
Primavera di bellezza col richiamo ai ragazzi del ’99, ma al senso d’integrità,
e, se necessario, alla rivolta. Si direbbe allora che durante la stesura
del romanzo Fenoglio abbia un dubbio sull’eredità del conflitto.
L’intento d’inserire la Resistenza nella strada maestra della Storia d’Italia
deve averlo convinto poi a scegliere un reduce diverso da quello
di Un giorno di fuoco, ossia un predecessore del partigiano che risultasse
a tutti gli effetti patriottico, com’è il padre di Johnny. Non si tratta
però d’una scelta definitiva: quando poco dopo si addentra nel tema
della Grande Guerra, lo scrittore torna sui suoi passi, sposa cioè di
nuovo la figura dello ziastro.
Il monito di quest’ultimo continua infatti ad agire in modo sotterraneo
anche nei nuovi racconti del parentado, dove l’ambientazione
temporale viene arretrata agli anni del conflitto, mentre scompare la
figura del giovane narratore. Non ne avrebbe ottenuto peraltro l’approvazione
il protagonista di Un Fenoglio alla prima guerra mondiale,
Osvaldo, che sin dall’aspetto appare come un antenato sui generis17. È
data in sposa tredicenne, che si ferma ad un passo dall’abbandonare il marito, ma
non rinuncia alla passione infantile per le biglie, neanche quando diventa madre;
Paco, che giunge a rovinarsi completamente alle carte, e non nasconde alla moglie
di averlo fatto per l’amante, e per la sua schiettezza viene perdonato. Durante una
partita di carte, invece, Superino si accorge di avere di fronte un baro, e, nel furioso
litigio che segue, scopre un inganno assai più grande, di essere cioè il figlio del
prete; per far saltare l’imbroglio combinato anni addietro dal prelato, che era riuscito
ad attribuirgli una falsa paternità, il ragazzo si annega. Nel senso di Superino,
ossia di rivolta contro un gioco truccato, il precetto dello ziastro risulta valido anche
negli ultimi due racconti, la cui origine d’altra parte non è quella parentale: il
cugino del narratore si spreta, mandando così a monte i progetti della madre, che
muore per lo sdegno; Daniele Cora, stufo delle autorità statali e clericali, un giorno
comincia a sparare come Pietro Gallesio, finché non viene ucciso dai carabinieri.
17 «Fisicamente non era affatto un Fenoglio ed il suo caso era certamente l’unico
in cui una sposa nei Fenoglio avesse sommerso i caratteri dominanti di questi.
“Non è un Fenoglio, è un Cucco”, dicevano i parenti Fenoglio, qualcuno con spregio
e qualcun altro soltanto con malinconia. Era di statura appena media con degli
occhi qualsiasi, una faccia corta e rotondetta, il naso piccolo e perfettamente disegnato.
Dai Fenoglio differiva anche in un’altra cosa sostanziale: quelli rallentavano
quando ritenevano di aver guadagnato abbastanza e si disponevano al godimento.
Osvaldo non ne aveva mai abbastanza e non pensava mai, minimamente, a goderseli
», B. Fenoglio, Un Fenoglio alla prima guerra mondiale, cit., p. 164. L’edizione
curata da Rizzo riporta la prima e più ampia stesura del testo; per l’ultima versione,
le cui varianti non modificano il senso del nostro discorso, cfr. B. Fenoglio,
Opere, cit., vol. III, pp. 167-171.
[ 5 ]
82 giovanni de leva
lui a dirigere gli affari di famiglia, perciò, quando nel 1915 si delinea
l’ipotesi della partenza per il fronte, il padre e le sorelle immaginano
la rovina. Osvaldo prevede a sua volta che «per la fine di maggio non
si vedrà più in paese un uomo che valga la pena d’esser chiamato
tale»18, e in questi termini giudica il conflitto: «io l’Italia la conosco
appena e l’Austria la conosco per niente, quindi non ci voglio entrare.
Se loro son matti io non lo sono. Per non partecipare a questa matteria
sono disposto a tutto, anche a passare per matto»19.
Cambia dunque radicalmente il quadro rispetto a Primavera di bellezza:
dalla «guerra sentita» del padre di Johnny, si passa ad un conflitto
assurdo, e più in generale all’estraneità all’idea di patria. La contrarietà
di Osvaldo non manca d’altra parte d’un calcolo d’interessi: «se io
resto a casa e gli altri vanno a sgozzarsi, faremo tanti di quei soldi…»20.
Il personaggio tenta perciò di scampare all’arruolamento, e il piano
riesce, ma ad un prezzo maggiore del capitale messo da parte per corrompere
l’ufficiale medico. Due mesi dopo la chiamata alle armi,
Osvaldo torna a casa «da fuori mano», «impaurito e sospettoso come
un mendicante odioso alla gente»21. I familiari lo riconoscono a stento,
tanto è «smunto e ingiallito», con gli occhi «carichi e spiritati», e lui
stesso, che rifiutava la guerra come una «matteria», ammette ora di
sentirsi «mezzo pazzo». In gran segreto, spiega allora di avere simulato
la sordità, finché non gli è stato concesso l’esonero sospirato, che
d’altra parte lo condanna ad una finzione perenne.
Il racconto, incompiuto, s’interrompe qui, ma è chiaro come la ricerca
degli antenati al tempo della Grande Guerra abbia in questo caso
un esito negativo, conduca cioè alla scoperta di un individuo che,
per rifarsi ad Un giorno di fuoco, non intende né stare al gioco, né rovesciare
il tavolo, col risultato di smarrire la propria identità. Osvaldo
finisce infatti per confermare la sua stessa previsione degli effetti della
guerra sul paese, riducendosi formalmente e di fatto ad uno di quegli
uomini che non vale la pena di chiamare tali.
Il quadro di Un Fenoglio alla prima guerra mondiale viene ampliato
dall’altro racconto parentale d’ambientazione bellica, La licenza, dove
lo scrittore sembra volere rispondere alla domanda di Johnny sull’esperienza
militare del padre. Il protagonista, Amilcare, torna infatti
18 B. Fenoglio, Un Fenoglio alla prima guerra mondiale, cit., p. 158.
19 Ivi, p. 159.
20 Ivi, p. 161.
21 Ivi, p. 168.
[ 6 ]
la guerra dei padri. beppe fenoglio e il primo conflitto mondiale 83
dal fronte, e si contrappone ad Osvaldo anche per i caratteri somatici,
stavolta pienamente conformi all’amata linea paterna22.
Questo Fenoglio purosangue è un «leggero sbruffone», disinvolto
con le donne e generoso col più giovane compagno di viaggio, il soldato
Boeri, al quale offre da bere «grappa e vino e birra, vino birra e
grappa» ad ogni tappa del percorso da Verona a Alba. Qui Amilcare
esprime subito il suo odio per gli imboscati alla Osvaldo, come sembra
essere il marito della proprietaria del bar della stazione. Boeri intuisce
a sua volta il rischio di finire nei guai per un compagno alticcio,
degradato al fronte da sergente a soldato semplice, e che sogna la fine
della guerra per potere «finalmente pisciare in culo al re e a Cadorna e
a Marasso»23, cioè al suo capitano.
La contrarietà al conflitto di Un Fenoglio alla prima guerra mondiale si
estende così alla gerarchia militare e politica, che costituisce un punto
chiave per comprendere la prospettiva storica del racconto di guerra24.
Non c’è in altre parole alcuna possibilità che Amilcare rovesci l’inziale
neutralismo in patriottismo, come nel finale della Grande Guerra di
Monicelli accade a Busacca e Jacovacci per reazione a Caporetto, e
d’altra parte lo stesso concetto di eroismo viene esplicitamente rigettato:
«non ho mai combinato niente di speciale, lassù», spiega nella
conclusione del racconto Boeri a chi gli chiede se la licenza è stata
concessa per turno o per premio, «e voglia Dio che possa finir la guerra
senza che io abbia combinato niente di speciale»25.
Boeri in realtà non vorrebbe farsi notare neanche ad Alba, ma vanno
a vuoto i tentativi d’invogliare Amilcare a ripartire. Quest’ultimo,
infatti, non è atteso dai familiari, che non ha avvertito della licenza, e
conduce il compagno riluttante nel caffè dei signori. Qui accade l’irreparabile:
attirato dalle voci provenienti da una sala interna, Amilcare
vi scopre un gruppo di ricchi borghesi impegnati a discutere dell’an-
22 «Con quei suoi occhi beffardi e tristi, e il suo naso bellissimo fino alla punta,
dove però faceva una rotondità innaturale, posticcia, carnevalesca, come se l’avesse
appiccicato lui quel gromo e fosse di mollica di pane o mastice, con quella barba
dorata lunga, così sconvolta come se ci fosse passato un uragano, e che non bastava
a mascherare l’emaciata durezza dei suoi zigomi, e la sua bellissima bocca, con
quello straordinario labbro inferiore protruso, sempre rosso e umido come quello
d’una donna, bella donna» (Ivi, p. 130).
23 Ivi, p. 137.
24 Cfr. Giovanni de Leva, Il popolo e la nazione. Un itinerario nella narrativa di
guerra, «Allegoria», XXVIII (2016), n. 74, pp. 79-96.
25 B. Fenoglio, Un Fenoglio alla prima guerra mondiale, cit., p. 143.
[ 7 ]
84 giovanni de leva
damento della guerra, con tanto di mappe del fronte e relative bandierine.
Il soldato allora insorge contro la «manica» di «porci imboscati»:
“Voi non potete parlare!”, urlò il Fenoglio. “Non dovete!” La sua voce
investiva come un vento i vecchi, smorti tendaggi. “Voi non avete visto
il sangue e la merda e il fango. Vecchi maiali, andate a vedere la merda
e il sangue e il fango e poi parlerete, se ne avrete ancora voglia. […]
Guai a chi parla!” – gridava. “E questi sarebbero i vostri giocattoli! Le
belle cartine, con le belle bandierine. Ma dove sono il sangue e la merda
e il fango…?”26
Come temuto da Boeri, la rabbia contro i civili e l’insofferenza per
le gerarchie finiscono dunque per trovare uno sfogo. All’astrazione
delle mappe geografiche, il reduce contrappone allora la realtà del
fronte, cioè l’orrore della guerra, condensato in una formula che rimanda
alla carneficina, dell’abiezione e della costrizione a cui vengono
sottoposti i soldati. Con «grandi manate sulla carta», Amilcare abbatte
quindi le bandierine, «così selvaggiamente» da piantarsi «gli
spilli nelle mani». Seguono l’intervento dei carabinieri, l’arresto dei
due soldati e la revoca immediata della licenza. Un prezzo che il protagonista
si dimostra pronto a pagare: rinchiuso nel corpo di guardia
insieme al compagno, cade infatti nel sonno del giusto. Diversa la reazione
di Boeri, che «piangeva senza lacrime, perché sapeva che appena
tornato al fronte l’avrebbero ucciso, subito o quasi»27.
Il confronto tra Osvaldo e Amilcare delinea allora, sulla base comune
del rifiuto del conflitto, due modelli opposti: uno volto in qualunque
modo a sopravvivere, e se possibile ad approfittare della catastrofe,
anche al prezzo della propria degradazione; l’altro disposto
invece ad affrontare tutte le conseguenze, compresa quella di tornare
anzitempo al fronte, pur di restare integro. Se in altre parole Osvaldo
viene meno al precetto di Un giorno di fuoco, credendo di potersi sottrarre
al gioco, Amilcare invece lo osserva e rovescia il tavolo, col risultato
però di coinvolgere anche un innocente.
Il finale della Licenza getta infatti sul gesto di rivolta un’ombra tragica,
confermata dal terzo racconto d’ambientazione bellica, Il mortorio
Boeri, dove la notizia della scomparsa del soldato costituisce peraltro
l’unico accenno al fronte. L’involontario concorso di Amilcare nella
morte di Boeri rappresenta in ogni caso un’altra faccia dell’orrore della
guerra, che lo scrittore ha qui l’intento primario di portare in piena
26 Ivi, p. 140.
27 Ivi, p. 144.
[ 8 ]
la guerra dei padri. beppe fenoglio e il primo conflitto mondiale 85
luce. In altre parole, Fenoglio avrà pensato che un uomo ridotto all’alcolismo,
indisciplinato e provocatore perché lordo di «sangue, merda
e fango», non può andare per il sottile nella sua protesta, e finisce perciò
per trascinare chi gli sta intorno.
Per un verso dunque è chiaro verso chi vada la simpatia dell’autore,
per l’altro resta in qualche modo irrisolta la questione di fondo di
Primavera di bellezza, quella cioè dell’eredità della Grande Guerra rispetto
alla lotta antifascista. Una volta emerso l’orrore d’un conflitto
assurdo, le indicazioni del padre di Johnny perdono infatti d’efficacia.
Un uomo del rigore morale del partigiano, d’altra parte, sapendo delle
responsabilità di Amilcare nei confronti del compagno, avrebbe provato
forse qualche imbarazzo a sceglierlo come antenato d’elezione.
2. La Grande Guerra dei Penultimi
Temi e personaggi dei nuovi racconti del parentado confluiscono
nei Penultimi28, dove Fenoglio approfondisce in una prospettiva storica
i termini dell’opposizione tra Amilcare e Osvaldo, tra chi cioè si
trova al fronte, e chi intende invece starne lontano. Il titolo dell’opera
suggerisce peraltro l’idea d’una successione generazionale, e a questo
scopo lo scrittore recupera da Un giorno di fuoco la figura del giovane
narratore, ospite stavolta nella casa del nonno paterno all’epoca del
conflitto.
Ad aprire I penultimi è un’ideale ricerca d’una linea genealogica,
con il narratore che deve scegliere a quale dei tre zii al fronte indirizzare
una richiesta di denaro, per conto della famiglia ma di propria
iniziativa. Si delineano così diverse condotte di guerra: quella di Amilcare,
«troppo onesto» perché il nipote possa suggerirgli di «fare un po’
di soldi» a spese dell’esercito; quella di Ugo, consacratosi alla carriera
militare, e infine quella di Virgilio, «ben sistemato nella sussistenza»29,
e al quale il narratore decide perciò di rivolgersi.
28 Sull’opera incompiuta, che avrebbe costituito con ogni probabilità un romanzo,
oltre a G. Rizzo, Fenoglio tra filologia e critica, cit., cfr. Andrea Lazzarini,
Qualche appunto sui Penultimi di Beppe Fenoglio, «Italianistica. Rivista di letteratura
italiana», Pisa-Roma, Fabrizio Serra Editore, MMXIV (2014), n. 2, pp. 113-123. Sulla
«fluidità scrittoria» di Fenoglio, che «accarezza sempre l’idea di espandere motivi
e forme di un testo in un altro», cfr. M. Corti, Beppe Fenoglio. Storia di un «continuum
» narrativo, Padova, Liviana, 1980, pp. 9-11 e segg.
29 B. Fenoglio, Un Fenoglio alla prima guerra mondiale, cit., p. 77.
[ 9 ]
86 giovanni de leva
Le difficoltà economiche dei Fenoglio, come spiega in seguito l’amico
di famiglia Massimino, derivano dal rigore morale del nonno, e
cioè dalla sua «very honesty. Caro il mio ragazzino, la bontà frega, ma
non è bello, non è grande aver la vita fregata dalla bontà?»30. In questo
senso di estremo disinteresse, tanto più esemplare in quanto perseguito
in tempi che prefigurano un «avvenire ladro»31, va intesa dunque
anche la vicenda del «troppo onesto» Amilcare, proveniente, come si
vedrà, dalla Licenza.
L’idea di rivendere i beni della sussistenza sembra allora contraddire
i princìpi del capofamiglia, e i nodi vengono effettivamente al
pettine, seppure in una forma onirica, nel confronto ravvicinato tra le
diverse figure di combattente. Il narratore sogna infatti d’incontrare al
fronte lo zio Virgilio, che ha ottemperato alla richiesta, e carica su un
carro la refurtiva. Lungo la strada, il soldato mostra al nipote dove si
trovano gli altri due zii:
“Vedi quel costone a sinistra, così azzurro che pare fatto di glicini? Ebbene,
lassù, in qualche punto di lassù, sta tuo zio Amilcare”. “E lo zio
Ugo?”. Si voltò col busto verso destra, ma puntato in basso. “In qualche
posto di quella valle. Laggiù hanno messo da poco una scuola per
sottoufficiali, e quello scemo di tuo zio Ugo ci si è iscritto”32.
La contrapposizione spaziale alto/basso, e forse anche sinistra/
destra, rimanda evidentemente ad un’alternativa di tipo morale, e a
maggior ragione in uno scrittore come Fenoglio, che, come si è visto,
proprio ai poli delle Langhe e della pianura associava rispettivamente
la linea paterna e quella materna, l’una amata per il carattere indipendente,
l’altra soltanto rispettata perché filistea. Trasposta nell’orizzonte
bellico, l’antitesi passa in qualche modo a riguardare chi, come
Amilcare, combatte in prima linea, e chi, come Ugo, pensa alla propria
carriera; in una posizione intermedia, col ruolo di guida che si addice
al suo nome, si situa invece Virgilio.
Zio e nipote vengono in ogni caso sorpresi da Ugo, che rimprovera
aspramente il fratello: «E così, sei arrivato a rubare. All’esercito, alla
30 Ivi, p. 110.
31 Ivi, p. 113. Cfr. al proposito R. Bigazzi, Fenoglio, cit., in particolare le pp. 230-
234; sull’eroismo di alcune figure di perdenti nell’opera di Fenoglio, cfr. anche
Alberto Casadei, Stile e tradizione nel romanzo italiano contemporaneo, Bologna, il
Mulino, 2007, pp. 141-210.
32 B. Fenoglio, Un Fenoglio alla prima guerra mondiale, cit., p. 87.
[ 10 ]
la guerra dei padri. beppe fenoglio e il primo conflitto mondiale 87
patria. E sei arrivato così in basso da immischiarci un bambino…»33.
Ugo si richiama dunque al principio paterno dell’onestà, che intende
però in modo puramente formale; Virgilio infatti ribatte: «Tu guadagni
medaglie e gli altri crepano di fame». Chi vuole emergere in una
guerra odiosa, dove non a caso Boeri sperava di sopravvivere senza
fare nulla di speciale, è dunque soltanto un arrivista. L’eroismo, lo
spirito di corpo e il patriottismo non hanno poi alcun valore a confronto
con i doveri verso il parentado, che, come si è visto, rappresenta
anche l’idea d’una comunità. Rispetto alla solidarietà “nazionale” di
Ugo, quella “familiare” di Virgilio risulta di conseguenza un’accezione
più alta del principio dell’onestà.
Si tratta nondimeno d’una soluzione di compromesso, tant’è vero
che quando in seguito racconta la storia della famiglia, Massimino attribuisce
a Virgilio una certa grettezza di carattere. Il sogno del narratore
s’interrompe però senza che compaia Amilcare, la cui superiore
onestà si comprende d’altra parte non solo in relazione a chi combatte,
ma anche in rapporto a chi fugge la guerra, ossia a quei personaggi
che cercano di sottrarsi al gioco, per riprendere i termini di Un giorno
di fuoco. Oltre a ribadire la condanna degli imboscati di Un Fenoglio
alla prima guerra mondiale attraverso la figura di Giovanni Passone, I
penultimi rappresentano infatti un’altra e più radicale tipologia di opposizione
alla guerra, quella cioè del disertore34.
L’entrata in scena del personaggio avviene lungo la strada per
Mombarcaro, dove il narratore, accompagnato da Massimino, deve
raggiungere altri parenti. Inaspettatamente compare dal nulla una
sorta di «spettro», con in testa «più fili di erba e paglia che capelli», il
«pastrano costellato di pruni», e in tasca qualcosa di pesante. L’individuo
misterioso, che suscita nel narratore una curiosità frenata a stento
33 Ibidem.
34 U na figura dai contorni necessariamente sfumati, nel contesto d’un conflitto
non sentito. Se ne rende perfettamente conto Giuseppe Dessì, che negli stessi anni
di Fenoglio scrive Il disertore (1961) proprio per discernere il torto dalla ragione in
chi tenta di fuggire una morte ingiusta e inutile. Lo stesso Lussu, che non rinnega
mai una guerra di cui pure denuncia le atrocità, in un episodio di Un anno sull’Altipiano
attribuisce al disertore una statura quasi epica. La guerra infatti s’interrompe
quando Marrasi scavalca le linee e si avvia da solo per la terra di nessuno, apparentemente
invulnerabile al fuoco che l’intero fronte italiano gli riversa contro,
finché, raggiunto il reticolato nemico, al quale si appoggia per trattare la resa, non
viene colpito, morendo in piedi come un eroe d’altri tempi: «le gambe affondate
nella neve, il busto piegato, le braccia e la mani tese», Emilio Lussu, Un anno
sull’Altipiano, Torino, Einaudi, 2000, p. 154.
[ 11 ]
88 giovanni de leva
da Massimino, sale sul carro senza invito, ma si scusa per la «rogna»
data al carrettiere. I due evidentemente si conoscono, e a dividerli è
proprio la prospettiva sulla guerra: «“Ah”, fece l’altro. “Speriamo finisca
male”. “Oh certo” fece Massimino, “o lei o te”. “Lei” disse quello
con mortale tranquillità»35.
Non ci sarebbe allora alcuna necessità da parte del carrettiere di
avvertire il passeggero del taglio dei boschi nel luogo dove intende
nascondersi, né di riportargli il discorso del brigadiere Riva, che qualche
settimana prima all’osteria dichiarava una guerra senza quartiere
ai disertori. Quando però l’uomo ribatte che proprio quel giorno aveva
umiliato il carabiniere, sfidandolo invano a venirgli incontro nella
macchia, Massimino non si mostra affatto impressionato. Rimasto solo
col giovane Fenoglio, sbalordito di avere visto un disertore, gli intima
infine: «Tu non te lo sei nemmeno sognato, siamo intesi? E dovrai
andare avanti con questa convinzione anche quando la guerra sarà
finita»36.
Non è una richiesta da poco, considerando come il narratore dei
Penultimi abbia in qualche modo proprio il compito di raccogliere e
vagliare l’eredità della Grande Guerra. L’ammonizione di Massimino
sembra guardare appunto al lungo oltre che al breve periodo, con lo
scopo non solo di evitare che trapeli qualcosa dell’incontro col disertore,
ma anche di bloccare sul nascere ogni fascinazione per questo
tipo d’irregolare. Nei suoi confronti il sentimento è dunque ambivalente,
e non potrebbe essere altrimenti nel contesto d’una guerra odiosa,
dove l’impulso di «mandare il re e la patria a prenderselo in quel
posto»37, come dimostra la Licenza, è condiviso dal parentado.
La solidarietà dimostrata da Massimino potrebbe fare pensare allora
ad un’epoca successiva, ossia alla Resistenza, quando altri ribelli
sarebbero stati costretti alla clandestinità, e avrebbero goduto dell’appoggio
popolare. In una direzione diversa va però il monito conclusivo,
che in qualche modo intende evitare il rischio d’una falsa continuità
storica. Dalla prospettiva di un alfiere dell’etica dei Fenoglio come
Massimino, il disertore resta infatti una figura negativa, che è tale non
tanto nei confronti dell’esercito, della patria o del re, quanto in quelli
dei compaesani al fronte. È allora verso altri personaggi che il narratore
deve rivolgere la propria ammirazione, come d’altra parte ha già
35 B. Fenoglio, Un Fenoglio alla prima guerra mondiale, cit., p. 116.
36 Ivi, p. 119.
37 Ivi, p. 118.
[ 12 ]
la guerra dei padri. beppe fenoglio e il primo conflitto mondiale 89
avuto occasione di fare alla vigilia della sua partenza, con la comparsa
dell’unica figura di vero ribelle.
Si tratta di Amilcare, la cui vicenda passa dalla Licenza nei Penultimi
attraverso una riscrittura ottenuta per sottrazione. In primo luogo,
a narrare i fatti stavolta è Boeri38, che, giunto alla porta di casa del
vecchio Fenoglio in luogo del figlio, deve spiegarne l’assenza. A differenza
di quanto accade nel racconto, Amilcare ha infatti avvertito del
suo ritorno, riannodando così i legami col parentado che nella Licenza
parevano allentati. Immutata è invece la generosità del personaggio,
da cui Boeri racconta di essere stato invitato a bere ad ogni tappa del
viaggio. Non più, però, «grappa e vino e birra», ma soltanto la prima,
e se il vecchio Fenoglio osserva come il liquore possa risultare deleterio
ad un uomo che non vi è abituato, Boeri chiarisce: «eravamo ubriachi
e non lo eravamo»39.
Oltre all’ebbrezza, il personaggio di Amilcare viene spogliato del
carattere di «sbruffone», del rancore contro gli imboscati e dell’insofferenza
per le gerarchie. Nel resoconto di Boeri, manca infatti l’incontro
con la barista della stazione che ha il marito esonerato, così come
scompare ogni riferimento sia alla degradazione di Amilcare, sia al
suo odio per il re, Cadorna e il capitano Marasso. Quando viene condotto
dinanzi al caffè dei signori, di conseguenza Boeri non ha il timore
provato nel racconto, ma soltanto un «presentimento», a cui d’altra
parte non dà retta per la «fiducia» inspiratagli dal compagno più anziano,
che fino a quel punto l’ha «così ben guidato»40.
Giunge così più inaspettata che nel racconto la rivolta di Amilcare,
che ne guadagna anche in forza. A compiere il gesto infatti non è più
un militare che ha già dato prova d’insubordinazione, e dal quale perciò
ci si possa attendere un atto provocatorio, ma al contrario da un
soldato che al fronte sta facendo fino in fondo il suo dovere, tanto da
essere ritenuto dal narratore «troppo onesto» per chiedergli di venire
meno al regolamento. Scompare poi l’invettiva contro gli imboscati, e
si fanno di conseguenza più chiari il contesto della contrapposizione
di classe, e la presa di coscienza di Amilcare. L’esperienza dell’orrore,
«il sangue, la merda e il fango», non scaglia infatti il soldato contro i
civili in quanto tali, come nel racconto rischiava di succedere al bar
38 Sull’abilità del narratore Boeri, e più in generale sull’importanza del racconto
orale nell’universo langarolo di Fenoglio, cfr. G. Rizzo, Su Fenoglio tra filologia e
critica, cit., p. 121 e pp. 130-136.
39 B. Fenoglio, Un Fenoglio alla prima guerra mondiale, cit., p. 98.
40 Ivi, p. 100.
[ 13 ]
90 giovanni de leva
della stazione, ma soltanto contro i signori, contro quei “giocatori” di
cui di colpo si rende conto di essere una pedina.
Decisivo è pure il mutamento del finale: dopo avere abbattuto «il
gioco dell’oca»41 ed essere stato arrestato insieme a Boeri, stavolta
Amilcare ha cura infatti di scagionare il compagno. Quest’ultimo può
riprendere così la strada verso casa, mentre Amilcare viene rispedito
al fronte. Fenoglio libera dunque il protagonista da ogni responsabilità
della morte di Boeri, e in questo modo dirada l’ombra che nella
conclusione della Licenza intaccava il gesto di rivolta.
Lo scrittore cambia più in generale la natura del personaggio, che
da individuo di tipo storico passa a figura romanzesca, e a modello
morale. Nella Licenza si trattava infatti d’un reduce della Grande
Guerra, con tutti gli aspetti tipici della traumatica esperienza del fronte,
e cioè l’alcolismo, l’indisciplina, e anche la violenza, qualcosa di
simile insomma al protagonista di Soldier’s Home (1925) di Ernest Hemingway,
che al suo ritorno a casa si rivolta inaspettatamente contro
la madre42. Nulla di tutto ciò nell’Amilcare dei Penultimi, che, alleggerito
degli aspetti realistici più contingenti, e percepito attraverso gli
occhi d’un ragazzo com’è il narratore, diventa una sorta di parente
leggendario43: un “antenato” da cui trarre ispirazione e una linea di
continuità.
È allora dell’Amilcare dei Penultimi, più che della Licenza, che Johnny
potrà riconoscersi discendente44: non di un soldato comprensibilmente
riottoso, ma di uno che, pur immerso nell’orrore, combatte «in
qualche punto di lassù»; non d’un provocatore, ma d’un uomo fin
«troppo onesto», attento a non rovinare gli altri con sé; del protagonista
infine di una vera rivolta, seppure allo stadio germinale, anziché di
disordini liberatori ma estemporanei. Un “antenato” lontanissimo pe-
41 Ivi, p. 102.
42 U n racconto questo che Fenoglio doveva conoscere, visto che Giorgio Luti,
recensendo I ventitré giorni della città di Alba, vi aveva individuato un possibile
modello: cfr. L. Bufano, Le scelte di Fenoglio, in B. Fenoglio, Tutti i racconti, a cura
di L. Bufano, Torino, Einaudi, 2007, pp. XII-XIII.
43 I n una lettera al fratello del novembre 1962, che si legge in Beppe Fenoglio:
dalla vita alla letteratura, «Filo diretto – Fondazione Ferrero», (2002), n. 3, pp. 3-5,
Fenoglio parla dei Penultimi, e in particolare «della incredibile vicenda della licenza
dello zio Annibale Gavarino di Mombarcaro», nei termini appunto d’una storia
«leggendarizzata».
44 «Quando ci andrò, mi dirigerò sulle Langhe», spiega Johnny a Chiodi, riferendosi
all’ingresso nella Resistenza: «non so, ma la mia linea paterna viene di là»,
B. Fenoglio, Il partigiano Johnny, cit., p. 419.
[ 14 ]
la guerra dei padri. beppe fenoglio e il primo conflitto mondiale 91
raltro anche dai ragazzi del ’99, come da ogni forma di eroismo tradizionale,
che non possono costituire punti di riferimento in un conflitto
odioso, quale la Grande Guerra appare ormai a Fenoglio.
L’inchiesta narrativa che si svolge tra Primavera di bellezza e i Penultimi
attraversa infatti diverse posizioni sul conflitto. Fenoglio passa in
altre parole dall’idea preconcetta d’un paese concorde, che trova il riscatto
di Caporetto nel sacrificio dei più giovani, all’ipotesi dell’
«inutile strage», la cui unica eredità consiste nelle macerie, fisiche e
morali. La tesi della Grande Guerra come prova della nazione, pur
ripensata nella prospettiva della Resistenza, non regge infatti a cospetto
dell’orrore e dell’assurdo, che emergono nei due racconti d’ambientazione
bellica. Per proseguire nella ricerca del padre di Johnny
da cui ha preso le mosse, coi Penultimi lo scrittore cambia allora la
prospettiva sul conflitto da sincronica in diacronica.
Muta contestualmente anche il protagonista di riferimento, che
non è più, come in Primavera di bellezza, la nazione, ma una circoscritta
comunità ideale, frutto del lavoro congiunto della memoria, dell’immaginazione,
e di una cernita morale. Si delinea così un’altra storia
della Grande Guerra, che il parentado rifiuta da subito in quanto
estranea al sentire comune, e di cui al fronte sperimenta tutto l’orrore.
Gli antenati degni di questo nome non cercano perciò vie di fuga, né
dimenticano i doveri verso la comunità: stanno al gioco, sopportano il
carico senza perdere la propria integrità, e si ribellano solo dopo avere
identificato i reali nemici. Il racconto di Fenoglio finisce così per incrociare
spontaneamente la testimonianza di Lussu, e ne viene in qualche
modo avvalorato: si può infatti ascrivere di diritto l’Amilcare dei Penultimi
a quella «scuola rivoluzionaria» in cui, secondo il combattente
sardo, è consistita l’eredità della «guerra fatta ad occhi aperti»45.
Uno scrittore generalmente ritenuto interessato a questioni esistenziali
o al «grande stile»46, individua dunque una radice nient’affatto
scontata, seppellita in un terreno già profondamente solcato, e per
45 E. Lussu, Tutte le opere, 2. L’esilio antifascista, a cura di Manlio Brigaglia,
Cagliari, Aìsara, 2010, p. 590.
46 Cfr. Gian Luigi Beccaria, Scrittori piemontesi in cerca di una lingua: il grande
stile, in Piemonte e la letteratura nel ’900, Atti del convegno di S. Salvatore Monferrato,
19-21 ottobre 1979, S. Salvatore Monferrato, Cassa di Risparmio di Alessandria,
1980, pp. 495-526. Per una sintetica ricostruzione della fortuna critica di Fenoglio,
cfr. A. Casadei, Stile e tradizione nel romanzo italiano contemporaneo, cit., pp. 203-210;
Andrea Rondini, Dallo splendido isolamento al successo problematico. Fenoglio e la
critica dell’ultimo decennio, «Testo. Studi di teoria e storia della letteratura e della
critica», XXIV (2003), n. 45, pp. 103-125.
[ 15 ]
92 giovanni de leva
tutt’altri fini, com’è la memoria della Grande Guerra. A questo risultato,
per di più, Fenoglio giunge attraverso una «comunità immaginata»
e l’«invenzione della tradizione», e cioè con due operazioni paradossalmente
simili a quelle individuate da Benedict Anderson e Eric
Hobsbawm nel contesto della cultura di destra, con l’intento però di
spacciare per eterne delle forme collettive storicamente determinate, e
per reali delle eredità costruite a tavolino47.
Fenoglio, invece, in quanto scrittore opera per statuto nel campo
della finzione, e non perde occasione di rimarcare la distanza temporale
e spaziale dagli eventi narrati. La comunità che immagina è poi
orgogliosamente di parte, e la tradizione che inventa nient’affatto monumentale,
e neppure fissa, ma tramandata per via orale, e tracciata di
volta in volta in una rosa di alternative possibili. Se il discorso nazionalistico
si rivela allora falso nella sua pretesa storicità, nel racconto
letterario del parentado alla Grande Guerra, e nell’indiretta discendenza
del partigiano Johnny dal reduce Amilcare, c’è invece, se non la
realtà dei fatti, di certo una più generale verità storica.
Giovanni De Leva
Università di Bologna
47 Cfr. Benedict Anderson, Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismo,
Roma, Manifestolibri, 2000, e L’invenzione della tradizione, a cura di Eric J.
Hobsbawm, Torino, Einaudi, 1987.
[ 16 ]
FLORA DI LEGAMI
Un ironico gioco di contrappunti.
Il Decameroncino di Luigi Capuana
Il Decameroncino è testo emblematico, nell’officina letteraria di Capuana, di una
costante ricerca teorica sulla forma della novella moderna. Il rapporto esibito
con l’opera di Boccaccio permette allo scrittore di Mineo di istituire un sapiente
gioco di riprese e ribaltamenti, tessuto col doppio filo del contrappunto ironico.
L’organico sistema del Decameron è rimodulato nel senso del frammentario.
Tramite un fantastico inquieto e paradossale, la narrazione sospende criteri di
realismo determinista per alludere alla complessità del vero e della scrittura che
lo figura.

Within Capuana’s literary output, the Decameroncino displays a constant theoretical
interest in the form of the modern short story. The relationship with Boccaccio’s
work allows the writer skillfully both to reuse and to turn upside-down
the source text in an ironic counterpoint. The organic system of the Decameron
is transformed into something more fragmentary. By way of a restless and paradoxical
imagination, the narration suspends all criteria of deterministic realism
so as to allude to the complexity of reality and that writing which recreates
it.
1. Accade talvolta che alcuni testi, noti e meno noti, attraversino indenni
le trame del tempo, mantenendo la freschezza originaria e svelando,
per di più, insieme ai caratteri peculiari dell’opera, interessanti
tracce formali del lavorio artistico cui si annodano le pagine in esame.
È il caso del Decameroncino di Luigi Capuana, dato alle stampe nel
1901, che si legge ancora oggi con piacere, pur a distanza di un secolo
e più dalla sua composizione. Sorprende ed attrae il lettore il richiamo
ad un prestigioso modello letterario, entro cui disporre, in chiave metaforica,
un discorso teorico sul narrare. L’autore configura nel libro
l’intento di superare la staticità del codice novellistico per suggerire
stilemi narrativi funzionali al confronto con una realtà culturale in trasformazione,
allo snodo di Otto e Novecento.
Meridionalia
Autore: Università di Palermo; prof. associato; flora.dilegami@unipa.it
94 flora di legami
Lo sappiamo, c’erano i classici!. Ma noi non dovevamo più scrivere la
novella boccaccesca o qualcosa di simile; non avevamo soltanto bisogno
di esprimere idee semplici astratte, ma sensazioni, ma idee nuove
complicatissime, da esigere sfumature d’ogni sorta. Non dovevamo
dipingere paesaggi di maniera e riprodurre dialoghi scoloriti, ma render
un mondo esteriore e interiore molto particolare, molto individuale,
come prima non usava1.
Quando Capuana compone il Decameroncino ha al suo attivo un’intensa
produzione letteraria e teorico-critica, che lo qualifica artista attento
e attivo dinnanzi ai fenomeni più stimolanti dell’epoca da lui
attraversata.2 Lo scrittore non perde occasione per rivendicare la validità
del proprio punto di vista sui caratteri della prosa moderna, nonché
la costanza di una ricerca sperimentale con cui ridefinire il binomio
realtà-finzione. Un modo personale di affondare le radici sul terreno
vitale della modernità, senza dismettere il rapporto con «i classici
». Il narratore di fine secolo, che si era misurato con il problema
della rappresentazione oggettiva e con l’analisi psicologica dei personaggi,
sperimentava nuove tensioni ed urgenze: raffigurare le incrinature
estetiche che si profilavano sui sentieri incrociati di arte e vita. È
in tale prospettiva che lo scrittore di Mineo, nel momento in cui rievoca
il celebre Libro di Boccaccio, formalizza una personale meditazione
sulla validità del genere tramite le variazioni morfologiche proposte;
istituisce un sottile gioco di rifrazioni stilistiche, con cui suggerire il
nesso dialettico con la tradizione, tra risonanze e contrappunti, e, ad
un tempo, disporre procedimenti capaci di esprimere «sensazioni,
idee nuove, complicatissime, da esigere sfumature d’ogni sorta».
Se le scritture elaborate tra fine Ottocento e inizio del secolo successivo
si connotano per una attitudine intensa, retorica ed estetica, ad
interrogare l’atto inventivo e il discorso che rappresenta il reale, tra
verosimile e finzionale, Capuana offre uno specimen personale e interessante
del rapporto tra fenomenico ed essenza, tra immaginazione e
fatti oggettivi. L’esigenza di un’indagine in profondità, oltre la superficie
del reale, oltre i dati positivi delle scoperte scientifiche e la visibilità
dei comportamenti umani, finisce per investire il carattere di necessità
predeterminata del naturalismo e l’uniformità della rappresen-
1 Luigi Capuana, A Neera, 24 giugno 1889, poi Id. Prefazione a Giacinta, Milano,
Cervieri, 1914, p. 14.
2 Sui rapporti tra cultura italiana ed europea, cfr. Franco Moretti, Atlante del
romanzo europeo (1800-1900), Torino, Einaudi, 1997; Carla Riccardi, Milano-Europa:
sette capitoli sull’Ottocento tra letteratura e storia, Milano, Nuova Interlinea, 2017.
[ 2 ]
un ironico gioco di contrappunti. il decameroncino di l. capuana 95
tazione mimetica. Nell’operosa officina scrittoria di Capuana, la novella
si configura come spazio formale di grande rilievo nell’ambito
della prosa moderna, e già nel corso degni anni Ottanta notava:
Pel nostro lavoro avevamo bisogno di una prosa viva, efficace, adatta
a rendere tutte le quasi impercettibili sfumature del pensiero moderno
[…] Arrestandovi alla buccia, incaponiti in quella fisima della nostra
imitazione dei francesi, non vi siete nemmeno accorti che la novella
italiana – questa novella che vi indispone, che vi irrita, che non volete
più leggere perché è corta quanto un motto da anello come diceva il Moro
di Shakespeare – non vi siete accorti, ripeto, che la novella italiana è già
riuscita ad essere un prodotto originale, una felice applicazione di quei
canoni d’arte altrove adoperati più specialmente nel romanzo3.
La forma breve si prestava a «dipingere dal vero […] a rendere il
colore, il sapore delle cose, le sensazioni precise, i sentimenti particolari
[…]», fissare i punti salienti «della vita ritraendola dal vero»4. Sul
volgere del secolo, lo sguardo attento del narratore individua nella
novella la possibilità di rappresentare l’immotivato e il casuale della
modernità5, oltre i confini deterministici del naturalismo; la densità di
uno spazio letterario breve e l’aspetto parziale dei casi narrati gli consentono
di istituire asimmetrie tematiche e formali, e perfino filtrare
dubbi sul potere di ricomposizione di senso dell’esperienza umana
nella scrittura. La novella, sul metro della tradizione letteraria, diviene
esercizio di rigore espressivo, ricerca di colori, dettagli, sensazioni,
effetti, con cui dar vita a nuove funzioni narrative. Di qui l’esigenza di
sperimentare un tessuto novellistico con cui raccontare, nel solco del
vero6 e del dilettevole, la frammentarietà della vita moderna.
3 L. Capuana, Per l’Arte, introd., Catania, Giannotta, 1885, pp. X-XI, poi a cura
di Riccardo Scrivano, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1994.
4 Ivi, p. X.
5 Cfr. Romano Luperini, Il trauma e il caso. Sulla tipologia della novella moderna,
in Id., L’autocoscienza del moderno, Napoli, Liguori, 2006, pp. 175 e ss.
6 Sulle questioni ruotanti intorno al vero e al reale, mi limito a ricordare Roberto
Bigazzi, I colori del vero, Pisa Nistri Lischi, 1969; Carlo Madrignani, Capuana
e il naturalismo, Bari, Laterza, 1970; Vittorio Spinazzola, Verismo e positivismo,
Milano, Garzanti, 1977; Enrico Ghidetti, L’ipotesi del realismo, Padova, Liviana,
1982; Capuana verista, Atti dell’incontro di studio, Catania 29-30 ottobre 1982, Fondazione
«Verga», Catania, 1984; L’illusione della realtà. Studi su Luigi Capuana, Atti
del convegno di Montréal, (16-18 marzo 1989), a cura di Michelangelo Picone e
Enrica Rossetti, Roma, Salerno Eitrice, 1990; Antonio Palermo, Capuana critico:
dopo il naturalismo, «Critica letteraria», nn. 88-89, 1995, poi Id., Ottocento italiano.
L’idea civile della letteratura, Napoli, Liguori, 2000, pp. 135-146.
[ 3 ]
96 flora di legami
Nel corso degli ultimi decenni dell’Ottocento lo scrittore di Mineo
porta avanti un discorso formale in cui il focus narrativo, pur mantenendo
il cardine del realismo, è sempre più orientato su un versante in
ombra del fenomenico, sul non visibile di desideri, emozioni, misteri,
che chiamano in causa strategie espressive oblique con cui declinare
significativi slittamenti tra reale ed irreale, determinato e casuale. In
tal senso è possibile scorgere, nel Decameroncino, una precisa corrispondenza
tra visione teorica e registri espressivi. Tra le maglie di un
fluido tessuto stilistico, segnato dal variare di timbri – realistico, fantastico,
parodico – si profila il discontinuo dell’esistenza e dell’arte in
età contemporanea. L’apertura di un sistema novellistico di ascendenza
trecentesca incline a suggerire le sfasature insite nella vita e nell’arte,
segnala il superamento di compatte simmetrie estetiche, supporta
il delinearsi di un’insinuante opacità del mondo, visto come assurdo,
e di una scrittura capace di effetti stranianti.
2. Alla svolta del secolo XX Capuana compone una raccolta di novelle,
il cui titolo è una sorta di ekphrasis della tradizione letteraria.
Inevitabile chiedersi quale sia la ragione che spinge l’autore ad elaborare
un libro in aperto rapporto con l’opera di Boccaccio. Omaggio
letterario, sapiente strategia del riuso, mirata allusione ad un realismo
scevro di vincoli deterministici? Ripresa di un genere che aveva «alle
sue origini, il portento del Decamerone, dove tutti i germi dell’arte moderna
son già sul punto di aprirsi»7 e, per tale ragione, idoneo a nuove
sperimentazioni?
È indubbio che l’insieme di queste spinte, sapientemente modulate,
sostiene un testo riuscito per la felice misura delle soluzioni stilistiche
messe in atto. All’acuto lettore di Daudet e Maupassant, Poe e
Baudelaire, non sfuggiva che la rappresentazione di ambivalenze e
contraddizioni dovesse fondarsi sull’erosione di nessi logico sequenziali,
avvalendosi piuttosto di dispositivi retorici di duplicità: reale/
fantastico, oggettivo/soggettivo, impersonale/ umoristico. Già sulla
soglia del libro, il titolo semanticamente connotato dal diminutivo si
offre come segno ideativo ed espressivo di una opzione per timbri
d’ironia, à la manière de le Operette morali di Leopardi, che si svela interessante
spia della riflessione teorica del mineolo, protesa al ripensamento
di statuti rigidi del naturalismo e del novellare. Da Leopardi,
7 L. Capuana, Studii sulla letteratura contemporanea. Seconda serie, a cura di P.
Azzolini, Napoli, Liguori, 1988, p. 80.
[ 4 ]
un ironico gioco di contrappunti. il decameroncino di l. capuana 97
maestro di raffinate strategie ironiche, Capuana assimila la funzione
critica di una parola capace di erodere principi canonici, forme convenzionali,
per costruire originali figurazioni narrative. La individuazione,
tra Leopardi, Hoffmann e Poe, di modi ironici e fantastici diviene
nello scrittore siciliano congegno stilistico privilegiato per incrementare
le potenzialità di un discorso realistico capace di sovvertire
predefinite griglie di oggettività e rappresentare i lati in ombra del
vero per via di paradossi, sogni e stramberie, al confine di novecentesche
clowneries. Non è casuale, in tal senso, che nel Decameroncino l’autore
componga un tessuto novellistico giocato su una personale combinazione
di comico e tragico, meraviglioso e quotidiano, in forme di
contrappunto che preludono a moderni esiti umoristici. L’attenzione
di Capuana nei confronti di scritture fantastiche e parodiche va oltre i
valori stilistici espressi nella prosa delle Operette leopardiane e nelle
novelle moderne, segnala la costruzione di un sistema letterario in cui
l’ironia circola come gioco intellettuale.
La ripresa e la contaminazione di modelli eterogenei della tradizione
letteraria è di per sé emblematica di un progetto di scrittura in grado
di combinare nella forma breve, in una moderna concordia discors,
oggettività mimetica e immaginazione, modi transitivi e intransitivi.
Il discorso narrativo, per il sorridente gioco di trasparenze con il Libro
boccacciano, che connota il Decameroncino, si dispone nell’ambito di
un’occasione mondana, di un’amabile conversazione da salotto, che
autorizza uno stile leggero, fluido, dilettevole, se pure mai scevro di
istanze analitiche utili a impedire la dissipazione dei mutamenti culturali
e formali inscritti nel testo. L’osservazione del mondo nelle sue
contraddizioni, l’indagine dei fatti e della psicologia umana, all’alba
del nuovo secolo, continua ad essere in Capuana l’obiettivo della scrittura,
il compito del narratore moderno, da declinare nella forma breve.
In queste novelle giunge a maturazione un progetto sperimentale,
una scrittura narrativa, che, conservando la superficie di verosimile,
riesca a figurare la complessità del reale, sul metro di considerazioni
espresse anni prima: «Non ci sarà mai né un romanziere naturalista,
né un novelliere verista il quale abbia tanto coraggio da inventare nulla
che rassomigli, da lontano, alle continue e terribili assurdità della
vita reale».8
Se Boccaccio era l’emblema del narrare realista, Leopardi, per lo
studioso di letteratura moderna e il teorico di un’estetica del realismo,
8 L. Capuana, Per l’arte, cit., p. XXVII.
[ 5 ]
98 flora di legami
era l’artefice di una scrittura antirealista, ma fondata sul vero. Entrambi
maestri, a diverso titolo, di ironiche leggerezze e ambigue mistioni
di codici, che agiscono nel laboratorio inventivo del siciliano autorizzando
la presenza oggettivata del punto di vista dell’autore, e insieme
una pluralità di registri con cui stilizzare fluidi cambiamenti di prospettiva,
congegni discorsivi ironici in grado di riarticolare le forme del
naturalismo. Da questo punto di vista, se l’ironia custodisce e svela
l’ambigua nudità del reale, non meraviglia che Capuana abbia assunto
gli stilemi del comico come espressione di metamorfosi delle cose e del
pensiero artistico moderno. E non è privo di significato che nell’interpretazione
delle Novelle rusticane di Verga lo scrittore di Mineo, già
all’altezza degli anni Ottanta, ponesse in evidenza l’«umorismo» come
nuovo criterio stilistico cui affidare l’erosione «dell’impersonalità».
L’umorismo, parlando del Verga, non può significare qualcosa di personale,
una specie di intervenzione dell’autore fra i suoi personaggi e
il lettore. Il Verga è di quei pochi scrittori moderni che hanno il coraggio
e la forza (la forza sopra tutto) di spingere il processo artistico
dell’impersonalità fino all’estremo limite possibile[…] L’umorismo del
Verga scaturisce dalle intime viscere della situazione fortissimamente
resa: è l’osservazione acuta dello scrittore che prende corpo e vita e
s’impone9.
Difficile non osservare come «situazioni fortemente rese», connesse
all’osservazione del narratore sulla vita reale prendano forma nel
Decameroncino, come al centro del libro sia individuabile un principio
umoristico teso a suggerire un contrasto retorico di fondo tra la funzione
referenziale del narrato e la funzione critica del narratore che
trasmette uno sguardo complice e scettico sui casi narrati, attirando
l’attenzione sulla forma della narrazione.
3. Si assiste, in questa raccolta capuaniana, ad una sorta di «oggettivazione
ironica»10; a fatti e vicende si intreccia il punto di vista dei
personaggi, la cui parola, in fluido rapporto con quella del narratore,
offre una chiave della mobilità sfuggente del reale e del discorso che
lo rappresenta. Il lettore di queste pagine, tra riprese e inversioni dei
dettami realistici, è indotto a considerare come il dispositivo stilistico
dell’ironia agisca da grimaldello per «spingere il processo artistico
dell’impersonalità fino all’estremo limite possibile». Le strategie del
9 L. Capuana, Per l’arte, cit., pp. 173-174.
10 Cfr. Guido Guglielmi, Ironia e negazione, Torino, Einaudi, 1974, pp. 117 e ss.
[ 6 ]
un ironico gioco di contrappunti. il decameroncino di l. capuana 99
comico, tra satira, parodia, ironia, risultano funzionali all’intento
dell’autore di elaborare un filtro deformante dei criteri di verità assoluta,
sia scientifica sia esistenziale, di portare in chiaro tanto contraddizioni
proprie del moderno quanto forme di narrabile provviste di
carica innovativa, se pure in linea con la tradizione del genere. A ciò
coopera la sapiente mistione stilistica del piano oggettivo delle storie
e del piano commentativo di un narratore che si presenta come testimone
sui generis: un uomo di scienza, il dottor Maggioli, pronto a segnalare,
con ironici interventi, incisive discontinuità tra dati contingenti
e risvolti di senso dotati di esemplarità negativa11.
Si profila un interessante gioco di superficie e profondità, ove la
trasparenza del modello trecentesco lascia affiorare significativi mutamenti,
peculiari della novella moderna. Basti considerare come la
morfologia classica della forma breve subisca efficaci trasformazioni
attraverso una disposizione della materia, per cui frammenti di esperienza,
dettagli inconsueti, punti di svolta imprevisti e sospensioni,
incrementano spinte centrifughe, in più la parola del narratore, ironica
e critica, comunica una condizione di perplessità inquieta.
Se poi si considera che il Decameroncino si situa storicamente a ridosso
di Il riso di Bergson12, de L’interpretazione dei sogni di Freud,13
usciti nel 1900, e vede la luce qualche anno prima di Il motto di spirito,14
edito nel 1905, non è difficile individuare nel libro dello scrittore siciliano
riverberi e segni di sensibile sintonia con processi teorici fertili di
nuove possibilità estetiche e critiche pronte a destituire criteri di verità
scientifica deterministica per suggerire il fondo di imperfezione del
reale, le spinte plurali della coscienza. Di lì a poco le modalità retoriche
del comico avrebbero connotato argute finzioni artistiche, ironiche
buffonorie, parodiche dissimulazioni della vita e dei discorsi. È l’emergere
di linguaggi del controsenso con cui figurare dualismi profondi,
rifiuti di solidità positive, «mescolanza degli incompatibili»,15
contraddizioni in maschera, tramite una dialettica di serietà/riso, unitario/
sdoppiato. Alle dinamiche del comico è toccato storicamente
11 Cfr. Sergio Zatti, La novella: un genere senza teoria, «Moderna», XII, 2, 2010,
pp. 16 e ss.
12 Henri Louis Bergson, Le rire. Essais sur la signification du comique, pref. Beniamino
Placido, Bari, Laterza, 1982.
13 Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni, trad. it., Torino, Boringhieri, 1973.
14 Sigmund Freud, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, introd.
Francesco Orlando, Torino, Einaudi, 1975.
15 Vladimir Jankelevitch, L’ironia, Genova, Il Melangolo, 1987, p. 113.
[ 7 ]
100 flora di legami
promuovere la dissociazione dalla totalità16 che le poetiche del naturalismo
avevano sviluppato, la conquista di spazi in cui disporre nonsense,
giochi di stile, scivolamenti della scrittura verso simboliche ambivalenze.
Peraltro, già Baudelaire aveva individuato l’aspetto dissonante
dell’arte moderna nella compresenza di sublime e comico,17
immediatezza e artificio, aveva indicato nel décor de théâtre la maschera
dietro cui custodire con ironia l’essenza delle cose, «un trucco da
esibire con una sorta di candore» 18.
Capuana, con la consueta sensibilità estetica alle innovazioni del
pensiero europeo, ai fenomeni culturali di svolta, coglie nelle forme
del comico circolanti in area romantica e post-romantica sia la funzione
disvelante simulacri culturali e sociali sia la possibilità di elaborare
inversioni e contrappunti in grado di scalfire la tenuta deterministica
dei linguaggi realistici cui pure il libro si annoda. Per rimodulare uno
stremato realismo, inefficace alla rappresentazione di una moderna
frammentazione, per narrare in timbri accattivanti l’eterogeneità del
mondo, l’alea di mistero che invade il quotidiano, l’energia inquietante
di pulsioni e sogni, portati in evidenza dai recenti studi medici e
scientifici, lo scrittore di Mineo assume i dispositivi del comico, in linea
con lo statuto genetico della novella, ma il trattamento del codice
stilistico punta al risalto del non-senso, dell’indecidibile, dello scetticismo;
inoltre intreccia tratti di meraviglioso, sì da generare scarti inediti
sulla oggettività mimetica e indurre effetti di diletto e di stupore.
Nel Decameroncino è possibile individuare, nell’ordito lieve della
prosa, una profonda rete di connessioni tra il piano teorico – riflessione
sull’ambiguità delle cose e dell’arte, coagulo di artificio e verità –, il
piano formale – assetto della novella giocato tra paradigmi della tradizione
e forme irregolari –, e il livello tematico di racconti centrati
sullo strano e l’imprevisto. La maestria di tale costruzione trasmette al
lettore un senso di novità di ampia portata, che implica il superamento
di precedenti frontiere formali e una sottile competizione della novella
moderna con l’autorità dei classici. Le modalità narrative attinenti
la sfera dell’humour, indispensabili a segnalare il senso di inversioni,
ammiccamenti, maschere parodiche, rafforzano lo svolgimento
16 Si veda Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Torino,
Einaudi, 1983.
17 Charles Baudelaire, Dell’essenza del riso e in generale del comico, in Id., Opere,
a cura di Giovanni Raboni e Giuseppe Montesano. Introd. Giovanni Macchia,
Milano, Mondadori, 1996.
18 C. Baudelaire, Elogio del trucco, in Id., Opere, cit., p. 1311.
[ 8 ]
un ironico gioco di contrappunti. il decameroncino di l. capuana 101
narrativo di destini assurdi, tragiche casualità o arcani presentimenti,
che sembrano fissare la nudità insensata del reale. Il «vero»19 dell’esistenza
rappresentato tramite «fatti diversi», situazioni eccezionali,
personaggi dominati da un flusso di sensazioni e desideri inconsueti,
genera dubbi, sorrisi e sensi sdoppiati, in cui si deposita l’erosione di
codici predefiniti e la singolarità della novella moderna.
Il calcolato gioco dei contrari, serio e leggero, tragico e comico, fantastico
e patetico, che connota il testo, permette di cogliere l’intento
dell’autore di andare oltre i linguaggi transitivi, elaborare una scrittura
obliqua, con cui rappresentare l’enigma del vivere, nonché l’illusorietà
di un’arte circoscritta da modi simmetrici. Allo sguardo del narratore,
curioso e scettico, incline a scomporre forme e caratteri di rigida
datità, si annodano, nella realizzazione formale, procedimenti contrastivi,
meccanismi di duplicità, slittamenti e paradossi.
Si consideri la novella della decima giornata, la cui posizione testuale,
in explicit, accentua lo spessore teorico della stessa. Secondo un
modus scribendi peculiare del libro, il narratore, isolando dettagli di
vita del protagonista, delinea in antifrasi il profilo di Un uomo felice, il
cui cardine è dato da una filosofia del paradosso, di memoria leopardiana,
che sovverte in profondità i livelli di normalità convenzionale,
le doxae condivise. Il protagonista, un intellettuale che riflette sui casi
strani della propria esistenza – è innegabile – presenta i caratteri della
anomala lucidità, della filosofia divergente, che cominciavano a circolare
sulle scene narrative di Pirandello. Basti pensare al Turno e alla
puntigliosa scomposizione della razionalità espressa dal protagonista
del romanzo, Marcantonio Ravì. In Capuana la desemantizzazione
della serietà razionale è affidata, piuttosto, al dialogo sorridente e arguto
tra personaggio e narratore.
«Nella mia qualità di filosofo – prese a dire sorridendo – dovrei cominciare
con una definizione sulla felicità in generale; te la risparmio. […]
Hai tu mai notato come i disgraziati siano di pelle dura ? Essere disgraziati
val meglio di avere in tasca una delle tante assicurazioni su la vita,
che si dovrebbero chiamare piuttosto assicurazioni della morte, I
supposti felici, coloro che toccano il colmo delle loro aspirazioni, dei
loro desideri, delle loro speranze, muoiono quasi subito appena raggiunto
lo scopo[…] Quando i disgraziati che non ne indovinano una si
19 Per un’analisi del significato lemmatico e teorico del vero nell’opera di Capuana,
si veda, A. Palermo, Per un profilo di Capuana critico e narratore, in Id., Metamorfosi
del vero. Otto-Novecento da Leopardi a Totò, Napoli, Edizioni scientifiche italiane,
2016, pp. 43-67.
[ 9 ]
102 flora di legami
convinceranno del gran compenso che loro accordò la natura, facendoli
nascere sotto una cattiva stella ma con forza di vitalità di resistere a
qualunque urto, non sentiranno più invidia di coloro che essi considerano
in miglior condizione di loro. Amare però la vita per se stessa non
è da tutti.»
«Non tutti possono essere filosofi – lo interruppi – e pascersi di paradossi!.
» Ridevo. «Sai tu che significa paradosso? Verità che ha l’apparenza
di non essere tale,» egli rispose gravemente. «Credevo significasse
stramberia che vorrebbe darsi apparenza di verità.» 20
La destituzione del paradigma logico, fondamento di tante narrazioni
veriste, brevi e lunghe, si realizza, nel testo in esame, tramite il
ricorso ad un criterio di paradossale disvelamento del vero, a modi
d’irrisione. Si avverte, in questa e in altre pagine del Decameroncino,
una sorta di novecentesca «allegria», in cui si annodano ansie e ironico
sorriso con fili di sospesa ambivalenza, lontana dal realismo comico
delle Paesane. Lo slittamento di piani, tra apparenza ed essenza, allusivo
di ulteriori scambi tra serietà e stramberia, ha il suo punto di
forza espressivo nell’intervento del narratore: Ridevo, che incrementa
la fluidità del movimento ideativo e stilistico di erosione del noto. Si
accentua la carica deformante del paradosso, la cui energia espressiva
si riverbera sulle novelle precedenti. Sulla superficie di un linguaggio
lieve si deposita l’ombra di un’alterità logica ed emozionale, che mette
in questione principi uniformi, un dualismo stilistico che ospita il gioco
di finzione e verità, pur senza approdare alla formulazione di una
parola discorde.
La coscienza della pluralità alimenta, in Capuana, una particolare
curiosità della vita, un bisogno di individuare il senso delle esperienze,
di prendere posizione nei confronti della realtà data, mediandola
con aspetti casuali e sfuggenti, che lo spinge a privilegiare punti di
vista difformi, piani onirici, registri parodici, per dare risalto ad una
dialettica asimmetrica, propria del pensiero e dell’arte moderna, fertile
di più maturi sviluppi di lì a pochi anni. Si delinea in queste pagine
una interessante figurazione del doppio come specchio di un’inquietudine
del divenire e di una ricerca di funzioni retoriche confacenti
alla molteplicità di esperienze e questioni narrative contemporanee.
L’attenzione data al dettaglio rivelatore, al particolare apparente-
20 L. Capuana, Il Decameroncino, a cura di Alberto Castelvecchi, Roma, Salerno
Editrice, 1991, pp. 102-103, [d’ora in poi citata Decameroncino] Questa edizione
riproduce il testo curato da E. Ghidetti, nella collana «I novellieri italiani», L.
Capuana, Racconti, Roma, Salerno Editrice, 1974, 3 voll., tomo II, pp. 257-327.
[ 10 ]
un ironico gioco di contrappunti. il decameroncino di l. capuana 103
mente insignificante, al momento in cui si rivela il lato oscuro di un
carattere, colto nella sua intimità, a finali sospesi, è una delle strategie
con cui l’autore supera l’assetto deterministico e sottolinea inattese
discontinuità. Uno spartito tematico fondato sul casuale e sull’enigmatico
rafforza la scrittura di un libro che incorpora nuovi possibili
narrativi e modi stilistici, articolandoli con ironica nonchalance.
4. In ogni caso, comunque si possa valutare la scrittura del Decameroncino,
non può passare sotto silenzio l’operazione meditata e lieve,
con cui l’autore riprende il prestigioso modello di un corpus novellistico
organico per rilanciarlo, all’inizio del nuovo secolo, come statuto
aperto ad incroci di strutture e modalità stilistiche capaci di sprigionare
diverse potenzialità. L’intento, sottilmente provocatorio, è quello di
istituire un moderno gioco di combinazioni entro uno spazio legittimato
dall’autorevolezza dell’istituzione letteraria, articolare congegni
formali e verbali di profondità/ superficie difficilmente definibili con
le tipologie narrative del passato.
Nel gioco di armoniche e contrappunti istituito da Capuana con il
Libro di Boccaccio, il primo obiettivo sembra essere la delimitazione
di una forma consolidata e la sua ridefinizione come schermo su cui
proiettare tratti del divenire socio-culturale, l’inquietudine di una coscienza
artistica incline a rappresentare le difformità dell’esistenza in
chiave comica e fantastica. Se il primo significato del testo capuaniano
ribadisce una presenza egemone nella tradizione italiana ed europea,
la conseguenza implicita apre sull’esigenza teorica e formale di rimodulare
spazi e strategie espressive, al fine di ospitare le sfide dell’arte
contemporanea.
Capuana era consapevole che alla novella spettasse il ruolo di figurazione
del moderno, in quanto idioma della comunicazione di una
cultura borghese in espansione, tra giornali e riviste del tempo, e ad
un tempo mantenesse i tratti del discorso letterario elegante, piacevole,
pronto a interpretare, in forza della sua originaria brevitas, forme
del transitorio e del relativo, figurando, per tal via, l’unità infranta del
reale.
Alle felici soluzioni narrative del Decameroncino, contribuiscono,
insieme alla consapevolezza, nell’autore, di una forma in prosa capace
di figurare enigmi e ambivalenze, l’adozione di un filtro comico21 con
21 Per un approfondimento dell’orizzonte teorico e letterario del comico, si veda,
Nino Borsellino, Il comico, in Letteratura Italiana, a cura di Alberto Asor
Rosa, Le Questioni, Torino, Einaudi, 1986, vol. V, pp. 419-457 e Id., La tradizione del
[ 11 ]
104 flora di legami
cui rendere il gioco costante di ordinario e insensato, prevedibile e
inatteso, chiaro ed opaco, con relativi slittamenti di stile, sul filo di
humour e paradosso. E se la parodia comporta una immedesimazione/
opposizione al testo prescelto, non stupisce che in Capuana il Libro
di Boccaccio sia l’occasione di un discorso articolato sul contrappunto.
I luoghi della memoria letteraria, esibiti con ludica verve, sono
il segnale di una mirata trasformazione morfologica. Si consideri come
l’ideale regolativo del sistema decameroniano con cui disporre le
novelle, sia conservato nel libro del siciliano e nello stesso tempo ridotto
a schema essenziale: una sola novella entro le canoniche dieci
giornate, quasi a suggerire il superamento storico di un’articolazione
totalizzante e la necessità di un impianto agile e sciolto, pronto a rispondere
alle attese di una fruizione culturale, di storie in specie, sempre
più estesa. Il modello trecentesco permane come sistema di costruzione
della materia narrata, ma si tratta di una di superficie, dietro cui
si profilano moderne instabilità e asimmetrie.
Analogamente alla riduzione strutturale del libro, anche il montaggio
della novella si connota per una condensazione dell’intreccio
che punta con efficace incisività su svolte impreviste, inversioni, senso
di vuoto all’ombra di finali classici. Il piano morfologico, con le sue
trasformazioni, sembra comunicare il diverso trattamento teorico che
presiede alla forma breve in età moderna. L’assetto delle novelle tralascia
l’organicità di storie scandite dal rapporto classico di prologo, argomento
ed epilogo, punta con decisione su momenti culminanti,
fratture e sospensioni che esaltano slittamenti di piani stilistici, tra realismo
dei fatti narrati e alterità di pensieri o spazi interiori sfuggenti
al logos razionale, pronti a sovvertire equilibri e misure stabili.
Si susseguono, sulla scena testuale, personaggi marginali, strani, la
cui indifesa esposizione alla casualità del mondo, diviene emblema di
una visione umoristica del reale e della prosa che la racconta. In tal
modo la novella tenta di uscire da rigidi criteri di verosimiglianza e
rappresenta imprevedibili discontinuità, enigmi, segreti, stranezze
fantastiche, muovendosi nel solco di uno stile ambivalente, striato di
tragico e comico, per illuminare moderne insensatezze.
comico, Milano, Garzanti, 1989; Umberto Eco, Il comico e la regola, «Alfabeta», III,
1981, n. 21; Lucie Olbrechts-Tyteca, Il comico del discorso, Milano, 1977; Ead.-
Chaim Perelman, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Torino, Einaudi,
1976; Giulio Ferroni, L’ambiguità del comico, Palermo, Sellerio, 1983; Walter Pedullà,
Le armi del comico, Milano, Mondadori, 2001.
[ 12 ]
un ironico gioco di contrappunti. il decameroncino di l. capuana 105
5. Anche la parola dell’autore, in ossequio al prestigioso modello
del Trecento, è disposta tra Introduzione e Conclusione, ma presenta
mutazioni di prospettiva rilevanti, con cui istituire uno smaliziato gioco
di analogie e differenze. Interessante l’impasto di strategie retoriche,
procedimenti formali, registri espressivi con cui il narratore siciliano
trasforma il modello di origine. In primo luogo emerge lo slittamento
del discorso, che si sposta dall’oggettività del narrare, garantita
nel Decameron dalla «brigata» di novellatori, all’individualità del protagonista
narrante bene in evidenza nella raccolta di Capuana. Il dispositivo
del narratore testimone, già presente in Verga, depone ogni
funzione mimetica per incrementare il piano della finzione, la sfida di
un’affabulazione ludica che faccia trasparire le istanze estetiche di
soggettivazione della scrittura. La narrazione di storie, infine, pone in
risalto le potenzialità di un meraviglioso capace di ridare smalto ad
un verosimile altrimenti insensato. Sembra che lo scrittore, memore
delle riflessioni di Poe sulla composizione22, offra ai lettori sia il progetto
letterario sia i trucchi messi in opera, con cui indicare il lavorio
artistico di ridefinizione della novella e della impersonalità. È sufficiente
rileggere l’Introduzione.
Questo Decameroncino l’ha raccontato, a riprese, quel caro vecchietto
del dottor Maggioli che seppe, a proposito di tutto, inventare lì per lì
tante novelle senza mai far sospettare che le improvvisasse. Sembrava
ricordarsi di qualche lettura, d’una confidenza ricevuta tempo addietro,
di un’avventura della sua giovinezza;[…] Dirò da ultimo come io
scoprissi, per caso, che il dottor Maggioli era un meraviglioso novelliere,
una specie di Gianni, di Sgricci, il quale – invece di versi e tragedie
– improvvisava novelle; e spero che i lettori mi saranno grati di non
aver lasciato perire, col narratore […] qualcuna delle tante sue felicissime
invenzioni, delizia di coloro che ebbero la fortuna di udirle dalla
sua bocca in casa della baronessa Lanari 23.
Il repertorio di novelle, annodato alla prospettiva memoriale del
narratore, implica un aspetto diaristico nell’assimilare le storie narrate
a pagine di taccuini privati, appunti di vita, storie di incontri, riflessioni
personali sui casi strani della vita. La dichiarata insistenza su un
aspetto del narrare, l’improvvisazione, non riducibile a norme determinate,
indica nella zona paratestuale il ricorso «a ruote e rocchetti –
22 Edgar Allan Poe, Filosofia della composizione, in Id., Opere scelte, a cura di
Giorgio Manganelli, Milano, Mondadori, 1981.
23 L. Capuana, Decameroncino, p. 19.
[ 13 ]
106 flora di legami
paranchi per i cambiamenti di scena – le scale e le trappole del diavolo
– il belletto rosso e i nei neri che […] costituiscono la prassi comune
dell’histrio letterario […]»24.
Un «trionfo del procedimento»25 con cui Capuana suggerisce la
propria idea di novella moderna, le sue possibili variazioni. L’autore,
sulle orme del modello trecentesco, sembra autorizzare la finzione del
narratore oggettivo, ma ad un tempo porta in evidenza procedimenti
di scivolamento ironico verso una dimensione soggettiva del narrato
che finisce per disporre en abyme il codice realista, il suo statuto mimetico.
Il risalto dato ad un atto narrativo individuale ed estemporaneo
(improvvisava novelle), ridisegna lo spazio referenziale, detta l’erosione
del criterio di verosimiglianza trasferito con amabile arguzia su un
singolo narratore, per di più inaffidabile, per via di una allocuzione
frutto di immaginazione.
Il baricentro del narrare si sposta da uno sguardo oggettivo alla
relatività del punto di vista del dottor Maggioli, rafforzato da un inatteso
ventaglio di ricordi personali. Lo scrittore, in sede introduttiva,
apre a processi di autobiografismo pronti a connotare, nel giro di pochi
anni, tanta prosa novecentesca, ma li scombina subito con la centralità
di un’attività immaginativa che risignifica il vero inficiando la
transitività della scrittura che lo rappresenta. Sembra quasi che l’obiettivo
del mineolo sia una destituzione di norme e stili costituiti a
favore di mistioni irridenti, sulla soglia di umoristiche scomposizioni.
Lo sguardo e la parola del narratore, in dialogo con i personaggi,
segnano tutta la raccolta, ben oltre la soglia introduttiva, e diventano
tratto qualificante di una scrittura, la cui verità è data dalla costante
oscillazione di reale e immaginario, mimetico e sospeso. Si rilegga il
finale della novella Americanata, in cui il paradigma romantico e naturalistico
di amore e morte è riproposto attraverso un filtro ludico. «Il
pregiudizio della serietà», per riprendere Savinio26, lascia il posto ai
sorridenti bagliori dell’ironia.
E Lost Loiterer? Non sopportò tanta sventura; e si fece saltare le cervella,
senza lasciare la ricetta dei due mirabili trovati. Non vi fate ingannare
dalla réclame dei profumi che oggi spacciano in America e in Eu-
24 E. Allan Poe, Filosofia della composizione, cit., p. 1321.
25 Cesare Segre, Per una definizione della novella, in Idem et alii, La circulation
des nouvelles au Moyen Age, Actes du Colloque de Zurich, (24 gennaio 2002) a cura
di Luciano Rossi, Anne Damstaetter, Ute Limacher – Riebold, Sara Alloatti
– Boiler, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2005, p. 26.
26 Alberto Savinio, Scatola sonora, Milano, Ricordi, 1955, p. 107.
[ 14 ]
un ironico gioco di contrappunti. il decameroncino di l. capuana 107
ropa […]. Sono indegne mistificazioni! Il mio povero amico ne ha portato
via con sé il prezioso segreto, nell’altro mondo! 27
Non meno efficace l’agilità con cui Capuana ripropone la mistione
di oralità e scrittura, peculiare del Libro di Boccaccio. La verve affabulatoria
del protagonista narrante è la maschera brillante dietro cui traspare
la ripresa di un’arte del raccontare alimentata dalla linfa della
retorica antica, dall’inventio alla dispositio e alla memoria, per non dire
dell’abilità performativa di elocutio ed actio, in cui si deposita l’esperienza
teatrale del siciliano.
Il dottor Maggioli era stato proprio meraviglioso. Io non ho l’audacia
di trascrivere la sua storiella di quella sera. Il maggior pregio di essa
non consisteva tanto nel soggetto e nella forma, quanto, e soprattutto,
nell’espressione del viso, nell’efficacia dell’accento e del gesto, che
avevano trasformato il narratore in attore e, direi quasi, in protagonista.
28
E ancora si osservi come il topos decameroniano del giardino, in cui
disporre l’atto del narrare, si trasformi nel Decameroncino nel salotto
borghese della baronessa Lanari, moderno locus amoenus delle società
urbane, in cui ritrovare il piacere della conversazione e il diletto di
storie narrate e ascoltate. La composizione di un discorso narrativo
orientato su assurdità e stranezze quali icone delle mutazioni sociali e
culturali in atto non rinuncia alla dimensione accattivante di una conversazione
leggiadra entro cui disporre il divenire della vita e dell’arte.
Sullo sfondo del libro di Capuana, è inoltre possibile scorgere un’originale
rimodulazione dello statuto decameroniano di novelle che
implichi «favole, parabole, istorie». Per tal via si nota il gioco incrociato
di antico e moderno tra le maglie delle narrazioni; l’autore riorganizza
i lineamenti della favola in modo che questa non si lega alla tradizione
classica né al folclorico fiabesco, già materia di altre opere,
bensì si apre ad ospitare sia il meraviglioso di un’immaginazione deputata
a dar Forma all’opera d’arte, sia un fantastico onirico, non privo
di risvolti inquietanti, che enfatizza casi e fatti strani, sulla scorta
delle novelle di Poe, Hoffmann e Maupassant. La storia, che pure mantiene
una classica funzione cognitiva, si trasforma in scrittura biografica,
l’asse discorsivo slitta dalla trasmissione di eventi accaduti alla
narrazione di fatti individuali, con particolare risalto di emozioni, fan-
27 L. Capuana, Decameroncino, pp. 25-6.
28 Ivi, p. 108.
[ 15 ]
108 flora di legami
tasie, pensieri. Vite reali e immaginarie accreditate unicamente dalla
parola di un narratore che si sottrae con arguzia a modalità referenziali;
infine la parabola, sfrondata, già in Boccaccio, di funzioni etico-didattiche,
permane, nelle novelle capuaniane, come simbolica esemplarità
di possibili narrativi in grado di demistificare illusioni e convenzioni
assodate.
6. Le novelle raccolte nel Decameroncino sembrano proporre una
serie di «fatti diversi» di conio realistico, nel solco di una lunga tradizione,
ma presto ci si accorge come esse siano sbilanciate sul piano
inclinato del casuale, dell’assurdo, con quanto di contraddittorio e
sfuggente è implicito nei destini umani, dell’inspiegabile insito in sensazioni
psicologiche, Presentimento, o dell’inquietante insito nelle
scienze occulte, che tanto interesse suscitavano nello scrittore di Mineo.
È il caso della giornata quinta (Creazione) in cui una donna, esito
di un singolare esperimento di scienza e spiritismo, finisce per acquistare
tanti dei difetti propri della condizione umana da stravolgere il
Pigmalione scienziato e indurlo alla soppressione dell’essere fantasmatico
cui aveva dato vita nel piccolo laboratorio domestico, già segno
di intenti parodici verso i criteri di scienticismo positivo. O si pensi
all’immotivato, nella settima giornata (Il sogno di un musicista), ove
il sogno di una musica celestiale non soltanto sostiene la ricerca compositiva
del protagonista, ma si insinua tra i suoi pensieri con un’intensità
seducente e misteriosa al punto di dettarne la morte.
Sull’asse di procedimenti ironici, fantastici, umoristici, si attua il
tentativo di slargare la forbice narrazione-realtà e le combinazioni di
un discorso ludico in cui viene oggettivato lo sguardo critico del narratore:
ora verso una ricerca scientifica governata da logiche commerciali,
come nel caso della giornata prima, Americanata, ora verso illusorie
certezze positive, nella nona, L’eròsmetro, ora verso un ipertrofico
sviluppo della cultura di massa incline a selezionare le informazioni
secondo personali esigenze, in Il giornale mobile. Si tratta di un narrare
caratterizzato da significative mistioni di stili, la cui forma trasmette
«problemi di rappresentazione» 29 più che esiti chiusi e forme di organica
completezza.
Le storie narrate portano in scena uno smaliziato gioco di superficie
e profondità di ascendenza nietzschiana, dischiudono varchi inde-
29 G. Guglielmi, La prosa italiana del Novecento. II. Tra romanzo e racconto, Torino,
Einaudi, 1998, p. 21.
[ 16 ]
un ironico gioco di contrappunti. il decameroncino di l. capuana 109
cidibili sia sul piano dei destini rappresentati sia su quello del discorso,
che si svolge nella direzione della ambivalenza. La combinazione
di testimonianza, memoria, immaginazione del narrato, affidata al
punto di vista del narratore, conduce la scrittura in una zona fluida di
sperimentazione che, superando strategie di impersonalità, pone al
centro una prospettiva di sorridente scetticismo che non lascia adito a
tranquillizzanti norme artistiche e induce il lettore a considerare il nodo
problematico di arte e vita, che, come è noto, è stato il demone
estetico che ha accompagnato la scrittura inventiva e saggistica del
mineolo.
Col Decameroncino Capuana compone un album di figure e flash di
vita contemporanea, trascolorante dalla gaiezza alla inquietudine, con
cui rappresentare lo spettacolo del divenire storico-culturale e la frammentazione
di paradigmi unitari. L’effetto che si produce è di racconti
che vivono dell’energia di linee di frontiera, per segnalare il passaggio
da «fatti diversi» alla diversità di storie tessute con i fili di una fabulazione
ironica e policroma, l’erosione di norme codificate e l’indicazione
di una nuova grammatica narrativa. Si osserva così la ripresa di
temi e figure provenienti dalle zone letterarie del verismo: situazioni
particolari e documenti umani si seguono nella giornata prima, Americanata,
nella quarta, Il giornale mobile, nella sesta, La spina; congegni
del positivismo scientifico nell’ottava, In anima vili, e nella nona, L’erosmetro;
documenti dell’estetismo decadente nella seconda, L’aggettivo,
tracciati di fantastico onirico, nella terza, Presentimento e nella settima,
Il sogno di un musicista. Ma temi ed elementi formali mutuati dai versanti
letterari di fine secolo subiscono un costante sdoppiamento di
stile e di sensi tramite una prospettiva ironica.
Se le singole storie attraversano e combinano ambiti e zone letterarie
differenti della prosa narrativa di fine secolo, il discorso punta modernamente
sul discontinuo, l’imprevedibile, la forza dell’inconscio
per costruire uno spazio novellistico sospeso, aperto, ambivalente,
che vive della combinazione di stilemi e rifiuta perimetrazioni di confini
precostituiti. Il senso del testo, per riprendere Deleuze, «Non appartiene
a nessuna altezza, ma vive in una superficie in cui si è disciolta
la profondità del pensiero dell’autore»30.
Tra gli elementi innovativi più interessanti, ravvisabili nel testo di
Capuana, è di certo quello di un protagonista narrante che nella Conclusione
rifiuta di scrivere le storie raccontate, per via di una inquietan-
30 Gilles Deleuze, Logique du sens, Paris, Editions du Minuit, 1969, p. 90.
[ 17 ]
110 flora di legami
te inferenza tra arte e vita che sembra abolire, con un sapiente colpo di
teatro, l’ipotesi di un narratore in grado di controllare a distanza la
materia narrata.
Voi potreste essere un gran novelliere, se vi decideste a fare la dolce
fatica di scrivere quel che vi piace di narrare a voce […] – Dio me ne
guardi, caro amico! – egli rispose […] Perché? – Perché ho provato una
volta sola. Oh, non ritenterei per tutto l’oro del mondo! […] Io, sappia
telo, non ho mai riflettuto un istante intorno al soggetto delle mia storielle:
Esso mi fiorisce nella mente così all’improvviso, che io sono il
primo ad esserne stupito. Una parola, un accenno […] e mi sento costretto
a raccontare. Che cosa? Non lo so neppur io cominciando; ma,
dopo il po’ di esordio destinato ad attirare l’attenzione degli uditori,
l’immaginazione tutta a un tratto mi si schiarisce; e veggo i miei personaggi,
osservo i loro atti, odo la loro voce, quasi avvenga in me una
semplice operazione di memoria, più che di altro31.
Dopo aver riconfermato, in explicit di libro, il profilo di un narratore
straordinariamente vicino ad un «novelliere impenitente» quale si
definiva Capuana, questi introduce un punto di vista che sovverte la
presunta organicità di immaginazione e scrittura, la transitività delle
scritture realiste.
Voi immaginate, senza dubbio, che dovetti soltanto sedermi a tavolino
e prender un quaderno di carta e la penna per scrivere, di foga, senza
esitazione alcuna, quasi raccontassi la mia prima novella […] Lo credevo
anch’io, caro amico! […] Ero stato assalito da scrupoli letterari, dalla
paura del pubblico, io che pure solevo improvvisare una, due novelle
davanti a un eletto uditorio […]
In quel tempo era in gran moda il verismo o naturalismo che voglia
dirsi più che no adesso. Dovevo essere, pensavo, verista naturalista
anch’io; e osservare studiare dipingere minuziosamente la realtà. In
che modo? Non sapevo da che parte rifarmi. E rimanevo là, con la
penna tra le dita […] Una malaugurata ispirazione mi balenò nella
mente: non avevo, a portata di mano, al secondo piano della casa dove
abitavo, quella coppia di giovani che facevano all’amore da un anno?
[…] Come non ci avevo pensato subito?32
Il piacere dell’invenzione si ibrida e si scontra con «la teorica
dell’osservazione diretta». L’immaginazione non solo cerca di superare
i limiti di una scrittura transitiva, ma conquista un’autonoma ener-
31 L. Capuana, Decameroncino, pp. 108-9.
32 Ivi, pp. 111-113.
[ 18 ]
un ironico gioco di contrappunti. il decameroncino di l. capuana 111
gia pronta ad interferire con l’esistenza, determinando profondi scompigli,
al punto da indurre il narratore a tralasciare il racconto e porre
le cartelle scritte «in fondo a un baule per liberarmi dall’oppressione
di quella sciagurata novella». Ma i personaggi creati dalla fantasia del
narratore reclamano uno spazio testuale vitale «O dunque ? Ci lascia
così, né in cielo né in terra […] Una fine dobbiamo farla…»33. Di colpo
si dischiudono soglie estetiche fertili di interessanti sviluppi nel corso
del secolo appena iniziato.
Non sfugga, inoltre, l’ultima combinazione ludica del testo di Capuana:
la riflessione del narratore sulla finzione è articolata in forma
di novelletta, ancora di memoria decameroniana, ma è condotta alle
soglie del suo azzeramento. In questo spazio testuale si mette in discussione
la frequentazione fiduciosa di norme realistiche e subentra
una scrittura che si interroga sui modi e il senso del proprio consistere.
Per tal via l’immaginazione scopre e reclama diritti di autonomia
pronti a rovesciare il rapporto arte/vita, sbilanciato sull’autonomia
dell’arte con personaggi di finzione che reclamano una dimensione di
vita vera. Nel processo di sdoppiamento cui dà luogo la coscienza riflessa,
il soggetto narrante, nella Conclusione, osserva se stesso scorgendo
pericolose illusioni: l’ironia si fa autoironia.
Si profila in Capuana la condizione ambivalente, quasi umoristica,
del narratore moderno che può vivere a patto di un’ironica oggettivazione
di se stesso. L’immaginazione, in crescente autonomia, per di
più imprevedibile, comincia a porre interrogativi sulla creazione artistica
e sul ruolo dell’autore, padre di personaggi appena delineati, lì lì
per diventare ingombranti. Il testo, e la Conclusione lo evidenzia, è lo
spazio narrativo e teatrale della figurazione di un’esistenza caotica e
di un processo inventivo, la cui energia dischiude inedite ipotesi. Si
intravede nella scrittura di novelle una funzione critica in grado di
svelare l’insufficienza di codici noti e la condizione dell’arte moderna,
che riflettendo su se stessa svela l’illusione di misure e funzioni stabili.
Consapevole di trovarsi nel pieno di profonde trasformazioni artistiche
ed estetiche, Capuana cerca di spingere il realismo verso una
combinazione umoristica di contrasti e antitesi sempre più evidenti
sulla scena della modernità, pur senza superare la barriera del vero.
Emblematica la determinazione del protagonista narrante, il dottor
Maggioli, di chiudere con poche frasi un racconto dai risvolti inquietanti
sui rischi di una forma vivente; lo slittamento, tra assurdo e hu-
33 Ivi, p. 118
[ 19 ]
112 flora di legami
mour, di finzione letteraria e concretezza quotidiana, convoca un frettoloso
congedo: «tracciai con mano convulsa la parola: «Fine!» Si blocca la
carica trasgressiva indotta da nuove ipotesi combinatorie.
Toccherà a Pirandello, erede delle conquiste di Verga e Capuana,
rimodulare le potenzialità del verismo attraverso strategie di scomposizione
delle strutture e degli elementi formali della narrazione con
una parola discorde. Tuttavia non si può non considerare come la finta
innocenza e l’arguzia allusiva presenti nel discorso del protagonista
narrante del Decameroncino, distribuiscano nel testo scintille e bagliori
stilistici che, per leggerezza e acume, prefigurano novecentesche scritture
parodiche e aforistiche.
Flora Di Legami
Università di Palermo
[ 20 ]
Elisa Tinelli
Prolegomeni all’edizione critica del De regno et
regis institutione di Francesco Patrizi da Siena
Il saggio si propone di presentare alcune delle più rilevanti tematiche eticopolitiche
affrontate da Francesco Patrizi da siena, vescovo di Gaeta dal 1464, nel
ponderoso trattato De regno et regis institutione, ch’egli offrì ad alfonso ii d’aragona,
figlio di Ferdinando i, nel 1484, nonché di inquadrare l’opera nel più
generale contesto della letteratura politica d’età umanistico-rinascimentale. si
offre, infine, la descrizione della tradizione superstite, manoscritta e a stampa,
del De regno.

This essay aims to present some of the most important ethical-political issues
dealt with by Francesco Patrizi from Siena, bishop of Gaeta from 1464 onwards,
in a weighty treatise, De regno et regis institutione, which he offered to Alfonso II
of Aragon, son of Ferdinand I, in 1484, setting the work into the wider context
of political literature during the age of Humanism and the Renaissance. It also
describes the surviving manuscript and printed tradition of De regno.
1. La fama postuma dell’umanista senese Francesco Patrizi (1413-
1492), vescovo di Gaeta dal 1464, è legata a due ponderosi trattati politici:
un De institutione reipublicae, dedicato nel 1471 a papa Sisto IV e,
insieme, alla repubblica di Siena, e un De regno et regis institutione offerto
ad Alfonso II d’Aragona, figlio di Ferdinando I, nel 1484. Tali testi
– il primo soprattutto – conobbero una significativa circolazione
manoscritta, ma furono pubblicati a stampa per la prima volta solo tra
il dicembre del 1518 e l’aprile del 1519, a Parigi, ad opera del tipografo
Galliot du Pré, il quale dovette intuire le potenzialità delle due opere
giunte in Francia, insieme al resto della biblioteca degli Aragonesi, al
seguito dell’esercito di Carlo VIII, dopo la rapida conquista del Regno
di Napoli e la ritirata attraverso la penisola. Il successo delle due edizioni
fu straordinario: ad esse seguirono, lungo tutto il XVI secolo,
Contributi
Autore: Università degli Studi di Bari Aldo Moro; cultore della materia;
elisatinelli@gmail.com
114 elisa tinelli
numerosissime stampe in latino ma anche traduzioni in italiano1, francese,
tedesco, inglese, spagnolo.
La vicenda biografica di Francesco Patrizi contribuisce, almeno in
parte, a chiarire le ragioni dell’evoluzione, a prima vista piuttosto curiosa,
del suo pensiero politico, che prende le mosse, con il De institutione
reipublicae, dalla celebrazione del mondo comunale per approdare,
infine, all’elogio dell’istituto monarchico nel De regno2. Allievo del
celebre umanista Francesco Filelfo e legato alle potenti famiglie senesi
dei Petrucci e dei Piccolomini, Patrizi incarnò, negli anni Quaranta e
Cinquanta del Quattrocento, la figura del letterato al servizio degli
ideali comunali e della libertas cittadina: ottenne l’elezione al priorato
nel 1440, nel 1447 – quando fu nominato pure cancelliere – e nel 1453,
guidò numerose ambascerie a Roma, Firenze e Napoli e si dedicò alla
composizione di una storia di Siena e di un trattato De magistratu gerendo.
La partecipazione alle lotte tra le fazioni cittadine si rivelò, tuttavia,
rovinosa per Patrizi che, coinvolto in due congiure fra il 1454 e
il 1456, fu arrestato e, in seguito, condannato alla confisca dei beni e
all’esilio. L’elezione al soglio pontificio dell’amico di gioventù Enea
Silvio Piccolomini segnò, nella vita dell’esule, una significativa svolta:
l’umanista ottenne, infatti, nel 1461, a soli due anni dall’ordinazione
sacerdotale, il vescovado di Foligno, per poi passare a quello di Gaeta
tre anni più tardi, alla morte di Pio II, a causa dell’ostilità del nuovo
pontefice Paolo II. A Gaeta, Patrizi poté riannodare i rapporti con la
monarchia aragonese, che dalla metà degli anni Quaranta aveva fatto
leva sul sostegno di alcune famiglie aristocratiche della città toscana
per fare di quest’ultima la propria testa di ponte nell’Italia centrale e
1 Per ciò che riguarda il De regno, è del 1547 la prima versione italiana, ad opera
di Giovanni Fabbrini da Figline Valdarno (Il sacro regno del gran’ Patritio de ‘l vero
reggimento e de la vera felicità del principe e beatitudine humana, Venezia, Comin de
Trino di Monferrato, 1547), cui fecero seguito almeno altre due edizioni, curate
dallo stesso Fabbrini e apparse, sempre a Venezia, rispettivamente presso gli eredi
di Aldo Manuzio il Vecchio nel 1553 e presso Domenico e Giovan Battista Guerra
nel 1569.
2 Per la vita di Francesco Patrizi resta ancora imprescindibile, in assenza di un
più moderno profilo, Felice Battaglia, Enea Silvio Piccolomini e Francesco Patrizi.
Due politici senesi del Quattrocento, Firenze, Olschki, 1936, pp. 75-154, che dipende,
a sua volta, da Domenico Bassi, L’epitome di Quintiliano di Francesco Patrizi senese,
«Rivista di filologia e d’istruzione classica», XXII (1894), n. 2, pp. 385-470. Per gli
sviluppi della cultura senese nel Quattrocento, cfr. Gianfranco Fioravanti, Università
e città. Cultura umanistica e cultura scolastica a Siena nel ’400, Firenze, Sansoni,
1981.
[ 2 ]
de regno et regis institutione di francesco patrizi da siena 115
che, nella figura del dedicatario Alfonso, sarebbe stata celebrata
dall’umanista senese nel De regno.
Al di là delle vicende biografiche di Patrizi, lo scarto che parrebbe
evidenziarsi nei suoi convincimenti politici, col passaggio da una fase
‘repubblicana’ a una ‘monarchica’, non deve essere semplicisticamente
ascritto a eclettismo audace o a umorale superficialità dettata da
interessi momentanei e speranze di miglior fortuna materiale. Se è vero
che il pensiero politico umanistico si caratterizza, nella sua fisionomia
complessiva, per contraddizioni piuttosto vistose e per la coesistenza
di atteggiamenti opposti nel giudizio circa le forme di governo
e le istituzioni civili e finanche nella concreta condotta politica, ragion
per cui è difficile sostenerne la perfetta e organica coerenza, è altrettanto
vero che assai riduttiva e parziale pare una prospettiva interpretativa
che si limiti a evidenziare, della letteratura politica del Quattrocento,
il carattere meramente retorico, in ragione della vistosa presenza,
in essa, di calchi dai classici e di luoghi comuni moralistici, quasi
che tali elementi implicassero di necessità la mancata maturazione –
se non in circostanze spazio-temporali assai limitate, ossia quelle del
cosiddetto ‘Umanesimo civile’ fiorentino del primo Quattrocento –
della capacità di dedurre dalle premesse ideologiche e culturali una
visione civile non contingente.
Innegabile è il relativismo politico che emerge dalle opere di Francesco
Patrizi che, in apertura del De regno, sente l’esigenza di giustificare
l’argomento scelto per la trattazione, ossia, appunto, il governo
monarchico, per aver in precedenza dedicato i suoi sforzi alla dimostrazione
della superiorità e della convenienza della forma repubblicana
di governo. Come di consueto, egli trae dall’exemplum antico la
forza dell’argomentazione e sostiene che, prima di lui, fecero la medesima
cosa – ossia esaltarono parimenti l’assetto repubblicano e quello
monarchico – sommi autori come Platone, Pitagora, Aristotele e Antistene;
inoltre, afferma, «nihil […] de ratione ac virtute amovebitur
unusne an plures multitudinem recte gubernent»3: viene, in altre parole,
proposta la sostanziale identità delle diverse forme di governo –
«πολιτεία nomen generale est et significat unamquamque civilem
administrationem»4 – e ribadito il principio, classico, secondo cui per
ogni popolo esiste una forma di governo che gli si confà in misura
maggiore. Tre, afferma Patrizi, sono gli ordinamenti esistenti: la mo-
3 Ms. Vat. Lat. 4596, f. 1r (tutte le citazioni sono tratte dal ms. Vat. Lat. 4596, per
la cui descrizione cfr. infra).
4 Ivi, f. 4r.
[ 3 ]
116 elisa tinelli
narchia, ossia il «principatus unius, qui commodum quaerat eorum
qui ab eo reguntur»5 e che tanto i filosofi quanto i poeti dell’età classica
preferirono alle altre due forme di governo; l’aristocrazia, definita
come «optimorum civium potestas qui ad virtutem omnia dirigunt»6;
infine, il governo popolare che «ad iuris aequalitatem tendit, multitudini
studet libertatemque sibi praeficit»7.
Ciascuno di questi ordinamenti, tutti in sé apprezzabili se rettamente
gestiti, «cum autem depravatur et a seipso discedit, tunc in manifestam
labem incurrit suoque vitio corruit»8: se, infatti, il re, dimentico
del bene del popolo che dovrebbe governare, «proprium dumtaxat
quaerit commodum, sibi suisque studet, iustitiam negligit, voluptati
inseruit, tunc a dignitate sua discedit sitque manifeste tyrannus,
qui rectum transgreditur et ab omni virtute secernitur»9; parimenti,
il governo degli ottimati, se questi cessano di perseguire la
virtù e rincorrono solo onori e ricchezze, degenera nella forma deteriore
dell’oligarchia, che non differisce troppo dalla tirannide; il governo
popolare, a sua volta, se si discosta dal principio fondamentale
che lo caratterizza, vale a dire l’isonomia, può trasformarsi o in tirannide,
quando un unico uomo «popularis aura suffultus nimis extollitur
», o in dominato plebeo, «cum plebs nimium sibi arrogat, quo nihil
deterius esse potest: plebs enim, sicut humiliter servit cum durioribus
habenis comprimitur, sic, ubi frenum respuit, insultat admodum, sessorem
deturbat et crudeliter sevissimeque dominatur»10.
Pure nel De institutione reipublicae Patrizi, del resto, aveva fatto propria
una posizione di equilibrio tra istituzioni monarchiche e repubblicane
e, pur propendendo, in quella sede, per le istituzioni civili,
5 Ibidem.
6 Ibidem.
7 Ibidem.
8 Ibidem.
9 Ibidem.
10 Ibidem. Degna di nota pure la distinzione tra governo popolare e dominato
plebeo proposta da Patrizi su base etimologica: «Hoc loco monendi sunt nonnulli
qui falso opinantur popularem statum et plebeium unum et eundem esse, cum sit
popularis status una ex tribus spetiebus administrandarum civitatum, quas philosophi
omnes describunt, ut ante dictum est. Plebeia autem gubernatio transgressio
excessusque sit: qui vero aliter sentiunt falluntur in nominis interpretatione. Dicitur
enim Graece δημοκρατία: δῆμος quidem populum significat, non autem plebem
[…]. Plebs autem a populo eo differt, quo speties a genere: nam appellatione populi
universi cives significantur connumeratis etiam patriciis et senatoribus; plebis
autem appellatione sine patriciis et senatoribus ceteri cives significantur» (ivi, f.
4v).
[ 4 ]
de regno et regis institutione di francesco patrizi da siena 117
non aveva espresso un rifiuto netto nei confronti dell’ordinamento
monarchico che, anzi, aveva definito come più ‘naturale’, poiché «ut
quemadmodum Deum unum conditorem rerum omnium ac motorem
cernimus, cuius imperio omnia reguntur, sic nobis aequum esse videatur
dicto unius excellentissimi principis audire atque obsequi»11 e,
ancora, perché gli uomini, in origine errabondi e dispersi ferarum more,
compresero presto che, se avessero voluto abbandonare la vita agreste
e divenire stanziali, avrebbero fatto meglio a sottomettersi a un principe,
ossia a un uomo che si segnalasse per saggezza, forza e eloquenza
e il cui arbitrio divenisse legge. L’argomento storico del carattere
fondativo dell’ordinamento monarchico, di matrice ciceroniana12, è
corroborato, qui, col ricorso all’altro argomento, risalente, in maniera
del tutto analoga, all’Arpinate13, relativo all’originario stato di ferinità
degli esseri umani, a cui essi sarebbero stati sottratti da un uomo dotato
d’eccezionale ingegno14. In seguito, tuttavia, giacché
omnia in peius descendunt et potentia homines superbos ac petulantes
reddit, qui initio mites ac faciles imperio videbantur, iniqui admodum
ac crudeles evaserunt populusque, tyrannorum saevitiam iam pertaesus,
de libertate aliquando cogitavit et qualem potuit rempublicam civilemque
societatem constituit sicque quasi regem perpetuo loquentem
leges sancivit, magistratus ordinavit, qui prius parendo imperare
discerent15.
L’umanista senese si richiama, dunque, in maniera più esplicita nel
De regno ma indirettamente pure nel De institutione, alla teoria aristotelico-
polibiana dell’anaciclosi, che Machiavelli avrebbe messo a frutto
nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio. Al di là dell’ascendenza
classica delle sue fonti, interessa sottolineare, piuttosto, come, sul
tronco di queste riflessioni, se ne innestino altre squisitamente umanistiche.
Il titulus quartus del libro I del De regno, ad esempio, affronta
l’annosa quaestio de eligibili vitae genere e, in particolare, il tema della
preferibilità della condizione del privato cittadino rispetto a quella del
principe ai fini del conseguimento della felicità. Molti, afferma Patrizi,
11 La citazione è tratta da Francisci Patricii Senensis De intitutione reipublicae
libri novem, Parisiis, apud Marcum Locqueneulx, 1578, f. 2r.
12 Cic., Off. I, 157.
13 Id., Inv. I, 3 e de Or. I, 33
14 Si tratta di argomentazioni ampiamente diffuse nella trattatistica politica
dell’Umanesimo: si pensi, solo per fare un esempio, al IV libro del De obedientia di
Giovanni Pontano.
15 Ms. Vat. Lat. 4596, f. 2v.
[ 5 ]
118 elisa tinelli
sembrano essere i vantaggi offerti dalla vita del privato cittadino:
quest’ultima, infatti, è meno esposta ai rischi legati agli eccessi e ai
piaceri; il semplice cittadino, inoltre, deve occuparsi del sostentamento
della propria famiglia e delle cure familiari in genere, ciò che gli
impedisce di abbandonarsi all’ozio e alla sfrenata libidine. Coloro che
detengono il potere, invece,
solutiores sunt, delitiis profluunt, ocio merguntur, nihilo indigent, nullo
nisi voluptario labore insudant, nullae leges eos coercent, nullae morum
regulae, nullae civiles ordinationes, nullae etiam familiares obiurgationes;
nulla amicorum monita, aut praeceptorum instituta. Sed
passim exultant, veluti effrenes equi sine habena aut sessore16.
Poggio Bracciolini, nel De infelicitate principum (1440), aveva sostenuto,
in maniera del tutto analoga, che l’infelicità era connaturata alla
vita dei principi, in ragione dei pericoli e delle preoccupazioni connesse
alla gestione del potere, fonte, oltre che di corruzione morale, di
ansie e turbamenti incompatibili con una condizione di perfetta felicità.
Di lì a poco, Leon Battista Alberti avrebbe affrontato, nella chiusa
del Momus, la medesima questione, se, cioè, sia preferibile la vita del
re o quella del privato cittadino: il dialogo tra il re Megalofo e l’araldo
Peniplusio – che il traghettatore Caronte racconta a Gelasto – sottolinea
quanto fallace sia la convinzione del sovrano di aver goduto d’una
vita più felice di quella dell’araldo, convinzione revocata in dubbio
dall’araldo stesso che afferma:
Etenim tu gradu te habitum feliciori putas: id videamus an ita sit. Sino
voluptates et studiorum atque institutorum progressus, quae omnia et
faciliora et commodiora et promptiora et habiliora nobis fuere quam
tibi. Tum et illa praetermittamus, quod te multi oderant, tu multos timebas,
mihi omnes favebant, ego nullis non fidebam17.
Ridimensionata è, al tempo stesso, pure la convinzione che il (cattivo)
sovrano s’affatichi molto per il bene del suo popolo: «Tu integram
noctem aut dormiebas vino madidus aut per luxum ducebas;
ego in specula vigilabam, urbem ab incendio, cives ab hostibus teque
ipsum ab tuorum insidiis custodiens»18. Erasmo da Rotterdam, che
16 Ivi, f. 10v.
17 Leonis Baptistae Alberti Momus, Édition critique, bibliographie et commentaire
par Paolo D’Alessandro et Francesco Furlan, Introduction de F. Furlan,
Pisa-Roma, Fabrizio Serra editore, 2016, p. 113 (IV, § 93).
18 Ibidem (IV, § 95).
[ 6 ]
de regno et regis institutione di francesco patrizi da siena 119
pure avrebbe contratto significativi debiti con la trattatistica politica
dell’Umanesimo, avrebbe implicitamente preso le distanze dagli esiti
più radicali e risolutamente pessimistici di questa: nella sua Institutio
principis christiani, infatti, egli sottolinea che chi ambisce al potere deve
valutare con attenzione cosa imponga il ruolo di principe e quanto
arduo sia dimostrarsi all’altezza dei delicati compiti che attendono il
principe stesso, ossia avere a cuore il bene altrui e trascurare il proprio,
vegliare instancabilmente per consentire agli altri di dormire,
faticare perché gli altri possano starsene tranquilli, svestire l’animo
dalle passioni private e pensare unicamente allo stato e al bene comune.
Lungi dall’abbandonarsi a sterili considerazioni sulla malvagità
intrinseca al potere e capace, al tempo stesso, di avere, di questo, una
visione accorta e non ingenua, Erasmo, con grande lucidità, non esclude
a priori che il potere possa essere esercitato da persone per bene, ma
si mostra consapevole dell’importanza di un’accurata educazione ‘politica’,
necessaria per indirizzare il futuro principe alla virtù e correggere
tendenze potenzialmente negative.
Dalla constatazione dell’infelicità e della malvagità che contaminano
immedicabilmente l’esistenza dei prìncipi Patrizi deduce due corollari,
peraltro usuali nella riflessione politica d’età umanistico-rinascimentale:
anzitutto, la sovraesposizione del principe – tema di
ascendenza senecana – fa sì che i suoi difetti ed errori siano sotto gli
occhi di tutti e influenzino negativamente il popolo, che alla condotta
del principe guarda come a un modello; in secondo luogo, l’adulazione
e la piaggeria che inficiano i rapporti tra il principe e coloro che lo
circondano, inclusi i suoi precettori e consiglieri, impediscono al principe
stesso di ricevere un’educazione adeguata al suo ruolo, giacché
nessuno può parlargli liberamente e ammonirlo convenientemente:
[…] in tanto fastu, tanta fortuna tantaque potentia ac maiestate constituti,
vix aequo animo a minoribus moneri emendarique [sc. principes]
patiuntur. Pauci enim sunt qui ad principes liberum aditum habeant et
hi quidem nulla libertate loquendi utuntur, sed obsequendo adulandoque
eblandiuntur, vera mendaciis concinnant, laudant turpia et pro
egregiis haberi affirmant; severa odiosa esse creduntur, turpia vero iucunda.
Quibus quidem nonnulli principes ab ineunte aetate allecti
blanditiis, omnia sibi licere existimant, qua persuasione nihil infelicius
esse potest19.
19 Ms. Vat. Lat. 4596, f. 10v. Pure nel De institutione reipublicae Patrizi condanna
senz’appello l’adulazione: «Nocent […] plurimum adulatores, non modo apud
principes, quos ad tyrannidem saevitiamque compellunt, verum in libera civitate
[ 7 ]
120 elisa tinelli
La polemica contro l’adulazione che alligna nelle corti è, come si
diceva, motivo largamente frequentato dalla letteratura, non solo politica,
umanistico-rinascimentale – si pensi alle Satire di Ariosto, soprattutto
alla Satira I20, o, ancora, al dialogo Il Manso, overo dell’amicizia
e al Mondo creato di Torquato Tasso21, per citare solo alcuni dei possibili
esempi – e, sebbene nel passo citato la posizione di Patrizi sembri
rispecchiare il tradizionale rifiuto del diffuso malcostume cortigiano,
l’umanista senese si fa portatore, nel libro IV del De regno, di un atteggiamento
ben più spregiudicato22: se, infatti, condanna gli adulatori,
inutili e dannosi, sottolinea, tuttavia, quanto possa rivelarsi importante
per il principe poter disporre di un certo numero di affidabili, ossia
non mendaci, delatori. Dopo aver descritto Nerone come exemplum di
somma crudeltà, reo d’aver, tra l’altro, dato smisurato credito ai delatori,
prendendo per buone anche le falsità che gli venivano rivelate e
provvedendo subito a vendicarle con ferocia inaudita, Patrizi prosegue:
Non tamen haec eo consilio dixi, ut affirmem delatores omnino a regio
aspectu arcendos esse, nec illis vera dicentibus non credendum, sed
caute cum illis agendum duco. Incidunt enim plaerumque tempora, in
quibus ea deferantur, quae non modo utilia, verum etiam salutaria
principibus futura sint23.
Il disinvolto pragmatismo e il realismo politico dell’umanista senese
in materia di delazione – che non a caso desteranno l’interesse di
Machiavelli24 – non sono orientamenti largamente diffusi nella letteratura
politica del Quattrocento: tra i pochi che affrontano la questione
della liceità del mendacio in termini piuttosto crudi si deve annoverare
Giovanni Pontano che, nel libro IV del De obedientia25, si chiede
ea saepenumero consulunt, popularis aurae captandae gratia, quae contra rempublicam
sunt et stultam nonnunquam multitudinem insanam reddunt» (cfr. F. Patricii
Senensis De intitutione reipublicae, cit., f. 204v).
20 Ma anche, naturalmente, all’Orlando furioso, ad esempio alle ottave 20-30 del
canto XXXV.
21 Torquato Tasso, Il Manso, in Id., Dialoghi, ed. critica a cura di Ezio Raimondi,
Firenze, Sansoni, 1958, II. 2, pp. 847-848 (§ 19) e Mondo creato, in Id., Opere, a
cura di Bruno Meier, Milano, Rizzoli, 1964, IV, pp. 178-179 (V, vv. 405-427).
22 Lo ha notato per primo Davide Canfora, Prima di Machiavelli. Politica e cultura
in età umanistica, Bari, Laterza, 2005, pp. 149-150.
23 Ms. Vat. Lat. 4596, f. 86v.
24 D. Canfora, Prima di Machiavelli, cit., pp. 141-153.
25 Cfr. Ioannis Ioviani Pontani De obedientia opus finit feliciter, impressum
Neapoli, per Mathiam Moravum, 1490, f. 62v.
[ 8 ]
de regno et regis institutione di francesco patrizi da siena 121
espressamente se, in vista del supremo interesse della patria, sia legittimo
ricorrere alla menzogna e giunge ad affermare che, sebbene in
linea di principio sia preferibile osservare e venerare la verità, può
talora essere opportuno saperne prescindere e, anzi, precisa che per la
salvezza del re, del regno o della patria sarà consentito usare la menzogna
che, in tal caso, sarà da ascrivere a un comportamento prudente26.
Affermazioni di questo tenore sembrano contravvenire, peraltro,
a uno dei capisaldi teorici della cultura umanistica, vale a dire il rilievo
attribuito alla perfetta corrispondenza tra azioni esteriori e intime
pulsioni del soggetto, col corollario del rifiuto di ogni forma di poco
onesta simulazione e ipocrisia, per quanto Patrizi dedichi un intero
capitolo – il primo – del IV libro a esortare il sovrano ad astenersi in
tutti i modi dalla menzogna e a non permettere che altri mentano in
sua presenza, giacché
ignavi quidem hominis est mentiri et eius qui vel alios decipere vult,
vel qui opinionem potius sequitur quam veritatem. Hunc enim timor
compellit quae vera sunt occultare et simulando vel dissimulando tegere,
vel futilis aliqua species in medacium inducit. Magnanimus quidem
verax est et palam amat palamque odit27.
Sugli elementi che contribuiscono a differenziare il sovrano e il privato
cittadino Patrizi riflette ancora all’inizio del libro III – il II è interamente
dedicato all’educazione del principe fanciullo, dalla scelta
delle nutrici alla figura del precettore ideale, dalle letture consigliate
alla formazione nelle discipline del quadrivio – e scrive che «[…] mediocritas
illa quae in civili viro laudatur, nonnunquam in rege neutiquam
satis esset. Ea enim quae in privato liberalitas dicitur, in rege
magnificentia sit oportet. Et frugalitas, quae modestiae temperantiaeque
comes, maximis laudibus effertur in optimo viro, in rege frigidior
habetur»28, per appellarsi poi all’auctoritas ciceroniana della Pro rege
Deiotaro29 e ribadire che le virtù richieste a un sovrano – fortitudo, iustitia,
severitas, gravitas, magnanimitas e clementia – sono di gran lunga più
complesse ed eterogenee di quelle attese da un privato cittadino. Si
noti, per inciso, che, nel De institutione reipublicae, Patrizi – che in ogni
26 Nel libro IV del De prudentia, tra l’altro, Pontano ribadirà che, talvolta, il simulare
e il dissimulare sono comportamenti degni di uomini prudenti.
27 Ms. Vat. Lat. 4596, f. 81v.
28 Ivi, f. 54r.
29 Cic., Deiot., 26.
[ 9 ]
122 elisa tinelli
campo del sapere, dalla teoria dei generi letterari alla religione, dall’economia
domestica alle tecniche per condurre un assedio, offre una
miniera di informazioni e nozioni – è palesemente guidato dall’ambizione
di mettere a disposizione tutte le conoscenze che potevano rivelarsi
utili a un membro dell’élite cittadina che avesse aspirato a governare
rettamente la propria comunità e che, pertanto, non diversamente
da un principe, avrebbe dovuto mostrarsi all’altezza di tale ruolo.
L’umanista senese, in altre parole, adegua a un contesto civico il modello
dello speculum principis che più tardi dedicherà ad Alfonso d’Aragona:
ulteriore conferma di quel relativismo che, come si è detto,
pare essere uno dei tratti fondamentali della riflessione politica di Patrizi
e, più in generale, del fatto che l’interesse prioritario degli umanisti
impegnati a ragionare sui meccanismi della vita associata non era
costituito tanto dalle forme di governo – ciascuna delle quali poteva
improvvisamente degenerare nel suo corrispettivo deteriore, ragion
per cui non aveva senso preferirne una a un’altra – quanto, piuttosto,
dalla necessità di educare gli individui destinati a reggere lo stato e di
porre, pertanto, l’accento sulle virtù che potevano favorire lo svolgimento
di tale delicato compito. Appare tra l’altro ridimensionata, da
questo punto di vista, la distanza che separa la tradizione umanistica
degli specula principum dal pensiero politico machiavelliano, qualora
fosse ancora necessaria una dimostrazione della sostanziale continuità
che sussiste tra quella e questo30.
Coerentemente con lo scopo sopra ricordato, gran parte del libro
IV e tutto il libro V del De regno sono dedicati a una puntuale disamina
delle perturbationes animi che, sostiene Patrizi, «ab optimo rege ac principe
longe aliena esse debent», giacché «rationi non obtemperant» o,
addirittura, «rationi repugnant»31. Quattro sono le principali – laetitia
gestiens et praeter modum elata, cupiditas o libido, metus e aegritudo – e
ciascuna si articola ulteriormente nelle forme molteplici che può assumere,
sicché Patrizi presenta una fenomenologia completa delle affezioni
irrazionali dell’animo umano, dall’ira alla millanteria, dall’am-
30 Ma su questo punto cfr. Felix Gilbert, The Humanist concept of the Prince and
The Prince of Machiavelli, «The Journal of Modern History», XI (1939), n. 4, pp. 449-
483; ancora, Manlio Pastore Stocchi, Il pensiero politico degli umanisti, in Storia
delle idee politiche economiche e sociali, dir. da Luigi Firpo, Torino, Utet, 1987, III, pp.
3-63; Giacomo Ferraù, Per la cultura umanistica di Machiavelli: i principati felici,
«Studi umanistici», III (1992), pp. 149-164 e D. Canfora, Prima di Machiavelli, cit.,
passim.
31 Ms. Vat. Lat. 4596, f. 90r.
[ 10 ]
de regno et regis institutione di francesco patrizi da siena 123
bizione alla pavidità, dall’invidia all’umor nero. Colpisce, nell’accurata
casistica proposta dall’autore, l’ipertrofico apparato aneddotico che
correda la definizione e la descrizione di ciascuna delle perniciose
passioni che possono affliggere l’uomo: fittissima è la serie degli exempla
tratti dal mito e dalla storia antica, così come quella delle citazioni
dai classici della tradizione greco-latina, di cui Patrizi sembra voler
offrire quasi una summa enciclopedica che possa fungere – a dispetto
di una certa dispersività – da sostrato invariante a fondamento del
proprio progetto pedagogico. Non sarà un caso, da questo punto di
vista, che entrambe le Institutiones dell’umanista senese presentino la
medesima facies.
Nel sesto libro del De regno è affrontata un’altra delle quaestiones
che gli umanisti, sulla scia della riflessione petrarchesca, predilessero,
vale a dire il confronto tra vita activa e vita contemplativa e la dimostrazione
della superiorità della seconda sulla prima. Petrarca aveva guardato
alla vita contemplativa come al modo di vivere di ogni cristiano
e di ogni saggio bastante a se stesso e in grado di sottrarsi alla febbrile
vita degli occupati e aveva ritenuto che la contemplatio, il silenzio, la
castità e la preghiera non dovessero considerarsi prerogative dei soli
monaci e che il laico potesse farsi portatore di una esperienza religiosa
autentica al pari di quella d’un monaco; Coluccio Salutati aveva invece
riconosciuto, al contrario del suo maestro, una precisa fisionomia
alla vita contemplativa, irriducibile alla solitudo umanisticamente intesa
e inequivocabilmente identificabile – conformemente alla tradizione
medievale – con la fuga mundi. Tali spunti sarebbero stati autonomamente
sviluppati, poi, dagli umanisti delle generazioni successive,
che avrebbero variamente contribuito ad alimentare il dibattito de optimo
vitae genere, spesso coniugando il tema del dualismo vita attiva/
vita contemplativa e quello del bene comune, con la conseguente valorizzazione
dell’azione e della volontà che ne costituisce il principio
fondativo.
L’affermazione della priorità della felicità che discende dalla contemplatio
è senz’altro ricollegabile, per ciò che riguarda Patrizi, all’apprezzamento
per Platone che, negli anni Settanta del Quattrocento,
ossia negli anni immediatamente precedenti la stesura del De regno,
era stato oggetto di una profonda riscoperta ad opera di Marsilio Ficino
e dell’Accademia fiorentina e che, nel trattato dedicato ad Alfonso
d’Aragona molto più che nel De institutione reipublicae, trova posto accanto
ad Aristotele, l’auctoritas più largamente messa a frutto dagli
umanisti impegnati in riflessioni di carattere politico. Non a caso, nel
primo capitolo del libro VI del De regno, i due filosofi sono citati insie-
[ 11 ]
124 elisa tinelli
me: dopo aver affermato che il sommo bene e l’autentica felicità risiedono
in Dio e che quanto più ci si allontana da Dio, tanto più si fatica
a percepire gli estremi limiti del bene e del male – vale a dire felicità e
miseria –, Patrizi chiama in campo Aristotele32 il quale sembra approvare
la vita contemplativa
cum ait sapientem per seipsum contemplari posse et quanto sapientior
sit, tanto magis tunc eum agere dicit secundum illud quod in eo divinum
est, nec eo tempore humana curare, sed ab illis discedere et quantum
per illum fieri potest divina animo et cogitatione contingere.
Eamque veram hominis vitam esse putat, quae secundum mentem
agitur, quando ea maxime homo sit […]33.
Dopo la vita contemplativa viene quella civile «quae humanas actiones
secundum virtutem versat, cuius etiam corpus particeps esse
cernitur»34: la felicità contemplativa sarà, pertanto, più compiutamente
perfetta di quella umana, giacché «illa […] deum, haec autem homines
imitari videtur»35. Il giudizio dello Stagirita a questo proposito
differisce da quello di Platone verbis potius quam re, sicché non sarà
fuori luogo, sottolinea Patrizi, ricordare la distinzione proposta da
Platone – e recuperata da Plotino – tra felicità attiva e contemplativa e
tra i diversi gradi in cui si articola quest’ultima: il primo grado è quello
dell’uomo che attende con sommo zelo alla contemplazione della
divinità e disprezza tutto ciò che lo lega alla terra; il secondo grado è
quello raggiunto da coloro che, del tutto privi di affanni e cure terrene,
«non amplius ex electione, sed quasi ex actu divina cognoscunt et,
quasi nihil aliud sit eorum intuitu dignum, omni studio omnique contemplatione
intuentur, in illis agunt, in illis semper se versari existimant
habitumque perfectionis efficiunt»36; il terzo e ultimo grado, che
«in mente divina consistit, a quo exempla reliquarum omnium virtutum
ordine quodam fluunt»37, costituisce naturalmente il culmine della
perfezione.
Anche a proposito della virtù civile e della felicità activa il parere di
Aristotele non si scosta da quello di Platone: entrambi ritengono, infatti,
scrive Patrizi, che l’uomo non venga al mondo solo per se stesso,
32 Arist., Eth. Nic. X, 1177a-1178b.
33 Ms. Vat. Lat. 4596, f. 133r.
34 Ibidem.
35 Ibidem.
36 Ivi, f. 134r.
37 Ibidem.
[ 12 ]
de regno et regis institutione di francesco patrizi da siena 125
ma pure per la famiglia, per gli amici e per la patria e che, pertanto,
sebbene la vita di chi abbandona il consorzio umano e si dedica esclusivamente
alla meditazione delle cose celesti sia ben altrimenti ardua
e foriera di gloria, non sia affatto da disprezzarsi la condotta di chi si
fa carico di occupazioni più umili ma, al tempo stesso, utili al genere
umano. La questione della maggiore o minore utilità recata al prossimo
da questo o quel genere di vita era una delle più spinose del dibattito
relativo alla preferibilità del clericare o del laycare38: già Coluccio
Salutati, nel De seculo, aveva sostenuto la più compiuta perfezione di
coloro che, oltre a pronunciare i voti di castità, povertà e obbedienza,
sceglievano pure di abbandonare il secolo e di chiudersi tra le mura
del chiostro pro utilitate omnium, ossia per dedicarsi alla preghiera e
abbandonarsi al fervore della carità, contribuendo, così, a redimere i
peccati dell’umanità; più tardi, Poggio Bracciolini e Lorenzo Valla
avrebbero, tutt’al contrario, polemizzato contro le pretese accampate
dal clero in virtù di un’ostentata superiorità morale, puntualmente
sconfessata dai comportamenti concreti dei sedicenti ‘religiosi’, e Valla,
in particolare, nel De professione religiosorum, avrebbe dissolto il
concetto di sacrificio meritorio quale cardine della tradizionale soteriologia
cristiana, asserendo che solo l’integrità morale, e non la pronuncia
dei voti o l’abbandono del secolo, poteva consentire al fedele
di guadagnarsi la salvezza.
Patrizi, che attende alla stesura del De regno alcuni decenni più tardi,
quando l’eco delle polemiche agitate da Bracciolini e Valla s’è attenuata,
fa sua una posizione di equilibrio, coerentemente con l’apprezzamento,
sopra ricordato, per gli insegnamenti di Platone e Aristotele.
Affermata la superiorità della vita contemplativa, egli chiarisce come
sia possibile condurre un’esistenza virtuosa anche dedicandosi alle
occupazioni della vita civile: essenziale è, in questo senso, conformare
la propria condotta alle quattro virtù cardinali – prudentia, temperantia,
fortitudo e iustitia – che Patrizi analizza compiutamente in tutte le loro
articolazioni, col consueto ricorso all’esemplificazione storico-letteraria
e filosofica, inframmezzata da consigli e suggerimenti rivolti al sovrano.
La trattazione relativa alla iustitia, ad esempio, è completata da
un capitolo dedicato al modo in cui il re, che sempre dovrà aspirare a
38 A proposito dell’uso, nel gergo curiale, di questi vocaboli per designare, rispettivamente,
la scelta di prendere gli ordini sacri o di restare nel secolo, cfr. Marco
Pellegrini, Religione e Umanesimo nel primo Rinascimento da Petrarca ad Alberti,
Firenze, Le Lettere, 2012, pp. 343-347.
[ 13 ]
126 elisa tinelli
imitare Dio, «cum legibus […] agere debeat»39: a sostenere l’argomentazione
interviene, qui, l’auctoritas di Isocrate che, afferma Patrizi,
«praecipit [sc. regi suo] leges emendet, novas condat ad concordiam
utilitatemque civium et ad lites dirimendas»40; compito del buon sovrano
sarà, altresì, quello di scegliere con cura i magistrati tra gli uomini
migliori, che si segnalino per virtù e saggezza e che non solo
s’impegnino a custodire le leggi e a farle rispettare, ma che in prima
persona «nihil contra leges agant»41. Altrettanto importante sarà che la
scelta dei magistrati non sia dettata da ragioni legate alla stirpe o al
censo, ma che scaturisca esclusivamente da una valutazione di carattere
morale, ossia dall’accertamento del possesso, da parte dei candidati,
di costumi integerrimi: «genus enim, sine moribus, superbiam
ignaviamque et opulentiae, sine virtute, insolentiam improbitatemque
plaerunque pariunt»42. Erasmo, nel capitolo della sua Institutio principis
christiani dedicato alla scelta dei funzionari e ai loro compiti, avrebbe
svolto riflessioni del tutto analoghe, auspicando che i magistrati
fossero scelti dal principe «non censu, non imaginibus nec annis […],
sed potius sapientia et integritate»43 e, soprattutto, che la selezione avvenisse
in maniera limpida e che gli incarichi fossero eseguiti con onestà,
poiché l’opinione che la gente comune si fa del regnante dipende
in larga misura anche dalla condotta dei suoi collaboratori e, inoltre,
un principe che venda le cariche al miglior offerente non fa altro, a
giudizio dell’umanista olandese, che agevolare e avallare comportamenti
indegni e corrotti da parte dei funzionari pubblici.
All’interno di una struttura piuttosto tradizionale, che, per certi
aspetti, sembra richiamare quella degli specula principum medievali, e
di un sistema di fonti che, per quanto ampio, non si discosta da quello
comunemente messo a frutto dagli scrittori ‘politici’ del Quattrocento
– e, ovviamente, non poteva che essere così –, Francesco Patrizi si fa
portatore, come si è cercato di lumeggiare nelle pagine precedenti, di
una sensibilità a tutti gli effetti moderna, che recepisce gli esiti del dibattito
sull’uomo e sul potere che aveva animato la vita intellettuale
degli umanisti delle generazioni precedenti e sembra talvolta antici-
39 Ms. Vat. Lat. 4596, f. 185v.
40 Ibidem.
41 Ms. Vat. Lat. 4596, f. 186r.
42 Ibidem.
43 Si cita dal testo critico dell’Institutio principis christiani curato da Otto Herding
(in Opera omnia Desiderii Erasmi Roterodami recognita et adnotatione critica instructa
notisque illustrata, Amsterdam, North-Holland, 1974, IV.I, p. 204).
[ 14 ]
de regno et regis institutione di francesco patrizi da siena 127
pare, di quel dibattito, sviluppi successivi. La figura d’intellettuale che
emerge dalla lettura del De regno è, così, non solo quella di un uomo
estremamente colto, ma pure quella di un fine osservatore del suo
tempo, capace di cogliere le dinamiche fondamentali sottese alla gestione
del potere e di fornire indicazioni non grossolane, spesso, anzi,
assai acute, a coloro che di quel potere erano i detentori, in un momento
storico, peraltro, assai delicato per il regno di Napoli – ad Alfonso II
d’Aragona, come si è detto, è dedicato il De regno – che di lì a poco
avrebbe dovuto fare i conti con le drammatiche conseguenze della
congiura dei Baroni, la cui riottosità dovette essere inasprita dall’atteggiamento
intransigente di Alfonso, conscio del pericolo che, per la
sicurezza del trono, rappresentava la protervia del grande baronaggio
e «risoluto ancora più del padre a porsi netto il dilemma tra potere
monarchico e potere baronale»44.
L’edizione criticamente stabilita del testo del De regno, oltre a colmare,
anche se solo in piccola parte, una considerevole lacuna editoriale
che riguarda i trattati di carattere politico redatti nei secoli XV e
XVI, tradizionalmente relegati alla dimensione di vacue e puramente
ornamentali funzioni retoriche e, per questo, trascurati e solo parzialmente
assunti come effettiva testimonianza di realismo politico, potrà
contribuire a riabilitare la figura di Francesco Patrizi che, dopo il successo
straordinario conosciuto nel XVI secolo, a partire dalla metà del
Seicento sarebbe stato quasi sempre menzionato solo come secondo
termine di paragone in un confronto ogni volta perdente con l’omonimo
filosofo neoplatonico originario di Cherso (1529-97), sino a venirne
quasi completamente oscurato nel giudizio dei posteri.
2. I testimoni
Si descrivono, di seguito, i manoscritti e le stampe che costituiscono
la tradizione superstite del De regno.
I testimoni manoscritti:
V= Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 4596.
Cart.; sec. XV-XVI; ff. 231 numerati. Numerazione moderna a penna, a numeri
arabi, segnata in alto a destra sul recto di ciascun foglio (f. 146r erroneamente
numerato 145 [bis], senza errori, però, nella numerazione successiva,
che prosegue regolarmente e correttamente con il f. 147). Al centro del margine
inferiore del f. 1r è vergata, col medesimo inchiostro della numerazione dei
44 Benedetto Croce, Storia del Regno di Napoli, Bari, Laterza, 1925, p. 72.
[ 15 ]
128 elisa tinelli
ff., la segnatura del codice, senza indicazione del fondo (4596). Dal f. 23v al
centro del margine superiore è vergata la lettera maiuscola L in inchiostro
rosso (così fino al fine del codice); dal f. 24r al centro del margine superiore si
ha, vergata in inchiostro rosso, l’indicazione del numero (romano) del libro, a
partire dal II libro (così fino alla fine del codice). Coperta in pergamena. Il codice
presenta fogli di guardia cartacei, recenti di restauro. All’interno del piatto
anteriore, a sinistra del margine superiore, è incollata un’etichetta recante la
segnatura del ms. (Vat. lat. 4596). Il ms. si trova in ottimo stato di conservazione.
I titoli, le parole greche, correzioni interlineari, marginalia e note di lettura
sono rubricati in inchiostro rosso. Taluni marginalia e correzioni interlineari
sono vergati col medesimo inchiostro del corpo del testo (apparentemente da
mano diversa). Spazi bianchi in corrispondenza della lettera iniziale di ciascun
capitolo (miniature non realizzate). Dal IV libro mano (apparentemente)
diversa. Dedica assente; proemio assente.
f. 1r: Francisci Patricii Senensis Pontificis Caietani: De regno. Liber primus
incipit. Sitne eius qui de republica scripserit de unius etiam prncipatu tactare
(sic). Titulus primus.
f. 24r: Francisci Patricii Senensis Pont. Caietani liber primus de Regno explicit.
Incipit eiusdem secundus; munus regis iustitiam esse, iustum unius
viri imperium regnum esse.
f. 53v bianco.
f. 54r: Francisci Patricii Senensis Pontificis Caietani liber secundus explicit.
Incipit tertius eiusdem de regno; sicut aliae sunt regis virtutes, aliae privatorum:
sic non omnes corporis exercitationes regi conveniunt.
f. 79v: Francisci Patricii Senensis Pontificis Caietani liber tertius de regno
explicit. Incipit eiusdem quartus. Quae cavenda vitandave sint regi.
f. 80r bianco.
f. 80v: bianco, con la sola eccezione del titulus vergato in inchiostro rosso
sul margine inferiore: Caveat rex ne mentiatur neve mendacium dicat.
f. 107v: Francisci Patricii Senensis Pontificis Caietani liber quartus de regno
explicit. Incipit eiusdem quintus. De metu et aegritudine et de singulis
spetiebus earundem perturbationum.
f. 108r bianco.
f. 131v: Francisci Patricii Senensis Pontificis Caietani liber quintus de regno
explicit. Incipit eiudem (sic) sextus. De virtute. De contemplativa felicitate.
f. 132r bianco.
f. 157v: Francisci Patricii Senensis Pontificis Caietani liber sextus de regno
explicit. Incipit eiusdem septimus de fortitudine et eius speciebus.
f. 158 bianco.
f. 180r: Francisci Patricii Senensis Pontificis Caietani liber septimus de regno
explicit. Incipit eiusdem octavus. De iustitia et eius spetiebus sive partibus.
f. 180v bianco.
f. 209v: Francisci Patricii Senensis Pontificis Caietani liber octavus de regno
explicit. Incipit eiusdem nonus de officio eorum qui reguntur.
f. 210r bianco.
[ 16 ]
de regno et regis institutione di francesco patrizi da siena 129
V1 = Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Chig.F.VIII.196.
Cart.; sec. XV-XVI; ff. 4 non numerati e 350 numerati. Numerazione moderna
a penna, a numeri arabi, segnata in alto a destra sul recto di ciascun foglio.
Dal f. 1v al centro del margine superiore è vergata la lettera maiuscola L
sul verso di ciascun foglio (così fino alla fine del codice; talvolta, la lettera L è
sostituita dalla parola LIBER); dal f. 2r al centro del margine superiore si ha
l’indicazione del numero (romano) del libro (così fino alla fine del codice). A
partire dal f. 5r (ma in maniera sistematica dal f. 31r), sul margine inferiore
destro del recto di ciascun foglio è vergata la segnatura dei fascicoli (A-Ii5).
Coperta in pergamena. Il ms. si trova in discreto stato di conservazione. Spazi
bianchi in corrispondenza della lettera iniziale di ciascun capitolo e, all’interno
dei capitoli, in corrispondenza della lettera iniziale di ciascun paragrafo
(miniature non realizzate). Dedica assente; proemio assente.
ff. 1-3 n.n.: indice.
f. 4 n.n. bianco.
f. 1r: Francisci Patricii Senensis Pontificis Caietani, De regno Liber primus
incipit. Sitne eius qui de republica scripserit de unius etiam principis dominatu
tractare.
f. 31v: Francisci Patricii Senensis Pontificis Caietani liber primus de regno
explicit.
f. 32r bianco.
f. 32v: Francisci Patricii Senensis Pontificis Caietani liber secundus de regno
incipit. munus regis iustitiam esse et iustum unius viri imperium esse
regnum.
f. 73r: Francisci Patricii Senensis Pontificis Caietani liber secundus de regno
explicit. Incipit eiusdem quartus. Quae cavenda vitandave sint regi.
f. 73v bianco.
f. 74r: Francisci Patricii Senensis Pontificis Caietani liber tertius de regno
incipit. Sicut aliae sunt regis virtutes, aliae privatorum, sic non omnes corporis
exercitationes regi conveniunt.
f. 111r: Francisci Patricii Senensis Pontificis Caietani liber tertius de regno
explicit.
f. 111v: Francisci Patricii Senensis Pontificis Caietani liber quartus de regno
incipit.
f. 112r: Virtutem ac veritatem sequatur rex; non mentiatur nec mendacium
dicat, neque mentiri aut mendacium dicere alios sinat.
f. 154r: Francisci Patricii Senensis Pontificis Caietani liber quartus de regno
explicit.
f. 154v: Francisci Patricii Senensis Pontificis Caietani liber quintus de regno
incipit
f. 155r: De metu et aegritudine quae animum nostrum opinione mali perturbant.
f. 190r: Francisci Patricii Senensis Pontificis Caietani liber quintus de regno
explicit.
f. 190v bianco.
[ 17 ]
130 elisa tinelli
f. 191r: Francisci Patricii Senensis Pontificis Caietani liber sextus de regno
incipit. De virtute et de contemplativa felicitate.
f. 231v: Francisci Patricii Senensis Pontificis Caietani liber sextus de regno
explicit.
f. 232r bianco.
f. 232v: Francisci Patricii Senensis Pontificis Caietani liber septimus de regno
incipit. De fortitudine.
f. 267r: Francisci Patricii Senensis Pontificis Caietani liber septimus de regno
explicit.
f. 267v: Francisci Patricii Senensis Pontificis Caietani liber octavus de regno
incipit. De iustitia et eius partibus sive spetiebus.
f. 314r: Fr. Patricii Senensis Pont. Caietani liber octavus de regno explicit.
f. 315r: Francisci Patricii Senensis Pontificis Caietani liber nonus de regno
incipit: de officio eorum qui regis imperio parere debent.
I testimoni a stampa:
P = 1519
Francisci patricii Senensis pontificis / caietani ENNEAS de regno, et regis institutione,
opus profe=/cto et historiarum varietate, et sententiarum grauitate
com=/mendandum, hactenus nunquam impressum. Cum Io=/annis Sauignei
scholiis lomographicis, indicibus=/que titulorum, vocabulorum, factorum.
/ dictorumque memorabilium copio=/sissimis debito literarum ordine
dispositis // [Impresa: una galea (che rimanda, evidentemente, al nome dello
stampatore); Motto, nella parte superiore: VOGUE LA GUALLEE; Nome dello
stampatore, lungo il margine inferiore: GALLIOT DU PRE] // Venales prostant
in aedibus honesti viri Galioti a prato Biblio=/polae Parisiensis super
diuae mariae virginis ponte, et pro co=/lumna secunda secus sacellum in palatio
Parisiensi. // Cum gratia et Priuilegio.
Colophon: FRAN.P.S pontificis Caietani librorum nouem de Regno et Regis /
institutione FINIS // PARRHISIIS IMPRESSORUM OPERA HONE=/ sti viri
magistri Petri Vidoue calcographiariae artis peritissimi, / impensis vero Galioti
a Prato achademiae parrhisiensis bi=/bliopolae diligentissimi sextodecimo
Calendas maias / anni domini milesimi quingentesimi vnde=/uicesimi
ad romanum calculum.
6o. A-PP6, cc. 51 n.n.; cc. I-CCCCLIII. Segnature sul recto delle carte 1-4 di ciascun
fascicolo; numerazione sul recto e sul verso di ogni carta.
A1r: frontespizio. A1v: lettera di concessione del privilegio di stampa. A2r:
IOANNES SAVIGNEUS CASTRILERAVDIA=/NUS CLARISSIMO VIRO
CAROLO GVIL=/LARDO, AEQVISSIMO SVPREMAE / PARISIENSIS
CVRIAE PRAE=/SIDI. S. P. D. [segue lettera datata 1o aprile 1519, che termina
a A2v]. A3r: Claudii Tuderti pictauici ad librum decastichon; segue lettera di
P. Gerardus Roberto Fortunato prudentissimo plesseii gym=/nasii moderatori.
S. P. D. datata 1o aprile, s.a. A3v: TITVLORUM / ELENCHVS EORVM,
[ 18 ]
de regno et regis institutione di francesco patrizi da siena 131
QVAE / SINGVLIS TITVLIS TO=/TO VOLVMINE CON=/TINETUR, termina
a A6r. A6v: CONTENTORVM // INDEX COPIOSISSI=/mus vocabulorum,
historiarum, si=/milium, sententiarum, dictorum fa=/ctorumque memorabilum
quae hoc / opere continentur, termina a E2r. E2v: REVERENDO
IN CHRISTO PATRI, ET DO=/MINO. D. FRANCISCO DAVXIO. SANCTAE
/ CRVCIS APVD BVRDEGALAM AB=/BATI DIGNISSIMO, IOANNES / SAVIGNEUS,
S.P.D. [segue lettera datata al 1519]. A1r (riprende dal principio la
segnatura delle carte): AD INCLYTVM AC CELEBERRIMVM CALA=/BRIAE
DVCEM ALPHONSVM ARAGONIVM / SERENISSIMI FERDINANDI REGIS
PRI=/MOGENITVM FRANCISCI PATRI=/CII SENENSIS PONTIFICIS
CA=/IETANI PRAEFATIO IN LI=/BROS DE REGNO, AC REGIS INSTITUTIO=/
NE LEGE FELI=/CITER [segue proemio dell’opera; termina a A3v, dove
inizia il I libro dell’opera: AD INCLYTVM AC MAGNANIMVM CA=/
LABRIAE DVCEM ALPHONSVM ARA=/GONIUM SERENISSIMI REGIS
FER=/DINANDI PRIMOGENITVM / FRANCISCI PATRICII SE=/NENSIS
PONTIFICIS / CAIETANI LIBER / PRIMVS DE RE=/GNO ET RE=/GIS
IN=/STITUTIONE.]. Il testo del De regno termina a PP4v. PP5r: IOANNES
SAVIGNEVS PIIS LECTORIBUS. SA. [seguono epistola datata 5 aprile 1519 e
elenco di Errata ex praelo animaduersa, che termina a PP5v]. PP5v: colophon.
P2 = 1531
FRANCISCI / PATRICII / Senensis, Pontificis Caietani Enneas de Regno et
Re=/gis institutione, opus profecto et historiarum varie=/tate et Sententiarum
grauitate commen=/dandum, Cum titulorum, voca=/bulorum, factorum,
dicto=/rumque memorabilium / indicibus / debito / literarum ordine
dispositis. // [Impresa: Un leone e un leopardo che tengono uno scudo sospeso
a un tronco d’albero, con le iniziali dello stampatore, ossia I. P.; lungo il
margine inferiore, il nome completo dell’editore: IEHAN PETIT, che ricorre,
peraltro, anche lungo i fregi che incorniciano il frontespizio] // Venundatur
in aedibus Ioannis Parui via Iacobea / sub insigni Floris Lilij. M. D. XXXI. /
Cum Gratia et Priuilegio. //
Colophon: HOSCE NOVEM LIBROS FRAN=/cisci Patricij Senensis, Pontificis
Caietani de Regno et re=/gis institutione excudebat M. Petrus Vidouaeus
/ calcographus solertissimus impensis Iohannis / Parui, ac Gallioti a Prato, a
Christo / nato trigesimo primo supra ses=/quimillesimum ad calendas / septembres.
Segue emblema della Fortuna con motto AUDENTES IUVO vergato
sul margine superiore dell’emblema e il nome del curatore, P. VIDOVAE, ai
piedi dell’emblema della Fortuna, sul lato sinistro.
6o. A-L6, cc. 22 n.n.; cc. I-CCCCVI. Segnature sul recto delle carte 1-4 di ciascun
fascicolo; numerazione sul recto e sul verso di ogni carta.
c. 1r (n.n.): frontespizio. c. 1v (n.n.: IOANNES ARNOLLETVS D. IOANNI /
Boluaco Nauarreorum grammaticorum nuper gymnasiarchae, nunc / vero
sacrae theologiae doctorum specimini eminentissimo, / curiaeque diui Iacobi
[ 19 ]
132 elisa tinelli
a Laniena apud Lutetiam / Parrhisiorum vigilantissimo pastori / S. D. [segue
epistola datata Parrhisijs / tertio nonas septembres]. cc. 2-22 (n.n.): INDEX
TITVLORVM / ELENCHVS EORVUM, QVAE SIN=/gulis titulis totius voluminis
continentur. A1r: LIBRI PRIMI PROOEMIVM / AD INLYTVM / AC
CELEBERRIMVM CALABRIAE / Ducem Alphonsum Aragonium, Serenissimi
Ferdi=/nandi Regis primogenitum, Francisci Patricij / Senensis, Pontificis
Caietani Praefatio in / libros de Regno, ac Regis insti=/tutione. / Lege feliciter.
//, termina a A3v. A3v: AD INCLYTVM/ AC MAGNANIMVM / CALABRIAE
DVCEM ALPHONSVM / ARAGONIVM SERENISSIMI REGIS / FERDINANDI
PROMOGENITVM. / FRANCISCI PATRICII SE=/NENSIS, PONTIFICIS
/ CAIETANI LIBER / PRIMVS DE RE=/GNO ET RE=/GIS INSTI=/
TVTIO=/NE. // A4r: inizia il testo del De regno; termina a L5v. L6v: colophon.
P3 = 1578
FRANCISCI PA=/TRICII SENENSIS DE RE=/GNO ET REGIS INSTITVTIO=/
ne libri Nouem, multo quam antea / emendatiores, vna cum argumentis in /
singulos omnium librorum titulos et / authorum locis, vnde exempla peti=/
ta sunt, in margine adscriptis. // PER IO. NICODONVM / Sammaxentinum.
/ ADIECTVS EST ETIAM / Index locupletissimus. // PARISIIS, / Apud Ioannem
Hulpeau, in monte D. / Hilarij, sub scuto Burgundiae. / 1578. / CVM
PRIVILEGIO REGIS. / U. C. M. //
8o. A-KKK8, cc. 1-627. Segnature sul recto delle carte 1-4 di ciascun fascicolo;
numerazione sul recto di ogni carta.
A1r: frontespizio. A1v: Extraict du privilege. A2r: FR. VALENTIANO / CLARISSIMO
DOCTISSI=/MOQVE VIRO, ET SVMMO / priuatarum causarum
legato a=/pud Vxolodunos. / I. NICODONVS / S. P. D. // [segue epistola
datata Lutetiae, tertio Kal. Feb. 1578; termina a A4v: AD INCLYTVM AC /
MAGNANIMVM CALABRIAE / DVCEM ALPHONSVM ARA=/gonium
serenissimi regis Ferdinan=/di primogenitum, Francisci / Patricij senensis,
pontifi=/cis caietani liber pri=/mus de regno et / regis institutione]. A5r: SIT
NE EIVS VIRI / QVI DE REP. SCRIPSE=/RIT DE VNIVS ETIAM / principis
dominatu / tractare. / Titulus primus. // [Inizia il testo del De regno; termina
a FFF3v]. FFF4r: INDEX COPIOSISSIMVS / RERVM ET VERBORVM IN / his
de regno regisque insti=/tutione libris memo=/rabilium. (finisce a KKK5v)
// KKK6r: IANI MATEI SANTO=/nis Angeliaci in Iani Nicodoni Patri=/
cium de regno ab eo locis innume=/rabilibus emendatum Carmen / hendecasyllabon.
(segue testo del carme) //
P4 = 1582
FRANCISCI / PATRICII SE=/NENSIS DE REGNO ET / REGIS INSTITVTIONE
/ LIBRI IX. / Historiarum ac sententiarum uariarum referti, quarum /
lectione facile de re qualibet quisque poterit decernere, ut / ex epistola cognoscere
licebit. / Ope vetustissimorum librorum manu scriptorum, et cu=/ra ac
diligentia doctorum quorumdam virorum ab in=/numeris pene mendis per-
[ 20 ]
de regno et regis institutione di francesco patrizi da siena 133
purgati. / Quibus adiecimus Indices tum titulorum, tum rerum ac sententia=/
rum locupletissimos. // [Impresa: immagine della Speranza in cornice
ovale; motto, che circonda la figura: Intus Spes sola remansit] // PARISIIS, /
Apud Aegidium Gorbinum, sub insigni Spei, / e regione collegij Cameracensis.
/ M. D. LXXXII. / CVM PRIVILEGIO REGIS. //
8o. A-GGG8, cc. 73 n.n.; cc. 1-426. Segnature sul recto delle carte 1-4 di ciascun
fascicolo; numerazione sul recto di ogni carta.
c. 1r n.n.: frontespizio. c. 2r n.n.: D. LAMBINVS / ERVDITO LECTORI / S. D.
(segue epistola, datata Lutetiae idib. Iunius anno 1567; termina a c. 5v n.n.). c.
6v n.n.: TITVLORVM / ET CAPITVLORVM / omnium quae in hoc uolumine
conti=/nentur Index, ad seriem librorum sin=/gillatim redactus, ubi primus
nume=/rus capitulum seu titulum, secundus / folium, tertius folii faciem demonstrat
(termina a c. 11r n.n.); c. 11v n.n.: INDEX RERVM ET VERBORVM /
QVAE IN HOC VOLVMINE CONTI=/nentur copiosissimus, in quo numerus
folium, / litera uero quae sequitur, faciem folij, a / scilicet, primam, b uero /
secundam. (termina a c. 35v n.n.). c. 36r n.n.: PRIVILEGII SVMMA. A1r: AD
INCLYTUM AC CELE=/BERRIMVM CALABRIAE DVCEM / Alphonsum
Aragonium, serenissimi Ferdi=/nandi Regis primogenitum, Francisci Pa=/
tricij Senensis pontificis Caietani prae=/fatio in libros de regno ac regis / institutione.
A6v: inizia il testo del De regno: SITNE EIVS VIRI QVI DE / rep.
scripserit, de unius etiam prin=/cipis dominatu tractare (termina a GGG8v).
A = 1594
FRANCISCI / PATRICII / SENENSIS DE RE=/GNO ET REGIS INSTITV=/
TIONE LIBRI IX. AD ALPHON=/SVM ARAGONIVM INCLYTVM AC CE=/
leberrimum Calabriae Du=/cem scripti. / Opus Historiarum ac sententiarum
varietate refertum, / et cum aliis omnibus tum vero Politicis cum primis /
vtile et necessarium, vt ex Epistola / cognoscere licebit. / Ope vetustissimorum
librorum manu scriptorum, et cura / ac diligentia doctorum quorundam
virorum denuo / ab innumeris pene mendis perpurgatum: / Cui adiecimus
indices tum titulorum, tum rerum / ac sententiarum locupletissimos. / EDITIO
POSTREMA. // [Impresa: busto di Minerva su una pietra quadrata, con
motto ai lati: SCIENTIA IMMUTABILIS] // ARGENTINAE / Impensis LAZARI
ZETZNERI./ 1594 // [esiste un’altra emissione di questa edizione, che
sul frontespizio reca l’indicazione: Montisbeligardi / Impensis LAZARI
ZETZNERI./ 1594].
8o. A-T8, cc. 16 n.n.; cc. 1-632; cc. 9 n.n. Segnature sul recto delle carte 1-5 di
ciascun fascicolo; numerazione sul recto e sul verso di ogni carta.
c. 1r n.n.: frontespizio. c. 2r n.n.: ILLVSTRIBVS AC / GENEROSIS DOMINIS:
D. / FRIEDERICO: D. VVOLFGANGO ERNESTO: / D. IOANNI THEODORICO
Comitibus a Leonsthein, Vuertheim et Roschenforth, Do=/minis in
Scharpfeneck et Breuberg, fra=/tribus germanis: Dominis suis / clementibus
/ S.P.D. (segue epistola, datata Argentinae IV Cal. Auusti Ano reparatae salu-
[ 21 ]
134 elisa tinelli
tis M. D. X C I V.; finisce a c. 4r n.n.). c. 4v n.n.: TITVLORVM AC CAPI=/tulorum
libri primi index (termina a c. 7v n.n.). c. 8 n.n.: bianca. A1r: AD INCLYTVM
AC / CELEBERRIMVM / CALABRIAE / DVCEM, / ALPHONSVM
ARAGO=/NIVM, serenissimi FERDINANDI / Regis primogenitum,
FRANCISCI PA=/TRITII Senensis, Pontificis CAIETANI, / Praefatio in libros
de Regno ac Re=/gis institutione (finisce a A5r). A5v: Lib. I. Tit. I. / Sitne eius
viri de Rep. scripserit, de vnivs / etiam Principis dominatu / tractare (inizia il
testo del De regno; termina a R4v). R5r: INDEX COPIOSISSIMVS / VOCABVLORUM,
HISTORIA=/rum, similium, sententiarum, dictorum, / factorumque
memorabilium, quae in / hoc opere continentur (termina a 58r).
A2 = 1608
FRANCISCI PATRICII SE=/NENSIS DE REGNO / ET REGIS INSTITUTIONE
/ LIBRI IX. AD ALPHONSVM ARA=/gonium inclytum ac celeberrimum
/ Calabriae Ducem scripti. / OPUS HISTORIARUM AC SENTEN=/tiarum
uarietate refertum, et cum aliis omnibus tum / uero Politicis cum primis utile
et necessarium, / ut ex Epistola cognoscere licebit. / OPE VETUSTISSIMORUM
LIBRORUM / manuscriptorum, et cura ac diligentia doctorum quorun=/
dam virorum denuo ab innumeris pene mendis / perpurgatum: / CVI
ADIECIMUS INDICES TVM TITVLO=/rum, tum rerum ac sententiarum locupletissimos.
/ EDITIO POSTREMA. // [Impresa: busto di Minerva su pietra
quadrata, con motto sulla faccia anteriore della pietra: SCIENTIA IMMUTA=/
BILIS] // ARGENTORATI. / Impensis LAZARI ZETZNERI Bibliopol. /
M. DC. VIII. //
8o. cc. *1-*8; cc. 1-603; cc. 99 n.n. Segnature sul recto delle carte 1-5 di ciascun
fascicolo; numerazione sul recto e sul verso di ogni carta.
*1r: frontespizio. *2r: ILLUSTRIBUS AC/ GENEROSIS DOMINIS: D. FRI=/
derico: Dn. Wolfgango Ernesto: Dn. Joanni Theo=/dorico Comitibus a Leonsthein,
Wertheim et Ro=/schenforth, Dominis Scharpfenek et Bren=/berg, fratribus
germanis. Dominis/ suis clementibus / S. P. D. (segue epistola dedicatoria
datata Argentinae, IV Cal. Augusti Anno reparatae salutis M. D. XCIV,
termina a *4r). *4v: TITULORUM AC CA=/PITULORUM LIBRI PRI=/MI
INDEX (termina a *8v). A1r: AD INCLYTUM AC/ CELEBERRIMUM CA=/
LABRIAE DUCEM, / ALPHONSUM ARAGONIUM, / SERENISSIMI FERDINANDI
REGIS / primogenitum, Francisci Patricij Senensis, Pontificis /
Caietani, Praefatio in libros de Regno ac / Regis institutione (termina a A4v).
A5r: SITNE EIVS VIRI QVI DE REP. / scripserit, de unius etiam Principis
do=/minatus tractare (inizia il testo del De regno, termina a PP7r). PP7v: INDEX
AUCTORUM, / DICTORUM, HISTORIARUM / SIMILIUM, SENTENTIARUM
RERUM=/que memorabilium, quae in hoc opere continen=/tur
copiosissimus (termina a XX7v).
Elisa Tinelli
Università di Bari
[ 22 ]
Stefano Evangel ista
Idealismo e modernismo nella cultura letteraria
fin de siècle alla luce delle corrispondenze
fogazzariane
Alla fine del diciannovesimo secolo l’ideologia fogazzariana si proiettò sullo
sfondo di un clericalismo riformista di ascendenza cattolica, mentre il suo coinvolgimento
in quel movimento che prendeva il nome di Modernismo si rifletté
soprattutto sulla composizione de Il Santo. Finalità del saggio è descrivere
l’ambiente culturale in cui Fogazzaro sviluppò la sua ideologia e la sua poetica,
tenendo nel giusto conto anche la fortunata ricezione estera delle sue opere e le
relazioni con i suoi corrispondenti in Italia, Francia, Inghilterra e Stati Uniti.

At the end of the nineteenth century, Fogazzaro’s ideology projected itself on
the background of a reformist clericalism of Catholic ancestry, while his involvement
in the Modernist movement influenced above all the composition of
his novel Il Santo. The aim of the essay is to describe the cultural environment in
which Fogazzaro developed both his ideology and his poetics, taking into account
the successful reception of his works in foreign countries and the relationships
with his correspondents in Italy, France, England and the United States.
Le lettere del carteggio Fogazzaro della Biblioteca Bertoliana di Vicenza
attestano il dialogo dell’autore vicentino con giornalisti, intellettuali,
editori italiani e stranieri, seguendo un itinerario di crescita in termini
sia di maturità artistica, sia di notorietà internazionale.
Il fine che mi propongo in tale saggio non è solo quello di ripercorrere
sotto una nuova luce la formazione e l’itinerario artistico di questo
scrittore, la cui fama fu soggetta ai colpi alterni della fortuna, e che
«after a period of disesteem», coincidente con gli anni del Novecento
in cui la critica crociana e quella marxista ebbero maggior influenza
sul pubblico e sui circoli culturali, «he is again coming, in the 1970’s,
to be regarded with critical favor»1, ma anche di cercare di smontare
Autore: Università di Chieti; assegnista di ricerca; stefano.evangelista09@
gmail.com
1 Robert Anderson Hall, Jr., Antonio Fogazzaro, Boston, Twayne Publishers,
1978, p. 9.
136 stefano evangelista
l’etichettatura di artista marginale e/o marginalizzato che, a partire
dall’espressione di Gabriele D’Annunzio: «Fogazzaro? Il est de
Vicence»2, ha conferito al romanziere e poeta vicentino le sembianze
di scrittore provinciale, chiuso e crepuscolare, nonché ai suoi romanzi
un sapore biedermeier3.
Leggendo attentamente le lettere custodite nei tre fondi Rumor,
Roi e Nardi, non si può fare a meno di notare la trama di relazioni che
il senatore del Regno d’Italia aveva tessuto con gli intellettuali del
tempo, al limine del nuovo secolo e negli anni a seguire, con uno spirito
direi quasi imprenditoriale, di chi stava tutt’altro che ai margini di
una comunità culturale estesa ben oltre i confini patri. Le corrispondenze
epistolari si diffondono a raggiera, su vettori di fuga che diramano
dal centro (l’amatissima Vicenza) verso la “periferia”, o come
sarebbe meglio dire, le “periferie” che, a loro volta, sono i centri nevralgici
della vita accademica, editoriale, e giornalistica ossia di quel
movimento culturale decadente diffuso nell’Europa centrale durante
l’età definita fin de siècle.
E, in effetti, erano coinvolti alcuni dei massimi esponenti della
Jahrhundertwende precedenti alla Prima Guerra Mondiale. Fogazzaro,
nel clima della crisi dei valori positivisti della scienza e del progresso,
costituì un’alternativa originale, a sé stante rispetto alle tendenze estetizzanti
e/o morbosamente decadenti, grazie alla riscoperta dell’idealismo
e del misticismo, pur non rinunciando a qualche venatura sensuale
o all’esplorazione delle sfere profonde dell’io, fino a condividere,
con il Capuana, un interesse quanto mai curioso per l’occultismo.
L’idealismo e il misticismo fogazzariani, infatti, se da un lato furono
un tentativo di reagire al materialismo di matrice positivista, dall’altro
emergevano da quel contesto culturale di “crisi”4, di cui il Decadentismo5
fu l’espressione cogente. L’inettitudine di personaggi come Cor-
2 È la risposta che D’Annunzio diede al suo traduttore francese Georges Hérelle;
cfr. R. Giglio, Per la storia di un’amicizia. D’Annunzio, Hérelle, Scarfoglio, Serao,
Napoli, Loffredo, 1977, p. 69.
3 I l presente lavoro si configura estratto e parziale rielaborazione di alcune
parti della mia tesi di dottorato (e relativa appendice) “La Poetica e la ricezione
internazionale di Antonio Fogazzaro: Attraverso il carteggio con i corrispondenti
anglo-americani, francofoni e italiani” discussa presso l’Università di Durham nel
2017.
4 Per ulteriori approfondimenti sulla “cultura della crisi”, si veda il saggio di
Gino Tellini, I «cavalieri dello spirito» e la cultura della crisi, in Id., Il romanzo italiano
dell’Ottocento e Novecento, Milano, Bruno Mondadori, 1998.
5 I critici italiani sono sostanzialmente d’accordo nel sostenere la presenza di
[ 2 ]
idealismo e modernismo nella cultura letteraria 137
rado Silla, le nevrosi di Marina Crusnelli, o la crisi di Piero Maironi,
inizialmente dibattuto tra le ragioni della carne e quelle dello spirito,
non sono forse espressioni di quel languore esistenziale e di quella
stanchezza spirituale tipici della poetica decadente? Non è forse il misticismo
di Piero-Benedetto un tentativo di varcare la soglia del razionale,
per comprendere l’essenza misteriosa ed enigmatica dell’Invisibile?
Certamente siamo lontani dall’impiego dagli strumenti artificiali
della conoscenza utilizzati dagli artisti maledetti; l’opera letteraria del
vicentino fu, infatti, tesa a indagare i problemi dell’animo umano da
una prospettiva eminentemente religiosa.
Personalità eclettica e intensamente spirituale fu quella del Fogazzaro,
tanto che a nome di Matilde Serao l’otto luglio del 1894 sulle
colonne del supplemento letterario de «Il Mattino»6 compariva, sotto
il titolo de I cavalieri dello spirito, un articolo nel quale la giornalista
napoletana encomiava la figura dello scrittore, meritevole di aver riconciliato
«tutta la ricchezza dell’idea scientifica moderna con gli ideali
antichi rinnovellati dalla fede»7, mentre Ugo Ojetti, qualche anno
dopo, in Alla scoperta dei letterati definiva lo scrittore vicentino come «il
capo di tutta una resurrezione neo-mistica nell’arte e nella letteratura»8.
Se da un lato Giovanni Verga non condivideva l’allontanamento
dal metodo naturalista, giacché per lui il naturalismo era forma, menelementi
di continuità con il Romanticismo, tanto che Walter Binni parla di una
prima fase denominata “decadenza del Romanticismo” differente rispetto al Decadentismo
tout court, e anche il Gioanola distingue tra un primo e un secondo Decadentismo.
A questo proposito si vedano Walter Binni, La poetica del Decadentismo,
Firenze, Sansoni, 1936 e Elio Gioanola, Il Decadentismo, Roma, Studium, 1977. Il
decadentismo sarebbe, dunque, l’espressione matura di quella crisi sociale e spirituale
che si rifletté, inizialmente, nei temi esistenzialisti degli scrittori decadenti
radunati attorno alle riviste «Le Decadent», «Lutèce», «Le Chat Noir» della Parigi
degli anni Ottanta, prima che la poetica della decadenza assumesse un respiro più
ampiamente europeo. Sul carattere cosmopolita ed internazionale del movimento,
pur nelle specifiche differenziazioni nazionali, si veda Matthew Potolski, The
Decadent Republic of Letters: Taste, Politics, and Cosmopolitan Community from Baudelaire
to Beardsley, Philadephia, University of Pennsylvania Press, 2013.
6 I l primo editoriale (16 marzo) del quotidiano prometteva di dar voce alle
proteste del Mezzogiorno. Il pubblico al quale si rivolgeva era la vecchia aristocrazia
e la borghesia emergente, uniche fasce sociali ad essere all’epoca adeguatamente
alfabetizzate. Tra i collaboratori più attivi sulla testata, ricordiamo Ferdinando
Russo, Francesco Saverio Nitti e Gabriele d’Annunzio.
7 Matilde Serao, I cavalieri dello spirito, «Il Mattino» – Supplemento, (Napoli), 8
luglio 1894.
8 Ugo Ojetti, Alla scoperta dei letterati, Milano, Fratelli Bocca Editori, 1899, p.
36.
[ 3 ]
138 stefano evangelista
tre il misticismo poteva essere la sostanza di un romanzo, dall’altro
Matilde Serao cercava di dar vita a un vero e proprio movimento che
s’ispirasse all’apostolato del Fogazzaro, anche se ciò scatenò la perplessità
dell’autore stesso:
Ho visto e seguito accuratamente il movimento che nel giornale di Matilde
Serao si è ultimamente manifestato. Se posso parlar francamente,
le dirò che io non credo alla sincerità di tutti quegli scrittori; ossia essi
sono in buona fede, ma il loro moto è sorto o per via di reazione o per
causa di moda9
Ben altra cosa rispetto al “misticismo naturale” del Fogazzaro. Certo,
è davvero singolare che fosse proprio colei che aveva intitolato uno
dei suoi romanzi più celebri Il ventre di Napoli, in onore del quasi omonimo
romanzo zoliano appartenente al ciclo dei Rougon-Macquart, a
segnare la svolta in senso spiritualista di Fogazzaro. Ma d’altronde la
Serao, di lì a qualche anno, di ritorno da un viaggio in Palestina faceva
uscire dalla tipografia Nel Paese di Gesù dove «sono raccolte e meglio
unite le […] lettere di Palestina»: «sarà un libro dell’anima, per me: un
libro scritto con volontà spirituale» affermava la giornalista napoletana
in una lettera dell’8 luglio 1899 indirizzata al Fogazzaro, e aggiungeva:
«Io ero credente: dopo il viaggio di Palestina sono credente
meglio»10.
In realtà, il Fogazzaro tentava, in quegli anni, di delineare una terza
via, che fosse alternativa tanto al materialismo di derivazione marxista,
quanto ad una religiosità aprioristica, chiusa al confronto con il
movimento religioso-culturale del modernismo. Come ci ricorda Paolo
Marangon, Fogazzaro s’immerse sempre più, nell’ultimo decennio
dell’Ottocento, nelle letture delle opere frutto delle «avanguardie italiane,
europee e nordamericane del modernismo»11. Dapprima nell’ottobre
del 1897 lesse gli studi di uno dei maggiori rappresentanti
9 Mario Cimini, I Cavalieri dello Spirito: Antonio Fogazzaro e Matilde Serao tra
Post-Naturalismo e tensione morale in Tempo ed eterno nelle forme letterarie della modernità,
a cura di Gianni Oliva, Napoli, Ed. Scientifiche Italiane, 2001, p. 22.
10 Lettera di Matilde Serao (Napoli, 8 luglio 1899), BCB, CFo. 31 – Plico 188,
Fondo Roi. La lettera è stata pubblicata in appendice all’articolo di Fulvio De
Giorgi, I cavalieri dello Spirito Santo, in Antonio Fogazzaro tra storia, filologia, critica, a
cura di Gilberto Pizzamiglio e Fabio Finotti, Vicenza, Accademia Olimpica,
1999, p. 51.
11 Paolo Marangon, Il successo mondiale de Il Santo, in Fogazzaro nel mondo, a
cura di Adriana Chemello e Fabio Finotti, Vicenza, Accademia Olimpica, 2013,
p. 244.
[ 4 ]
idealismo e modernismo nella cultura letteraria 139
dell’Americanismo, padre John Zahm, successivamente, dopo la nomina
a Senatore del Regno, si legò ad alcuni cenacoli romani cui prendevano
parte alcuni rappresentanti del modernismo, fra cui bisogna
ricordare Tommaso Gallarati Scotti, Giovanni Semeria e don Brizio
Casciola. Fu proprio il Gallarati Scotti che lo introdusse alla filosofia
dell’azione di Maurice Blondel e Lucien Laberthonnière, così come Semeria
lo stimolò alla lettura delle opere del teologo di origine irlandese
Tyrrel. La posizione del Fogazzaro rispetto al Modernismo è stata a
lungo dibattuta, ma per Lorenzo Bedeschi, fondatore del Centro Studi
per la storia del modernismo di Urbino, «sarebbe più corretto nei riguardi
di Fogazzaro parlare di liberal-cattolicesimo anziché di
modernismo»12, salvo poi ammettere, oltre alla matrice rosminiana del
suo pensiero, alcuni influssi di idee sviluppate dal Newman e dal Tyrrell13.
Alla fine del diciannovesimo secolo l’ideologia fogazzariana si
proietta sullo sfondo di un clericalismo riformista di ascendenza cattolica:
al 1889 risale l’inizio della corrispondenza con il vescovo di
Cremona, mons. Geremia Bonomelli, che, dopo i travagliati anni della
questione romana, era divenuto il simbolo della riconciliazione tra
Stato e Chiesa a seguito dell’unificazione del Regno d’Italia. La corrispondenza
Fogazzaro-Bonomelli, pubblicata dal dottore ambrosiano
Carlo Marcora, si dipana sino al suo ultimo estremo (1911) lungo le
tematiche care a entrambi gli interlocutori: le relazioni tra Stato e
Chiesa, la questione della libertà religiosa, il livello culturale del clero,
l’esegesi biblica. Come afferma lo stesso Marcora: «l’eco» delle conversazioni
orali «è nelle lettere, che appaiono scritte currenti calamo e
veramente ex abundantia cordis»14.
L’altra figura, che influenzò, in questi anni, il pensiero fogazzariano,
fu quella del filosofo Antonio Rosmini, ma come sostenuto da Pa-
12 Lorenzo Bedeschi, Fogazzaro e il modernismo, in Antonio Fogazzaro. Le opere e
i tempi, a cura di Fernando Bandini e Fabio Finotti, Vicenza, Accademia Olimpica,
1994, p. 208.
13 Ad ogni modo, a seguito della condanna de Il Santo, erroneamente interpretato
come romanzo a tesi, fu lo stesso autore a voler prendere pian piano le distanze
dal modernismo, dapprima con il discorso della conferenza parigina su Giovanni
Selva: «il n’est pas moderniste. Il hait le mot et la chose. Il lui suffit largement
d’être moderne» (Antonio Fogazzaro, Les idées religieuses de Giovanni Selva (1907),
in Id., Discorsi, a cura di Pietro Nardi, Milano, Mondadori, p. 415), poi con la
pubblicazione dell’ultimo romanzo Leila, in cui rappresenta in maniera positiva
alcune figure di cattolici all’antica (il conte Marcello e donna Fedele).
14 Carlo Marcora, Corrispondenza Fogazzaro-Bonomelli, Milano, Ed. Vita e
Pensiero, 1968, p. XV.
[ 5 ]
140 stefano evangelista
olo Marangon nell’articolo Fogazzaro e il dibattito sul Modernismo edito
di recente nell’Album Fogazzaro:
[…] più che al sistema filosofico, l’adesione del romanziere va all’eredità
spirituale del grande pensatore di Rovereto e in particolare al
suo celebre e coraggioso scritto Delle cinque piaghe della Santa Chiesa,
in cui l’autore lamenta l’insufficiente grado di cultura del clero e rivendica
una più ampia libertà di ricerca e di parola all’interno della
Chiesa15.
Il coinvolgimento dello scrittore vicentino, d’altro canto, nel movimento
riformatore del Modernismo16, che cercò di rispondere alla crisi
innescata nel secondo Ottocento dalle innovazioni scientifiche e tecnologiche
con l’analisi filologica dei testi sacri e mediante la conciliazione
della fede con le moderne teorie evoluzioniste (movimento condannato
da Pio X, nell’enciclica Pascendi del 1907, come «sintesi di
tutte le eresie»), aveva radici lontane, a partire dalla lettura delle opere
degli scienziati evoluzionisti, come l’Origine della specie e Discendenza
dell’uomo di Charles Darwin, e La vita nell’Universo di Paolo Lioy. Fogazzaro,
pur accettando l’idea di evoluzione, non ne approvava il
meccanismo di mutazione-selezione, secondo cui gli esseri viventi si
evolvono e si elidono secondo la legge del più forte, pertanto distingueva
l’evoluzione dal darwinismo, a favore di un’interpretazione finalistica
del processo evolutivo. Egli sosteneva l’esistenza di un potere
occulto, una forza che determinerebbe l’ascensione degli organismi,
non spiegabile mediante il solo ricorso alla selezione naturale.
Leggendo l’opera Evolution and Its Relations to Religious Thought del
famoso geologo americano Joseph Le Conte (ove lo scrittore formulava
l’ipotesi che le forze naturali responsabili dell’evoluzione promanino
direttamente dalla volontà divina), nel giugno del 1889 Fogazzaro
15 Paolo Marangon, Fogazzaro e il dibattito sul Modernismo, in Album Fogazzaro-
Quad. 22/XI, a cura di Adriana Chemello, Fabio Finotti, Adele Scarpari,
Vicenza, Accademia Olimpica, p. 91.
16 Si ricorda che il modernismo religioso, da non confondersi col modernismo
letterario di matrice anglosassone, fu un movimento nato in alveo cattolico, che
(sviluppatosi tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento) ripensò il messaggio
cristiano alla luce delle istanze della società moderna. Il movimento suscitò la
ferma reazione degli ambienti ultramontani, nonché delle autorità vaticane, tant’è
vero che fu condannato l’8 settembre 1907 da papa Pio X nell’enciclica Pascendi
Dominici gregis. Per ulteriori approfondimenti si veda Roberto De Mattei, Modernismo
e antimodernismo nell’epoca di Pio X, in Id., Don Orione negli anni del modernismo,
Milano, Jaca Book, 2002.
[ 6 ]
idealismo e modernismo nella cultura letteraria 141
era rapito da un’esperienza mistica da cui scaturiranno le parole del
discorso Per la bellezza di un’idea (1892), la seconda di sei conferenze
raccolte nel volume Ascensioni umane riedito di recente da Elena Landoni.
Partendo dal presupposto che il «sentimento» sia lo «stato d’animo
senza del quale non sarebbe possibile la grande avventura dell’arte
» la Landoni sostiene che:
[…] c’è una parola a cui lo studioso vicentino affida la sua identificazione
del sentimento quando sia in grado di sprigionare la poesia: è la
parola “bellezza”. Essa risulta indicare il fascino, l’attrazione che qualunque
fenomeno pertinente alla vita umana, sia esso un’idea, un concetto,
una persona o un avvenimento, esercita sul nostro spirito, naturalmente
proteso verso mete sempre più elevate. […] l’artista non serve
un’idea e non la propaganda; l’artista si “innamora” di un’idea come
può innamorarsi di una donna, e la bellezza di questa idea è la
materia del suo canto17.
La concezione dell’arte di Antonio Fogazzaro veniva esplicitata
dall’autore stesso in un suo famoso saggio sul nesso tra evoluzione e
spiritualità:
Cavalieri dello spirito, non per questo noi disprezziamo né odiamo il
corpo. È naturale alla poesia come all’amore di idealizzare il corpo
umano, di anticipare, istintivamente, in un vago, fantastico, profetico
modo, la sua evoluzione futura; un’arte che s’ispira in tal modo all’ipotesi
dell’Evoluzione nell’ordine morale e nell’ordine fisico ha un carattere
evidentemente religioso. Il concetto della evoluzione umana così
applicato si accorda col sentimento religioso e morale più puro18.
Queste poche righe tratte da L’origine dell’uomo e il sentimento religioso
fanno luce sui caratteri della filosofia fogazzariana, basata sull’idea
di un processo graduale di perfezionamento dalla natura a Dio, in
una mistica sublimazione del dato fisico in quello spirituale. Così
«l’arte […], promuovendo ogni ascensione morale, fa sue proprie le
divinazioni più ardite della scienza moderna e si serba fedele al
futuro»19.
La rinascita dell’idealismo nell’arte, di cui il Fogazzaro proclama-
17 Antonio Fogazzaro, Scritti di teoria e critica letteraria, a cura di Elena Landoni,
Milano, Ed. di Teoria e Storia Letteraria, 1983, pp. 18-9.
18 L’origine dell’uomo e il sentimento religioso in A. Fogazzaro, Scritti di teoria e
critica letteraria, a cura di E. Landoni, cit., pp. 268 e 269.
19 Ivi, p. 26.
[ 7 ]
142 stefano evangelista
va l’autonomia rispetto ai valori pratici («l’arte non è ancella di
nessuno»20 sosteneva con forza l’autore) ha sede in tre caratteri fondamentali:
il richiamo alla tradizione cristiana (anche se il concetto di
moralità è sentito come esigenza dell’artista a prescindere dal credo
religioso), la lotta contro il naturalismo che aveva conferito una visione
parziale della vita all’opera d’arte, l’abbandono del particolarismo
a favore di uno sguardo più profondo e universale. Rinascita dell’ideale
in letteratura e nelle arti, proprio in coincidenza col declino della
poetica naturalista, di cui prendeva atto in Francia Ferdinand Brunetière
nella sua conferenza a Besançon e pubblicata a Parigi col titolo,
appunto, di La Renaissance de l’Idéalisme. L’idealismo fin de siècle, di cui
parlava il Brunetière, non è propriamente quello di natura filosofica di
inizio secolo, ma si identifica con la consapevolezza in arte che i fenomeni
della natura non esauriscono il loro significato in se stessi, ma
rimandano a qualcosa di ulteriore, di superiore e di anteriore a loro
stessi, alla cause invisible21. Se la Serao si era fatta promotrice nel suo
articolo sul supplemento de «Il Mattino» di questa nuova corrente misticheggiante
contro lo scientismo naturalista, all’epoca ancora in voga,
neanche il collega giornalista e compagno di lei Edoardo Scarfoglio
si era risparmiato dal biasimare apertamente un noto esponente
della corrente francese. Su la «Domenica Letteraria» del 20 aprile del
1884 intervenne con un commento al romanzo zoliano Joie de vivre: «io
ho preso in odio il naturalismo zoliano per due ragioni: per orrore a
20 A Tommaso Gallarati-Scotti, Montegalda, 3 ottobre 1910 in A. Fogazzaro,
Scritti di teoria e critica letteraria, cit., p. 12.
21 Ferdinand Brunetière, La Renaissance de l’Idéalisme, Paris, Librairie de Firmin-
Didot et C., 1896, p. 43. Riflessioni sull’idealismo “finisecolare” furono alla
base anche di una lettera, La difesa di Empedocle, indirizzata da Ugo Ojetti a Luigi
Capuana e inserita da quest’ultimo nel capitolo Idealismo e Cosmopolitismo del suo
saggio Gli “ismi” contemporanei (Verismo, Simbolismo, Idealismo, Cosmopolitismo) e
altri saggi di critica letteraria e artistica pubblicato a Catania dal Giannotta nel 1898,
in cui il giovane giornalista rimproverava lo scrittore siciliano di non aver compreso
che il fulcro del discorso a Venezia su L’avvenire della letteratura in Italia fosse
l’idealismo e non il simbolismo. Anche la nozione di cosmopolitismo da lui intesa
è diversa dall’accezione con cui l’Ojetti interpretava la letteratura universale, giacché
«l’universalizzarsi dell’arte – non nella forma che è e deve restare nostra … – è
un fatto che si è constatato dopo che si sono viste opere come quelle di Tolstoi,
Dostojewski, di Maeterlink, di Ibsen, di Björnson, di D’Annunzio, di Fogazzaro
passare i confini dello Stato e di lingua, appassionare gli stranieri più lontani» (Ivi,
p. 37), e non qualcosa di programmaticamente stabilito a priori. A prova di ciò,
l’Ojetti sottolinea l’assenza totale del gergo cosmopolita in un opera come Daniele
Cortis di Antonio Fogazzaro.
[ 8 ]
idealismo e modernismo nella cultura letteraria 143
ogni meccanico sistema d’arte, e perché sono “diventato più naturalista
di Zola»22. Ciò che Scarfoglio non apprezzava dell’opera zoliana
era «l’illusorietà scientifica di una saga costruita sulle vicende di una
famiglia fantastica obbediente alle leggi dell’ereditarietà»23. Così, se
da un lato Scarfoglio e Serao tendevano a contrastare il naturalismo e
il positivismo imperanti, dall’altro la coppia richiedeva costantemente
al Fogazzaro la sua collaborazione ai giornali romani e napoletani da
loro diretti, attraverso la pubblicazione di novelle, poesie o episodi di
racconti e romanzi, conscia del fatto che «il pubblico di Napoli»24 ammirava
lo scrittore vicentino, tanto che in una missiva del 24 novembre
1884, scritta su carta del «Capitan Fracassa» così si rivolgeva il
giornalista Scarfoglio allo stesso Fogazzaro:
Il Fracassa del 1° dicembre sarà il giornale più ricco, più vario, più bello
d’Italia: tutti i buoni e i bravi sono con noi. Il Fogazzaro deve uscire
dalla sua ordinaria solitudine, e aiutarci. Mandatemi tutto quello che
potete: prosa o versi, delle novelle, della critica, degli articoli sullo spiritismo
e sul magnetismo, tutto ciò che volete, purché mandiate.25
In effetti, l’interesse di Fogazzaro per lo spiritismo e l’occultismo
risaliva già agli anni Ottanta, tant’è che nel 1881 fu pubblicato il suo
primo romanzo Malombra26, con la sua atmosfera morbosa da gothic no-
22 Elena Landoni, I prodomi della rimonta idealista in Ead., Antonio Fogazzaro e
i Cavalieri dello Spirito-Ascesa di un opinion leader tra Otto e novecento, Genova, Editore
San Marco dei Giustiniani, 2004, pp. 23-24.
23 Ivi, p. 24.
24 Lettera di Matilde Serao (Napoli, 9 agosto 1898), BCB, CFo. 31 – Plico 188,
Fondo Roi.
25 Lettera di Edoardo Scarfoglio (Roma, 24 novembre 1884), BCB, CFo. 30 –
Plico 185, Fondo Roi. Fogazzaro descrive fascino dell’occultismo con il primo romanzo
Malombra (1881), in cui spiccano gli elementi spirituali e soprannaturali,
opponendo così al realismo dei veristi lo spazio della fantasia più irrazionale. Tale
interesse lo accomunava a Luigi Capuana che nel 1879 aveva pubblicato Giacinta,
romanzo imperniato su un caso di psicopatologia, e in cui accanto al materialismo
positivistico appare uno spiritualismo che caratterizzerà anche la sua produzione
successiva. Sul magnetismo animale o mesmerismo e sulla nascita dello spiritismo
moderno si veda Maria Teresa La Vecchia, Antropologia paranormale. Fenomeni
fisici e psichici straordinari, Roma, Editrice Pontificia Università Gregoriana, 2002.
26 Nel romanzo si respira un clima tipicamente decadente, tra sentimentalismo
e superstizione. La protagonista è Marina di Malombra, bella e psicotica nipote del
conte Cesare d’Ormengo, la quale si considera la reincarnazione di Cecilia Varrega,
la madre del Conte d’Ormengo. Il romanzo è ambientato sulle rive del lago
Segrino, nella Brianza comasca.
[ 9 ]
144 stefano evangelista
vel27. Il romanzo gotico faceva leva sulle emozioni di paura e terrore
suscitate dalla sensibilità e sul senso del mistero (in Malombra, ad esempio,
l’Orrido di Osteno viene descritto, durante la gita in barca di Marina
e Nepo, come «rotondo tempio infernale» immerso nelle «tenebre»).
Nell’articolo comparso su «Comparative Review», nel 1961, Antonio
Fogazzaro and Wilkie Collins, l’italianista canadese Beatrice Corrigan
ha sostenuto che lo scrittore italiano prese in prestito dal collega inglese
alcuni leit motifs come la sensuale e affascinante donna potenzialmente
criminale, una vicenda familiare intrisa di orrore e altri elementi
non condivisi da nessun altro narratore italiano o inglese dell’epoca.
Più di recente Ann Hallamore Caesar ha affermato che «despite its
serious weakness, Malombra can be considered a unique example of an
Italian novel […] whose inspiration […] comes primarily from the English
Victorian novel and the late gothic»28.
L’interesse per l’occultismo fu condiviso anche da Luigi Capuana
il quale, in una lettera del 2 maggio 1896, chiedendo al Fogazzaro di
inviare qualcosa per il suo supplemento letterario del «Roma» affermava:
«fra qualche Settimana mi permetterò di mandarle un opuscolo
– il Mondo occulto29 – che verrà pubblicato dal Pierro di Napoli»30. Egli,
pur essendo stato teorico del verismo, si era mostrato tutt’altro che
indifferente di fronte alle degenerazioni del naturalismo. Così si rivol-
27 Spesso a connotare il genere è, in primo luogo, lo spazio: in Malombra ad
esempio il palazzo del conte d’Ormengo è ispirato alle architetture della Villa Pliniana
sul lago di Como, villa che affonda le sue origini nel Medioevo (altro topic
importante della narrazione gotica) e che una leggenda vuole essere infestata dagli
spettri. Per ulteriori approfondimenti sulla relazione tra architettura e gotico letterario
si veda Monica Farnetti, Patologie del romanticismo. Il gotico e il fantastico tra
Italia e Europa, in Mappe della letteratura europea e mediterranea. Vol. II Dal Barocco
all’Ottocento, a cura di Gian Mario Anselmi, introd. di Antonio Prete, Milano,
Bruno Mondadori, 2000.
28 Ann Hallamore Caesar, Sensation, Seduction, and the Supernatural: Fogazzaro’s
Malombra, in The Italian Gotic and Fantastic. Encounters and Rewritings of Narrative
Traditions, edited by Francesca Billiani and Gigliola Sulis, Madison,
Teaneck, Fairleigh Dickinson University Press, 2007, pp. 98-118.
29 Al mondo occulto Luigi Capuana dedicò alcune novelle pubblicate su diverse
riviste e giornali dell’epoca, oggi raccolte nel volume Novelle del mondo occulto
edite da Andrea Cedola per i tipi di Pendragon. Così in Mondo occulto Capuana
descrive il campo delle proprie indagini: «Si direbbe che la Natura, indispettita
dall’audacia dell’intelletto umano, da cui le è stato rapito il segreto di tante leggi e
sono state vinte e domate tante sue forze, si diverta oggi a confonderlo, a umiliarlo
presentandogli nuovi misteri».
30 Lettera di Luigi Capuana (2 maggio 1896), BCB, CFo. 8 – Plico 48, Fondo
Roi.
[ 10 ]
idealismo e modernismo nella cultura letteraria 145
geva a Eduard Rod parlando del romanzo di Emile Zola, La joie de vivre,
in una lettera del 1884:
Il vostro articolo intorno alla Joie de vivre mi è parso sensatissimo e chi
sa leggere tra le righe lo trova imparziale. C’è troppo meccanismo in
questo romanzo e poco celato, poi troppa medicina e troppa chirurgia
[…] io credo che un autore non abbia il diritto di perdersi dietro una
descrizione tutta fisica, esteriore, quando c’è un intero mondo interiore
da spiegarci e farci comprendere…31
Probabilmente il “vero” perseguito dai naturalisti, disgiunto dai
fondamenti morali, doveva apparire da ultimo troppo parziale. Era lo
stesso Capuana, a proposito di quel romanzo che pur considera «il
primo saggio di romanzo verista in Italia», ossia la Giacinta, a ribadire
la nozione di «realismo interiore» in una lettera a Rod del gennaio
1886: «Io ho tentato di dare al mio romanzo una fisionomia propria,
un carattere tutto suo di rapidità e di evidenza, facendo un’equa parte
tra l’uomo esteriore e l’uomo interiore che non è meno reale del primo
»; d’altronde, sempre Capuana avrebbe affermato di lì a poco: «io
tengo una gamba nel positivismo e un’altra nell’idealismo egheliano»,
perché per lo scrittore catanese «l’opera d’arte» non è «una semplice
secrezione come lo zucchero nell’organismo umano»32.
Il Fogazzaro avrebbe sviluppato la sua poetica sulla scia di questo
«realismo interiore» andando oltre la mera descrizione realistica e naturalistica
degli elementi paesaggistici o del carattere dei personaggi
per cercare di cogliere i moti segreti dell’animo: «His technique combines
realism, in the best sense of the term – exact, detailed description
of settings and persons – with perceptive psychological analysis»33,
secondo le parole di Robert A. Hall jr., il quale ci ha fornito un perspicace
saggio basato su un’interpretazione simbolico-culturale delle
opere di Antonio Fogazzaro. Proprio per questa attenzione rivolta
all’esame della psiche dei personaggi, il romanzo fogazzariano può
essere ascritto al filone decadente del “romanzo psicologico” o “d’analisi”,
di cui in Francia era divenuto caposcuola, in polemica contrapposizione
al Naturalismo e al “romanzo sperimentale” di Zola,
Paul Bourget.
L’autobiografia fu sicuramente uno degli elementi chiave di questa
31 A. Fogazzaro, I prodomi della rimonta idealista, in E. Landoni, Antonio Fogazzaro
e i Cavalieri dello Spirito, cit., p. 23.
32 Ivi, pp. 27-28.
33 R. Anderson Hall, Jr., Antonio Fogazzaro, cit, p. 29.
[ 11 ]
146 stefano evangelista
poetica, tant’è che molti dei personaggi ritratti in opere come Malombra
o Il mistero del poeta furono ricavati dalla realtà esperienziale del
vissuto fogazzariano: ad esempio, nel primo romanzo Fogazzaro si era
ispirato per la descrizione del segretario Steinegge ad un ex-capitano
austriaco da cui prese lezioni di tedesco a Torino, mentre Cesare d’Ormego
rifletteva in sé alcune caratteristiche peculiari di un amico del
padre Mariano a Milano, un vecchio rivoluzionario di nome Abbondio
Chialiva. La stessa ambientazione di Malombra è in parte realistica: il
palazzo del conte prende ispirazione dalla “Pliniana” sul Lago di Como,
l’orrido in cui scompare la protagonista nella scena finale del romanzo
viene sovente identificato con una grotta nel Lago di Lugano.
Ne Il mistero del poeta invece il riferimento autobiografico alla giovane
donna americana Ellen Starbuck34 è chiaro nella scena dell’incontro
presso l’Hotel Belvedere a Lanzo d’Intelvi tra il narratore-protagonista
e una giovane donna eterea e diafana di nome Violet Yves. Il
nome rivela la sua origine per metà inglese e per metà italiana e simboleggia,
proprio come la coppia padre-figlia di Steinegge ed Edith in
Malombra, il rapporto di Antonio Fogazzaro con la cultura straniera,
dal contatto con la quale il vicentino sperava che la letteratura italiana
potesse trarre nuova linfa. Tuttavia, nel dipanarsi della trama ci rendiamo
conto che il vero modello per Violet Yves fu Felicitas Buchner35,
bavarese istitutrice dei figli del cognato dello scrittore, con cui il Nostro
instaurò un’intensa e tormentosa relazione sentimentale. In accordo
con Robert A. Hall, rinveniamo l’uso, in questo romanzo dal gusto
misto romantico e decadente, di un espediente letterario utilizzato da
Dante Alighieri ne la Vita Nova (di cui peraltro Il mistero del poeta ricorda
anche la struttura mista di prosa e versi) ossia quello della donna
dello schermo, tramite la quale il fiorentino nascondeva il suo amore
per Beatrice, mentre il Fogazzaro vi celava l’identità della Buchner
attraverso la somiglianza tra Violet Yves ed Ellen Starbuch. Per quanto
concerne l’ambientazione della vicenda l’autore cerca, come a lui consueto,
di indicare i luoghi con nomi reali: Munich, Nürnberg, Eichstätt…;
eppure la descrizione dei posti che Fogazzaro annotava nei
34 Per un profilo di Ellen Starbuck, si veda l’introduzione a Antonio Fogazzaro-
Ellen Starbuck. Carteggio (1885-1910) Quad. 22/V, a cura di Luciano Morbiato, Vicenza,
quaderni dell’Accademia Olimpica, 2000.
35 Per un profilo dettagliato della personalità di Felicitas Buchner si vedano i
carteggi contenuti in Ileana Moretti, Antonio Fogazzaro, Felicitas Buchner e il Cristianesimo
sociale, Lanciano, Carabba editore, 2010 e della stessa autrice Antonio
Fogazzaro e Felicitas Buchner: un incontro nel Daniele Cortis, Roma, Bulzoni, 2009.
[ 12 ]
idealismo e modernismo nella cultura letteraria 147
suoi taccuini di viaggio non riuscì altrettanto vivida e realistica come
quella dei luoghi a lui maggiormente noti e cari sotto il profilo affettivo-
sentimentale, ad esempio la Oria della raccolta di liriche Valsolda e
del romanzo Piccolo Mondo Antico dove elementi paesaggistici e naturali
tipo la rupe, la montagna ed il lago diventano paesaggio dell’anima,
specchio dei sentimenti e degli umori dei personaggi. Sia che Fogazzaro
utilizzasse questi elementi nell’idillio delle sue poesie giovanili,
sia che ne facesse uso nell’abito di una tematica “malata” e decadente
attraverso la rievocazione memoriale del microcosmo, di quel
piccolo mondo che costituisce per i protagonisti dei suoi romanzi il porto
di pace raggiunto dopo una ricerca travagliata e inquieta, essi riflettevano
in qualche modo il genius loci a cui l’autore sarebbe stato indissolubilmente
legato durante la sua intera esperienza letteraria. Come
afferma Giorgio De Rienzo:
Nei romanzi di Fogazzaro ci troviamo di fronte sempre ad uno spazio
e ad un tempo ben limitati, completamente vissuti dal personaggio, i
quali non hanno una sostanziale concretezza, geografica o cronologica
al di fuori di esso. Ma questa forte limitazione nei riguardi di uno spazio
aperto a più vasti orizzonti e di un tempo in qualche modo trascendente
l’esperienza psicologica del personaggio è limitazione solo apparente.
Alla dimensione “orizzontale”, in direzione estensiva, si sostituisce
nei romanzi di Fogazzaro una dimensione “verticale”, in direzione
di profondità. Il “verticalismo” diventa la nuova dimensione in
cui sono vissuti lo spazio e il tempo, e la legge di questa nuova dimensione
è appunto il ricordo36.
Per quanto riguarda la ricezione dell’opera fogazzariana all’estero
sarà utile far procedere l’analisi per diatopia. I rapporti epistolari dello
scrittore con alcuni dei maggiori esponenti della cultura francese
del tempo, e in particolare quelli con i mediatori culturali, aiutano a
smontare l’etichetta di autore provinciale affibbiatagli da Gabriele
D’Annunzio con l’espressione: «Fogazzaro? Il est de Vicence». La traduzione
in lingua francese assicura, infatti, diffusione e quindi fortuna
mondiale all’opera del vicentino, soprattutto a partire dalla pubblicazione
nel 1843 de Le Mystère du Poète. La ricezione delle poesie e
delle prose del Fogazzaro dipende così non solo dalla loro qualità
letteraria intrinseca, ma anche dal medium linguistico. Il vicentino si
sarebbe servito infatti, nel corso degli anni, di mediatori culturali
36 Giorgio De Rienzo, Fogazzaro e il decadentismo, Modena, Mucchi Editore,
1994, pp. 12-13.
[ 13 ]
148 stefano evangelista
(non solo in Francia ma anche negli altri paesi esteri) che inevitabilmente,
attraverso le loro traduzioni e recensioni su riviste accademiche,
ne incrementarono la notorietà nei loro mercati editoriali di competenza.
La penetrazione dell’opera fogazzariana in Francia deve molto al
contributo del critico e scrittore svizzero Édouard Rod, che svolse il
ruolo di intermediario con le riviste accademiche «La Revue des deux
mondes» (la quale pubblicherà a puntate, rispettivamente nel 1906 e
nel 1911, la traduzione in francese degli ultimi due romanzi di Fogazzaro,
Il Santo e Leila), «La Revue bleue» (che pubblicò la traduzione di
un paio di racconti tratti dalla raccolta Fedele, ossia Une idée d’Ermes
Torranza e Pereat Rochus rispettivamente nel 1895 e nel 1896 ed un’altra
nel 1899 basata su uno dei Racconti musicali dal titolo Il fiasco di Maestro
Chieco, tutte curate da M.lle Douesnel), «La Revue de Paris» e con i
giornali e gli editori parigini. In una lettera del 3 gennaio 1892, scritta
da Ginevra, Rod avvisava lo scrittore vicentino: «Le Mystere va paraître
en feuilleton, de la fin du moi, dans le Journal de Genève»37, a testimonianza
di come il traduttore svizzero curasse personalmente la
pubblicazione su rivista di uno dei primi successi internazionali del
Fogazzaro, prima della pubblicazione in volume apparsa l’anno seguente
a Parigi, per i tipi dell’editore Perrin. Egli, inoltre, in un articolo
pubblicato sulla «Revue des deux mondes» il 15 luglio 1893, col titolo
L’évolution actuelle de la littérature italienne: M. Antonio Fogazzaro,
definì il Nostro come l’antesignano di una corrente idealista che pervadeva
tanta parte della letteratura francese contemporanea. Successivamente,
all’inizio del 1896, Rod tentò la pubblicazione a puntate
del romanzo Piccolo Mondo Antico, sulla rivista francese «La Mode
pratique»38, un magazine di moda edito dalla casa editrice Hachette.
Scriveva il Rod al Fogazzaro:
Mon cher ami, on m’écrit de Paris pour me demander votre Piccolo
Mondo pour la Mode Pratique de la maison Hachette. Bien que journal
de mode, la Mode Pratique a publié un roman de Margueritte et en publiera
un de moi: vous ne seriez pas en mauvaise compagnie. Ditesmoi,
je vous prie, s’il faut traiter39
37 Lettera di Edouard Rod (Genève, 3 janvier 1892), BCB, CFo. 28 – Plico 172,
Fondo Roi.
38 «La Mode Pratique»: 1891-1938, nata in Francia, prima rivista che utilizza la
riproduzione di foto di moda.
39 Lettera di Edouard Rod ([inizio marzo] 1896), BCB, CFo. 28 – Plico 172,
Fondo Roi.
[ 14 ]
idealismo e modernismo nella cultura letteraria 149
Il 23 dello stesso mese seguiva un’altra missiva, nella quale Rod
informava l’amico italiano dell’esito della trattativa: «Mon cher
ami, j’ai traité avec La Mode Pratique, à 35 la ligne: ce qui, si j’ai
bien calculé, ont l’équivalent des 15 f(rancs) la page de la Revue de
Paris»40.
Il 5 dicembre 1897 Fogazzaro fu invitato dalla Société des
Confèrences a prendere parte ad uno degli eventi da essa organizzati
per far conoscere i migliori scrittori francesi e stranieri al pubblico
parigino. Nella lettera d’invito a firma di Rod, e dei suoi colleghi André
Hallays, René Doumic e Gaston Deschampes, il vicentino veniva
rassicurato che «le sujet de la conférence serait celui qui vous conviendrez.
La date serait de même fixée à vos gré, entre les limites extrêmes
du 1er février et du mardi de la Semaine Saint»41. Il Fogazzaro
avrebbe partecipato a quella conferenza l’8 marzo del 1898 con una
relazione intitolata Le grand poète de l’avenir, la quale suscitò consensi
e interesse, sia da parte del pubblico che della critica, anche grazie
alla sicura padronanza del francese da parte del Nostro. Alla luce di
ciò il Rod lo avrebbe invitato di nuovo con una lettera del 4 agosto
1908:«Ne viendrez-vous pas à Paris cet hiver? Ne vous laisser[e]zvous
pas entraîner à nous faire une conférence littéraire? Je voudrais
beaucoup qu’une voix autorisée vÎnt nous parler un jour de Manzoni
»42.
Solo due anni prima, nel 1906, in Francia era apparso Le Saint43,
traduzione dell’omonimo romanzo di Fogazzaro, che come afferma
Carlo Salinari in Miti e coscienza del decadentismo italiano:
[…] nasce fra il 1896 e il 1900 […] lo incarna Piero Maironi, figlio dei
famosi protagonisti del romanzo fogazzariano di maggiore successo,
Piccolo Mondo Antico […] il programma del santo investe tre ordini di
problemi: quello dei rapporti fra la Chiesa e il nuovo Stato nazionale
italiano (e non solo italiano), quello dei rapporti fra la dottrina cattolica
e le conquiste dell’imponente movimento scientifico determinatosi
nel secolo XIX, quello di una riforma interna della Chiesa, vista, insie-
40 Lettera di Edouard Rod (Paris, 23 mars 1896), BCB, CFo. 28 – Plico 172,
Fondo Roi.
41 Lettera di Edouard Rod su carta della Société des Conférences firmata anche
da André Hallays, Rene Doumic e Gaston Deschamps (Paris, le 5 décembre
1897), BCB, CFo. 28 – Plico 172, Fondo Roi.
42 Lettera dattiloscritta di Edouard Rod (Paris, 22 rue des Marroniers le 4 août
1908), BCB, CFo. 28 – Plico 172, Fondo Roi.
43 Antonio Fogazzaro, Le Saint, traduction par George Hérelle, Paris, Hachette,
1906.
[ 15 ]
150 stefano evangelista
me, come ritorno alla carica mistica della rivelazione e come adeguamento
delle strutture ecclesiastiche alle esigenze della società contemporanea44.
Il 4 aprile dello stesso anno il libro veniva condannato con un Decreto
della Congregazione dell’Indice, e le reazioni dell’amico Rod sono
affidate ad una missiva del 17 aprile:
Mon cher ami, j’ai appris avec stupeur la mise à l’index de votre livre.
C’est une décision dont je suis sûr que vous êtes peiné et qui m’afflige
aussi, mais plus encore à cause de l’état d’esprit dont elle témoigne
qu’en raison de la peine qu’elle vous fara45.
Il Santo46, pubblicato inizialmente dalla «Revue des deux mondes»,
era stato ripreso quell’anno in Francia dalla casa editrice Hachette, e
appariva come una sorta di manifesto del modernismo, mutando di
fatto la percezione che il pubblico francese aveva di Fogazzaro, che
veniva ora associato a tematiche eminentemente religiose. Il rapporto
tra Fogazzaro e l’importante editore parigino è testimoniato da un’intensa
corrispondenza in cui sono precisati accordi e compensi anche
per altre edizioni in lingua francese, oltre a quella de Il Santo. Il 13
agosto 1910, la casa editrice proponeva al senatore vicentino la pubblicazione
in lingua francese dell’ultimo romanzo Leila: «Nous apprenons
qu’un nouveau roman de vous intitulé: “LEILA” va paraître dans
quelques semaine en Italie». Avendo già curato l’edizione in francese
di alcuni romanzi fogazzariani di successo, nello specifico Un petit
monde d’autrefois e Le Saint, la casa editrice Hachette esprimeva «le
plus vif désire de pouvoir publier également Leila»47. Certo, la risposta
del Fogazzaro non dovette farsi attendere, se già il 20 agosto 1910,
la stessa casa editrice scriveva al Nostro:
44 Carlo Salinari, Miti e coscienza del decadentismo italiano: D’Annunzio, Pascoli,
Fogazzaro e Pirandello, Milano, Feltrinelli, 1962, pp. 185 e 192.
45 Lettera di Edouard Rod (Paris, 17 avril 1906), BCB, CFo. 28 – Plico 172, Fondo
Roi.
46 I l protagonista del romanzo è lo stesso di Piccolo Mondo Moderno, ossia Piero
Maironi che, divenuto ortolano nell’abbazia benedettina di Subiaco, viene chiamato
Benedetto e conduce una vita di preghiera e penitenza. Piero, ad un certo punto
del romanzo, si recherà a Roma, cercando di convincere il papa della necessità di
una riforma della Chiesa, ma viene ostacolato tanto dai cattolici tradizionalisti che
dallo Stato laico.
47 Lettera dattiloscritta dell’editore Hachette (Paris, 13 août 1910), BCB, CFo.
12 – Plico 105, Fondo Roi.
[ 16 ]
idealismo e modernismo nella cultura letteraria 151
Nous avons l’honneur de vous accuser réception de votre lettre du 18
de ce mois et vous remercions de l’obligeance avec laquelle vous voulez
bien vous faire savoir qu’il vous plairait que “Lélia” parût chez
nous en langue française. Nous écrivons à M. Hérelle dans le sens que
vous nous dites et nous ne manquerons pas de vous tenir au courant
des pourparlers engagés avec lui.48
E, in effetti, la traduzione delle opere novecentesche del Fogazzaro
fu affidata in larga parte proprio a George Hérelle, il quale aveva già
curato, per la «Revue des deux mondes», la traduzione francese della
produzione letteraria dannunziana. Dalla fine del secolo diciannovesimo,
la Revue, godendo già di notevole prestigio e diffusione, si era
fatta promotrice della letteratura straniera e in particolar modo di
quella italiana. Sotto la guida di Ferdinand Brunetiére, scrittore e storico
della letteratura, convertitosi in tarda età al cattolicesimo, la rivista
culturale divenne il baluardo del mondo cattolico contro la laicizzazione
dello Stato francese. Egli promosse la pubblicazione, sulla sua
rivista, della traduzione di Piccolo Mondo Moderno, come attestato dal
seguente frammento tratto da una lettera del 1 maggio 1902 inviata al
Fogazzaro: «Mon cher confrère, Je vous adresse par le même courrier
les épreuves des 70 premiers pages de Petit Monde d’aujourd’hui, et
naturellement j’envoi le double a Mr. Hérelle».49 Hérelle si sarebbe occupato,
dunque, di rendere in lingua francese le opere originali dello
scrittore vicentino, tuttavia non senza confrontarsi con i suggerimenti
dategli dall’autore stesso, tanto da recarsi personalmente in Valsolda,
per respirare da vicino l’ambiente e la lingua in cui nacque la scrittura
fogazzariana, come si evince dal lungo carteggio che il traduttore tessé,
proprio in quegli anni, con il senatore del Regno d’Italia. Così fra i
due intellettuali iniziò un fitto scambio di opinioni su passaggi da revisionare
o eliminare, in un processo di adaptation alle esigenze della
rivista (presso cui gli spazi sono notevolmente ridotti, rispetto all’edizione
in volume) e al gusto francese (seguendo in ciò la politica di difesa
nazionalistica della lingua francese intrapresa dal direttore Ferdinard
Brunetiére).
Il rapporto epistolare si fece particolarmente interessante nelle let-
48 Lettera dattiloscritta dell’editore Hachette (20 août 1910), BCB, CFo. 12 –
Plico 105, Fondo Roi.
Sulla lettera scritta a macchina compare Zélia al posto di Lélia, il che fa pensare,
abbastanza palesemente, ad un errore di battitura che ho emendato nel testo
critico.
49 Lettera di Ferdinand Brunetière (Paris, 1er mai 1902). CF7 , Fondo Rumor.
[ 17 ]
152 stefano evangelista
tere in cui veniva discussa la pubblicazione su la «Revue des deux
mondes» dell’ultimo romanzo di Fogazzaro, ossia Leila:
Cher Monsieur et ami, J’ai reçu hier votre seconde lettre, et aujourd’hui
celle de MM. Hachette, qui me disent qu’ils se sont mis en
rapport avec vous pour la publication de Leila; qu’ils ont reçu de vous
une réponse favorable; que vous les avez d’ailleurs engagés à m’écrire
pour arrêter les conditions du traité à conclure; et qu’ils me proposent
les mêmes conditions que pour Il Santo. Ces conditions me paraissent
équitables, et je viens de répondre à MM. Hachette que, sous la
réserve de votre approbation, je les accepte… Selon votre désir, j’ai
écrit à Mr Charmes, directeur de la Revue des deux mondes, et à moins
qu’il ne soit en voyage, je compte avoir sa répons aujourd’hui ou demain50.
Ottenuta una risposta positiva dal direttore della rivista, la corrispondenza
entrò nel vivo delle problematiche traduttologiche: le dimensioni
del romanzo convinsero Hérelle della necessità di effettuare
dei tagli sul testo originale. Una volta revisionato il testo con l’approvazione
delle tre grandes coupures da parte di Fogazzaro, si sarebbe
reso necessario ad Hérelle suggerire all’autore delle petites coupures
che riguardavano in particolar modo il linguaggio comico e l’uso
del dialetto. Il fine di Hérelle era quello di alleggerire il testo, senza
per questo comprometterne l’armonia di fondo. Così la traduzione
francese del testo fogazzariano attenua una delle caratteristiche
principali della versione italiana, ossia lo humor, qualità che il Nostro
derivò dal maestro della narrativa inglese Charles Dickens. Questa
vena ironica era stata sottolineata già all’epoca da Maurice Muret in
un articolo pubblicato su «La Revue de Paris» (nel numero di Settembre-
Ottobre 1911) e intitolato Antonio Fogazzaro. Parlando della
presenza di un «étrange contraste» in Petit monde d’autrefois, egli osserva:
Il a rendu plus frappant ce contraste par la note humoristique qui alterne
si heureusement avec la note patriotique et grave. Dans Petit monde
d’aujourd’hui Fogazzaro souvent égale Dickens […] l’humor, si essentiel
naguère au talent de Fogazzaro et dont nous regrettions l’absence
dans le Saint, l’humor célèbre dans Leila une rentrée triomphale51.
50 Lettera di George Hérelle (Bayonne, 22 août 1910), BCB, CFo. 18 – Plico
106, Fondo Roi.
51 Maurice Muret, Antonio Fogazzaro, «La Revue de Paris», (1911) dix-hui-
[ 18 ]
idealismo e modernismo nella cultura letteraria 153
Ma Charles Dickens non fu l’unico modello che Fogazzaro prese a
prestito nei suoi romanzi dalla letteratura inglese: la sua stima si estese
anche a Thackeray, Charlotte Brontë, Benjamin Disraeli, Wilkie Collins
e Mrs Humphrey Ward52. Pur non avendo mai avuto modo di visitare
un paese anglosassone, il vicentino ebbe contatti epistolari con
illustri rappresentanti della cultura inglese, fra cui George Tyrrel, teologo
irlandese ed esponente di spicco del modernismo, la cui opera fu
influenzata in particolare da Newman, Blondel e Von Hügel e più in
generale dallo storicismo e antiscolasticismo dei modernisti. L’autore
di Religion as a factor of life (1902) offrì il suo sostegno al vicentino, in
occasione della condanna de Il Santo, in una la lettera dell’8 aprile
1906, in cui peraltro si accennava all’intenzione di scrivere, con il
Brémont, una risposta a quanto veniva formulato attraverso il decreto
della Congregazione dell’Indice del 4 aprile.
Memorabile fu poi nel 1906 l’invito da parte del presidente degli
Stati Uniti Theodore Roosevelt a visitare la Casa Bianca. Il presidente
americano aveva espresso, in particolar modo, apprezzamento per il
romanzo Il Santo, come si può evincere dalla lettera dell’8 novembre,
in cui veniva elogiato il profondo significato spirituale ed etico dell’opera.
Appena un anno dopo dalla pubblicazione in Italia, nel 1906 era
infatti uscita negli Stati Uniti la traduzione The Saint. Il romanzo, messo
all’indice con un decreto della Congregazione, suscitò notevole interesse
oltreoceano, tanto che il New York Times informò il suo pubblico
dell’imminente uscita in lingua inglese dell’opera «di uno dei più
eruditi e popolari scrittori italiani». L’ammirazione da parte di Roosevelt
fu particolarmente gradita dall’editore George HavenPutnam, il
quale, in una lettera del 10 maggio 1907, esprimeva la sua personale
soddisfazione per l’edizione americana de Il Santo.
La casa editrice Putnam’s curò, infatti, a New York e a Londra l’edizione
del testo tradotto da Mary Prichard Agnetti e con una lunga
introduzione dello scrittore ed editore dell’«Harvard Graduates’ Magazine
» William Roscoe Thayer, il quale ebbe peraltro col Fogazzaro
anche un’interessante corrispondenza. Nella lettera spedita da Cambridge
(Massachusetts) il 10 marzo 1906, così il Thayer esprimeva, in
un italiano incerto, il suo parere riguardo il romanzo:
tième année, tome cinquième, Septembre-Octobre, Paris, Bureaux de La Revue de
Paris, p. 87.
52 Mrs Humphrey Ward: nome da coniugata di Mary Augusta Arnold (1814-
1887), scrittrice inglese.
[ 19 ]
154 stefano evangelista
Illmo Signore: Ho letto Il Santo con un’ammirazione così profonda che
voglio esprimerle la mia gratitudine. Chi scrive un bel libro fa debitori
tutti [coloro] che lo leggono. Il Santo non è solamente bello, come romanzo,
ma di grande importanza come sintomo. Ci lascia dedurre che
in Italia, fra i Cattolici, si muove una vera ispirazione religiosa che può
trasformare quel vecchio meccanismo clericale in una fonte spirituale
[…] Voglio vedere in essa l’augurio d’un’era nuova per la mia prediletta
Italia, dove la mancanza di fede non dirò nella religione ma eziandio
nelle virtù fondamentali, sia per l’individuo sia per la società, è stata
tanto deplorevole. Spero che fra poco ci sarà una traduzione inglese
del Santo, perché molte persone alle quali lo raccomando non sanno
l’italiano53.
Qualche mese dopo, il 19 luglio 1906, eccolo ragguagliare il Fogazzaro
circa l’introduzione che stava preparando per l’edizione inglese:
Avrei tentato di scrivere un saggio veramente di critica letteraria – tal
che Il Santo merita; ma ho dovuto letteralmente introdurre il libro al
nostro pubblico. È con questo proposito che ho scritto – eppoi, lo spazio
era ristretto. In ogni modo, spero che le mie parole gioveranno alla
diffusione della nobile opera sua54.
Le traduzioni apparse in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e in Canada
furono numerose, a riprova dell’interesse e della fortuna goduta
da Fogazzaro in questi paesi. Il «New York Times» pubblicò una serie
di articoli in cui paragonava The Saint a Robert Elsmere, il romanzo
dell’autrice inglese Mrs Humphrey Ward. Dell’autore fu elogiata la
capacità di andare oltre i limiti angusti della narrativa italiana, inserendo
nuovi elementi letterari, politici e religiosi nelle sue opere (elementi
che invece furono deprecati dal Croce come sovrastrutture e
quindi non-poesia). Dopo l’accettazione della Condanna dell’Indice e
la pubblicazione di Leila, ultimo romanzo della tetralogia Maironi, e
la conseguente presa di distanza dal modernismo, la corrispondenza
tra il vicentino e Roscoe Thayer si interruppe, né lo storico e critico
americano firmò alcuna recensione sul nuovo libro. Probabilmente
questi non capì, dalla sua prospettiva protestante, che la decisione del
53 Lettera di William Roscoe Thayer (8 Berkley Street, Cambridge, Massachusetts:
10 marzo, 1906), BCB, Cfo. 33 – Plico 201, Fondo Roi.
54 Lettera di William Roscoe Thayer (8 Berkley Street, Cambridge, Massachusetts:
il 19 luglio, 1906), BCB, CFo. 33 – Plico 201, Fondo Roi.
[ 20 ]
idealismo e modernismo nella cultura letteraria 155
Fogazzaro era dettata dalla necessità di rimanere nell’alveo del cattolicesimo
ortodosso, in piena coerenza con la sua fede. E se sempre il
«New York Times», dopo la morte dell’autore, definì il romanzo Leila55
«non molto convincente», il quotidiano inglese «The Times»
(1910) apprezzò invece il romanzo parlandone in termini elogiativi.
D’altronde la fortuna del Fogazzaro in Inghilterra continuò ancora
per qualche decennio, anche dopo la morte dell’autore. Nel 1962 la
prestigiosa Oxford University Press ripropose quello che era divenuto
un classico della narrativa fogazzariana, ossia Piccolo Mondo Antico
con il titolo The Little World of the Past56, tradotto da W. J. Strachan e
con la versione inglese dell’introduzione a cura di Tommaso Gallarati
Scotti. Forse, mentre il successo di The Saint negli Stati Uniti fu direttamente
collegato alla questione modernista, che in quel paese
coinvolgeva taluni ambienti protestanti (in particolare la New School
of Theology di Newman Smyth), con trentaduemila copie vendute in
pochi mesi, il pubblico inglese continuò ad ammirare alcuni tratti distintivi
della narrativa fogazzariana come il sensazionalismo e l’umorismo.
Stefano Evangelista
Università “G. d’Annunzio” Chieti-Pescara
Appendice
Note ai Testi
Le seguenti lettere di William Roscoe Thayer ad Antonio Fogazzaro sono
custodite presso il fondo Roi della Biblioteca Bertoliana di Vicenza (BBV), ampiamente
descritto da Giovanni Pellizzari in Le carte Fogazzaro della Biblioteca
Bertoliana di Vicenza: contributo ad un inventario, in «Filologia Veneta», n. 4
(1993), pp. 187-229, e da Giovanni Dal Lago e Adele Scarpari in Notizie di
manoscritti:le carte Fogazzaro nella Biblioteca Bertoliana di Vicenza, in «Lettere italiane
», n. 1 (1995), Firenze, Olschki, pp. 65-67.
Al fondo, donato dal marchese Giuseppe Roi il 9 maggio 1961 al Presidente
della Bertoliana Guglielmo Cappelletti, fu assegnata la dicitura “Ma-
55 A. Fogazzaro, Leila, translated by Mary Prichard-Agnetti, New York,
Hodder and Stoughton, 1911.
56 A. Fogazzaro, The Little World of the Past, translated by William James
Strachan, London, Oxford University Press, 1962.
[ 21 ]
156 stefano evangelista
noscritti e carteggi A. Fogazzaro. Legato marchesi Antonio e Giuseppe Roi.
1961”. Esso venne ulteriormente arricchito nel 1971 con i primi autografi di
Miranda in precedenza custoditi presso l’archivio di San Bastian. Nel fondo
Roi, oltre all’epistolario di Antonio Fogazzaro e ad un ampio carteggio che
testimonia l’estensione e la varietà delle relazioni epistolari dello scrittore
in Italia e all’estero (esso raccoglie 10.764 lettere di vari al Fogazzaro contenute
in 36 buste: fra i corrispondenti italiani spiccano Graf, Mazzoni, Serao,
Scarfoglio e Pascoli; fra gli stranieri von Hügel, Loisy, Roosevelt e Tyrrel),
figurano i seguenti manoscritti: minuta lacunosa di Malombra, manoscritto
di Piccolo mondo antico in 676 pagine con vistose lacune; minuta de Il mistero
del poeta; minuta lacunosa de Il Santo; bella copia lacunosa di Leila; minuta
autografa di alcuni capitoli di Piccolo mondo Moderno e autografi di conferenze.
Il fondo comprende anche un pacco sigillato che è stato aperto nel
2011, in occasione del centenario della morte dello scrittore vicentino, secondo
il volere del donatore. Il contenuto del plico è stato esplicitato da
Adriana Chemello in Il “plico sigillato” e i suoi segreti (in Album Fogazzaro, a
cura di Adriana Chemello, Fabio Finotti e Adele Scarpari, Vicenza, Accademia
Olimpica, 2011) e si compone grosso modo di tre nuclei principali: il
primo è una raccolta di “carte intime”, pagine con annotazioni simili ad
uno “zibaldone di pensieri”, abbozzi di liriche ed appunti di viaggio. Il secondo
nucleo si compone di Taccuini (in tutto una ventina) con appunti di
viaggio spesso indecifrabili che coprono un periodo cronologico compreso
tra il 1882 ed il 1910. L’ultimo nucleo è il cospicuo corpus di Lettere familiari
(circa 300).
Per quanto concerne la trascrizione delle lettere, ho seguito i seguenti criteri
editoriali:
– Ho riportato in corsivo le parole sottolineate, perché al tempo della composizione
delle epistole la sottolineatura indicava lo stile italico;
– Ho riportato le maiuscole delle prime lettere dei pronomi e degli aggettivi
di cortesia, così come appaiono nelle lettere originale;
– Ho cercato di regolarizzare l’uso della punteggiatura, secondo l’uso moderno;
– Le note in corsivo, alla fine di ogni lettera, procurano informazioni essenziali
circa il numero delle carte e delle pagine scritte, che insieme costituiscono
le minute autografe. In esse vengono inoltre riportate, in caso di
evidenti errori di ortografia nel testo per cui si è scelto di agire conservativamente,
le corrispondenti versioni ortograficamente corrette.
– Tra parentesi quadre nel testo si stampano in tondo gli interventi dell’editore
(scioglimenti di abbreviazioni, integrazioni ovvie nel caso di errori o
sviste da parte dell’autore)[ ];
– Tra parentesi uncinate si stampano in tondo le parole aggiunte nell’interlinea
o a margine <>;
– Tra parentesi uncinate e croci si stampano in tondo le cancellature leggibili
<+ +>;
[ 22 ]
idealismo e modernismo nella cultura letteraria 157
Lettere di William Roscoe Thayer ad Antonio Fogazzaro57
CFo 33 Plico 201
1.
[3 c.; 5 pp.]
All’Illmo
Antonio Fogazzaro.
8 Berkeley Street,
Cambridge, Massachusetts
10, marzo, 1906
Ill.mo Signore:
Ho letto Il Santo con un’ammirazione così profonda che voglio esprimerLe
la mia gratitudine. Chi scrive un bel libro fa debitori tutti [coloro] che lo leggono.
Il Santo è non solamente bello come romanzo, ma di grande importanza
come sintomo. Ci lascia dedurre che in Italia, fra i Cattolici, si muove una vera
ispirazione religiosa che può trasformare quel vecchio meccanismo clericale
in una fonte spirituale. Leggendolo, ho pensato spesso a quel bravo Xavier
Kraus, che tanto bramava che il Cattolicismo politico e mondiale fosse purificato
in un Cattolicismo religioso.
Se Ella e i suoi discepoli trionfano, grande sarà il benefizio all’Italia, nonché
alla Chiesa: intanto, Ella ha vinto una magnifica vittoria nel presentare le
sue idee sotto una forma che le farà penetrare molte migliaia di cuori. Non
parlo dell’arte con cui è costruito il romanzo, né della concretezza è vitalità dei
personaggi; perché è la sostanza che mi pare tanto rimarchevole. Voglio vedere
in essa l’augurio di un’era nuova per la mia prediletta Italia, dove la mancanza
di fede non dirò nella religione ma eziandio nelle virtù fondamentali,
sia per l’individuo sia la società, è stata tanto deplorevole. Il cinismo
sembra sempre più disperato in mezzo a un grande apparato di Clericalismo
convenzionale, come in Italia.
Mi rallegro pure che l’Italia ha prodotto questo capolavoro, sano, puro,
forte, dignitoso, ad un tempo nel quale gli stranieri che non la conoscono pensano
che sia degenera, e che le sporcherie “artistiche” del D’Annunzio ne sono
la prova irrefutabile. Spero che fra poco ci sarà una traduzione inglese del
Santo, perché molte persone alle quali lo raccomando non sanno l’italiano.
In questi giorni abbiamo avuto a Boston il giovane Dott. Giovanni Preziosi58,
57 William Roscoe Thayer (1859-1923) nacque a Boston in Massachusetts e si
laureò ad Harvard nel 1881 nella stessa classe di Theodore Roosevelt. Fu direttore
dell’«Harvard Graduates’ Magazine», dalla sua fondazione nel 1892 sino al 1915.
Nel 1903 rappresentò l’Università di Harvard e l’American HistoricalAssociation
al Congresso Internazionale Storico a Roma. Nel 1914 fu eletto presso l’American
Academy of Arts and Letters. Famose sono, oltre al suo saggio storico sul Risorgimento
italiano, The Dawn of Italian Independence (1893), le biografie di Cavour (Life
and times of Cavour) e Theodore Roosevelt.
58 Giovanni Preziosi (1881-1945) politico italiano nonché ministro, pubblicista
e traduttore. Aderì alla Lega Democratica Nazionale, movimento guidato da Ro-
[ 23 ]
158 stefano evangelista
che ha parlato con me molto di Lei, ed ha tenuto al Circolo Italiano di Boston59
(del quale sono presidente io) un discorso sulla Democrazia Cristiana Italiana,
illustrandola con citazioni del Santo.
Con questa posta Le mando un recente lavoro mio, che La prego di accettare
in segno della mia riconoscenza della soddisfazione che devo al Suo ingegno.
Con tutta stima,
Il suo devotmo
Williamo Roscoe Thayer
2.
[3 c.; 5 pp.]
All’Illmo
Antonio Fogazzaro,
Vicenza.
Berkeley St.[reet]
Cambridge, Mass[achuse]tts
Il 31 marzo, 1906
Illmo Signore:
Le mando con questo un articolo su Il Santo, che fu pubblicato nella Nazione60
di New York, il nostro giornale critico che gode della maggiore autorità.
Non so chi lo scrisse, e, benché la critica non mi paia né molto profonda né
spiccante, è simpatica. Spero che ci sarà una traduzione inglese del Santo subito.
Molte persone qui e a Boston la gradirebbe[ro]. Ho fatto una conferenza
qui sul romanzo, e tutti ne furono molto commossi.
M’abbia Signore,
Con perfetta stima,
Il suo devmo
William R. Thayer
3.
[Nell’ultima pagina della lettera sono annotati alcuni
calcoli matematici. 2 cc.; 4 pp.]
8 Berkeley Street,
Cambridge, Massachusetts:
il 19 luglio, 1906
Illustre Senatore Fogazzaro:
Le offro le bozze dell’Introduzione al Santo che gli editori della traduzione
inglese m’hanno pregata di preparare. Il libro – da quanto mi si dice – deve
uscire fra poche settimane. Spero che le brevi note biografiche che ho scritte
siano esatte: era difficile di avere – qui – ragguagli autorevoli.
molo Murri. Nel saggio La vita degli italiani all’estero (1913) affrontò il tema dell’immigrazione,
cruciale per la politica all’inizio del ventesimo secolo.
59 Circolo italiano di Boston: fu fondato nel 1901 per promuovere la cultura
italiana all’estero.
60 «Nazione»: giornale fondato a Firenze nel 1857, ha da sempre avuto un
orientamento moderato-conservatore.
[ 24 ]
idealismo e modernismo nella cultura letteraria 159
Avrei bramato di scrivere un saggio veramente di critica letteraria – tal che
Il Santo merita; ma ho dovuto letteralmente introdurre il libro al nostro pubblico.
È con questo proposito che ho scritto – eppoi, lo spazio era ristretto. In ogni
modo, spero che le mie parole gioveranno alla diffusione della nobile opera sua.
Siamo tutti – fuorché i Cattolici gretti, che sono per lo più irlandesi, o ignorantissimi
o gesuiti – attoniti che la Congregazione dell’Indice commettesse
quella gaucherie (se non si deve dire sottise) di perseguire Il Santo.
Ma il libro durerà: e, in fin dei conti, contiene molto dinamita: difatti, è
questo che ne da la forza.
Nel settembre, D.V., farò un viaggio nell’Alta Italia, e se Ella fosse a Vicenza,
e potesse ricevermi senza [di]sturbarsi minimamente, io mi fermerei qualche
ora (tra Verona e Venezia) per godere il piacere d’una stretta di mano.
Intanto, Illustre Signore,
mi abbia con tutta stima,
il suo dev.mo
William Roscoe Thayer
4.
[Lettera scritta su carta azzurra; 2 cc.; 3 pp.]
All’Illmo
Senatore Antonio Fogazzaro.
8 Berkeley Street,
Cambridge, Massachusetts
Il 16 agosto, 1906
Illmo Signore:
Il suo biglietto del 4 agosto mi giunse ieri e rispondo subito per calmare le
sue premure intorno alla prefazione. La scrissi per invito del Signor Putnam,
per la loro edizione autorizzata. Il libro fu messo in circolazione qualche giorno
fa, e ne mando un’esemplare. Senza dubbio Ella riceverà altre copie dagli
editori. Osserverò con vivo interesse il ricevimento della traduzione qua. Naturalmente
manca la qualità vibrante che caratterizza l’originale.
Ella ha la rarissima facoltà di <+spander+> penetrare anche le discussioni
teologiche di emozione, e non sono sicuro che il Sig. Putnam sia riuscito a
riprodurre questo: ma, in ogni caso, le grandi linee, lo scopo, e la profondità
della di Lei stupenda creazione sopravvivono nella traduzione.
Con rinnovati sensi di profonda stima,
Suo sempre il suo do
William R. Thayer
5.
[Lettera scritta su carta intestata Grand Hotel d’Europe Turin. 2 cc.; 2 pp.]
All’Illmo
Senatore Antonio Fogazzaro,
Vicenza.
8 ottobre 1906
[ 25 ]
160 stefano evangelista
Ill.mo Signore:
Sono arrivato qui, dopo un prospero viaggio d[a] Boston a Genova, e conto
di andare a Venezia fra una settimana. Se a Lei piacesse, io vorrei fermarmi
qualche ora a Vicenza, per avere l’opportunità di salutarLa. Se può dirmi a che
ora Ella è ordinariamente in casa, o nella mattina o nel pomeriggio, io potrei
partire da Verona con un treno che arriverebbe a tempo. Naturalmente, non
voglio [di]sturbarLa, e se la mia visita Le arrecherebbe incomodo, La prego di
non pensarci.
Intanto, caro Signore, accolga l’espressione della mia perfetta stima.
William R. Thayer.
6.
[lettera di 2cc.; 4 pp.]
8 Berkeley Street,
Cambridge, Mass.[achusetts]:
27,11,1907
Pregiatissimo Senatore Fogazzaro:
Ella udirà con interesse che i suoi editori americani annunziano che 42000
copie della traduzione del Santo sono state già vendute. Eppoi, traduzioni dei
romanzi anteriori sono pure in circolazione sui titoli, The Patriot e The Sinner.
Vorrei che una versione inglese di Daniele Cortis fosse preparata per il nostro
pubblico: mi si dice che una versione stampata 15 o 20 anni fa non era né
completa né ben fatta.
Dal mio ritorno ho avuto – con molta soddisfazione – frequenti segni della
vera e profonda impressione che Il Santo ha fatto – e fa tuttora – sulle persone
più colte. Professori della nostra università mi domandano ragguagli di Lei;
amici, ed anche persone che non conosco, mi chiedono, “come si deve interpretare
tale o tale brano”. Parecchi vogliono sapere ciò che Ella intenda in un
noto passaggio dove dice che i Protestanti non possono capire niente del vero
Cattolicismo. Che devo rispondere?
Spero che Ella mi favorirà una copia del discorso che fece a Parigi. Ho
letto il sommario sul Corriere della Sera che aumenta il mio appetito di vederlo
intero.
President Roosevelt è stato qui sabato, e nello stringermi la mano la prima
cosa che mi disse fu “Sono contento di avere un esemplare italiano del Santo
da Fogazzaro stesso”.
Coi migliori auguri per l’anno nuovo – che è, in verità, già quasi adolescente
– e per le sue attività e per l’arrivo di un’era più propizia alla vita spirituale
e liberale in Italia.
Sono suo devmo
Wm R. Thayer
[ 26 ]
Virginia di Martino
«In terra d’oltremare» o «in una villa solitaria»:
l’esilio nei Colloqui di Guido Gozzano
Nella poesia di gozzano l’esilio coincide con una situazione di esclusione: dalla
vita, dall’amore, paradossalmente anche dalla morte. Quest’ultima, come leggiamo
nei versi della Signorina Felicita, «esilia» il poeta «in terra d’oltremare»,
in un altrove che assume presto le caratteristiche di una stampa esotica. diverso
l’isolamento al quale si autocondanna totò Merumeni che, definitivamente
chiuso nella sua «villa triste», canta «l’esilio e la rinuncia volontaria».

In Gozzano’s poetry exile coincides with a situation of exclusion: from life, love
and paradoxically even from death. The latter, as we read in the verses of La
signorina Felicita, «exiles» the poet «overseas», in an elsewhere that soon takes
on the features of an exotic print. Totò Merumeni condemns himself to a different
type of isolation: definitively shut up in his «sad villa», he sings of «exile
and voluntary renouncement».
Durante un vagabondaggio notturno, l’avvocato protagonista dei versi
della Signorina Felicita sosta al cancello di un cimitero: alla mente gli
si affacciano domande sulla vita e sulla morte:
Giova guarire? Giova che si viva?
O meglio giova l’Ospite furtiva
che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio?
[…]
Ecco la Morte e la Felicità!
L’una m’incalza quando l’altra appare;
quella m’esilia in terra d’oltremare,
questa promette il bene che sarà…1.
Autore: Università degli Studi di Napoli Federico II; ricercatore a tempo determinato;
virginia.dimartino@unina.it
1 Guido Gozzano, La signorina Felicita ovvero la Felicità, in Id., Tutte le poesie, a
cura di Andrea Rocca, Milano, Mondadori, 2016, pp. 115-116, vv. 366-368, 377-
380. Tutti i versi di Gozzano sono citati da questa edizione, per cui se ne indicheranno
solo i numeri di pagina e di versi.
162 virginia di martino
Il «bene che sarà», che la signorina fa intravedere, è una felicità ben
prosaica: un’esistenza tranquilla e un po’ noiosa, come viene più volte
ribadito:
Tutto mi spiace che mi piacque innanzi!
Ah! Rimanere qui, sempre, al suo fianco,
terminare la vita che m’avanzi
tra questo verde e questo lino bianco!
Se Lei sapesse come sono stanco
delle donne rifatte sui romanzi!2.
L’io lirico si dichiara disgustato dalla vita artificiale condotta fino a
quel momento, e tentato dall’idea di una «consorte / vivace, trasparente
come l’aria»3, che non verseggia ma cuce camicie, grazie alla
quale «rinneg[are] la fede letteraria / che fa la vita simile alla morte»4
per una vita semplice e concreta, quella «vita borghese [che] non tollera
il sublime»5.
L’avvocato, dunque, sembra desiderare una brusca inversione di
rotta per il suo tempo residuo: senza le tentazioni e le lusinghe dell’arte,
in compagnia di persone serie e concrete; ma da questa vita, da
questa Felicità con la lettera maiuscola, intravista osservando il cimitero
del paesino di Felicita, lo allontana la Morte, esiliandolo in «terra
d’oltremare». Eppure, ha notato Giorgio Bàrberi Squarotti, citando un
verso dell’Ipotesi, più che di un esilio forzato, si tratta di un provvidenziale
salvataggio:
è possibile vagheggiare «quella che vive tranquilla, serena col padre
borghese» proprio perché non c’è nessun rischio che la fantasia possa
tradursi in realtà, dal momento che il protagonista ha, a questo proposito,
l’assoluta garanzia datagli dalla «Signora vestita di nulla»6.
La Morte sottrae l’avvocato, alter ego di Gozzano, ad un orizzonte
asfittico e mediocre, ad una «morte in vita»7 che coincide con la «pri-
2 Ivi, p. 111, vv. 253-258.
3 Ivi, p. 113, vv. 298-299.
4 Ibidem, vv. 300-301.
5 Marziano Guglielminetti, Introduzione, in G. Gozzano, Tutte le poesie, cit.,
p. XVII.
6 Giorgio Bàrberi Squarotti, L’ipotesi esorcizzata, in Id., Poesia e ideologia borghese,
Napoli, Liguori Editore, 1976, p. 48.
7 Marina Paino, Signore e signorine di Guido Gozzano, Pisa, Edizioni ETS, 2012,
p. 86.
[ 2 ]
«in terra d’oltremare» o «in una villa solitaria» 163
gione della vita quotidiana»8: la «Signora vestita di nulla»9, presenza
minacciosa e salvifica insieme, interviene provvidenzialmente a spingere
il poeta in esilio, verso luoghi che assumono le caratteristiche di
una stampa esotica:
«Viaggio con le rondini stamane…» –
«Dove andrà?» – «Dove andrò? Non so… Viaggio,
viaggio per fuggire altro viaggio…
Oltre Marocco, ad isolette strane,
ricche in essenze, in datteri, in banane,
perdute nell’Atlantico selvaggio…10.
L’altrove è un altrove cristallizzato e addomesticato; la sua alterità
potenzialmente pericolosa è esorcizzata nella riduzione a luogo comune,
a stampa riproducibile e fruibile in ogni salotto torinese. È lo
stesso orizzonte fittizio in cui è ambientata la vicenda di Paolo e Virginia:
«quel Tropico rammenti, di maniera, / un poco falso, come piace
a me?…»11, palesemente frutto di letteratura, con i suoi «orizzonti
immaginari»12:
O soave contrada! O palme somme
erette verso il cielo come dardi,
flabelli verdi sibilanti ai venti!
Alberi delle manne e delle gomme,
ebani cupi, sandali gagliardi,
liane contorte, felci arborescenti!13.
In questo scenario oleografico crescono i due giovani, protagonisti
del romanzo di Bernardin de Saint-Pierre, «belli e felici come in una
stampa»14.
«Ironico, disilluso eroe», Paolo racconta «di una mitica età felice
più che vissuta sognata, immaginata, favoleggiata e ormai definitivamente
conclusa»15, ambientazione edenica per una storia d’amore che
si può solo sognare o rimpiangere.
8 Ivi, p. 88.
9 La morte è così definita più volte: Alle soglie, p. 94, v. 29; L’ipotesi, p. 201, v. 2.
10 La signorina Felicita ovvero la Felicità, p. 116, vv. 393-398.
11 Paolo e Virginia. I figli dell’infortunio, p. 98, vv. 28-29.
12 Ivi, p. 97, v. 9.
13 Ivi, pp. 97-98, vv. 18-23.
14 Ivi, p. 99, v 72.
15 Maria Carla Papini, Il San Germano affonda…, in Naufragi. Atti del Conve-
[ 3 ]
164 virginia di martino
«L’isola dove», egli afferma, «nacqui e dove amai»16 – come le «isolette
strane» descritte a Felicita, alle quali giungeranno in volo anche
le rondini – è simbolo sia di un microcosmo perfetto, sia di nido in cui
rifugiarsi in attesa di una rigenerazione:
L’isola alla quale si arriva solo dopo una navigazione o un volo è il simbolo
per eccellenza di un centro spirituale, e precisamente del centro
spirituale primordiale. […] L’isola diventa un mondo su scala ridotta,
un’immagine del cosmo completa e perfetta. […] Essa è simbolicamente
un luogo di elezione di scienza e di pace, nel mare dell’ignoranza e
dell’agitazione del mondo profano […]. L’analisi moderna ha particolarmente
messo in rilievo uno dei tratti essenziali dell’isola: essa evoca
l’idea di rifugio17.
È interessante, quindi, notare quale uso Gozzano, pur da sempre
dichiaratamente in cerca di una Via del rifugio, faccia della simbologia
dell’archetipo isola: il luogo incontaminato in mezzo alle acque, il rifugio
che può difendere il soggetto dall’assalto della morte, diventa
un luogo artificiale, oggetto di letteratura o arti figurative, insomma
finzione irreale. D’altra parte la stessa voce narrante definisce «perduta
» la «patria» «che non conobbi mai, che riconosco…»18: il luogo isolato
ed incontaminato è in fondo inesistente, «e l’immagine che ne resta
[…] è di per sé, nel malinconico perdurare del suo artificio, l’emblema
stesso della propria perdita»19.
All’artificio, alla perdita, alla stessa idea dell’esilio, sia nella Signorina
Felicita che in Paolo e Virginia, è associato l’esercizio dell’ironia, il
tono distaccato del poeta che denuncia come false le parole della letteratura
nel momento stesso in cui le pronuncia, rievocando un eden o
un amore, perduti nel passato o nel futuro del sogno e del desiderio.
«Segnale del distacco tra le parole e le cose, omologo al distacco, nelle
strutture profonde, tra l’io e la realtà e tra l’io e se stesso»20, l’ironia
gno di Studi (Cagliari, 8-10 aprile 1992), a cura di Laura Sannia Nowé e Maurizio
Virdis, Roma, Bulzoni Editore, 1993, p. 575.
16 Paolo e Virginia. I figli dell’infortunio, p. 97, v. 8.
17 Jean Chevalier e Alain Gheerbrant, Dizionario dei simboli. Miti, sogni,
costumi, gesti, forme, figure, colori, numeri, Milano, Rizzoli, 201613, pp. 556-557.
18 Paolo e Virginia. I figli dell’infortunio, p. 97, v. 16, 17.
19 M.C. Papini, Il San Germano affonda…, cit., p. 579.
20 Elio Gioanola, Gozzano: la malattia e la letteratura, in Guido Gozzano. I giorni,
le opere. Atti del Convegno nazionale di Studi (Torino, 26-28 ottobre 1983), a cura
del Centro di studi di letteratura italiana in Piemonte «Guido Gozzano», Firenze,
Leo S. Olschki, 1985, p. 341.
[ 4 ]
«in terra d’oltremare» o «in una villa solitaria» 165
gozzaniana sembra circoscrivere l’idea stessa dell’esilio in «una cornice
derealizzante»21. La Morte, dunque, spinge in favolose terre oltreoceano,
allontanando il poeta da una vita impossibile da vivere (e che
nemmeno sarebbe augurabile vivere). In questo senso l’evasione spaziale
equivale a quella temporale: se nei versi di Paolo e Virginia queste
due dimensioni – l’altrove e l’altro tempo – coincidono, in altri componimenti
quali L’amica di Nonna Speranza e Cocotte l’ambientazione non
ha niente di esotico, e il poeta è esiliato dal tempo presente, in un
passato più o meno remoto.
La vita vera, impraticabile per l’avvocato, sembra essersi nascosta
nel salotto «del mille ottocento cinquanta»22, museo delle «buone cose
di pessimo gusto»23 «descritto e catalogato in falsetto»24: ma è, alla fine,
inaccessibile. Se anche l’io lirico, sedotto da «Venezia ritratta a musaici,
[da]gli acquerelli un po’ scialbi», dai «dagherrotipi», dal «cùcu
dell’ore che canta», ha l’impressione di «rinasc[ere]»25 nel tempo della
giovinezza di sua nonna, deve tuttavia riconoscere che gli scenari antichi,
su cui indugia la descrizione, hanno sempre il sapore dell’inautenticità,
di una finzione letteraria: Carlotta legge «i casi di Jacopo mesti
nel tenero libro del Foscolo»26, e la luna è contemplata con sguardo
che filtra attraverso mondi di carta:
Romantica Luna […]
[…]
non sorta sei da una stampa del Novelliere illustrato?
Vedesti le case deserte di Parisina la bella?
Non forse non forse sei quella amata dal giovine Werther?27.
In chiusura del componimento, non si può che dichiarare lo scacco
subito: «Ma te non rivedo nel fiore, amica di Nonna! Ove sei / o sola
che, forse, potrei amare, amare d’amore?»28.
Ugualmente marcato dallo stigma del falso il giardino d’infanzia
in cui si incontra la Cocotte che dà il titolo all’ultima poesia di Alle so-
21 Ibidem.
22 L’amica di Nonna Speranza, p. 118, v. 14.
23 Ibidem, v. 2.
24 Giorgio Bàrberi Squarotti, Introduzione, in Guido Gozzano, Poesie, a cura
di G. Bàrberi Squarotti, Milano, Rizzoli, 200410, p. 13.
25 L’amica di Nonna Speranza, p. 118, vv. 7, 10, 13, 14.
26 Ivi, p. 123, v. 102.
27 Ivi, p. 122, vv. 85, 88-90.
28 Ivi, p. 123, vv. 109-110.
[ 5 ]
166 virginia di martino
glie: l’appellativo francese innesca una serie di associazioni fantastiche
che allontanano la donna in un orizzonte fiabesco (ancora con isole
favolose), e quindi irreale:
Pensavo deità favoleggiate:
i naviganti e l’Isole Felici…
Co-co-tte… le fate intese a malefici
con cibi e con bevande affatturate…29.
Ma se anche il poeta sogna di autoesiliarsi nel passato che custodisce
l’amore impossibile nel presente, la realtà è diversa: ad essere esiliate,
senza speranza di ritorno, sono le donne, Carlotta o la «cattiva
signorina»30 senza nome, perdute nell’altrove temporale vagheggiato
da Gozzano, che inutilmente invoca:
Vieni! Sarà come se a me, per mano,
tu riportassi me stesso d’allora.
Il bimbo parlerà con la Signora.
Risorgeremo dal tempo lontano.
Vieni! Sarà come se a te, per mano,
io riportassi te, giovine ancora31.
Dal passato non fa ritorno nessuna voce femminile; e la terza sezione
dei Colloqui, Il reduce, alla quale «è […] il motivo dell’esilio dalla
vita a restituire unità»32, ci presenta un altro doppio del poeta, Totò
Merumeni. Questi, bloccato in una vita da esule ben diversa da quelle
viste finora, non si trova in terre esotiche né in giorni lontani, bensì in
una situazione di prigionia, «parimenti lontano dalla vita, dall’amore,
e dalla morte»33, l’«Ospite furtiva» alla quale, abbiamo visto sopra, si
cercava di sfuggire con il viaggio in «terre d’oltremare».
Da queste regioni, d’altra parte, il poeta aveva già sognato di fare
ritorno, preso da nostalgia per la città natale:
Quante volte tra i fiori, in terre gaie,
sul mare, tra il cordame dei velieri,
sognavo le tue nevi, i tigli neri,
29 Cocotte, p. 125, vv. 31-34.
30 Ibidem, v. 26.
31 Ivi, p. 127, vv. 79-84.
32 Niva Lorenzini, I Colloqui di Guido Gozzano, in Letteratura italiana, a cura di
Alberto Asor Rosa, Le opere, vol. IV Il Novecento, Torino, Einaudi, 1995, t. I, p. 156.
33 M. Paino, Signore e signorine di Guido Gozzano, cit., p. 91.
[ 6 ]
«in terra d’oltremare» o «in una villa solitaria» 167
le dritte vie corrusche di rotaie,
l’arguta grazia delle tue crestaie,
o città favorevole ai piaceri!
E quante volte già, nelle mie notti
d’esilio, resupino a cielo aperto,
sognavo sere torinesi, certo
ambiente caro a me, certi salotti
beoti assai, pettegoli, bigotti
come ai tempi del buon Re Carlo Alberto…34.
Esiliato in una stampa esotica, «tra i fiori, in terre gaie», l’io poetante
sogna il ritorno in patria. Eppure anche Torino assume tratti di finzione,
se viene contemplata, con i luoghi cari che ricordano l’infanzia
e la giovinezza, «come una stampa antica bavarese»35. Sia il luogo esotico
che il luogo natio potrebbero essere fonte di inquietudine, inducendo
l’uno l’ansia per l’ignoto, e l’altro la nostalgia di un Eden perduto.
La stampa, che riproduca i tropici o Torino, crea invece «un territorio
familiare»36 che neutralizza la minaccia della novità o della
nostalgia. Anche Torino, quindi, più che vissuta è contemplata a distanza
dal poeta reduce dai suoi esili spazio-temporali.
È stato notato che nei Colloqui Torino, «capitale dell’industrializzazione,
la città che nel 1911 ospita l’esposizione internazionale di cui
Gozzano è cronista», viene trasformata in «una cartolina d’altri tempi,
una anacronistica stampa offuscata»37. Ciò accade, evidentemente,
perché l’isolamento di Totò Merumeni, «esiliato dall’oggi»38, trova
un’ambientazione molto più congeniale in una città di cui si colgono i
tratti rimasti invariati dai «tempi del buon Re Carlo Alberto» che in
una Torino al passo con la modernità.
L’ultimo esilio cantato nei Colloqui è dunque nella «villa triste»39 in
cui Totò vive «con una madre inferma, / una prozia canuta ed uno zio
demente»40. Ecco come viene presentato l’eremita:
Totò ha venticinque anni, tempra sdegnosa,
molta cultura e gusto in opere d’inchiostro,
34 Torino, p. 143, vv. 1-12.
35 Ivi, p. 144, v. 31.
36 E. Gioanola, Gozzano: la malattia e la letteratura, cit., p. 324.
37 N. Lorenzini, I Colloqui di Guido Gozzano, cit., p. 159.
38 Ibidem.
39 Totò Merumeni, p. 131, v. 5.
40 Ibidem, vv. 15-16.
[ 7 ]
168 virginia di martino
scarso cervello, scarsa morale, spaventosa
chiaroveggenza: è il vero figlio del tempo nostro41.
Totò, appena uscito dalla prima giovinezza, rifiuta l’ingresso nella
vita adulta per la quale non si sente attrezzato, richiedendo essa, forse,
«cervello» e «morale» più che «cultura e gusto in opere d’inchiostro»:
è per questo che Gozzano sceglie di rappresentarlo
come il convertito (i «suoi trascorsi»!), l’esule volontario da quel reame
affascinante e corrotto che è la letteratura […] nella accezione dannunziana
del vocabolo; ma la libertà che egli conquista è appena la libertà
di riflettere, proprio come scrive, sui suoi trascorsi, di pungere, con
acerbo e divertito e pur malinconico disdegno, la figure della propria
eresia giovanile42.
E dunque l’isolamento non è più presentato come necessaria fuga
dalla morte, ma come scelta, legata alla vergogna per come sono stati
spesi gli anni passati, al superamento di una posa letteraria, e all’impossibilità
di affrontare una vita in veste di «baratto o gazzettiere»:
Non ricco, giunta l’ora di «vender parolette»
(il suo Petrarca!…) e farsi baratto o gazzettiere,
Totò scelse l’esilio. E in libertà riflette
ai suoi trascorsi che sarà bello tacere43.
Scartata l’opzione di «vender parolette», l’unica alternativa è quella
costituita dalla rinuncia alla vita così come è concepita normalmente:
«c’è uno stacco incolmabile fra il mondo borghese e la poesia, a
meno che questa non […] accetti di vendersi, di diventare totalmente
e assolutamente merce»44. Anche se, a volte, torna la tentazione di una
vita ordinaria e operosa:
Penso, mammina, che avrò tosto venti
cinqu’anni! Invecchio! E ancora mi sollazzo
coi versi! È tempo d’essere il ragazzo
più serio, che vagheggiano i parenti.
Dilegua il sogno d’arte che m’accese;
41 Ibidem, vv. 17-20.
42 Edoardo Sanguineti, Da D’Annunzio a Gozzano, in Id., Tra Liberty e Crepuscolarismo,
Milano, Mursia, 1961, p. 72.
43 Totò Merumeni, pp. 131-132, vv. 21-24.
44 G. Bàrberi Squarotti, Introduzione, in G. Gozzano, Poesie, cit., p. 9.
[ 8 ]
«in terra d’oltremare» o «in una villa solitaria» 169
risano a poco a poco, anche di questo!
Lungi dai letterati che detesto,
tra saggie cure e temperate spese,
sia la mia vita piccola e borghese:
c’è in me la stoffa del borghese onesto…45.
Come la malattia, anche la giovinezza può essere un’attenuante
per chi si «sollazz[a] coi versi»: la giovinezza che, nota Bàrberi Squarotti,
è «il tempo dell’irresponsabilità, che non è ancora sotto l’imposizione
del guadagno, del “posto”, della sistemazione nella società»46.
Trascorsa la giovinezza, dunque, l’io lirico si sente quasi in dovere di
prospettare, testimone la mamma, un futuro privo di distrazioni, malattia,
e, conseguentemente, di poesia. Ma dopo questa dichiarazione
di intenti, il reduce «sogghigna un po’»47, svelando l’impraticabilità di
questa vita «piccola e borghese». Ecco dunque il paradossale esilio
dentro casa, l’esatto contrario di quello in terre esotiche a cui la morte
incalzante nella Signorina Felicita condannava il poeta. Ma «Morte l’illuse
fino alle sue porte»48, leggiamo ancora nei versi di In casa del sopravvissuto,
per respingerne infine «l’anima ribelle»49; d’altra parte
«Amore non lo volle in sua coorte»50. È dunque un «reduce»51 da entrambe
le esperienze, è appunto un «sopravvissuto» l’esule Totò, segnato
da una «radicale inettitudine alla vita»52.
L’esilio, tuttavia, ha i suoi vantaggi. All’esilio si accompagna la libertà.
Svincolato dalle responsabilità e dagli impegni della vita e
dell’amore, abbandonato dalla morte in una sorta di limbo, il protagonista
dell’ultima sezione dei Colloqui riflette sul proprio passato, e alla
reclusione fisica associa il ripiegamento sulla propria interiorità:
Così Totò Merumeni, dopo tristi vicende,
quasi è felice. Alterna l’indagine e la rima.
Chiuso in sè stesso, medita, s’accresce, esplora, intende
la vita dello Spirito che non intese prima53.
45 In casa del sopravvissuto, p. 147, vv. 45-54.
46 G. Bàrberi Squarotti, Quasi un’introduzione: letteratura e decadenza borghese,
in Id., Poesia e ideologia borghese, cit., p. 37.
47 In casa del sopravvissuto, p. 148, v. 55.
48 Ivi, p. 146, v. 17.
49 Ibidem, v. 18.
50 Ibidem, v. 16.
51 Ibidem, v. 13.
52 M. Paino, Signore e signorine di Guido Gozzano, cit., p. 92.
53 Totò Merumeni, p. 133, vv. 53-56.
[ 9 ]
170 virginia di martino
«L’indagine e la rima», insieme alla compagnia dei parenti prima
elencati, rappresentano le cifre di
un esilio non fisico quanto ideologico: il no alla rispettabilità e all’ordine
borghese, la vecchiaia, la malattia, la demenza, l’arte, Nietzsche, gli
animali, tutti elementi che stabiliscono il luogo geneticamente diverso
dove Totò può vivere, meditare, esistere54.
Se all’interno della villa, nel distacco dal mondo e dalle sue illusioni,
l’io lirico può «intende[re]» tutto ciò «che non intese prima», all’esterno
invece non è possibile preservare la propria concentrazione:
durante una passeggiata dai toni vagamente petrarcheschi («Solo, errando
così come chi erra / senza meta, un po’ triste, a passi stanchi»55)
il poeta è raggiunto da un fantasma femminile, che gli rivolge quasi
un rimprovero:
[…] E Lei, compagno inerte,
se ne va solo per le vie deserte,
col trasognato viso di chi sogna…
Fare bisogna. Vivere bisogna
la bella vita dalle mille offerte56.
Seguendo il verbo dannunziano, la donna afferma la necessità di
vivere e di agire, la superiorità della «bella vita» sul sogno: se per Gozzano
è il sogno – regno del desiderio, delle rose non colte57 e perdutamente
amate – a recare «mille offerte», mille possibili esistenze, la sua
casuale accompagnatrice e antica amica afferma invece che il sogno è
sonno e inerzia. Ma il poeta risponde ribadendo le ragioni del sogno,
e dell’esilio:
Sono felice. La mia vita è tanto
pari al mio sogno; il sogno che non varia:
vivere in una villa solitaria,
senza passato più, senza rimpianto:
54 G. Bàrberi Squarotti, Il poeta fra le rovine, in Id., Poesia e ideologia borghese,
cit., pp. 89-90.
55 Un’altra risorta, p. 139, vv. 1-2. Petrarca è esplicitamente chiamato in causa
alla fine del componimento: «“Penso al Petrarca che raggiunto fu / per via, da
Laura, com’io son da Lei…” / Sorrise, rise discoprendo i bei / denti… “Che Laura
in fior di gioventù! […]”» (p. 140, vv. 49-52).
56 Ivi, p. 139, vv. 14-18.
57 «Non amo che le rose / che non colsi. Non amo che le cose / che potevano
essere e non sono / state…» (Cocotte, p. 126, vv. 68-71).
[ 10 ]
«in terra d’oltremare» o «in una villa solitaria» 171
appartenersi, meditare… Canto
l’esilio e la rinuncia volontaria58.
L’esilio in luoghi salutari, a cui costringe la morte, è altra cosa
dall’esilio volontario: solo questo, infatti, mette il poeta al riparo dal
tempo e dai rimpianti, e gli regala la piena appartenenza a se stesso,
senza distrazioni e autoinganni. Forse per evitare le tentazioni che
provengono dal mondo, Totò gode della compagnia di anomali «dolci
compagni»59: non uomini o donne, che potrebbero, come l’amica incontrata
per via, tentare di scalfire il suo isolamento, ma «una ghiandaia
rôca, / un micio, una bertuccia che ha nome Makakita…»60. Proprio
Makakita, come un tempo l’avvocato, pensa a terre lontane,
quando l’inverno la spinge, in braccio al poeta, a «trema[re]
freddolosa»61:
Forse essa pensa i boschi dove nacque,
i tamarindi, i cocchi ed i banani,
il fiume e le sorelle quadrumani,
e il gioco favorito che le piacque,
quando in catena pendula sull’acque
stuzzicava le nari dei caimani62.
Alla bertuccia, in esilio non volontario, Gozzano affida l’ultima di
tante evocazioni di stampe esotiche: come a dire che, all’esule-eremita
disincantato, esse non possono ormai interessare più.
Virginia di Martino
Università Federico II Napoli
58 Un’altra risorta, p. 140, vv. 25-30.
59 Totò Merumeni, p. 132, v. 34.
60 Ibidem, vv. 35-36.
61 In casa del sopravvissuto, p. 146, v. 20.
62 Ivi, p. 147, vv. 25-30.
[ 11 ]

Carlangelo Mauro
Sull’ultimo Cucchi. Ritorno alle origini senza affanno
Nell’ultimo libro di Maurizio Cucchi, Paradossalmente e con affanno, che comprende
testi giovanili e il poemetto La sciostra, scritto invece nel 2013, l’attimo di
onirica «sospensione felice» del poemetto è il riappropriarsi, da parte del soggetto,
del tempo più autenticamente vissuto, proprio nel momento di pausa,
tregua e sosta, che equivale ad uno stadio di ‘decrescita felice’ (Latouche) a
contatto con la frugalità, la semplicità, la manualità di cui la «sciostra» è, in
senso letterale, depositaria. Il magazzino sul naviglio è il correlativo di un ritorno
alle origini della propria storia, in un tempo e in uno spazio ‘ritrovati’.

In Maurizio Cucchi’s latest book, Paradossalmente e con affanno, including juvenilia
and the long poem La sciostra dating back to 2013, the moment of dreamlike
«happy suspension» of the long poem means, for the subject, a re-appropriation
of the past in its authenticity, precisely in a break, truce and stop that may
be equated to a phase of «happy decrease» (Latouche) in contact with that frugality,
simplicity and manual skill of which the «sciostra» is, literally, a depositary.
The warehouse on the waterway represents the correlative of a return to
the origins of one’s own history, in a ‘newly discovered’ time and space.
Prima del Disperso, apparso nel 1976 da Mondadori, libro con il quale
Maurizio Cucchi viene conosciuto a livello nazionale, il poeta milanese
ha svolto una intensa attività di scrittura che solo negli ultimi anni
sta venendo alla luce. Ne è prova il romanzo La malattia di Pietro, scritto
intorno al 1963, cui risale sicuramente la sua parte finale, poi ripreso
e pubblicato solo nel 2005 da Mondadori con il titolo raboniano Il male
è nelle cose. Introvabile ormai la giovanile plaquette di 33 poesie,
Paradossalmente e con affanno, stampata presso la tipografia Teograf. di
Milano in 500 esemplari nel 1971. I testi contenuti nella raccolta pubblicata
da Einaudi nel maggio del 2017, che reca lo stesso titolo, rappresentano,
come precisa l’autore nella nota finale, solo una scelta dal-
Autore: Università L’Orientale, Napoli; dottore di ricerca in Italianistica; carlangelom@
libero.it
174 carlangelo mauro
la plaquette eponima originaria (in pratica una sezione). La raccolta
einaudiana comprende anche testi di una precedente plaquette, Sua
eminenza verbale (1965 e dintorni), risalente alla stessa fase giovanile e
pubblicata dall’editore Stampa 2009 nel 2014; tranne in un caso, che
comunque presenta delle varianti rispetto al testo originale, le poesie
in questione non fanno parte della originaria plaquette ‘fantasma’, Paradossalmente
e con affanno, da cui è partita l’avventura di uno dei
«massimi poeti italiani contemporanei», come si legge nel risvolto di
copertina della ‘bianca’ di Einaudi, diretta da Mauro Bersani. Tale definizione,
dopo l’uscita nel 2016 dell’Oscar Mondadori Poesie 1963-
20151, sapientemente curato e introdotto da Alberto Bertoni, acquista
tutta la sua valenza critica; il volume racchiude le raccolte canoniche e
in più, nella sezione Antiche, rare, inedite, alcuni testi giovanili di Paradossalmente
e con affanno, con varianti rispetto alla stesura originaria,
che risulta invece intatta, o comunque più fedele, secondo le dichiarazioni
d’autore, nella scelta della raccolta einaudiana.
Alberto Bertoni, nella quarta di copertina di Malaspina (2015) riportata
in apparato all’Oscar Mondadori citato, parla di «lunga storia poetica
dell’ultimo dei nostri classici». Da questa prospettiva, che riguarda
la qualità e l’importanza della scrittura, occorre guardare anche ad
altri campi, alla fitta attività di operatore culturale, di giornalista, di
critico militante, di traduttore – si ricordi la traduzione di Stendhal in
tre volumi per i Meridiani Mondadori – di direttore di collane di poesia,
come «I quaderni della Fenice» presso Guanda, ora la collana dello
«Specchio» Mondadori (ma per anni Cucchi ha svolto il ruolo di
consulente letterario per la Mondadori). Non è certo da trascurare,
inoltre, il valore di testimonianza di chi è stato a contatto diretto con
maestri come Sereni, Raboni, Giudici, Fortini, per citare i primi che
vengono in mente, come i carteggi ancora inediti custoditi nell’archivio
privato di Cucchi testimoniano. Tutto ciò va al di là del quadro pur
generosamente costruito negli ultimi decenni da studiosi, poeti, estimatori,
in opere monografiche e contributi critici, articoli giornalistici
sparsi che riguardano il poeta milanese. Bisogna ancora considerare la
forza di propulsione dell’opera e dell’influenza dell’operatore culturale
ed editoriale, che ha un ulteriore valore, lungi dall’essere ricostruito
nelle sue varie diramazioni. Cucchi ha svolto una funzione di modello
per diversi poeti più giovani, come Alberto Pellegatta che con
1 Le citazioni dei testi poetici, salvo diverso avviso, che non provengono da
Paradossalmente e con affanno (Torino, Einaudi, 2018) ma da tutte le altre raccolte di
Maurizio Cucchi, sono tratte da questa edizione complessiva.
[ 2 ]
sull’ultimo cucchi. ritorno alle origini senza affanno 175
Ipotesi di felicità2 è entrato a far parte della prestigiosa collana dello
Specchio o di stimolo verso altri autori a sua volta oggetti di studio fin
dalla tesi di laurea, come Nelo Risi, presente nella sua dissertazione
assieme ad Andrea Zanzotto, relatrice Ines Scaramucci, facoltà di Lettere
alla Cattolica di Milano: La poetica di Risi e Zanzotto in prospettiva
post-ermetica. Lacerti di questo lavoro, ritoccati e dapprima pubblicati
in rivista possono leggersi ora, con altri interventi sugli autori suddetti,
nel libro di critica Cronache del Novecento3. L’esempio di Risi, il quale
afferma nella sua nota conclusiva di Altro da dire che il libro «è nato su
sollecitazione di Maurizio Cucchi che ha sempre dimostrato un’affettuosa
attenzione per la mia poesia»4 non è certo isolato; altro discorso
inoltre riguarda la valorizzazione di autori divenuti poi dei punti fermi
nel quadro della poesia contemporanea, come Giampiero Neri, che
Cucchi ha contribuito a far conoscere e a valorizzare.
Tralasciando tutto ciò, che è collaterale ma certamente significativo
per definire la personalità e la statura dello scrittore milanese (ed uso
questo termine più onnicomprensivo pensando anche ai vari romanzi
pubblicati), bisogna sottolineare che il volume riassuntivo mondadoriano
citato dà la possibilità di uno sguardo complessivo sulla produzione
poetica di Cucchi. Esso offre finalmente al lettore l’occasione di
cogliere, rispetto al precedente Oscar mondadori Poesie 1965-2000,
pubblicato nel 2001, l’importanza delle tre raccolte maggiori degli anni
duemila, che inaugurano una nuova fase nello stile e nel linguaggio
del poeta milanese, che si fanno più diretti, meno oscuri e più prensili
verso il reale, in una sorta di trilogia costituita da Per un secondo o un
secolo (2003), Vite pulviscolari (2009) e Malaspina (2013). I temi abbracciano
la contemporaneità nei suoi molteplici aspetti, tra cui quello
centrale sembra essere la decadenza degli oggetti – quindi dei loro
possessori – nello sfrenato consumismo di oggi. Oggetti porosi e ruvidi,
carichi di senso nella società contadina o paleoindustriale, antecedente
a quella del miracolo economico, presenti nella memoria dell’infanzia
dell’autore; oggetti che erano un tempo attaccati alla pelle del
possessore come la benda elastica del padre di cui si parla anche nella
2 Milano, Mondadori, 2018.
3 Cfr. M. Cucchi, Andrea Zanzotto: la “Beltà” presa a coltellate, «Studi Novecenteschi
», (IV) 1974, nn. 8-9; Il primo Risi in «Paragone», (XXVI) 1975, n. 310, ora in Id.,
Cronache del Novecento, a cura di Valeria Poggi, Roma, Gaffi editore, 2010, rispettivamente
pp. 3-41.
4 Cfr. Nelo Risi, Altro da dire, Milano, Mondadori, 2000, ora in Id., Di certe cose
(poesie 1953-2005), Milano, Mondadori, 2006; la citazione è a p. 412.
[ 3 ]
176 carlangelo mauro
Maschera ritratto5, adesso, divenuti scivolosi, lucenti e spettacolari nella
produzione neocapitalistica e nella globalizzazione, sono destinati a
non raccontare più nulla dei loro proprietari, finiscono in «un oceano
sgargiante di immondizia», come si dice nella sezione Il denaro e gli
oggetti di Per un secondo o un secolo. Nell’ultimo Paradossalmente e con
affanno, l’«alloggio perfetto» con oggetti, come in un quadro che potrebbe
recare questo titolo o come in una fotografia minimalista, sembra
coincidere con la scena di un film del ‘56 di Stanley Kubrik, Rapina
a mano armata, interpretato da Sterling Hayden, «idolo di allora» del
narratore, che recupera con questo sintagma un frammento del tempo
perduto: «“L’alloggio perfetto”! Lo so, non riuscirei a starci… Ma ogni
oggetto sarebbe un oggetto d’uso carico di senso, impregnato della
traccia necessaria delle nostre mani, del nostro odore. Ogni oggetto
pieno di noi e necessario…», si legge nel prosimetro La sciostra. È con
la trilogia sopra citata che si realizza il frutto di uno scavo interiore,
nel quale la ricostruzione archeologica, freudianamente, del proprio
passato approda con Malaspina ai luoghi dell’infanzia, al Cortile delle
giovani mamme, titolo di una sezione del volume; scavo che fa da pendant
alla discesa nel buco nero, nel maelstrom di Vite Pulviscolari
(2009), alla luce delle più recenti teorie cosmologiche, in un rapporto
tra letteratura e scienza decisamente denso di contenuti, tra Edgar Allan
Poe e Stephen Hawking. Ma se qualche informazione integra può
salvarsi dal buco nero o dal gorgo, ecco riaffiorare messaggi e relitti
riportati dall’inconscio; le macchine «movimento terra», in Malaspina,
scavano profondamente, in una «verticalità abissale» (Bertoni), alla
ricerca di vermi e di forme esili di vita, alla ricerca della terra più antica
nell’amata Milano, madre e cuore pulsante di un discorso che si fa
collettivo, poiché nel «tempo […] giacciono strati, subsidenze, depositi
/ di inesplorata materia remotissima». E questo termine, deposito,
che contiene materia molto remota, non è certo casuale. L’Oscar Mondadori
più recente contiene, infatti, anche alcuni testi come il citato La
sciostra del 2013, «sciostra» che significa appunto magazzino, sorta di
deposito di antica memoria, che nella stesura più ampia del prosimetro
è presente nell’ultimo Paradossalmente e con affanno e forse ne costituisce
uno dei testi più significativi. La raccolta einaudiana è particolare
proprio perché da un lato ci interroga sull’origine della scrittura
di Cucchi, presentandoci la scintilla da cui è partita un percorso così
ricco e significativo, dall’altra mette in opera quel cortocircuito di cui
5 Milano, Mondadori, 2011.
[ 4 ]
sull’ultimo cucchi. ritorno alle origini senza affanno 177
ha parlato opportunamente Roberto Galaverni6: «credo che il senso
del libro sia anzitutto nel cortocircuito temporale e poetico che si crea
tra il movimento in avanti dei testi giovanili è quello retrospettivo del
poemetto conclusivo».
Un percorso lungo, quello di Cucchi, dal 1963 ad oggi, che come
ogni attività umana non può non essere segnato dall’«affanno», dal
dolore, e per chi scrive dalla poesia come antidoto, o come «misura
d’igiene», per dirla con Svevo, soprattutto dall’alimento della lettura
dei classici; nella giovinezza, come ha dichiarato il poeta in una intervista
a Rai Radio 3, programma Fahrenheit (reperibile in rete), la lettura
di Kafka, in particolare, e della narrativa di primo novecento
(Proust, Musil, Joyce), si è posta come esercizio vitale, anzi letteralmente
era «l’unico spazio vitale in un momento che per me non era
particolarmente felice». In una sorta di auto-introduzione al volume
Paradossalmente e con affanno, intitolata Un ragazzo nel ‘65, l’autore parla
del girovagare per Milano senza meta di quel ragazzo di circa
vent’anni (Cucchi è nato nel ‘45) che si concludeva poi, inevitabilmente,
nell’approdo alla biblioteca Usis di via Bigli per studiare Eliot e
Pound. Eliot certamente è stato uno dei primi modelli, come Cucchi
ha affermato in più di una intervista, e in modo più diretto in un articolo,
«terza puntata della nostra biblioteca d’autore», opportunamente
richiamato da Bertoni nella introduzione all’Oscar, apparso su «Tuttolibri-
La stampa» il 20 luglio 2002. La lettura del Canto d’amore di J.
Prufrock di Eliot segna profondamente il ragazzo alla ricerca di Modelli
della storia della poesia, per quella presenza della quotidianità
all’interno di una ricca, ma non enfatica, elaborazione formale; quel
ragazzo alla ricerca, viene da chiosare, dell’inserimento di quel ‘pedale
basso’ nella resa del testo poetico, che, per una scelta etica, prima
che letteraria, di non retorica essenzialità del dire, Cucchi autore ha
poi inseguito per tutta la sua vita. In questo stesso articolo del 2002,
che insieme alle altre ‘puntate’ dà una bussola d’orientamento sulle
letture dei classici e sulla formazione del poeta – vale la pena quindi
di ritrovare e di rileggere tutti gli articoli della serie – Cucchi parla di
Rimbaud, «il vagabondo capace di mettere i piedi (“Au cabaret vert”)
sotto un tavolo di osteria e godersi la meravigliosa sospensione di una
sosta davanti a un semplice piatto di prosciutto. Ma anche di sognare
una dolcissima fuga d’inverno in un vagone rosa (“Revé pour l’hi-
6 Il magazzino sul Naviglio conserva le rime di 50 anni fa, «La Lettura-Corriere
della sera», 2 luglio 2017.
[ 5 ]
178 carlangelo mauro
ver”)». Compare qui il termine «sospensione», che, con la sostituzione
dell’aggettivo «meravigliosa» con «felice», ritorna undici anni più tardi
nel prosimetro scritto nel 2013, La sciostra, che conclude Paradossalmente
e con affanno; in posizione strategica quindi, come è noto, quella
dell’explicit del libro. Il concetto di sospensione, per di più, segna una
doppia conclusione, macrotestuale e microtestuale, con un lacerto di
prosa che fa da cerniera tra le due ultime parti in versi del prosimetro:
«Sarà stato un momento di ingenua sosta pacifica, senza nessuna volontà
di senso. Una specie di ordinaria rêverie, insomma. Un momento
di sospensione felice, che ormai è quasi una mia ossessione, ma che
ogni tanto mi riappare e mi consola» (corsivo mio).
Il termine «sospensione» è richiamato nella già citata intervista a
Fahrenheit, in cui il poeta spiega come questo attimo di felicità, di
perfetta armonia con le cose e gli oggetti semplici, con la realtà intorno
costituita da un magazzino lungo il Naviglio, che è in realtà una vecchia
baracca immaginata come «sciostra» – termine che significa, come
detto, magazzino di merci e che Cletto Arrighi indica trovarsi presso
i Navigli – sia una esperienza collegata al concetto di ‘decrescita
felice’ (Latouche), di semplificazione della vita individuale e sociale.
Affermazione che si pone in contrasto – ma la dialettica ‘paradossale’
in Cucchi non riguarda solo l’antico titolo oggi rifunzionalizzato – con
quella di «eroe del consumismo» nell’intervista rilasciata a Vincenzo
Pezzella in Il viaggiatore di città7 e che è il sottofondo di quella meraviglia
estatica del soggetto che si aggira tra l’opulenza esibita e oscena
delle merci cittadine in Per un secondo o un secolo. La scena contenuta
nella poesia di Rimbaud Au cabaret vert, con l’io lirico beato con le
gambe sotto il tavolo dell’osteria dopo un lungo cammino, viene richiamata
ancora nell’intervista rilasciata a Fahrenheit, a ribadire il valore
della sospensione del tempo che equivale ad uno stadio di felicità
come sosta, uscita dall’«affanno» del futuro, un’immersione nel presente,
quindi una autentica riappropriazione del tempo contro la precarietà
che ci minaccia nel godimento della semplicità. Si possono associare
alla «sospensione felice» una ‘decrescita’ che passa attraverso
la frugalità del cibo stesso, una radice di terra, e la sua degustazione in
una immobilità placida e sorniona, di cui si legge in un frammento
giovanile pubblicato nel primo Oscar Mondadori del 2001, in versione
ridotta rispetto all’ultimo Paradossalmente e con affanno:
7 M. Cucchi, Il viaggiatore di città. Intervista e videoritratto, a cura di Vincenzo
Pezzella (con DVD), Milano, Archivio Dedalus Edizioni, 2001, p. 17.
[ 6 ]
sull’ultimo cucchi. ritorno alle origini senza affanno 179
[…] Cuoci in pentola
questa sola radice ricoperta di terra
e con occhio furtivo
affettala nel piatto fondo
e degustala lentamente, religiosamente
con un fare sornione di complicità ostentata.
La versione di questo testo nella raccolta einaudiana permette di
cogliere un’antinomia sottile tra il «giovin signore» del Giorno del Parini,
scialacquatore senza etica, e il «giovine dabbene», che non deve
«sciorinare» la «tovaglia […] in briciole», anticipatore del personaggio
del Disperso che conserva «le briciole nel taschino», «giovine dabbene»
che si ciba dell’essenziale, delle rizomata che poi lo costituiscono come
personaggio semplice, edenico, un pellegrino che cammina alla ricerca
della sosta felice e della sacra frugalità, «figlio del ciottolo» che consuma
il piede e mangiucchia:
Cuoci in pentola
giovine dabbene
custodisci il vapore e la fiamma
e sorridi
le maniche rimboccate. Tu saprai
certamente come noi tutti siamo
ugualmente figli del ciottolo
che il piede smozzica
del bubbone rosso
che il volto ci beffeggia.
La tua tovaglia a grossi quadri
bluarancio non sciorinare in briciole.
Accosta ogni volta con ansia
al palato la cucchiaiata.
Cuoci in pentola
giovine dabbene
questo sola radice ricoperta di terra
o con occhio furtivo affettala
nel piatto fondo e degusta
lentamente
religiosamente
con atteggiamento sornione di complicità ostentata.
E in questo ambito di semplicità e di frugalità, il lettore di Cucchi
può cogliere, nel testo giovanile, un altro legame con la produzione
futura, con la figura balzachiana del cretino di campagna che dal Di-
[ 7 ]
180 carlangelo mauro
sperso giunge a Per un secondo o un secolo attraverso il personaggio di
Giuseppe, il Pinìn, che «chino, sul piatto» mangia «di gusto» nella raccolta
Le meraviglie dell’acqua (1980). Figura il cui lato grottesco, anche
fisicamente, è inversamente proporzionale alla sua nobiltà interiore,
secondo Francesco Patrucco, che ha scritto un saggio molto interessante
al riguardo: «Il cretino è una figura edenica, è la proiezione di un
desiderio di purezza»8. Il ritratto del cretino con «camicione» è presente
in L’ultimo viaggio di Glenn nella sezione Rutebeuf, liberamente ispirata
al poeta medievale francese, che delinea una «figura che ne contiene
tante altre; cioè è il poeta naturalmente, ma è anche l’untore, il lebbroso,
il cretino». Il ritratto esprime una «mitezza sognante», mitezza associata
ad una nobiltà interiore, nobiltà fondata sulla semplice istintività,
aliena dall’adeguamento alla ‘rettorica’, penso a Michelstaedter, o
alla nuova ‘rettorica’ della ovattata società borghese costituita da un
personaggio come Auteil nel film Caché, citato in Paradossalmente e con
affanno: intellettuale «arrogante, socialmente superiore…Diciamo meglio:
totalmente a sua volta ridotto in società». Come a dire, ridotto in
servitù… In L’ultimo viaggio di Glenn leggiamo:
Indossa un camicione che gli arriva
ai piedi nudi. È piccolo
come un fanciullo, e ha le dita
intrecciate sul petto,
quasi in preghiera.
Con la sua faccia tonta
e il naso trilobato
mi dà un’idea di mitezza sognante
e di una nobiltà interiore un po’ animale.
Per molto tempo ho guardato la figura
e ho riso.
Ora non più.
Giuseppe, che si colloca in tale contesto della ordinaria specialità
del ‘cretino’, nel poemetto omonimo delle Meraviglie dell’acqua lascia
la città per andare a vivere in campagna, mutatis mutandis si comporta
un po’ nella sua fuga, nel suo ritiro, come Vitangelo Moscarda di
Uno, nessuno e centomila. Vitangelo indossa anche lui un ‘camiciotto’;
abbandona lo spazio della finzione sociale e della «maschera», dell’identità
e del nome, per riscoprire, in alternativa, l’autenticità del con-
8 Francesco Patrucco, L’immagine del “cretino” nella poesia di Maurizio Cucchi,
«Critica letteria», (XXXVII) 2009, n. 142, p. 137.
[ 8 ]
sull’ultimo cucchi. ritorno alle origini senza affanno 181
tatto con se stesso e con la campagna. Ma qui le differenze nella concezione
della natura rispetto al personaggio delle Meraviglie dell’acqua
e della Sciostra sono evidenti: «Per carità, niente campagna, o ritorno
alla natura, quella feroce pianta carnivora», dice il narratore
della Sciostra che ripensa e riprende il suo personaggio delle Meraviglie,
commentando in prosa i suoi versi di allora. Nel personaggio di
Giuseppe, inoltre, si tratta soprattutto di un allontanamento dal centro,
dalla città, per un lavoro, che si fondi sulla «ritrovata manualità».
In Uno, nessuno e centomila simile allontanamento – «la città è lontana
» dice Vitangelo – conduce ad un diverso attimo di ‘sospensione
felice’, ad una vera e propria estasi panica che finalmente può realizzarsi
nell’armonia con la natura: «Quest’albero, respiro trèmulo di
foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento:
il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo»9. Ma
anche in questo caso, se vogliamo, l’appagamento è nella ‘decrescita’,
nello spogliarsi del superfluo, indossando il «camiciotto» dell’ospizio,
dei pazzi e dei mendicanti, che richiama in quanto a semplicità il
«camicione» dei «cretini», nel ritratto della poesia sopra citata, ispirata,
come dice l’autore nelle note a Per un secondo o un secolo, alla illustrazione
della voce «idiotismo nel Dizionario di cognizioni utili (Vol. III,
Utet, 1924). La didascalia dice soltanto: “un cretino”». E l’appagamento
del ‘cretino’ in Cucchi è nelle piccole cose, in un ambiente e in
un cibo semplice, come quello di Giuseppe, il «Pinìn», nel poemetto
omonimo dell’80, modello del narratore-protagonista del prosimetro
La sciostra:
E allora ho pensato ad un personaggio, con un bisogno crescente di
viva frugalità, di ritrovata manualità a contatto diretto con le cose. Così
ne ricordavo l’ambiente e le occupazioni:
Attorno, nei pochi metri quadri,
operazione al sole.
Con cura elementare alle patate, i pomodori.
Muovendo col badile, dissodando
osserva con ribrezzo il guizzare di grossi lombrichi,
rossi, disperati. Non lontano le fragole
mature, spettacolari in primavera, i ciuffi interi, grappoli
dolcissimi di ribes, a confine…
9 Luigi Pirandello, Uno nessuno e centomila, in Tutti i romanzi [1973], a cura di
Giovanni Macchia, Milano, Mondadori, II, 1998, cfr. p. 902 e p. 901.
[ 9 ]
182 carlangelo mauro
Mentre puntiamo l’attenzione su questa «viva frugalità», evidentemente
derivata dal Latouche dell’«abbondanza frugale» e sulla «ritrovata
manualità», proveniente da chi ha anticipato il pensiero di Latouche,
Ivan Illich, la cui Convivialité era stata tradotta, prima edizione
italiana, proprio da Cucchi, nel lontano 1974, per Mondadori, facciamo
un passo indietro ricordando ancora il personaggio lirico in Al cabaret
vert di Rimbaud, seduto davanti ad un prosciutto bianco e rosa
con i piedi stanchi, dopo otto giorni di viaggio, sotto il tavolo verde di
una osteria, con una coppa in mano di vino spumeggiante che gli viene
offerta da una ragazza dai «seni enormi» a Charleroy. Una creativa
traduzione del testo di Rimbaud, Cucchi ne aveva dato in Per un secondo
o un secolo – «huit jours» dell’originale diventa «una settimana»,
Charleroy diventa semplicemente la «città», quasi che l’ambientazione
fosse milanesizzata: Milano, la città per antonomasia per il Cucchi
viaggiatore – testo originale e traduzione che vengono citate nell’intervista
rilasciata a Fahrenheit, a riprova dell’ossessione «che ogni
tanto riappare e consola» della «sospensione». Cucchi definisce infatti
nell’intervista quella scena di Rimbaud, fatta propria, come un momento
di «totale sospensione, in armonia con ciò che sta intorno», sospensione
che può restituirci un attimo di piena felicità.
Da Rimbaud
Al Cabaret Vert
le cinque della sera
Camminavo da una settimana e le mie scarpe erano a pezzi.
Sono entrato in città e al Cabaret Vert
ho chiesto pane, burro e prosciutto tiepido.
Ho steso le gambe sotto il tavolo verde, beato,
e ho contemplato i disegni infantili della tappezzeria.
Ma che incanto quando la ragazza dai seni enormi e dagli occhi acuti
mi ha portato il prosciutto in un piatto colorato!
Il prosciutto rosa con uno spicchio d’aglio profumato
e mi ha riempito un boccale immenso con la sua bella schiuma
dorata da un ultimo raggio di sole.
Il personaggio di Giuseppe nella Sciostra parte alla ricerca di frugalità
e di essenzialità, di tutto ciò che è necessario contro il superfluo
per una ‘decrescita felice’; vuole cambiare casa, il che equivale di riflesso
a cambiare identità. C’è in tutta l’opera di Cucchi il ‘giocare’
creativamente con l’identità per un’autobiografia fittizia, come è detto
in Per un secondo o un secolo:
[ 10 ]
sull’ultimo cucchi. ritorno alle origini senza affanno 183
Perché tutto sia chiaro, quel che segue
sono io, il mio diario, la mia autobiografia.
Io, cioè un personaggio, un’identità
fittizia: Rutebeuf, Malone, Prufrock
o quel che resta di Icio, nato
e vissuto sei anni al Cairo.
Dietro il ripensamento del personaggio di Giuseppe c’è una storia
lunga di ‘maschere’, quindi. La ricerca di una «dimora felice», fatta di
«mura umanamente anonime», attraversa «i vecchi borghi di una volta
», Gorla, Crescenzago, o la periferia industriale della Bovisa; Giuseppe
vede la cascina Moncucco, la cascina di Villa Linterno, luoghi
che sono familiari al lettore che voglia ripercorrere con la memoria la
produzione di Cucchi. La Bovisa, ad esempio, è presente nella sezione
Al Cairo di Poesia della fonte (1993), in cui è anche Villa Linterno, dove
soggiornò il Petrarca, nella poesia Ho bussato per la seconda volta; ma il
«viaggiatore di città» di Poesia della fonte è il protagonista assoluto delle
prose di La traversata di Milano10.
Dopo aver pensato ad altre cascine e a vari borghi rurali, il personaggio
narrante nel prosimetro sceglie di approdare alla Martesana e
si accomoda, dopo il suo peregrinare, sulle sedie bianche all’aperto sul
Naviglio, presso quella che crede una «sciostra», davanti ad una bottiglia
di vino bianco su un tavolo rotondo con un libro in mano. Il cromatismo
non è casuale: il bianco contro il verde, il candore, la purezza
del ‘cretino’ che ritorna ad una situazione di semplicità in perfetta solitudine,
e il verde cupo delle acque del canale, è detto dopo, che richiama
il colore caratterizzante il testo di Rimbaud:
Mi sono visto, felice abitatore
della sciostra, seduto in primavera
lì all’aperto, su quelle sedie
bianche di metallo da giardino,
con una bella bottiglia di vino
bianco sul tavolino rotondo
e un libro in mano, da posare
ogni tanto, in pace […].
Il pellegrino «beato», seduto, capace di gustarsi il riposo della sosta,
l’attimo di sospensione di fronte ad un cibo semplice, in Rimbaud,
e il «felice abitatore della sciostra» che cerca una nuova casa e la trova
10 Milano, Mondadori, 2011.
[ 11 ]
184 carlangelo mauro
nella «residuale dimora felice», residuo di una esistenza autentica fondata
su una vita confortevole seppur frugale, sono vicini. «Residuale»,
vale a dire ciò che oggi rimane di un’esperienza a misura d’uomo.
Viene in mente l’insistenza in certe pagine di Moravia sul termine «residuo
»: «Ciò che impedisce e impedirà il trionfo dell’automatismo e
dell’assurdità è che l’impiego dell’uomo come mezzo, al contrario di
quanto avviene con tutti gli altri mezzi, dalla pietra all’animale, lascia
sempre un residuo; e che questo residuo non pare poter essere utilizzato
a sua volta come mezzo»11.
Il residuo è anche ciò che resta di un mondo passato come quello
della «sciostra» sul Naviglio, che non può non richiamare simbolicamente
il tempo lontano dell’infanzia. La ‘decrescita’ per l’abitatore di
essa è anche un ritorno ad un tempo felice (in Paradossalmente e con
affanno è scritto: «Solo bruciando bruciando / tutto il superfluo sarà
possibile / un passo a ritroso»), in cui il petit pouchet può tornare
momentaneamente a casa, alle origini, grazie alle briciole, esempio di
frugalità, conservate nella tovaglia a quadri, o «nel taschino del gilè»
come nel Disperso o, ancora, con i residui di memoria familiare che
nella Maschera ritratto, dopo un lungo viaggio, lo conducono dal nonno
Alfredo Gandolfo fin in Sicilia. Il protagonista può riappropriarsi
di una dimora grazie alla semplicità in cui ha vissuto la sua infanzia e
adolescenza «affannate» e, «paradossalmente», può rifiutare, in un attimo
di sospensione, in un stadio onirico, la realtà dinamica e industriale
di Milano, uscendo dal centro, «dai luoghi delle decisioni», per
riandare all’ambiente umile della periferia. E qui Latouche che ha ispirato
la Sciostra si può incontrare con Bachelard, richiamato in epigrafe
al Disperso: «Anche la mucca ha il suo principio d’interiorità. Esige
una casa, l’ambiente modesto e segreto dove l’inconscio vive» (corsivo
mio); discorso, quello di Bacherlard, che da un lato si riferisce ad uno
studio di Charles Baudoin, Statistique agricole de la France (1937), per i
luoghi adatti alle mucche per la migliore produzione del latte, dall’altro
a Henri Bachelin, Le serviteur (1918), il racconto in cui il protagonista
ricorda il padre, contadino e sagrestano, soprattutto l’umile casa
dell’infanzia nella «petite ville» di Larmes cui ritorna, casa che proprio
per l’ambiente modesto, con il solaio pieno di topi, invitava al
sogno12. Il sogno, lo stadio di sospensione onirica, il lavorio dell’inconscio,
producono un momento di felicità, di armonia piena con le cose,
11 Alberto Moravia, L’uomo come fine [1963], Milano, Bompiani, 1980, p. 130.
12 Cfr. Gaston Bachelard, Il diritto di sognare [1970], Bari, Dedalo libri, 2008,
p. 181; mi sia permesso di rinviare a Carlangelo Mauro, ‘Liberi di dire’: «Il disper-
[ 12 ]
sull’ultimo cucchi. ritorno alle origini senza affanno 185
proprio perché tutto ciò corrisponde ad una avventura interiore, ad
una dimensione di recupero dell’infanzia, del passato che si fa presente
e futuro in una congiunzione con il proprio inconscio in cui le tre
dimensioni temporali convivono nello stesso istante. Un simile stadio
onirico lo prova anche l’uomo della Bovisa nella Poesia della fonte,
guardando «la muta dignità delle rovine» paleoindustriali nella periferia
milanese, le «torri di mattoni», sostituti o surrogati degli elementi
naturali, gli alberi, raggiungendo la felice estensione inconscia
dell’oblio sognante, sorta di sospensione onirica:
In un oblio forse sognante, quei diroccamenti
e le navate al sole o nella palta,
gli immensi alberi strani contro il cielo, nelle refezioni,
gli insegnano la muta dignità delle rovine.
Il cercare questi spazi periferici tramuta il pellegrino, o «il disperso
», nell’abitatore di una dimora umile, luogo proprio di uno spazio
orizzontale, antipetrarchesco, di produzione di una poesia del quotidiano,
prosastica. Tale dimora è anche quella della «sciostra» e dello
spazio circostante ad essa da cui la si può contemplare; «in pace», finalmente,
lo sguardo trasognato può vedere quello che l’inconscio gli
dice di vedere («Mi sono visto, felice abitatore») stando presso il Naviglio
con le sue «basse acque verde cupo», luogo di modesta bellezza
ma che induce al sogno in quanto luogo ritrovato. In realtà l’uscita dal
tempo presente equivale anche ad un «tempo ritrovato», sintagma
troppo chiarificatore e proustiano presente nella prima edizione del
Disperso che viene eliminato nelle successive edizioni13. Il cronotopo
dell’infanzia individuale, che può porsi ad un secondo livello anche
come spazio sociale di ‘decrescita’, porta a nient’altro che ad un magazzino
di merci umili ed essenziali, «legna, calce e tegole» ma anche
di «materiali da fabbrica». Un magazzino, la «sciostra», cui è collegato
tutto il mondo del lavoro manuale, della possibilità per l’essere umano
di usare gli strumenti, dal badile al cacciavite, di usare le mani; il
contemplare questo deposito, sognare di abitarvi, sceglierlo come «residuale
dimora felice», da parte del personaggio che dice io, ci spinge
a soffermarci sulla pregnanza di certi espressioni già notate. ‘Residuaso
» di Maurizio Cucchi, in Liberi di dire. Saggi su poeti contemporanei, Avellino, Sinestesie,
2013, p. 135.
13 I l sintagma compare parenteticamente, come domanda retorica, nell’incipit
della terza parte di Libretto personale: «È come riassumere, rivedere…(il tempo ritrovato?)
», cfr. M. Cucchi, Il disperso, Milano, Mondadori, 1976, p. 55.
[ 13 ]
186 carlangelo mauro
le’ richiama anche il «residuo capannone» di via Candiani nominato
prima nel prosimetro, ma il termine ricorre in diverse altre poesie di
Cucchi. Leggiamo dal Disperso (corsivo mio):
– Figurati,
mi sono ripulito, tolto di dosso
l’odore che mi piaceva di sentirmi; tagliato con una certa cura
le unghie dei piedi, cambiato maglia, gialla di sudore.
Certo che avrò qualche residuo, qualche detrito, che so,
sabbia dentro i risvolti… sassolini o altro […].
Ritroviamo «residuo» in un brano di Per un secondo o un secolo nella
sezione Rutebeuf, quando il soggetto a letto sfrega il piede contro il
lenzuolo di lino o tocca con la bocca il lattice del cuscino riscoprendo,
nel dormiveglia, in uno spazio comunque onirico, un momento di
‘esperienza viva’, di contatto con materiali semplici e naturali che permettono
di gustare il «residuo» di una dimensione di autenticità:
sognando l’eterna piuma in un residuo
minimale di esperienza viva, ma capace
ancora di muovere un incontro,
nobile attrito nel corpo che giace.
Tali movimenti impercettibili del corpo, come in sogno, equivalgono,
attraverso la semplicità del contatto con oggetti e materiali, ad un
ritorno al passato rivissuto nella pienezza del presente. Ritorno, nella
revêrie, di personaggi che lavorano manualmente la terra come Giuseppe,
balzati davanti agli occhi dalle proprie opere passate, o di operai
visti nella propria infanzia – «tute di operai / giovani, sporchi di
fuliggine e di gesso» in Vite pulviscolari – visti soprattutto, ne L’ultimo
viaggio di Glenn (1999), nell’«officina sotterranea» di Luigi Cucchi, elemento
di una geografia della mente, propriamente di un «borgo della
mente», perenne dimora, fonte di ispirazione, come quando il poeta
scrive Poesia della fonte (1993), contemplando la «desolazione onirica»
di quei luoghi:
Ma il borgo della mente è fonte fissa,
muri di via Varé, di via Candiani,
tra le pozzanghere, i cortili e l’officina
di Luigi Cucchi.
Via Verità, e la desolazione
onirica del borgo […].
[ 14 ]
sull’ultimo cucchi. ritorno alle origini senza affanno 187
Si badi che via Candiani ritorna in La sciostra: «Lungo la via Candiani
ho ammirato vecchie case, qualche residuo capannone, il campetto
della Garibaldina, la giungla di una vecchia fabbrica, i depositi,
verso i quali ho un misterioso debole». «I depositi», appunto, di cui la
«sciostra» è un lontano antesignano.
Tutto ciò allora è un viaggio nel proprio passato o in quello di generazioni
di umili che avevano un contatto con il lavoro manuale –
non impossibile regressione ma riflessione sul paradosso cui siamo
giunti di essere servi degli strumenti, come afferma Illich – se il «viaggiatore
di città» di Poesia della fonte, che «si crede indifferente, estraneo,
/ ma qualche volta lo prende la memoria, / lo turba un sentimento
dissepolto», è proprio colui che disseppellisce le rovine, i rottami, i
residui. Il ritrovamento dei testi giovanili, che vale anche come un ripercorrere
i propri ricordi, è il recupero di una storia individuale e
collettiva, segnata dal poco da risparmiare e custodire fino alla fine,
sacra frugalità quindi che è alla base, come proiezione, del recente La
sciostra:
Un vestito di porpora
e cucito con cura
procurati anche tu, o Sabatino,
e conservalo riposto
nel tuo armadio di legno
per il giorno importante.
Come la nonna una volta sai
risparmiava quel poco
per potersi permettere
una funzione o un feretro
– o Sabatino –
dignitosi.
La memoria di officine sotterranee, il sogno di magazzini-depositi,
sono il residuo, ciò che rimane e che è anche ciò che sta sotto, che è
raggiungibile con uno scavo della memoria; è detto nel libro, spiegando
l’etimologia del termine «sciostra»: «dal latino sub strata (sotto la
strada), visto che il luogo tipico della sciostra erano gli scantinati lungo
i Navigli». Di una discesa nel passato si tratta, nelle profondità
dell’essere per potersi riappropriare del proprio presente e viverlo serenamente,
felicemente. Ciò dà una dimensione di verità al poemetto
e al suo protagonista, oltre la consapevolezza intellettuale, che entrambi,
è detto esplicitamente nella parte in prosa, sono anche «una
[ 15 ]
188 carlangelo mauro
falsificazione letteraria dell’idea, dell’aspirazione a una frugalità con i
suoi dolci comfort», quindi della ‘decrescita felice’.
La «sciostra» che tanto attira l’attenzione del viaggiatore, che finalmente
si ferma dopo il suo peregrinare, fisico e mentale se con la mente
poco prima va a Monluè e a tante altre cascine, conterrà, ad un secondo
livello di lettura, casse e merci non troppo dissimili, potremmo
dire, da quelle immaginate da Dino Buzzati in un suo racconto molto
bello, I giorni perduti, nel quale il protagonista pensa di essere derubato
da un signore che scarica casse dalla sua casa, che egli suppone
piene di merci, ma che custodiscono, invece, ben altro: i fotogrammi
dei ricordi e le possibilità di vita che egli avrebbe potuto vivere e invece
non ha vissuto. È lui quindi il ladro di se stesso poiché ha perso il
suo passato e le occasioni di una esistenza più autentica14. La «modesta
resilienza del soggetto», come si legge nella Sciostra, è al contrario,
una positiva, umile riappropriazione del passato nell’attimo presente,
superando i traumi, anzi partendo proprio da essi, per riorganizzare,
con l’immaginazione, un nuovo progetto di vita. È questa «resilienza»
che conduce mentalmente alla «dimora felice», dimora reale, certo,
contornata da oggetti, dal tavolino alla bottiglia di vino bianco, ‘adornata’
dalle merci depositate, ma magazzino in cui si vorrebbe abitare
soprattutto come proiezione mentale: la «sciorta» frutto quindi
dell’immaginazione, della revêrie, ha ovviamente un significato altro,
come si è cercato di dire. È come se il freudiano «magazzino del rimosso
» si trasformi in una rappresentazione creativa in senso junghiano,
attivandosi l’energia psichica dell’inconscio. Simile processo, con l’approdo
momentaneo alla «quiete naturale» che è nuova consapevolezza
di vivere di fronte alla morte, è mostrato con chiarezza in una delle
pagine più belle di Malaspina (corsivo mio):
Ed ecco allora che – magari per qualche minuto o per qualche
ora soltanto – entriamo in una specie di armonia con l’universo
nel quale ci troviamo. E così, anche se sappiamo di esserci
per poco, caduchi e transeunti, di passaggio verso la fine, finiti
nella finitudine, diciamo sì, restiamo come sospesi in un’atmosfera
di quiete naturale, in pace.
Dal ‘magazzino’ in cui l’autore ha custodito l’affanno, il dolore di
Icio, «nato / e vissuto sei anni al Cairo», o di Sabatino, come anche la
«malattia di Pietro» nel romanzo giovanile, ha origine il paradosso di
14 D. Buzzati, Le notti difficili, Milano, Mondadori, 1971, pp. 18-20.
[ 16 ]
sull’ultimo cucchi. ritorno alle origini senza affanno 189
continuare: l’«ora adatta per morire» di un «mattino primaverile», in
Primavera ‘67, un altro testo di Paradossalmente e con affanno, si ribalta
nell’ora della stessa stagione in cui il «felice abitatore della sciostra»
seduto en plein air assapora «le radici» della vita segnata dagli attimi
di una sospensione felice e sognante. Il peregrinare tenace, il gioco di
specchi di varie identità e di personaggi, l’affiorare delle memorie, nel
corso dell’opera creativa, conducono l’io fino al tempo ritrovato di un
faccia a faccia con quel ragazzo «mite e malinconico che girava incerto
per le strade del quartiere», ritorno alle origini della propria dimora.
Carlangelo Mauro
Università L’Orientale-Napoli

Francesco Tateo
Fortuna di un (presunto) errore testuale: Aulo Gellio,
1, 23, 8; Giovanni Pontano, Aegidius, 44
Ai momenti più alti e articolati della critica letteraria e filologica nell’Umanesimo
appartengono, com’è noto, i Dialoghi di Giovanni Pontano,
dove lo spirito antigrammaticale (e antiscolastico perfino nelle
forme di approccio in concorrenza con la miscellanea erudita), evidente
già in alcune scene del Charon, si manifesta in tre direzioni fondamentali:
l’analisi retorica della poesia, rivolta ora a discutere il problema
dell’uso artistico della parola, dell’imitazione degli autori e della
natura, della correttezza sintattica, come nell’Antonius, ora a esaminare
il ritmo della poesia e della prosa storica, come nell’Actius, dove si
studia la disposizione dei verba e delle res nella narrazione, ora trattare,
come nell’Actius e nell’Aegidius, delle costruzioni sintattiche, dell’origine
e derivazione dei vocaboli e del loro significato. Lo stesso modo
con cui questa gamma di argomenti e questioni viene proposta, all’interno
di un sistema dialogico che sfugge il più possibile all’esaustività
della discussione e alla normatività, e tuttavia cura il passaggio dall’uno
all’altro versante della critica, e grammaticale, e stilistica, e lessicografica
e semantica, riflette un concetto aperto e allo stesso tempo unitario
di filologia.
Il modello di questo genere critico è ovviamente molteplice: se il
dialogo sviluppa il metodo della discussione accademica ereditato dal
Panormita, tendenzialmente platonico una volta abbandonato lo schema
lucianeo, e finisce per alimentare la testimonianza dei Geniales dies
di Alessandro d’Alessandro, che ricalcano più da vicino le Noctes Atticae
di Gellio e i Saturnales di Macrobio1, non dimentica né gli elenchi
delle Origines isidoriane, né le sottili osservazioni dell’Orator di Cice-
Autore: Università di Bari; prof. emerito di Letteratura italiana; f.tateo@lettere.
uniba.it
1 Cfr. A. d’Alessandro, Giorni di festa. Dispute umanistiche e strane storie di sogni,
presagi e fantasmi, Introduzione, commento e cura di M. de Nichilo, traduzione
di C. Corfiati, Napoli, La scuola di Pitagora editrice, 2014, p. 23, 30-32.
Note
192 francesco tateo
rone, né la dialettica convergente del rinato genere umanistico del
convivio e della conversazione.
In questo crogiuolo Gellio assume un interesse particolare, non solo
perché espressamente e ripetutamente citato, sia pure più volte accanto
a Macrobio in una sorta di concordanza, nella difesa di Virgilio
fatta risalire al Panormita, ma perché, nonostante fosse accomunato ai
virgilio mastigae per averne condiviso la censura virgiliana, risulta essere
il punto di riferimento di una lettura costante e impegnata di Pontano
(espressa in questo caso dai personaggi Elisio Calenzio e Andrea
Contrario, cui viene attribuita la difesa di Virgilio dai suoi detrattori).
A questo proposito la ricerca sulla biblioteca pontaniana2 potrebbe essere
utile più che mai utilità, qualora contenesse postille dell’Umanista
sul testo gelliano, come quelle che possediamo per Plauto3. Ma
quasi una postilla al testo di Gellio è quella che può ricavarsi dall’uso
di un hapax gelliano, presunto errore che sia.
Il passo di Gellio discusso ampiamente da Pontano (Antonius, 26-
37) è dei più importanti della sua critica letteraria, perché in occasione
dei rilievi fatti dai critici antichi sulla descrizione virgiliana del fenomeno
naturale, non solo emerge la difesa della precisione naturalistica
del sublime poeta contro l’approssimativa lettura che gli rimproverava
manchevoli imitazioni da Pindaro e incongruenze, ma viene perfino
sancito il carattere eccellente della grande poesia, che non imita
pedissequamente e sbozza le immagini, piuttosto che definirle. Ne
scaturisce una sorta di elogio del “non finito” e del ‘vago’, di fronte
all’esattezza richiesta dai grammatici. Favorino, Gellio e Macrobio
concordavano invece nell’opinione che anche in questo caso le man-
2 La ricerca sulla biblioteca di Pontano ha ricevuto un’importante impulso dagli
studi di Michele Rinaldi, che ha vagliato e confrontato le varie indagini nella
prospettiva di un approfondimento (Per un nuovo inventario della Biblioteca di Giovanni
Pontano in «Sudi medievali e umanistici, V-VI 2007-2008, pp. 163-177), specie
sul versante scientifico (Per gli studi astrologici del Pontano: un autografo inedito e
quattro frammenti di traduzione dal greco nel cadice ambrosiano G 109 inf., ff. 30-32v,
«Atti dell’Accademia Pontaniana», 50, 2001, pp. 344-346), ma ha rivelato comunque
accanto alla sua importanza, le sue difficoltà. Vd. inoltre M. de Nichilo, Per la
biblioteca del Pontano, in «Biblioteche nel Regno fra Tre e Cinquecento», a cura di C.
Corfiati e M. de Nichilo, Lecce, Pensa, 2009, pp. 151-171).
3 Alcuni importanti esempi dell’interesse lessicografico e testuale di Pontano
relativo a Gellio si hanno proprio nelle postille al famoso manoscritto di Plauto
studiato da R. Cappelleto, La ‘Lectura Plauti’ del Pontano, Urbino, Edizioni Quattroventi
1988, pp. 57, 116, 120, 134, 144, 145, 258. Vd. S. Scipioni, I codici umanistici
di Gellio, Roma, Edizioni di Storia e letteratura, 2003.
[ 2 ]
fortuna di un (presunto) errore testuale 193
chevolezze di Virgilio derivassero dal non aver potuto, il poeta latino,
mettere mano alla rifinitura dell’opera4.
Un punto di questa critica sfavorevole era la contraddittoria attribuzione
alla nube del colore scuro del fumo e del colore brillante della
favilla, che avverrebbero in due momenti diversi, il giorno (αμεραισιν)
e la notte (εν ορφναισιν, nelle tenebre), come risulterebbe correttamente
dal testo di Pindaro. La parafrasi fatta da Gellio, 17, 10, 11, dei versi
dell’ode pindarica, che Virgilio avrebbe imitato, diceva:
«Iam principio – inquit [Favorinus] – Pindarus, veritati magis obsecutus
id dixit, quod res erat quodque istic usu veniebat quodque oculis
videbatur, interdius fumare Aetnam, noctu flammigare: Vergilius autem,
dum in strepitu sonituque verborum conquirendo laborat,
utrumque tempus nulla discretione facta confudit» (“Già all’inizio –
dice Favorino – Pindaro, seguendo di più la verità, disse ciò che lì avveniva
di solito e che si vedeva con gli occhi, che cioè l’Etna fumava di
giorno, e fiammeggiava di Notte; mentre Virgilio, affaticandosi nella
ricerca del fragore e del rumore, confuse i due tempi senza fare alcuna
distinzione”.
E dopo aver detto della versione grossolana di Virgilio il critico
latino aggiungeva:
Neque non id quoque inenarrabile esse ait et propemodum insensibile,
quod ‘nubem atram fumare’ dixit ‘turbine piceo et favilla candente’.
‘Non enim fumare’ inquit ‘solent neque atra esse, quae sunt candentia;
nisi si “camdenti” dixit pervulgate et improprie pro ferventi favilla,
non pro ignea et rilucenti5 (“e non manca di dire [Favorino] che è anche
assurdo e quasi contrario alla percezione del fenomeno, quel che disse,
cioè che nubem atram fumare turbine piceo et favilla candente. Infatti diceva
che non sogliono fumare né essere oscure le cose che sono incandescenti,
a meno che non disse ‘candenti’ nel senso comune e improprio
in luogo di ferventi favilla, non per dire di una favilla di fuoco e rilucente”
(Gellio, 17, 10, 18)
Nell’Antonius Pontano cita anche una traduzione latina dei versi di
Pindaro, confrontati da Gellio con quelli corrispondenti di Virgilio
4 Vd. Un’potesi di critica stilistica, in F. Tateo, Modernità dell’Umanesimo, Nuovi
paradigmi, Salerno, Edisud, 2010, pp. 110-112.
5 Gell., 17, 10, 17-18. Pontano attribuisce direttamente a Gellio il giudizio di
Favorino, riferito come evidentemente condiviso da Gellio: Pontano, Antonius,
27-36, in G. Pontano, Il dialogo di Antonio e il canto di Sertorio, a cura di F. Tateo,
Napoli, La scuola di Pitagora editrice, 2015, pp. 106-124.
[ 3 ]
194 francesco tateo
sull’eruzione vulcanica, attribuendola a Gellio, ma effettivamente non
presente nella tradizione manoscritta di Gellio, dove questi cita i versi
pindarici6.
Sane eructantur inaccessi ignis purissimi ex imi fontes, flumina vero
interdiu quidem inundant fluctum ferventem fumi. At per noctes punicea
proglomerata flammaad profundum ponti fert solum cum strepitu:
illa Vulcani fluenta serpentia emittit saevissima, monstrum profecto
tum visu, tum auditu mirabile7:
Orbene, è interessante notare come l’intero passo di Gellio, così
attentamente considerato da Pontano, contenesse un vocabolo presente
nella tradizione manoscritta delle Noctes Atticae sia nella forma arcaica
presente in Varrone e in Plauto, interdius, sia nella forma affermatasi
nell’uso classico, interdiu8.
«Interdiu (o -ius) fumare Aetnam, noctu fumigare»: nella forma interdiu
il medesimo avverbio ricorreva, contrapposto a noctu, anche
nella traduzione dell’ode pindarica citata nell’Antonius come risalente
a Gellio, e che – come si è detto – sembra ricalcata proprio sulla parafrasi
con cui Gellio dimostrava la confusione di Virgilio. L’interdum
dei versi virgiliani che si riferiva al tempo in cui si verificavano i fenomeni
(Aen., 3, 572 e 575), era per la critica riportata da Gellio il segno
della confusione del poeta latino, mentre per Pontano proprio
quell’avverbio rappresentava la dimostrazione della sapienza artistica
e naturalistica di Virgilio, che il poeta ripeteva appunto per significare
che lo spettacolo pauroso accadeva «talora», sia noctu sia interdiu,
6 Noctes Atticae, 17, 10, 9; vd. Pindaro, Pyth., 1, 21-28, Aen., 3, 570-577 e G.
Pontano, Il dialogo di Antonio e il canto di Sertorio, Napoli, La scuola di Pitagora
editrice, 2015, p. 114. Si è pensato che questa versione latina dei versi di Pindaro
derivasse a Pontano, che invece l’attribuisce direttamente all’autore delle Noctes
Atticae, da qualche edizione veneziana del critico latino che l’Umanista possa aver
avuto per le mani: J. Haig Gaisser, in G. G. Pontano, Dialogues, I, U.S.A., The I
Tatti Renaissance Librery, 2012, p. 367, n. 61. In effetti la traduzione attribuita a
Gellio da Pontano è molto vicina al testo delle Noctes Atticae sopra riportato (17, 10,
11).
7 Per la punteggiatura della traduzione adottata da Pontano, riprodotta dall’edizione
di Previtera in base alla princeps (G. Pontano, Dialoghi, Firenze 1943, p.
70), ma non fedele al testo greco cfr. la n. 60 in Antonius, cit., p. 114. Potrebbe essere
comunque un indizio per individuare il testo di Gellio consultato da Pontano.
8 I codd. Leovardiensis e Leidensis Vossianus F7 hanno interdius, accolto
nell’ediz. Marshall, Oxonii 1990 (da cui citeremo), mentre i codd. di un altro gruppo
(Vaticanus Reginensis latinus 597 e 1646, Leidensis Vossianus F112, Florentinus
Bibl. Nat. J 4 26, Parisinus Bibl. Nat. Latinus 8664) portano interdiu.
[ 4 ]
fortuna di un (presunto) errore testuale 195
indifferentemente, «ogni qual volta l’atmosfera è piena di nuvole e la
cima del monte si offusca a causa dei fiumi che emanano dall’incendio»9.
Era insomma il segno di una poetica del ‘vago’.
A noi, però, interessa l’attenzione rivolta da Pontano alla forma di
quell’avverbio; ché mentre interdiu, presente in quella traduzione di
Pindaro riportata da Pontano e attribuita a Gellio, ricorreva altre due
volta nell’Antonius (32, 64), nel Sertorius, il poemetto annesso allo stesso
dialogo, nei versi comici messi sulla bocca delll’Istrio personatus,
compariva la forma arcaica interdius («Mero potando noctu atque interdius
», v. 261), in punta al verso, quindi bene in vista10.
Nello stesso passo di Gellio compariva – come si è visto – un’altra
forma avverbiale in u, noctu; sicché quando Pontano leggeva nello
stesso Gellio una citazione del comico Cecilio, anche se non molto perspicua
«quae mihi, quicquid placet, eo privatu vim me servatum»
(Noctes Atticae, 2, 23, 10)11, poteva ben pensare che la forma privatu
fosse un avverbio latino, antico, raro, ma plausibile. Lo citava infatti
nell’Aegidius in una parte dedicata alla lessicografia e alla derivazione
delle parole, nel corso di una riflessione filosofica e semantica sul concetto
di ‘privazione’: «Tamen sic habeto hanc ipsam vocem deduci a
‘privatu’ ipsoque a verbo ‘privo’, a quo est ‘privatus’; quae vox suapte
natura adversatur ‘publico’»12 (“Abbiate tuttavia per certo che questa
voce [i.e. privatio] deriva da privatu, dallo stesso verbo privo da cui
deriva privatus; voce che, per sua natura, si oppone a publicus”). La
lezione privatu, comune agli unici due testimoni del dialogo pontaniano,
che non sono affini, e quindi rispecchiano verosimilmente la lezione
originaria13, è in effetti un errore della tradizione indiretta di Cecilio,
più che un hapax, tanto da non essere recepito dai dizionari ed essere
stato messo in dubbio dalle edizioni moderne di Gellio che hanno
tormentato con varie congetture (privat, privatus, privatum)14 il passo
9 Antonius, 27, p. 109.
10 L’edizione del Previtera (G. Pontano, Dialoghi, cit., p. 107) corregge in interdiu
la forma tramandata dall’unico testimone dell’Antonius (J. J. Pontani, Charon
Antonius, Napoli, Moravo, 1491) e che è autentica, rispecchiando la volontà
dell’autore di mettere in bocca al comico un’espressione comica.
11 La lezione ricorre concordemente nei codici Vaticanus latinus 4552, Parisinus
Bibl. Nat. 3452, Leidensis Grenovianus 21.
12 G. Pontano, Aegidius, 44, a cura di F. Tateo, Roma, Roma nel Rinascimento,
2013, p. 98.
13 Oltre la princeps il ms. Corsini 36 F 16: cfr. la Nota al testo dell’Aegidius cit.
14 Cfr. ed. C. Hosius, Teubner, 1959: «quae mihi, quicquid placet, eo † privatu
vim me servatum»;ed. J. C. Rolf, W. Heinemann, Harward 1961: «Quaen mihi
[ 5 ]
196 francesco tateo
dell’antico poeta comico tramandato da Gellio. Si può immaginare,
però, che a Pontano risultasse la sua rarità, avendolo trovato in un testo
che riportava il passo di uno scrittore arcaico; egli lo riportava appunto
per questa sua rarità e arcaicità (egli usa ripetutamente per l’avverbio
la voce latina privatim nell’Actius).
La presunta forma avverbiale, presunto errore, non è stata messa
in dubbio dalla tradizione a stampa delle opere pontaniane, che l’ha
assunta come una plausibile forma avverbiale derivante dal verbo privo
al pari dell’aggettivo privatus, nonostante si prestasse ad essere
emendata in privato (hanc ipsam formam [privationem] dedicia privato
[abl.], cioè “da privatus”), simmetrico al successivo publico (privatus adversatur
publico [dat.]); emendamento improponibile alla luce dell’accordo
di entrambi i testimoni dell’Aegidius, ma anche della tradizione,
pur forse corrotta, dell’antico scrittore latino.
Francesco Tateo
Università di Bari
quicquid placet eo primatum id me servatum velim»; ed. R. Matache, Les Belles
lettres, 1967: «Quae mihi quicquid placet eo privat. Vin me servatum?» (“elle me
reprend tout ce qui me plaît”); ed. F. Cavazza, Zanichelli, Bologna (quae mihi,
quicquid placet, eo privat. Vin me servatum?», “Lei che mi priva di tutto ciò che mi
piace. Vuoi che io sia salvo?”).
[ 6 ]
Gabriele d’Annunzio, «La miglior
parte della mia anima». Lettere alla moglie
(1883-1893), a cura di Cecilia
Gibellini, Milano, Archinto, 2018,
pp. 276.
Di Gabriele D’Annunzio e dei rapporti
con le molte donne che amò restano
fotografie, diari, biglietti, abiti,
oggetti, aneddoti più o meno veritieri.
Ma fra i molti carteggi amorosi del
Vate il più importante, probabilmente,
fu quello con l’unica donna che il
poeta sposò: Maria Hardouin dei duchi
di Gallese, impalmata a Roma nel
1883 quando lui aveva vent’anni e lei
diciannove.
Un epistolario rimasto inedito a
lungo e ora pubblicato – con ampio
corredo di note e bibliografia – grazie
alle ricerche e al minuzioso lavoro di
analisi e riordino condotto da Cecilia
Gibellini, già curatrice di Io ho quel
che ho donato, raccolta di atti del convegno
su D’Annunzio nel 150° della
nascita (Clueb 2015), e di carteggi
inediti (quello tra Antonio Pizzuto e
Vanni Scheiwiller: Le carte fatate, Libri
Scheiwiller 2005, e quello tra Umberto
Saba e Vittorio Sereni: Il cerchio
imperfetto, Archinto 2010).
Questo recente lavoro di Gibellini
colma la lacuna più significativa tra
le lettere inviate da D’Annunzio alle
donne più importanti della sua vita,
da tempo edite integralmente o nelle
parti essenziali: quelle a Giselda
Zucconi, ispiratrice dei versi giovanili;
a Barbara Leoni, l’Ippolita Sanzio
del Trionfo della morte; a Eleonora
Duse, compagna di vita e di arte nella
stagione creativamente più fulgida;
a Maria Gravina, da cui ebbe la
figlia Renata, la Sirenetta del Notturno;
ad Alessandra Di Rudinì, migrata
dal bel mondo al convento; a Giusi
Mancini, l’amante impazzita; a Nathalie
de Goloubeff, ispiratrice di Fedra;
a Olga Levi Brunner, compagna
negli anni della guerra; a Luisa Bàccara,
che seguì il poeta soldato reduce
da Fiume per diventare la signora
del Vittoriale… Ma forse nessuno di
questi epistolari compendia come
quello con la moglie dati sulla vita
privata e pubblica, sulla vicenda intellettuale
e creativa dello scrittore in
anni cruciali.
Il volume, che ha come titolo l’espressione
La miglior parte della mia
anima – frase contenuta in una missiva
del poeta alla consorte vergata nel
1893 –, raccoglie un carteggio di 142
lettere, biglietti, messaggi e telegrammi
inviati da D’Annunzio alla
Hardouin nel primo decennio del lo-
Recensioni
198 recensioni
ro rapporto, dal 1883 al ’93: «il nucleo
di maggiore interesse, biografico
e letterario – spiega la curatrice nell’introduzione
– all’interno di un carteggio
che si snoda per più di mezzo
secolo». Lettere manoscritte, in massima
parte non datate, che Gibellini
ha pazientemente e filologicamente
riordinato. La quasi totalità (137) dei
documenti pubblicati fa parte della
cosiddetta Raccolta Gaidoni, oggi
conservata alla Biblioteca Nazionale
Centrale di Roma: lettere che, donate
dalla duchessa alla sua dama di compagnia
Caterina Cervis, passarono al
collezionista bresciano Vitaliano Gaidoni
e da questi, pochi anni fa, alla
Biblioteca. Le restanti cinque missive
sono state recuperate in altre pubblicazioni
e nella collezione Staffieri.
Insomma, «una vera e propria miniera
di dati biografici, psicologici, culturali
», che oltretutto «spicca per
l’intrinseca qualità letteraria della
scrittura».
Il carteggio inizia nella primavera
del 1883, quando il giovane D’Annunzio
– terminati gli studi liceali a
Prato – da poco più di un anno si era
trasferito a Roma ed era stato introdotto
da Edoardo Scarfoglio nelle
redazioni dei giornali che si pubblicavano
nella capitale. Occupandosi
prevalentemente di avvenimenti mondani,
ricevimenti e feste dell’aristocrazia,
l’ambizioso giornalista non
tardò ad entrare nelle grazie della
quarantenne duchessa Natalia Hardouin,
appassionata di arte e poesia
che a Palazzo Altemps teneva un
salotto letterario. Qui conobbe la figlia
della duchessa, Maria: con lei
intrecciò una relazione, strenuamente
osteggiata dal padre che non voleva
quale genero un parvenu: dopo
una fuga d’amore in treno a Firenze
– «scaltra congiura» abilmente organizzata
dal giovane e adeguatamente
pubblicizzata – il matrimonio si
rese inevitabile e fu celebrato, a fine
luglio, nella cappella di Palazzo Altemps.
Nel gennaio 1884 nacque Mario,
il figlio del “peccato di maggio”,
a cui seguirono – nel giro di tre anni
– Gabriellino e Ugo Veniero.
Tre anni «d’inebriante felicità», a
cui seguì un graduale distacco «causato,
certo, dall’infedeltà di lui» (sono
di quel periodo le relazioni del poeta
con Olga Ossani e, soprattutto, con
Barbara Leoni) «ma anche, e forse ancor
di più – osserva Gibellini – dalle
difficoltà materiali e dalle deplorevoli
vicende legate ai suoi continui indebitamenti
»». Un progressivo allontanamento
«segnato anche da momenti
drammatici, sempre però temperati e
superati da un sentimento di affetto e
complicità tenacemente vivo in entrambi
». Gli eventi precipitarono: nel
1890 la Hardouin tentò il suicidio gettandosi
da una finestra, tra il ’91 e il
’93 D’Annunzio si trasferì a Napoli.
Nell’ultima, drammatica lettera dell’ottobre
1893 riportata da Gibellini, il
poeta che nella città partenopea vive
in miseria ed è inseguito dai creditori
chiede alla moglie di mandargli «domani
per telegrafo 20 lire» per tornare
in Abruzzo e colà rifugiarsi. Nel
1899 i coniugi si presentarono al Tribunale
di Roma per avviare le pratiche
di una separazione legale.
Dopo la separazione la Hardouin
visse tra Parigi e Roma; nella Ville
Lumière – dove frequentava artisti e
intellettuali – accolse il marito quando
questi, a causa del dissesto della
Capponcina, fu costretto a scappare
in Francia per sfuggire ai creditori, e
lo introdusse nell’ambiente culturale
parigino.
recensioni 199
Nel 1904, spinta dall’anziano padre
«sempre fisso in un pensiero di
odio e di avversione verso il […] matrimonio
», la Hardouin avviò le pratiche
per il divorzio, che però – supplicata
dal consorte – non portò mai
a termine. Dalla metà degli anni ’20
visse per lunghi periodi a Gardone
Riviera, nella Villa Mirabella, inserita
nel comprensorio del Vittoriale, la
cittadella monumentale in cui il Vate
viveva, scriveva e riceveva le numerose
amanti. Ebbe il titolo di Principessa
di Montenevoso, dopo la nomina
di D’Annunzio a questo titolo,
salendo così nella scala gerarchica
nobiliare, a dispetto delle catastrofiche
premonizioni paterne. «Sarà lei
– annota Gibellini – a contribuire in
maniera decisiva all’impareggiabile
impresa decorativa del Vittoriale,
adempiendo e talvolta anticipando i
desiderata di Gabriele». A Gardone
tenne una posizione defilata, mai in
contrasto con la Bàccara, accontentandosi
di incontrare il marito solo se
da lui richiesta. E una gentildonna
che in quegli anni chiese a D’Annunzio
se la presenza della moglie a Gardone
non lo seccasse o turbasse si
sentì rispondere dal poeta, «con un
filo d’orgoglio», «Maria è Maria».
Nel 1938 D’Annunzio morì, lasciando
la villa allo Stato italiano; la
Hardouin accompagnò il feretro del
marito al braccio del Duce, per dovere
di vedova ed obbligo di forma.
Nel 1945 morirono i figli Gabriellino,
malato da tempo, e Ugo Veniero. L’unico
figlio superstite fu il primogenito
Mario, che morì nel 1964.
Maria Hardouin D’Annunzio – «la
figura più enigmatica dell’universo
familiare dannunziano», secondo
Marziano Guglielminetti – spirò novantenne
il 18 gennaio 1954, sedici
anni dopo il marito. «Ho sempre
paura di essere sola», pare abbia bisbigliato
durante l’agonia, nel grande
salotto della Mirabella trasformato
in camera perché potesse vedere il
lago dal letto. Un nastro a lutto venne
affisso alla porta della villa, un
altro all’uscio della vicina Prioria e
cupi rintocchi furono emessi dalla
campana all’ingresso. Fu sepolta, accanto
ai suoi cani preferiti, nei giardini
del Vittoriale.
Dalla filigrana delle lettere di D’Annunzio
«nel decennio che vede emergere
le sue prime opere di respiro
europeo» si staglia, grazie al lavoro
di Gibellini, la figura di questa donna
«bella, innamorata ma lucida, presto
consapevole dei tradimenti di
Gabriele eppure sempre dignitosa e
generosa». Passione, tenerezza, affetto,
turbamenti e preoccupazioni: lettere
che testimoniano «il nascere e
l’evolversi di quello che fu il rapporto
più saldo e duraturo che D’Annunzio
intrattenne con una donna da
lui amata».
Umberto Lorini
Fabio Moliterni, Sciascia moderno.
Studi, documenti e carteggi, Bologna,
Edizioni Pendragon, 2017, pp. 212.
Alla base della ricerca che anima il
volume vi è l’esigenza di individuare
un’adeguata collocazione per l’opera
di Sciascia, che tenga conto di una
complessità delle forme e del pensiero
che ben poco si presta ad essere
incasellata in maniera univoca. Pertanto,
come suggerisce lo stesso titolo,
l’intenzione di Moliterni è quella
di «restituire la sua scrittura all’orizzonte
eterogeneo e conflittuale del
200 recensioni
moderno» (p. 10), mettendo in relazione
la tensione critica che caratterizza
l’intera produzione letteraria di
Sciascia con il carattere dialettico del
modernismo italiano, o piuttosto del
neo-modernismo, con particolare riferimento
alla sua possibile ripresa o
persistenza a partire dagli anni Sessanta
del Novecento. Partendo dall’illuminante
definizione critica di
Salvatore Battaglia, secondo cui l’opera
sciasciana risulta dialetticamente
dalla scissione tra aspirazione alla
chiarezza illuministica e fondo essenzialmente
esistenzialista, Moliterni
individua la modernità di Sciascia
proprio nella coesistenza e nell’oscillazione
tra poli opposti, tra «la fiducia
nella letteratura e il disincanto, la
ragione civile e lo scetticismo, l’illuminismo
e gli “enigmi” pirandelliani,
l’eco delle utopie liberali o libertarie
ereditate dalla tradizione del moderno
e lo “strazio” della storia» (p.
11).
La prima parte del volume, occupata
dagli Studi, analizza in maniera
approfondita la natura ambivalente
e moderna del pensiero dell’autore,
da cui discende la sua peculiare idea
di letteratura e l’aspetto strutturale
della sua opera, sospesa sin dalla genesi
tra volontà di racconto e riflessione,
commento e narrazione. Il primo
saggio, La scrittura di pensiero, fa
procedere l’indagine sul carattere irregolare
della fisionomia intellettuale
di Sciascia proprio a partire dalla
sua «“scrittura di pensiero”: laddove
è il pensiero che si fa tema, forma e
oggetto del discorso, dalle prime ramificazioni
fino all’epilogo della sua
opera» (p. 18). Infatti, nell’intera opera
sciasciana, l’autocoscienza del
pensiero moderno, che si interroga
sulla confusione del reale, si sostanzia
in un’autocoscienza critica esercitata
sulle forme letterarie che a sua
volta produce, fin dagli esordi, negli
anni Cinquanta, un’intelaiatura ibrida
e sperimentale di generi e modelli
espressivi. È un pensiero in formazione,
scisso tra l’apprendistato letterario
e civile (che passa attraverso il
rondismo e l’antifascismo), il «pirandellismo
di natura» e una fenomenologia
negativa del reale, e prende
corpo nei saggi giovanili incentrati
sul rapporto tra Pirandello, il pirandellismo
e la Sicilia, nelle prose delle
Favole della dittatura, nelle poesie
post-ermetiche de La Sicilia, il suo
cuore e nelle «cronache» delle Parrocchie
di Regalpetra, per poi approdare,
nella stagione centrale della sua ricerca
letteraria, ad una profonda destrutturazione
dei generi codificati,
come il giallo e il romanzo storico o
di impianto realista. Una sperimentazione
che ha origine dal dialogo
contraddittorio e tutt’altro che imitativo
che egli intrattiene con le sue
fonti letterarie (Pirandello, e più a ritroso
Manzoni, Leopardi, gli illuministi
minori e i moralisti classici), ma
anche dalla consapevolezza tutta
(neo)modernista dell’insufficienza
delle
forme narrative tradizionali dinanzi
alla tensione civile e all’impegno
razionale richiesto dai problemi
del presente, come si evidenzia nell’ultimo
dei saggi contenuti nella sezione
degli Studi e che dà il titolo al
volume, Sciascia moderno. Attraverso
una struttura circolare, Moliterni ritorna
sulla questione della collocazione
di Sciascia nel panorama culturale
italiano del secondo Novecento,
prendendo questa volta in esame la
scrittura degli anni Sessanta e Settanta:
invece di adottare forme e sistemi
di percezione del reale propri del
recensioni 201
postmodernismo, che affondavano
le loro radici nella consunzione della
tradizione del moderno, Sciascia
continua a difendere un’idea «forte»
della letteratura, che pur destreggiandosi
nel quadro di una generale
corrosione delle certezze mantiene
una forte carica pedagogica, etica e
civile. È in questo contesto che Sciascia
dà vita a «una sorta di “filologia
morale” volta alla riscrittura delle
latenze della storia o della storiografia,
la ricerca di una verità alternativa
nei suoi racconti-inchiesta a sfondo
storico-biografico-giudiziario; a una
scrittura allegorica, nelle trame dei
suoi gialli, l’indagine in chiave antropologica
o politica sulla recente realtà
nazionale» (p. 137), che si concretizzano
in opere come Il contesto, Todo
modo, La scomparsa di Majorana e L’affaire
Moro, fino al testimoniale Cavaliere
e la morte.
Nel mezzo si collocano tre saggi
nei quali la prospettiva si restringe
su aspetti più specifici. Il secondo
contributo, ad esempio, utilizzando
gli strumenti dell’analisi stilistica e
della critica tematica, coglie una costante
che permea la scrittura del primo
come dell’ultimo Sciascia, interrogandosi
sulla frequenza e sulla
funzione della figuralità zoomorfa
che conduce l’autore a una pervasiva
riflessione-allegorizzazione del rapporto
uomo-Potere, alla rappresentazione
di una condizione di povertà e
sfruttamento (che da storica e sociale,
geograficamente situabile, si fa
via via assoluta e metafisica). Attraverso
il ri-uso della tradizione favolistica
di stampo classico e di quella
moderna, in una sorta di «turbamento
percettivo» che secondo Moliterni
è un tratto distintivo della «scrittura
per immagini» di Sciascia, tale fenomenologia
negativa si associa a una
scrittura a tratti espressionistica, dagli
esordi fino alle ultime opere. È
una scrittura che convive con lo «stile
semplice», e non fa altro che dare
forma a quella scissione tra l’aspirazione
alla chiarezza e alla verità e il
sostrato moderno o (neo)modernista
del suo pensiero, come riflesso di
un’idea di mondo governato dal caos
e dalla violenza del Potere. Il saggio
successivo è dedicato al Consiglio
d’Egitto, ponendo al centro dell’attenzione
la questione del rapporto
tra ricerca storica e ricerca letteraria,
poiché proprio in questo romanzo si
ha una prima e determinante manifestazione
di alcuni «poli fondativi
dell’esperienza intellettuale sciasciana:
la sua concezione del reale e della
storia, da un lato; il rapporto che la
letteratura, il “contropotere” della
scrittura intrattiene con la verità e
con la giustizia, dall’altro» (p. 73).
Moliterni sostiene che il Consiglio
funziona come una sorta di mise en
abîme del significato complessivo
dell’opera dell’autore, portando
avanti un’idea della letteratura come
«riscrittura, demistificazione e disvelamento
delle “latenze” della storia e
del reale» (p. 80) a partire dall’analisi
dei meccanismi profondi della comunicazione
e del linguaggio, in
quanto la scrittura non si può mai
configurare come una pratica neutra,
oscillando tra la mistificazione e lo
smascheramento della realtà (è
quanto avverrà un quindicennio più
tardi con l’Affaire Moro). Il quarto
saggio, infine, si concentra sull’importanza
della figura di Stendhal
nella definizione del ritratto intellettuale
di Sciascia, tanto che si propone
l’esistenza di una sorta di duplice
«funzione-Stendhal», che si sostan202
recensioni
zia nell’utopia di un (irraggiungibile)
miscuglio tra letteratura e vita, da
una parte, e dall’altra come «indicazione
di metodo per una penetrazione
più “autentica”, con la parola e la
finzione letteraria, nel corso degli
eventi dell’esistenza e della storia»
(pp. 109-110), offrendo inoltre lo
spunto per riflettere ancora una volta
su come il ri-uso e la citazione di figure
e temi di altri autori non sconfini
mai in Sciascia in una modalità di
scrittura di stampo postmodernista.
La prospettiva, già di per sé ampia,
offerta dalla sezione degli Studi si arricchisce
nella seconda e nella terza
parte del volume grazie ad alcune
ricerche condotte sui carteggi inediti
con Vittorio Bodini, Tommaso Fiore e
Roberto Roversi, che hanno permesso
di recuperare alcuni scritti sciasciani
dispersi dedicati a Mario Tobino
e allo stesso Fiore, pubblicati nella
sezione Documenti accanto a due testi
di Vincenzo Consolo e Roversi, e
consentono di mettere in luce alcuni
aspetti, solo in apparenza più marginali,
della fisionomia intellettuale di
Sciascia. La sua opera, anche grazie a
questi studi di Moliterni, sempre più
si va collocando nell’orizzonte che
più le appartiene, di carattere moderno
o neo-modernista e di respiro
europeo.
Irene Pagliara
Clara Leri, “Questo strano, lunghissimo
viaggio”. Cristina Campo tra dialogo
epistolare e bellezza liturgica, Alessandria,
Edizione dell’Orso, 2018, pp.
230.
Nell’anno della morte del suo
mentore ideale – o, piuttosto, di una
delle sue figure di riferimento – Guido
Ceronetti, un volume che ponesse
Cristina Campo nel ristretto pantheon
della letteratura religiosa femminile
del Novecento italiano appare
quanto mai gradito, e vorremmo dire,
quasi doveroso. Non è possibile
affrontare Campo (se non superficialmente,
e cadendo in mille trappole
prevedibilissime ma quasi mai evitate)
senza conoscere l’immensa tradizione
della letteratura religiosa
italiana nelle sue relazioni, fondanti,
con l’esegesi biblica, e in particolare
quella dei Salmi. Clara Leri, espertissima
di cotale tradizione, con cui si è
cimentata in diverse opere a partire
dal fondamentale volume sulle traduzioni
letterarie dei Salmi dal 1641
al 1780 (Sull’arpa a dieci corde, Olschki,
1994), per giungere, tra l’altro,
alla sintesi (Il Mulino, 2008), “Il sublime
dell’ebrea poesia”. Bibbia e letteratura
nel Settecento italiano, ci offre, in
questo denso volume, un confronto
serrato con Campo e la dimensione
religiosa, sofferta e vivissima, della
sua attività letteraria. Lo fa ricordando
subito la lezione non dimenticata
del Maestro Ezio Raimondi – e occorre
chiedersi quanto e se sia ancora
viva cotale illuminante lezione
nell’Alma Mater Bononiensis – che a
Campo lettrice del Manzoni tra il
1962 e il 1971 dedicò felicissime pagine
e memorabili lezioni universitarie,
mentre sui Promessi Sposi calava
la lama (o, per usare la locuzione di
Leri, “il bisturi”) ideologica di Alberto
Moravia e numerosi altri (compreso,
ricordato qui, quel Pier Paolo Pasolini
che pure con la Campo avrebbe
potuto mostrare una qualche affinità,
se vi è qualcosa di vero nella lapide,
non meno ideologica e definitiva,
che Edoardo Sanguineti scolpì
recensioni 203
alla morte di Pasolini, che precedette
di due anni quella di Campo, chiamandolo
“usignolo cattolico”). Il libro
ci offre il ritratto meditato e approfondito
di Campo che il mondo
letterario, e non solo letterario, attendeva
da tempo.
Una scrittrice non mistica, ma lettrice
dei mistici, attenta alla “perfezione”
– il lemma che è il vero filo
rosso dell’opera di Cristina – e in
particolare alla perfezione che nasce
dalla bellezza, e che tale bellezza presuppone,
in un corto circuito essenziale,
per molti aspetti spaventoso. Il
volume si articola in quattro capitoli,
con i primi due dedicati alla serrata
esegesi del diuturno dialogo epistolare
con Margherita PieracciHarwell,
la “Mita” delle Lettere a Mita pubblicate
da Adelphi nel 1999, che testimoniano
di una lunga amicizia intima
(240 lettere, che coprono un ventennio,
dal 1956 al 1975; Mita aveva
ventidue anni, e Cristina ventinove
quando cominciarono a corrispondere);
un esempio, per usare la locuzione
di Adorno, di perfetta “Nähe an
Distanz”, di vicinanza nel distacco; e
gli ultimi due dedicati invece all’opera
letteraria vera e propria, con attenta
esegesi (o, più propriamente,
meta-esegesi) dell’esegesi manzoniana
e dei Salmi compiuta da Campo, e
un capitolo finale sulla terebrante,
fin troppo perfetta poesia di Cristina,
erede compiuta di una tradizione letteraria
lirica e altissima, si vorrebbe
dire, mentre avanguardie e neoavanguardie
facevano a pezzi, con un sofisticato
giuoco intellettuale, proprio
tale tradizione (o, piuttosto, credevano
con arroganza di essere riuscite a
farlo).
Il libro trasforma la Campo – rendendole
giustizia in tutto e per tutto
– da “fenomeno isolato” a classico
del Novecento, poeta dell’umana
sofferenza, della conversione, che instaura
un diuturno sottile dialogo
con le fonti stesse della letteratura
italiana a partire dall’origini, che sono
fonti cristiane, ma anche bibliche.
La sua figura sovrasta, e ampiamente,
quella del compagno (così poco
attento a colei che infinitamente l’amava)
Elémire Zolla, non ostante, rispetto
a Zolla, Cristina avesse scelto
una posizione appartata, quasi di rinuncia
assoluta all’esteriorità, ripiegata
in un’intimità cristallina, un’intimità
in cui la poesia, il dialogo epistolare,
le traduzioni, non sembrano
altro che ceselli per costruire una
prosa, e una spiritualità, perfette, o
quasi, quasi a scolpire, con infinita
lentezza, una “perla” di se stessa, nel
segno dell’altissimo significato della
“perla” appunto nel Cristianesimo
da San Giovanni fino ad uno dei più
complessi e affascinanti padri della
Chiesa, Sant’Efrem, riscoperto, non
per nulla, da un raffinatissimo esegeta
quale il Cardinal Angelo Maria
Querini nel pieno del Settecento (non
per nulla Efrem è citato qui, a pag. 8,
da Leri). Campo si inserisce dunque
perfettamente in una tradizione di
letteratura religiosa femminile, non
necessariamente mistica (è in tutto e
per tutto diversa da una Caterina
Fieschi Adorno, per intenderci), ma
costituita da una parola musicale,
dove la spiritualità si cristallizza nel
verso, tanto da identificarsi completamente
con esso. Campo così diviene
interprete ideale di una nuova
concezione di “sprezzatura”, che
perfeziona ed estende il lemma del
Castiglione, “sprezzatura è un ritmo
morale, è la musica di una grazia interiore;
è il tempo, vorrei dire, nel
204 recensioni
quale si manifesta la compiuta libertà
di un destino, inflessibilmente misurata,
tuttavia, su un’ascesi coperta”
(“Con lievi mani”, Gli imperdonabili,
cfr. qui, pp. 120s. e 142ss) (ma
anche: “…sprezzatura è infatti una
briosa, gentile impenetrabilità all’altrui
violenza e bassezza […] Non la
si conserva né trasmette a lungo se
non sia fondata, come un’entrata in
religione, su un distacco quasi totale
dai beni di questa terra, una costante
disposizione a rinunciarvi se si posseggono”,
qui, p. 142), e propria la
sprezzatura, così reinterpretata, una
nuova dimensione della “naturalezza”,
cui è da sempre apparentata, diviene
la cifra della sua scrittura. Per
tanti aspetti, il suo rapporto con la
natura, e con la poesia, ricorda quella
del compositore francese Olivier
Messiaen, e sarebbe da approfondire
la (eventuale) conoscenza delle opere
del Maestro da parte di Campo.
Certamente, il modo cristallino in cui
la natura viene presentata, proprio
nel congiungersi fatale di “sprezzatura”
e “naturalezza” sembra echeggiare
il mimetismo seriale, sofisticatissimo
pur nei suoi esiti di estrema,
“sancta”, semplicità, di Messiaen, lo
sforzo di un “realismo magico” in
quanto assoluto. La funzione cromatica
nella poesia di Campo è centrale,
e vitale, come centrali e vitali sono,
sia nel dialogo epistolare, sia nelle
opere critiche e poetiche, proprio la
descrizione della natura, in cui di
spiritualità sorgiva, si potrebbe dire,
dove il tessuto naturale da sempre si
sposa, e si intreccia, con quello storico,
e soprattutto religioso. L’Aventino,
prima di tutto, ove a lungo Cristina
dimorò – spesso sola non ostante
avesse ufficialmente un compagno, e
spesso, anzi sempre, malata – ma anche
Nervi, e anche altri luoghi romani,
e Roma fu sua città d’elezione,
non ostante fosse ben consapevole
dei vantaggi, per lo spirito, della vita
di campagna, fuori della città. Eppure
di Roma disegna memorabili
schizzi, con delicatezza e incanto
d’animo femminile – a noi hanno ricordato
la dimenticata scrittrice belga
a cavaliere tra Otto e Novecento,
Valentine Gibert, che a Roma ambienta
uno dei suoi due bellissimi
romanzi (L’image virtuelle: souvenirs
de Rome, Bruxelles, Misch et Thron;
Parigi, Librairie Universelle, 1908) –
andando a cercare la natura nei parchi,
ad esempio: ed ecco le splendide
righe dedicate nel marzo 1963 a Villa
Borghese: “C’erano alberi di camelie
colmi di fiori rossi, rosa e bianchi, come
trofei barbarici. E dalla parte del
mezzogiorno (al giardino del lago)
una foresta rosa di mandorli da fiore.
Per il resto, grazie a Dio, l’intero parco
era brullo – perché arrivare quando
tutto è in boccio, quando la rappresentazione
è cominciata senza di
me, mi dispera.” (Cit. qui, p. 94). Ma
anche le descrizioni di città hanno
una ricercata perfezione: ad esempio
quella di Firenze, ove, secondo Leri,
“prevale il cromatismo delicato, finissimo
dell’emozione pittorica come
in un dipinto di Rosalba Carriera”
(p. 84).
Molto ci sarebbe da dire su Campo
interprete della liturgia e del Manzoni
– in chiaro contrasto proprio con
un Pasolini, che detestava i personaggi
che la Campo esaltò ponendone
bene in chiaro la tragica grandezza
– e anche sulla Campo in netto
contrasto (e sul tema molto si è scritto,
spesso purtroppo strumentalizzando
la scrittrice) con le posizioni
conciliari, motivo cui accenna con
recensioni 205
misurate posizioni Leri nel libro.
Questo tuttavia travalica i compiti e
le misure di una recensione.
In chiusura, quindi, ci limiteremo
a due osservazioni finali. La prima. A
distanza di 41 anni dalla morte di
Cristina (1923-1977), la letteratura su
di lei non sembra diminuire. Anzi. A
questo punto sarebbe auspicabile la
pubblicazione in volume delle sue
opere complete, ad eccezione naturalmente
del vastissimo corpus epistolare,
che occupa parecchi volumi.
L’opera di Leri, con esegesi sistematica
e dottissima, prepara quasi naturalmente
la strada per un’impresa
del genere. La seconda. Nel fiorire
degli “women studies”, Campo si
pone al centro di una costellazione di
scrittura, e spiritualità tutta femminile,
e si pensi alla sola María Zambrano
(1904-1991), con cui Campo
come è noto fu in corrispondenza (Se
tu fossi qui. Lettere a María Zambrano
1961-1975, a cura di Maria Pertile,
Milano, Archinto, 2009); costellazione
luminosa e che comprende autrici
conosciute di persona, autrice lette
con passione (Jane Austen [vd. qui,
pp. 91, 97s], la “madre” di tutta la letteratura
femminile moderna), Simone
Weil, naturalmente, e, anima a
Campo così affine (ma per certi
aspetti così distante), Antonia Pozzi.
Per citarne solo alcune. Cotale costellazione
è affatto degna di una ricognizione
particolare, che questo libro,
non ultimo dei suoi meriti, con
discrezione auspica.
Paolo L. Bernardini
C’è un lettore in questo testo? Rappresentazioni
della lettura nella letteratura
italiana, a cura di Giovanna Rizzarelli
e Cristina Savettieri, Bologna,
il Mulino, 2016, pp. 274.
«È possibile ripensare il rapporto
tra storia della lettura e storia della
letteratura in termini diversi, che
tengano in maggiore considerazione
la sfera dell’immaginario? È possibile
considerare le rappresentazioni
della lettura in primo luogo come
rappresentazioni che descrivono,
più che una rispondenza tra reale e
immaginario, un processo di negoziazione
tra pratiche e simboli?» (p.
8).
La curatela C’è un lettore in questo
testo?di Giovanna Rizzarelli e Cristina
Savettieri cerca di rispondere a
questi due interrogativi lungo nove
capitoli che coprono uno spazio diacronico
che va da Dante al modernismo
primo novecentesco, attraverso
lo studio di forme simboliche diverse
(poesia lirica, romanzo, autobiografia,
dialoghi) con l’obiettivo di «analizzare
le diverse vite storiche della
figura del lettore, sia esso un lettore
semplice, uno scrittore che si autorappresenta
alla prese con i libri o
una comunità che fa della lettura
un’esperienza collettiva» (p. 8); un
progetto ambizioso, dunque, che mira
a colmare una lacuna sia storica
che teorica, nella misura in cui all’esame
di determinati autori e periodi
storici segue un tentativo di «elaborare
implicitamente una nuova riflessione
sul valore dell’immaginario
letterario non più come riflesso della
storia, né come dimensione nella
quale la storia si cancella, ma come
spazio di tensione in cui i dati materiali
esistono in forma di rappresentazioni
» (p. 9). Un progetto ambizioso,
certamente, ma che raggiunge
brillantemente i suoi obiettivi, con206
recensioni
fermando «l’esistenza di uno sfaccettato
mondo immaginario dedicato
alla lettura» lungo due elementi
trans-nazionali e transtorici: «il rapporto
tra leggere e scrivere e la funzione
di mediazione del desiderio
propria della letteratura di finzione»
(p. 21).
La scelta di autori e testi ‘canonici’
della letteratura italiana fa sì che C’è
un lettore in questo testo?fuoriesca dai
propri confini nazionali, offrendo ai
suoi potenziali lettori nuovi strumenti
critici per indagare questa
complessa e affascinante categoria (il
lettore) sia a livello comparato che
teorico. Il libro si apre con un saggio
di Elena Lombardi (pp. 23-41) sull’invenzione
del lettore in Dante: se, da
un lato, l’autrice ricostruisce con
acribia le tessere testuali di questo
percorso dell’immaginario tra Vita
nova, Commedia e Convivio, dall’altro,
il saggio di Lombardi riconosce questa
invenzione mimetica nei processi
storico-culturali del Medioevo (rapporti
tra oralità e scrittura, visual literacy,
forme di lettura al maschile e al
femminile, pp. 29-31), mostrando come
«con Francesca e Stazio, Dante
inserisc[a] nella Commedia il doppio
ritratto di un nuovo e ardito lettore,
pronto a travisare ma anche ad arricchire
il testo che legge» (p. 39); inoltre,
prosegue Lombardi, se «nel corso
della sua opera Dante ha pazientemente
creato il lettore, in questo
nesso ottativo è, però, il lettore a
“creare” Dante: mentre nell’economia
della salvezza Dante tornerà in
Paradiso a un certo punto, in quella
della lettura Dante-scrittore vi ritorna
ogni volta che apriamo il suo testo
» (p. 41).
I saggi che seguono il lavoro d’apertura
di Lombardi presentano sì
referenti teorici e/o filosofici diversi,
ma presentano come trait d’union la
partecipazione attiva del lettore nella
costruzione del testo e del suo significato,
colta nella sua molteplicità e
pluralità: «ma qual è il principale paradigma
della lettura petrarchesca»
– scrive Igor Candido nel secondo
capitolo dedicato a Petrarca e Boccaccio
(pp. 43-67) –, «ammesso che
possa identificarsene uno soltanto, e
come viene rappresentato e quali autori
vi rientrano di diritto?» (pp. 47-
48). La pluralità dei generi letterari,
delle tradizioni e delle conformazioni
culturali dei periodi storici esaminati
non permette di fornire una risposta
netta a questo quesito, se non
isolando i singoli casi; l’atto di lettura
e delle sue rappresentazioni creano,
anche sul piano teorico, una molteplicità
fenomenologica ed esperienziale
tale da fornire, a sua volta,
una pluralità di risposte che interrogano
i testi stessi: esemplificativo è il
caso del rapporto tra lirica ed epistolografia
rinascimentale, affrontato da
Federica Pich nel terzo capitolo (pp.
69-92). Le forme ibride dei discorsi
amorosi problematizzano ulteriormente
la figura del lettore, nella misura
in cui la lirica e l’epistola portano
in questa forma simbolica i rispettivi
sistemi referenziali, stilistici ed
emotivi (p. 77), sicché «l’esperienza
della lettura e della scrittura appaino
contigue e quasi inseparabili» (p. 79).
Simili problematiche vengono affrontate
anche da Giovanna Rizzitelli
nel capitolo La lettura come esperienza
collettiva nei dialoghi del Cinquecento
(pp. 93-117); anche in questa sede,
forme ibride (il dialogo) – un ipergenere
ibrido, secondo la lezione di
Emma Giammattei, accolta da Rizzitelli
(p. 102) – diventano cifra e misurecensioni
207
ra di questa imprescindibile relazione
tra lettura e scrittura, tra autore e
lettore, tra testo e contesto, tra realtà
e finzione: «la lettura», conclude Rizzitelli,
«viene sì inclusa nei meccanismi
della finzione dialogica e, anche
se per antitesi, serve a sostenere l’argomento
del quale si parla e si tesse
per l’elogio» (p. 117).
La transizione alla fenomenologia
letteraria del lettore secentesco è affidata
a Fabrizio Bondi e ha come oggetto
di analisi l’opera di Marino e la
produzione dei suoi seguaci dell’Accademia
degli Incogniti (pp. 119-
140): autorappresentazione, rapporti
tra plagio e scrittura, tra scrittura e
lettura, costituiscono alcuni dei principali
elementi che conducono a una
fenomenologia del lettore immaginario
(pp. 123-124). Muovendosi tra i
versi del capolavoro di Marino e nel
multiforme mondo degli Incogniti,
Bondi mostra come nel Seicento italiano
trapeli «una possibilità di funzionamento
della lettura quale strumento
di creazione, nel fruitore del
prodotto tipografico, di un pensiero
autonomo rispetto ai discorsi dominanti
» (p. 140). Questa transizione
prosegue nei capitoli di Ann Caesar e
Francesca Fedi dedicati al Settecento
e all’Ottocento, dove l’evoluzione
del romanzo (italiano) e delle sue
forme ibride (l’autobiografia) è messa
in relazione all’esplosione dei lettori
– e soprattutto delle nuove lettrici
– in area veneziana attraverso le
opere di Pietro Chiara e Giacomo
Casanova; inoltre, come scrive Oliva
Santovetti nel penultimo saggio della
curatela (Lettura e lettrici dentro il
romanzo, pp. 183-202), la ‘civiltà del
romanzo’ tra Sette e Ottocento implica
l’«affermarsi della lettura come
fenomeno di massa e l’imporsi nella
società e sul mercato letterario del
pubblico femminile» (p. 183).
Questa nuova soggettività di genere
non risente di letture ideologiche e
attraversa senza soluzione di continuità
l’intera curatela. La bibliografia
sul «pubblico femminile», «sui
rapporti tra romanzo e donne, e sulla
figura della lettrice» (p. 183) ha raggiunto
risultati importanti negli ultimi,
ma talvolta all’analisi socio-culturale
di questi fenomeni (letterari e
non) non segue una «riflessione sulle
implicazioni metanarrative e metafinzionali
inserite nel tema letterario
della lettrice» (p. 184). Ed è proprio
tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del
Novecento, tra il rapporto dialettico
che lega il realismo ottocentesco e la
transizione al modernismo, che la
donna assume un ruolo sociale sempre
più centrale nella fenomenologia
della lettura: «la lettrice ottocentesca
è una figura di passaggio che catalizza
e incarna le ansie metanarrative
degli scrittori, per così dire, pre-modernisti.
L’ambivalenza sparirà con il
romanzo modernista: verrà sostituita
dall’atteggiamento umoristico e ironico
di un Pirandello e di uno Svevo
e il nodo finzione/realtà, che tanto
aveva tormentato gli scrittori di fine
secolo, verrà esposto, scomposto,
analizzato sotto gli occhi divertiti e
partecipi del lettore» (p. 201).
Cristina Savettieri, infine, riprende
la chiusa del saggio di Santovetti affrontando
la pratica della lettura e
della scrittura nei romanzi di Pirandello
e Svevo (pp. 203-227): «Cosa
leggono i protagonisti della narrativa
modernista italiana? Cosa sfogliano
Mattia Pascal e Zeno Cosini?» (p.
203). Sappiamo quasi tutto delle letture
di Pirandello e Svevo, ma molto
meno dei testi di cui si sono nutriti i
208 recensioni
rispettivi personaggi (Pascal e Cosini)
nelle loro vite finzionali; e ancora
meno sappiamo dei personaggi minori,
come il protagonista della novella
pirandelliana Mondo di carta
(1909) o Amalia Brentani, «protagonista
defilata di Senilità» (p. 218). Il
saggio di Savettieri ci porta in questo
spazio testuale (e psicologico) inesplorato
attraverso il mondo di carta
che regola le letture di questi esseri
fatti di parole, che progressivamente
si affrancano dal realismo ottocentesco
subendo ciò che Savettieri definisce
‘contagio mimetico’: «le immagini
della lettura nella narrativa di due
dei maggiori autori del modernismo
italiano ci parlano di una precipitazione
di quello squilibrio, di una
frattura drammatica al centro della
quale leggere sembra ridursi a una
pratica strumentale, mentre scrivere
diventa un gesto di manutenzione (e
difesa) della solitudine» (p. 206).
Alberto Comparini
LIBRI RICEVUTI
Cavalluzzi Raffaele, Sogni da sogni. Studi su letteratura e cinema, Bari,
Progedit, 2019, pp. 196.
Chiodo Domenico, Armida. Da Tasso a Rossini, Manziana, Vecchiarelli,
2018, pp. 156.
D’Annunzio Gabriele, La miglior parte della mia anima. Lettere alla moglie
(1883-1893), a cura di Cecilia Gibellini, Milano, Archinto, 2018, pp.
276.
Grimaldi Emma, Il gioco della zara. Dante tra Virgilio e Beatrice: alcune
riflessioni, Pisa, Edizioni ETS, 2017, pp. 292.
«Lingua e Stile». Rivista di storia della lingua italiana, a. LIII, Dicembre
2018.
«Lingue e Linguaggio», 2/18.
Malini Dario, La grande guerra di Italo Svevo. La scoperta di una fonte
letteraria ignota de La coscienza di Zeno, Milano, ArteGrandeGuerra Edizioni,
2018, pp. 214.
Parini Giuseppe, Teatro, a cura di Andrea Rondini, Manuela Martellini,
Antonio Di Silvestro. Coordinamento e introduzione di A.
Rondini, con un saggio di Claudio D’Antoni. Edizione Nazionale delle
Opere di Giuseppe Parini, Pisa-Roma, Fabrizio Serra, 2018, pp. 232.
Risso Roberto, “La penna è chiacchierona”. Edmondo De Amicis e l’arte
del narrare, Firenze, Cesati, 2018, pp. 230.
Un’operosa stagione. Studi offerti a Giani Oliva, a cura di Mario Cimini,
Antonella Di Nallo, Valeria Giannantonio, Mirko Menna, Luciana
Pasquini, Lanciano, Carabba, 2018, pp. 730.