Saggi
MARIO AVERSANO
Su Pietro da Eboli e Dante. Parte seconda*
By drawing attention to further affinities with Dante’s Beatrice, the
author completes the picture of Costanza d’Altavilla sketched by
Pietro da Eboli and underlines new similarities between the two
poets, especially as far as their “Italian ideology” is concerned.
Pietro da Eboli’s work is also analysed in order to restore three
lectiones of the Divina Commedia.
I
Ancora sulla «gran Costanza», e altro
1. La regina e la donna
Ma il sintagma «gran Costanza» – eccezionale come risulta, s’è
veduto, allo spoglio delle ricorrenze degli aggettivi gran e grande nella
Commedia, uniti a un nome proprio o a un soprannome – si giustifica
anche con tutto l’altro che il carme di Pietro da Eboli offre a illustrare
la grandezza di questa regina. Pietro comincia battendo sul magnum
della sua famiglia («a magnis natalibus veniens»), e sul matrimonio
col magnus Enrico, e chiamandola Augusta (l’appellativo che per Dante
tocca anche alla moglie del suo alto Arrigo). E qui capita peraltro
l’occasione di tornare con qualche elemento più affidabile al discusso
«secondo vento di Soave» (Enrico VI): per il vento ben ci può essere
dipendenza dal veniens di Pietro, invece che (come si vorrebbe) dal
ventum biblico. Converrebbe spiegare, dunque: “secondo venuto di
Svevia” (dopo il primo, Federico Barbarossa). Un “avvento”, dunque,
come quello sacro e fatale di Pietro e Paolo: «Venne Cefas, e venne il
gran Vasello/ de lo Spirito Santo» (Pd XXI, 127). A sostegno può
essere addotto il già citato verso 1363 del Liber, che reimpiega il venire
in riferimento a Costanza per la nascita di Federico II, dunque nel
senso di partorire: «Venit Experia nativi palma triumphi».
* La prima parte di questo articolo è apparso nel n. 148/2010, pp. 419-449.
628 MARIO AVERSANO [2]
In questo campo lessicale rientra tutta una serie di titoli da cui
esce ben delineata la persona di Costanza in quel che esprime innanzitutto
il dominium (è domina mundi: v. 1041)47, quale appare
all’esterno e come è sentito e vissuto “dentro”. Ma poi la virtus, a
leggere tutto il distico in cui si trova, viene bilanciata – e questo, fa
intendere l’autore, ugualmente come eredità “genetica” – con requisiti
più propriamente femminili: «Virtutem virtus, docilem proba,
casta pudicam,/formosam peperit pulchra, beata piam» (vv. 17-18).
Allora: costanza-coraggio sì, innanzitutto, e dominium; ma anche
docilità, pudicizia, bellezza fisica, pietà. Trapela fin d’ora un che del
ritratto di donna che verrà realizzato nella maggiore completezza,
con un’abbondanza di linee e di colori quali pochi ne vanta la produzione
in versi non solo del Medievo. Esso pare che coincida per
più aspetti con quello che di Beatrice è presente nella Commedia. E
conviene ricostruirlo al completo, perché nulla c’è di meglio per
comprendere appieno il perché della scelta di Dante, e il primato
che egli le conferisce nel cielo della Luna. La sua “grandezza” viene
a giustificarsi, ancora, col requisito della “sapienza” atta a tradursi
in comportamento di governo: nella scia, si può dire, di quella che
bisogna riconoscere a Sapia senese – consigliera anch’essa, nel bene
(dell’intelligenza) e nel male (dell’invidia)48 – che savia non fu, ad
onta del nome.
Di regine “consigliere” – ho già mostrato più volte – Dante propone
una lista non breve. A ricordarne qualcun’altra, dopo Sapia: Cunizza
da Romano e Maria di Brabante; o, anche, la buona Gualdrada e
la cattiva: quella che con i suoi conforti (=consigli) indusse Buondelmonte
a rompere il patto di sposalizio con una giovane Amidei,
generando la divisione tra le due famiglie e la fine della pace in
Firenze (Pd XVI, 140 ss.). La Costanza del Liber – dice espressamente
Pietro – “consulit” sempre mossa dal fine primo del buon Consiglio:
quello di “pacificare”. La troviamo in questo ruolo quando si rivolge
ai ribelli salernitani: «Si pugnare licet, superest michi miles et aurum:/
’inpropriam redeat, consulo, quisque domum’»(vv. 605-606).
Ed eccola, a v. 1038, Consigliera dello stesso Imperatore, “unica”
per di più a saper trovare le giuste parole della pacificazione: «‘ipsa
suum poterit pacificare virum’». Al tema dà molta visibilità finanche
47 L’appellativo di Domina corre per tutto il Liber: cfr., tra gli altri, i vv. 723,
743, 793, 885, 888, 963.
48 Così nella nostra lectura del canto XIII del Purgatorio tenuta in Firenze, per
la «Società Dantesca Italiana», il 14 novembre 2002.
[3] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE. PARTE SECONDA 629
il suo rivolgersi a Dio, con tutto che l’oratio è intitolata pro vindicta.
Questo ai versi 640-641: «‘da pacem, gladios divide, scinde manus,/
arma cadant, arcusque teras, balistra cremetur’». Scinde manus: uno
“scisma” in prospero, evidentemente opposito a quello che sorge dopo
la morte di Guglielmo («scismatis exoritur semen»).
È, quello di Costanza, lo stesso sogno di pace, in effetti, che alimenta
il cuore e la fantasia di Pietro, e costituisce la molla più
nobile della scrittura del Liber. Il Meridione è in guerra, ai suoi
tempi. Egli non solo la vede infuriare nelle grandi città del Regno –
Palermo, Salerno, Napoli, Capua – ma la sconta nel piccolo di Eboli
e di Campagna. Se Costanza predilige la guerra – dice l’Arcotico
nella Particula XV, ai vv. 400 ss. – da quelle parti potrà ben trovarla;
ed è guerra anche di denaro, cioè di usura dei Campagnesi a danno
degli Ebolitani: «‘Est prope Campanie castrum, specus immo latronum,/
quod gravat Eboleam sepe latenter humum’».
Che di usura si tratti è provato dalla biblica aggettivazione di
“gravità” (gravat), a cui aderisce anche Dante (cfr. la «grave usura»
di Pd XXII, 79), e ancora dal latenter, l’avverbio che nei Padri designa
l’acquattarsi-arrotolarsi da serpi degli usurai: ne è segno in If
XIV, 23, dove stanno sotto il fuoco del cielo raggomitolati, ad offrire
il minor bersaglio («si sedea tutta raccolta»). Ma più ancora li designa
per tali lo specus (unito a latronum): che fuori dalla necessità del
verso sarebbe stato spelunca. È la spelunca latronum dei Vangeli (Matth
XXI, 13; Marc XI, 17), a cui i Padri della Chiesa concordemente
danno la glossa di luogo dove si pratica l’usura mala.
Tra le ripercussioni di questa colpa, allora, c’è anche quella che
essa provoca odio e spaccature nella società: mette in pericolo la sua
pace. Pietro predica la necessità di un quieto vivere tra i cittadini
con una veemenza che ha di quel che troveremo poi in Dante. Le
invettive del quale, a nostro avviso, potrebbero aver dietro anche
l’esempio dell’Ebolitano. Basti vedere quella che, nella Particula
XXXII, è lanciata contro il primo responsabile dello scisma nel Regno,
il bigamo Matteo d’Aiello; e ci sono gli stessi appoggi scritturali
che troviamo nelle alte grida di Dante. Questi i versi 969-971:
«O Sodomea lues, o Gomorrea propago,
vixeris urbanis morsque ruina tuis.
Vas, va, peccati, veteris vetus amfora fraudis».
Come negare – anche alla luce di quant’altro constateremo – che
da questo vas … fraudis Dante abbia potuto cavare il suo vasel d’ogni
froda (If XXII, 82), detto di frate Gomita, dunque di uno che, come
630 MARIO AVERSANO [4]
il d’Aiello, ha che fare con la religione? Ed ecco, ai vv. 984 ss.,
l’accusa di nemico della pace, ancorata al biblico exultant in rebus
pessimis (Prov II, 14):
exultans odiis, contraria pacis amasti,
Ecclesiae stimulus seu rationis honus,
iusticiam viduis, viso non ere, negasti,
multotiens sociis causaque litis eras…
Ma vediamo daccapo (vv. 965-967):
Sic scelus eructat, scelerum sic fumat abyssus,
thuraque mortiferi sulfuris olla vomit.
Sic vetus exalat fumum putredinis antrum …
Non è intravedibile qui già san Pietro che si sgomenta di Roma
fatta da Bonifazio VIII «cloaca del sangue e della puzza» (Pd XXVII,
25-26)? Allora: «Quelli che usurpa in terra il loco mio» può aver
preso l’abbrivo dai vv. 1001 ss. di questa Particula: «Quem, miser,
extollis, qui ius usurpat et omen,/qui male consortes precipitando ruet!».
Distico che prima ancora combacia – circostanza, questa, di chiara
probatività – con tutto Pg XI, 67-89:
Io sono Omberto, e non pur a me danno
superbia fè, ché tutti i mie’ consorti
ha ella tratti seco nel malanno.
Il superbia è calettabile sullo extollis; il malanno sul male; il consorti
sul consortes; il tratti sul precipitando ruet. E si veda anche, a v. 973,
il pendant di Lucifero, il perverso, che si placa nel tempio di Dio dove
siede Bonifacio VII: «Templum Luciferi, qui noctem Lucifer odit».
Tutto questo evidenziamo anche perché tacciano le accuse rivolte a
Pietro di esagerazione “partitica”, difesa ad oltranza del proprio
particulare e scarso buon gusto nelle tirate, orribili, con cui assale
Tancredi e i Tancredini, nemici dell’Imperatore.
2. Costanza e Beatrice
Cronache e leggende guelfe, si sa, hanno addensato sul capo
dell’ultima erede dei Normanni ombre cupe, diffondendone la nomea
di sposa, madre e regina colpevole di gravi delitti, come l’infedeltà
coniugale, la propensione agli intrighi e agli attentati, la
[5] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE. PARTE SECONDA 631
smania di potere, l’odio-disprezzo-disistima per l’elemento “tedesco”
allogatosi nel Regno, l’estraneità-rivolta alla politica e alla persona
del marito: del quale avrebbe fin procurato la morte. E la storiografia,
non esclusa quella più recente, dà talora per vere-verisimili
queste imputazioni. Al loro diffondersi e persistere, perciò – oltre
che, s’intende, al molto o poco che di lei Pietro stesso ebbe modo di
sperimentare de visu – va anche ascritto (quale defensio memoriae, in
atto e preventiva) il molto e il bello delle cose che di lei vengono
riferite nei distici del Liber: dalla nascita, al matrimonio, alle vicissitudini
della guerra civile, alla prigionia, all’insediamento come regina
e imperatrice, fino al parto di un erede, Federico II, e al dolce
ruolo di madre.
Non c’è da stupirsi, vogliamo dire, che l’effige “complessiva” di
regina, di moglie e di donna quale ci trasmettono le Particulae risponde
ai canoni di una superiorità che ha insieme dell’elettivo e
del fatale, e che, pur calata interamente nel contesto storico, è poi
tesa a librarsi nell’assoluto del modello, e dunque a proporsi nei
termini dell’esemplarità. Questo non comporta alcunché di inattendibile
e di convenzionale, perché la mano di Pietro è sempre affettuosa,
e delinea un’immagine che persegue indubbiamente il “sublime”,
ma che nulla concede all’astratto e al generico. Ciò grazie a un
saldo equilibrio giocato tra piani ideali e concretezza di particolari
“umani”: Costanza non è mai sradicata dai luoghi, dai fatti e dal
tempo in cui visse. Di qui, allora, anche l’oltranza (rispetto all’economia
dell’opera) che ne contrassegna quantitativamente l’identità.
Di Costanza ci viene discoperto quanto non avremmo sperato: linee,
colori, espressioni e moti del volto e della persona, sorrisi,
crucci e sdegni, loquele e silenzi, affetti, pensieri, gioie e affanni,
invocazioni, preghiere, allocuzioni e arringhe, consigli, decisioni,
ingressi ed esiti di scena, gesti, modi di incedere, abiti, ornamenti,
e, non ultimo, il genere di letture e conoscenze culturali acquisite.
Tale essendo la copia dei dati, non perciò ne traspaiono
soggiacenze acritiche agli stereotipi antichi e coevi del genere. La
fantasia pittrice del magister di Eboli, che è suddito e devoto del trono,
nel mentre punta a effetti “formali” di risalto e di coerenza raffigurativa,
atteggia poi la propria idea del feminino regale all’indice
della naturalezza e della spontaneità; sicché in ogni momento e fino
all’ultimo ci viene incontro non un thypus, ma una creatura viva,
per nulla artefatta, e con una sua “aria” che si accosta o marcia nei
domìni della poesia. Tutto da godere, per esempio, è questo “interno
con donna in lacrime”, ai vv. 621-621:
632 MARIO AVERSANO [6]
Illa, genu flexo, pansis ad sidera palmis,
plenaque singultu fletibus uda suis,
sic orans loquitur, clausi hic inde fenestris,
– fecerat ambiguam clausa fenestra diem – …
Si può affermare, pertanto, che qualità e virtù pubbliche di Costanza
– e, tra queste, massime l’amore per la giustizia-concordiapace
– coincidono e si fondono con quelle private della “donna” che
non ha chi la eguagli. I dovuti riguardi per le “essenze”, in altre
parole, non cancellano gli aspetti peculiari del vissuto, anche intimo.
Basti osservare come Pietro affronta il tema – delicato, per le
dicerie di cui supra – del suo amore coniugale. Gli accenti sono
schietti e commossi: Costanza nelle sue preghiere chiama Enrico
dulce maritum (v. 657), e non chiede a Dio solo di favorirne le imprese
(v. 651: «conserva Cesaris actus»), ma anche di proteggerlo e di
riportarglielo a casa (vv. 653-654: «‘Romanum protege solem/ ut
repetat patriam sospite mente suam’»), perché – confessione davvero
toccante, e forse con singolare cenno alla famiglia trinitaria –
lontano lui ella se ne muore: «qui regnas in tribus unus/ redde
virum famule, que perit absque vivo» (vv. 661-662). Per lo sposo
Costanza è pronta a dare la vita; salvo lui, tutto le parrà senza
tristezza, anche la prigionia: «‘Si pereo, per eum pereo, quia Cesare
vivo/ triste nichil patiar, dum modo capta ferar’» (vv. 665-666). E,
finalmente, ecco adombrata una figura di coniuge-angelo, quantunque
appena di riflesso: «‘coniugis angelicum fac redeuntis iter’» (v.
660).
A un parallelo, auspicabile, con eroine (amanti-castellane-reginespose)
e donne d’ogni altra provenienza (non escluso il territorio
“sacro”), quali si riscontrano in tutto l’arco della produzione letteraria
medievale, è da credere che la bilancia penderebbe più volte a
favore della regina che vediamo stagliata nel Liber: e potrebbe non
essere infruttuosa un’indagine sui contatti e sulle trame intertestualiinterdiscorsive
che corrono tra le due sponde, la latina e la romanza.
Certo poco o nulla in Pietro residua di quello che appartiene alla
sfera muliebre per l’aspetto dell’inquietudine sentimentale: Costanza
è “costante”, come s’è veduto; e in quanto tale, è sempre armata
della ratio (la dantesca “costanza della ragione”), e non condiscende
alle passioni, agli impulsi e alle insanie della mente, del cuore e dei
sensi. Ai suoi occhi la mobilità-fragilità emotivo-caratteriale, come
che se ne configuri la marca, è sinonimo di piccolezza-indegnità; e
quanti ne sono affetti le suscitano disprezzo e noncuranza: «non
ragioniam di lor», ella direbbe con Dante. Basti vedere il “tratta[
7] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE. PARTE SECONDA 633
mento” che riserva a Tancredi, il suo vile nemico: lo licenzia rifiutandone
la venia, e con un gioco su questo termine che fa venire in
mente quelli del canto di Pier della Vigna49, o di Sapia: «Pauca
quidem loquitur: ‘Veniam, Tancrede, Panormum,/ et veniam, veniam
non aditura tuam» (vv. 687-688). Analogo il comportamento che ella
tiene in casa dell’antagonista-carceriera, la pseudo-regina Sibilla: la
inonda di indifferenza lasciandola nell’inferiorità ed esprimendole –
sottile nota psicologica – anche il fastidio di essere amata (v. 892:
fastidit amari). Quest’ultima ne rimane colpita al segno che le “saltano
i nervi” e cede all’isteria (Particulae XXX-XXXI).
Pietro in tal modo vuole accreditare un’individualità di sovrana
e donna che ha regole e principi così alti come intrasgredibili, osservati
non per imperativi eteronomi, ma per convinzione sincera, con
gioia e senza che questo comporti rinunzie: la lista, in fondo, dei
diritti-doveri “imperiali”, solennizzati con le acque della fede religiosa.
In mezzo a tali parametri un suo spicco ha quello del breve
loqui (rientra in esso anche il silenzio), affine all’“onestà” dell’incedere:
nel che c’è pieno accordo con la poetica-etica di Dante50. S’è
citato or ora il Pauca quidem loquitur; e si veda anche, per un altro
esempio, il luogo dove è espressa la consapevolezza che di sé, in
tema, ha la loquente: «pauca loquar, multo pondere verba tamen» (v.
588).
Al consuntivo questa “perfezione” etico-civile-spirituale, unita a
quella “sapienziale”, ci permette di additarla come una delle poche
donne della letteratura che s’incontri in qualche modo con la Beatrice
di Dante. In sintesi: anche Costanza è nemica d’ogni bassezza,
sferza la cupidigia, l’ingiustizia, i seminatori di discordie, gli
usurpatori, il fariseismo, il tradimento, e tutti i simili mali, e invoca
la vendetta divina contro chi li perpetra; per contro ama e protegge
i suoi “fedeli”51, ed è anch’essa ben capace di motti e sentenze volte
a consigliare e ad ammaestrare. A coronamento, e non ce l’aspetteremmo,
vengono fuori anche zampilli “metafisici”: una competenza
49 Cfr. If XIII, 72 («ingiusto fece me contra me giusto») e 25 («Cred’io ch’ei
credette ch’io credesse»).
50 Cfr. If X, 39: «‘Le parole tue sien conte’»; Pg XIII, 77-78: «‘Parla, e sie breve
e arguto’». Nella Commedia la “brevità” è tra i segni distintivi del Consigliere,
insieme alla “sbrigatività”; cfr. M. Aversano, Brunetto Latini sbrigativo? Macché,
in «Agire» (Salerno), 18 luglio 2004, p. 8.
51 Molta premura per i suoi combattenti Costanza mostra ai vv. 689-690:
«Protinus obiecit pactum: ‘Gens annuat’, inquit, ’ut meus hinc salvo pectore
miles eat».
634 MARIO AVERSANO [8]
de divinis che non è di seconda mano (frutto anche, si capisce, quanto
alla genesi poetica, della dottrina di Mastro Pietro), e che la fa un
poco antesignana di quella madonna Teologia che sarà Beatrice. Ha
proprio il suo piglio quando rivolge a Dio, con memoria del Giovanni
apocalittico, queste parole: «specta, collige, scribe, nota» (v.
642). C’è possibilità di richiamare – come si vede – in primo luogo
il tema dantesco del “volume di Dio” (che però è di quelli interdiscorsivi)
quale si rinviene, ad esempio, a proposito di un re che
con la Sicilia ebbe a che fare in malo, Carlo II d’Angiò, e in un passo
che accoglie una espressa menzione dell’isola (v. 131: l’isola del foco):
«‘Vedrassi al Ciotto di Ierusalemme/ segnata con un I la sua
bontade,/ quando ’l contrario segnerà un emme’» (Pd XIX, 127-129).
Ma poi non sarà illegittima la suspicio che gli imperativi scribe e nota
possano essersi insinuati nella memoria di Dante, e sdoppiati per
bocca di Beatrice nelle due unità terminali della seconda Cantica,
prima a Pg XXXII, 105 («fa che tu scrive»), poi a Pg XXXIII, 52 («Tu
nota»): anche se per tali verbi Dante, come Pietro, ha come suggeritore
maior, e autorizzante, l’ultimo Giovanni. Che Costanza sia molto
preparata quanto alle divine Lettere è ben manifesto massime nelle
Particulae XXII e XXIII. Un cenno solo, per ora: flagrante è la biblicità
degli attacchi nell’una e nell’altra preghiera (pro vindicta e salutaris).
Il primo proviene da Apoc I, 8, XXI, 6; e XXII, 23 («Alfa Deus, Deus
O»), il secondo da Isa XLI, 4 («Ex oriente Deus»). Quanto al già
citato «‘qui regnas in tribus unus’», questa teologia fa venire in
mente quella di Pd XIII, 57: «…che non si disuna/ da lui, né da
l’amor ch’a lor s’intrea».
Ma l’indicazione di tali convergenze – che sono recepibili in ogni
momento con una scorsa “orientata” del Liber – rimarrebbe pur
anche nei confini congetturali quando ci si fermasse qui, e non si
andasse alle concordanze che affluiscono con una più decisa valenza
persuasiva, quelle – ripetiamolo – che sono tematiche e linguisticofigurative
insieme. È su tale piano che meglio si discopre la parentela
di Beatrice con la gran Costanza. Si può andare alle verifiche con
la lettura dei versi che descrivono la “venuta” della Gentilissima nel
Paradiso terrestre, al di là del fiume Letè:
Io vidi già nel cominciar del giorno
la parte oriental tutta rosata,
e l’altro ciel di bel sereno addorno;
e la faccia del sol nascere ombrata,
sì che per temperanza di vapori
l’occhio la sostenea alcuna fiata:
[9] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE. PARTE SECONDA 635
così dentro una nuvola di fiori
che da le mani angeliche saliva
e ricadeva in giù dentro e di fori,
sovra candido vel, cinta d’uliva
donna m’apparve, sotto verde manto,
vestita di color di fiamma viva.
(Pg XXX, 22-33)
In premessa è bene interrogarsi sul fatto che Dante poco prima
– a esternare gli effetti immediati dell’incontro con la sua donna –
induca la gran potenza (v. 35) dell’antico amore. È un sintagma da
cui siamo portati di nuovo alla «gran Costanza» che generò «l’ultima
possanza» (Pd III, 118-120): dalla gran potenza dell’amore riacceso
da Beatrice alla gran…possanza della terzina che riguarda Costanza.
L’ipotesi di contatto volontario è confortata anche da quanto s’è già
visto degli impieghi del termine possanza. Si tralascia qui di far
notare il simile che concerne i rispettivi moduli della “comparsa”-
”apparizione” (il pare del celebre Tanto gentile, e il m’apparve di v. 32
ora citato), e ci si limita a dire che sul modo con cui Costanza
mostra le sue fattezze, al segno della generale meraviglia o invidiaodio,
Pietro torna di continuo, e come si trattasse di “qualità” risapute.
Ne trapela un poco già dalla frase con cui l’Archoticon la annunzia:
«tua nobilis uxor/ sublimis sedeat» (vv. 396-397).
Qualche importanza rivestono poi le omologie e le prossimità che
fanno riscontrare la lingua e lo schema di alcuni riquadri dell’uno e
dell’altro versante (quello dov’è posta Beatrice impegna gli ultimi
quattro canti del Purgatorio): Pietro a v. 571 della Particula XX ha due
parole guerresche – balistra vel arcum – che Dante può aver volto in
balestro e arco (Pg XXXI, 16-17). Così lo «amovit umbras» di Pietro (v.
418) sembra che abbia del comune con «la terra che perde ombra» di
Pg XXX, 89. Dante fa precedere l’epifania di Beatrice da una processione
in cui è intonato l’Osanna (Pg XXIX, 51: «e ne le voci del cantare
Osanna!»); e Pietro a v. 419 ss. racconta che all’ingresso di Costanza in
Salerno la città corre ad applaudirla con quello stesso canto: «urbs
ruit, et domine plaudit osanna sue». Ancora: Beatrice sopraggiunge su
un carro, quello della Chiesa (Pg XXX, 101), e sullo stesso viaggia fino
a che ne discende (Pg XXXI, 25 ss.); anche su un carro, sempre nella
Particula XVI, alcune fanciulle vanno ad accogliere la regina: «pars
sedet acta rotis» (v. 421). In quel contesto Pietro fa uso del vocabolo
cantica: «cantica nemo silet» (v. 431); e Dante inserisce cantica proprio
e unicamente nella sezione finale del Purgatorio interamente votata a
Beatrice: «…le carte/ ordite a questa cantica seconda» (Pg XXXIII, 140).
636 MARIO AVERSANO [10]
Ma tutto questo poco direbbe se non fosse che contorna dei
punti di più ammissibile convergenza. Bisogna andare alla “tela”
che di Costanza dipingono i vv. 681-686:
At domine vultus, pallescere nescius unquam,
immodicum pallens, lumina crispat humo.
Nec mora pallor abit: proprii rediere colores.
Simplicibus ludunt lilia simpla rosis,
ut tenuis quandoque diem denigrat amictus
et subito, lapsa nube, diescit humus.
E poi al corollario dei vv. 701-710:
O nova consilii species! Prudentia maior!
Induit auratos ut nova nupta sinus,
induit artiferos preciose vestis amictus,
ornat et impinguat pondere et arte comas!
Aurorant in veste rose nec aromata desunt,
forma teres Phebi pendet ab aure dies.
Pectoris in medio coeunt se cornua lune;
ars lapidum vario sidere ditat opus.
Coniugis amplexus tanquam visura novellos
Fausta venit, navem scandit et illa volat.
La prima concordanza che viene all’occhio concerne la resa del
volto delle rispettive donne, ottenuta dall’uno e dall’altro autore col
ricorso a un identico paragone naturalistico. Pietro invita a riportare
alla mente un fenomeno non inconsueto, quello del velarsi-coprirsi
del cielo per il passaggio di una nuvola; è così che perde colore il
volto di Costanza, per poi ritrovarlo:
ut tenuis quandoque diem denigrat amictus
et subito, lapsa nube, diescit humus.
Di una stessa ombra in Dante è velata la faccia di Beatrice, come
quella del sole quando nasce “ombrata”: «e la faccia del sol nascere
ombrata…». Ma dal «tenuis…amictus», che in sé vale “copertura” –
velo o mantello che sia – hanno avuto di che generarsi non solo
l’ombrata, ma anche il vel e il manto della stessa raffigurazione. In
più vanno calcolate le uguaglianze nuvola-nube, ricadeva-lapsa, giàquandoque,
adorno-ornat, e – soprattutto – quella dell’abito, che per
Beatrice è di fiamma viva, e per Costanza dello stesso colore, come si
evince dalla forza dell’aurorant («aurorant in veste rose») messo a
capo dell’esametro: un verbo, quest’ultimo, a cui il Georges-Calonghi
[11] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE. PARTE SECONDA 637
dà il significato di «splendere in rosso fiammante». E che l’“aurorare
della rosa” indichi anche per Dante il rosso più vivo, il “vermiglio”,
si deduce dalle terzine della Commedia dove proprio di questo colore,
vermiglie, sono le guance della bella Aurora nella fase più splendente,
prima che divengano range (Pg II, 7-8). Erano altri tempi,
quanto a purezza dei colori del cielo. E abbiamo già veduto che al
fiore della rosa Dante riconosce la maggior possanza: il che potrebbe
anche ingenerare il dubbio di un nesso tra Beatrice e Cristo, la
supprema possanza, per il tramite del colore rosso, allusivo del sangue
sparso per gli uomini. Infine: Dante forse non risparmia nel suo
dialogare con Pietro neanche il denigrat. Non è difficile ammettere
che esso abbia trovato accoglienza nei «rami nigri», che spargono
con le foglie «un’ombra smorta», a Pg XXXIII, 109-110. È così che
questa “negrezza” arborea dell’Eden non ci lascia più scontenti e
sospettosi che abbia un che di “stonato”, come è parso ed effettivamente
pare quando la si prenda in sé e per sé: un recupero “estetico”,
reso forse possibile dalla mediazione di Pietro, il quale la
porge nel senso non dell’annerimento, ma dello stesso “ombrare”
che Dante ha riferito all’effetto dei vapori del mattino.
A riprova si può addurre che subito l’operazione intertestuale di
Dante – memore del pannello che conserva il ritratto più fine di
Costanza – va oltre, e aggredisce anche il distico conclusivo di questa
Particula (la XXIV):«Coniugis amplexus tanquam visura novellos/
fausta venit, navem scandit et illa volat». Qui Pietro si avvale, a
quanto sembra, di Apoc XXI, 2: «… paratam sicut sponsam ornatam
viro suo». Nella Commedia, si ricorderà, c’è tra l’altro – e in area
implicata con l’apparizione di Beatrice – una similitudine che reca
gli stessi termini: sempre nel Paradiso terrestre Dante pellegrino
scorge delle alte cose (facenti parte della succitata processione),
che si movieno incontr’a noi sì tardi,
che foran vinte da novelle spose.
(Pg XXIX, 59-60)
È pensabile che anche per questi endecasillabi, come per il distico
di Pietro, abbia congiurato in prima istanza il paragone apocalittico
della sposa che va incontro al suo uomo. Ma una volta riconosciuto
questo, non deve sfuggire la presenza di un atomo lessicale che non
è comune a tutti e tre gli autori. Diciamolo subito: dal raffronto dei
passi emerge che alla sponsa dell’Apocalisse manca l’attributo precipuo
della nupta che si vede in Dante e in Pietro: il suo essere “novella”.
Tale riscontro induce a credere che Dante si sia mosso da
638 MARIO AVERSANO [12]
Giovanni (ma non è certo), salvo poi che per il «novelle spose» abbia
rivolto l’occhio all’«amplexus … novellos» di Pietro: il che oltretutto
è accreditabile con l’argomento della presenza della “novità” nuziale
poco prima, a v. 702. Costanza, infatti, «induit auratos ut nova
nupta sinus». Altro conforto si può trarre dal constatare come il
passo di Pietro abbia fatto da sostrato anche a un altro luogo della
Commedia, e precisamente a Pd XIV, 90-93:
… qual conveniesi a la grazia novella.
E non er’anco del mio petto essausto
l’ardor del sacrificio, ch’io conobbi
esso litare stato accetto e fausto.
Qui ricorre, insieme a novella, un vocabolo – fausto – che nella
Commedia non c’è più (e, ripetiamolo, in Dante l’hapax è di norma
altamente segnalativo): come negare la possibilità di un ascendente
nel fausta legato al novellos nella chiusa della nostra Particula XXIV?
Tanto più che lo si ritrova, sempre riferito a Costanza, ancora a v.
563 («fausto ore») e a v. 894 («fausta sedens»).
Infine non è senza importanza il fatto che per Dante, come per
Pietro, l’incedere lento è distintivo di nobiltà, e di grande dignità e
“onestà”. Si ricordi Pg III, 10 ss.: «Quando li piedi suoi lasciar la
fretta,/ che l’onestade a ogni atto dismaga…». Tale è la “camminata”
di Costanza, che Pietro altra volta definisce “imperiosa”, e –
vedremo – da “italiana”: «Post hec in talamos patrios se leta recepit/
Italicos mores imperiosa gerens» (vv. 740-741)52.
Ma non è ancora tutto. A questa Particula sono riportabili non
tanto il novo consiglio di Pg I, 47 (cfr. «O nova species consilii» di v.
701), e il «folle volo» di Ulisse (per il volat della nave di Costanza),
quanto il Virgilio che atterra gli occhi dinanzi alla città di Dite:
Li occhi a la terra e le ciglia avea rase
d’ogni baldanza, e dicea ne’ sospiri:
«Chi m’ha negate le dolenti case».
(If VIII, 118-120)
La possibilità che ci sia dietro il «lumina crispat humo» di v. 682
(terra=humo) aumenta con la considerazione che all’inizio del canto
successivo appuriamo che Virgilio è anche impallidito:
52 Si ricordi: «Regalmente ne l’atto ancor proterva» è Beatrice a Pg XXX, 70; e
regalmente anche san Francesco si muove al cospetto di Innocenzo III (Pd XI, 91).
Sono – altro dato sintomatico – gli unici due impieghi dell’avverbio nella Commedia.
[13] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE. PARTE SECONDA 639
Quel color che viltà di fuor mi pinse
veggendo il duca mio tornare in volta,
più tosto dentro il suo novo ristrinse.
(If IX, 1-3)
Orbene, null’altro è detto di Costanza, all’attacco della Particula,
se non che, oltre ad abbassare gli occhi, impallidisce:
At domine vultus, pallescere nescius unquam,
immodicum pallens, lumina crispat humo.
Nec mora pallor abit: proprii rediere colores.
Già qui, a fare i conti, lo spettro delle coincidenze risulta tale da
rendere più che probabile la sussistenza d’una volontà e d’una strategia
intertestuale che Dante ha condotto senza esitazioni, anzi come
a rendere un lungo omaggio a questo autore del corno d’Ausonia.
Non si riscontra solo la perfetta uguaglianza dei contenuti (l’atterrare
gli occhi e l’impallidire, cui si deve aggiungere la “novità”
della reazione), ma anche quella dei vocaboli: Quel color=colores; suo
novo=nescius unquam; più tosto=nec mora; tornar=rediere. Ma infine:
tutto induce a credere che il motivo dell’improvviso “cambiar colore”,
nei modi in cui Pietro lo ha svolto, possa aver suggerito a
Dante anche dell’altro. La sua eco, infatti, è percepibile in un luogo
del Poema a cui siamo portati per circolarità intratestuale, e cioè dai
segnali che partono da alcuni termini di cui s’è già provato il valore
pregnante: possanza ed ecclissi. Bisogna tornare alla sequenza che li
contiene, e fermarsi là dove Beatrice, al suono delle terribili rampogne
con cui san Pietro sferza le indegnità del papa Bonifacio VIII e dei
pastori divenuti lupi rapaci, trasmuta la sua sembianza:
E come donna onesta che permane
di sé sicura, e per l’altrui fallanza,
pur ascoltando, timida si fane,
così Beatrice trasmutò sembianza;
e tale eclissi credo che ’n ciel fue
quando patì la supprema possanza.
(Pd XXVII, 31-36)
Gli interpreti non hanno ancora trovato un accordo sull’entità di
questa “trasmutazione”, parendo alla maggioranza che Beatrice si
faccia «turbata e arrossita per pudicizia»53, ad altri che sbianchi. Il
53 Così intende V. Russo, in Enciclopedia dantesca, Roma, Istituto dell’Enciclopedia
italiana, s. v. “timida”.
640 MARIO AVERSANO [14]
percorso intratestuale non fornisce indicazioni sicure: a Cv IV, XXV,
7 il ragionamento sul pudore non reca lumi, perché ivi è detto che
per esso «tutti si dipingono ne la faccia di palido o di rosso colore»;
e a conferma è allegata la Tebaide di Stazio, dove si legge che «le
vergini palide e rubiconde si fecero». E qui forse capita una delle
volte in cui – come detto in premessa – è il modello che apre la via
per intendere il testo di Dante, e guida alla scelta buona tra le proposte
esegetiche avanzate. Poiché i versi di Pietro indicano con
chiarezza i due effetti che si vedono nel volto di Costanza allorché
le si impone di partire per Palermo, e cioè l’impallidire e l’abbassare
gli occhi, potranno avere ragione i commentatori che il medesimo
vedono in Beatrice colpita dalle parole di san Pietro. Del resto alla
timidezza che “atterra” l’occhio e il muso Dante ha dato chiaro spazio
nel noto paragone delle innocenti pecorelle che escon del chiuso (Pg
III, 79-81): come procedono gli orgogliosi scomunicati, nel canto
stesso in cui si incontra – altro indizio – lo svevo Manfredi.
3. Pietro da Eboli, Pier della Vigna e il Veltro
Ma ci sono coincidenze che fanno anche più pensare: quella, ad
esempio, che riguarda il Veltro, uno degli enigmi più “forti” della
Commedia. Abbiamo già detto54 che bisogna distinguere tra il salvatore
d’Italia, il Veltro, e il Salvatore di tutta l’umanità. Il primo
dovrebbe essere Cangrande della Scala, il secondo forse Cristo stesso.
Ora si dà il caso che Pietro da Eboli nell’esaltare il Cancellarius
Corrado, dice che tra le alte mansioni ha quella di “diserrare i
cancelli”: cancellos reserans; anche il dantesco Pier della Vigna, come
è noto, ha le chiavi per “serrare e diserrare”; ed è egli pure Cancelliere
del suo segnor, Federico II:
«Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi,
che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi:
fede portai al glorioso offizio,
tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e’ polsi.
La meretrice che mai da l’ospizio
di Cesare non tolse li occhi putti,
morte comune, de le corti vizio,
54 Cfr. M. Aversano, Firenze e il Veltro: prove di filologia dantesca, «Critica
Letteraria», XXX (2002), n. 114, pp. 6-10.
[15] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE. PARTE SECONDA 641
infiammò contra me li animi tutti;
e li n’fiammati infiammar sì Augusto,
che’ lieti onor tornaro in tristi lutti.
L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.
Per le nove radici d’esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d’onor sì degno».
(If XIII, 58-75)
Questa la scheda “intertestuale” che si può cavare, accanto alle
altre proposte in merito dalla critica:
1) serrando e diserrando: cfr. il cancellos reserans della Particula XLIX
(v. 1553). Si noti come la coincidenza interessi anche il modo e il
tempo verbale (participio presente in entrambi i luoghi);
2) soavi: è in linea col «vento di Soave», che di Federico è padre;
3) secreto: cfr. i secreta di v. 1336;
4) fede portai: la fedeltà, il primo requisito dell’uomo di corte; cfr.
il fidelis di Pietro nella dedica del libello ad Enrico VI;
5) ne perde’ li sonni e’ polsi: è l’“infaticabilità”, il non curar … d’affanni
che Pietro, si vedrà, ascrive a merito dei regnanti svevi (v. 1600: «nec
eis cura quietis erat»), e Dante al Veltro e a Cangrande della Scala;
6) Cesare … Augusto: son i titoli che correntemente Pietro – tutto
preso dal sogno della romanità imperiale – dà a Guglielmo II, a
Enrico VI e a Federico II; così poi Dante, con lo stesso sogno, ad
Arrigo VII, nelle Epistole;
7) de le corti vizio: cfr. i vizi da cui Enrico imperatore monda il
suo ospizio: «a viciis mundat sacrata palacia regum» (v. 1309);
8) onor …onor: è l’honor di Pietro, che significa anche – come una
volta in Dante, a Pg III, 116 («l’onor di Cicilia e d’Aragona») – la cosa
che onora, non le persone (Giacomo di Sicilia e Federico d’Aragona
nel Poema sono reputati dei sovrani indegni); cfr. v. 14 («per quam
Romani cresceret orbis honor), e v. 405 (l’urbis honor di Eboli);
9) ingiusto …giusto: il Cancelliere Corrado è «iuris servator et
equi» (v. 1551): l’ideale della giustizia per la cui affermazione –
nell’etica politico-teologica sia di Pietro che di Dante – ogni buon
Consigliere deve operare. Si ricordino almeno «il giusto Mardoceo»55
e il giusto Romeo di Villanova56;
55 Cfr. la nota ad l. in M. Aversano, Dante daccapo, cit., p. 42; e Id., La quinta
ruota, cit., pp. 18-21.
56 Cfr. la nota ad l. in Aversano, Dante daccapo, cit., p. 13.
642 MARIO AVERSANO [16]
10) vi giuro: richiama il giuramento di fede di cui s’è detto a
proposito della Costanza-constantia di Pietro;
11) gia mai: come il già mai di Costanza che abbiamo già sottolineato
(fedeltà assoluta al vel del cor);
12) non ruppi fede: stilema virgiliano che assimila il rapporto dei
sudditi col sovrano a quello delle api con la loro regina; cfr. quanto
è detto supra sulla fides;
13) mio segnor: è il possessivo che Pietro impiega per Enrico VI
(v. 1657: «meus Henricus») e Dante per Arrigo VII (Ep VIII, 5: «suus
Henricus»).
A chiudere, si può anche metter nota al lieti: nella Particula XLI,
dov’è la “purificazione dai vizi”, si trova «regia letatur». È da cogliere
un’antitesi, dunque, fra la letizia e l’invidia: quale del resto
già evidenziano i Padri, e poi Dante nelle unità del Purgatorio dedicate
agli Invidiosi (canti XIII-XIV).
Pier della Vigna, questo prototipo di Cancelliere=Consigliere, che
reclama di figurare al gradino stesso di Corrado, Cancellarius di
Enrico VI, contribuisce a gettar luce sull’officio che il Consiglio dovrà
svolgere a lato del Veltro: di fedeltà, sapienza, ed opera di
giustizia e di pace. Ebbene, Corrado è dipinto proprio come il “salvatore”
dantesco. Custode del diritto e della giustizia («iuris servator
et equi», s’è veduto), anch’egli «non ciberà terra né peltro» (If I,
103): «nulla fames auri, sitis illi nulla metalli» (vv. 1555). E sarà un
messo nutrito di «sapienza, amore e virtute» (If I, 104): «mens sua
numen habet…angelus in multos necnon paracletus in omnes/ mittitur,
et missi fatur in ore deus» (vv. 1556 ss.). Il circolo viene a
chiudersi allorché si fa conto che la virtute di Cangrande sarà «in
non curar d’argento né d’affanni» (Pd XVII, 84): proprio il «nec eis
cura quietis erat» di Pietro, detto di due imperatori, Federico I e il
figlio Enrico (v. 1600). Il Veltro dantesco, pertanto, non potrà non
essere un uomo d’arme, assistito dalla “sapienza” propria (il propio
studio di Cv IV, VI, 20) o dei suoi Consiglieri: nella lupa che egli
ucciderà – ho proposto altra volta57 – Dante condanna la cupidigia
dei cattivi Consiglieri. Si noti, infine, come egli inserisca il motivo
dell’“infaticabilità”, e dell’accanimento che dura fino a che l’impresa
di salvezza dell’umile Italia non sia stata compiuta, ben tempestivamente,
in quel che enumera le virtù-qualità del Veltro:
57 Cfr. M. Aversano, Dante, la lupa e il Buon Governo, «Agire», 16 gennaio
2005, p. 8.
[17] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE. PARTE SECONDA 643
Questi la caccerà per ogni villa,
fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno,
là onde invidia prima dipartilla.
(If I, 109-111)
Né può essere un caso che nel Purgatorio, trattando dell’Accidia,
il vizio contrario all’affanno, Dante induca il buon Barbarossa (Pg
XVIII, 119) e faccia ricorrere per due volte, e a breve distanza l’uno
dall’altro (Pg XVIII, 105 e 108), il ben far, che già in Brunetto Latini
e senza eccezioni nella Commedia è sintagma tecnico del buon governo
e del buon consiglio; senza dire, poi, che anche Pietro fa
coincidere la bruttezza-deformità del corpo col mal fare (a proposito
di Tancredi (nemico di Enrico VI), nato male, al modo che nello
stesso canto si legge: «‘perché suo figlio, mal del corpo intero,/ e de
la mente peggio, e che mal nacque’» (Pg XVIII, 124-125).
II
L’ideologia “italiana” in Pietro e in Dante
1. Costanza e gli Svevi: primi italiani?
Pietro elogia Costanza – s’è veduto – per il “parlare” e per il
comportamento. Ma interessa vedere come li definisca non già propri
di una normanna o di una siciliana, ma di una “italiana”. Dopo
aver “sistemato” il suo nemico Tancredi di Lecce con nobili parole
di giustizia, ella si ritira lieta nelle sue stanze, «italicos mores imperiosa
gerens». Ebbene, una chiara eco di questa rettitudine e nobiltà
italiane, e in particolare dei mores, si riscontra nel De vulgari eloquentia,
là dove (I, XII) Dante afferma che i prìncipi della penisola non
vivono «heroico more» al modo che fu degli Svevi, e non ne hanno
la nobilitatem ac rectitudinem, qualità che resero la lingua della Trinacria
la più bella, diventata perciò lingua di tutta la penisola:
Et primo de siciliano examinemus ingenium; nam videtur sicilianum
vulgare sibi famam pre aliis
asciscere, eo quod quicquam poetantur Ytali sicilianum vocatur, et
eo quod perplures doctores
indigenas invenitur graviter cecinisse (…). Sed hac fama trinacrie
terre si recte signum ad quod tendit inspiciamus, videtur tantum in
opbroprium ytalorum principum remansisse, qui non heroico more,
sed plebeis secuntur superbiam. Siquidem illustres heroes, Fredericus
cesar et bene genitus eius Manfredus, nobilitatem hac rectitudinem
644 MARIO AVERSANO [18]
sue forme pandentes, donec fortuna permisit, humana secuti sunt,
brutalia dedignantes. Propter quod corde nobiles atque gratiarum
dotati enherere tantorum principum maiestati conati sunt, ita quod
eorum tempore quicquid excellentes animi latinorum enitebantur, primitus
in tantorum coronatorum aula prodibat; et quia regale solium
erat Sicilia, factum est ut quicquid nostri predecessores vulgariter
protulerunt, sicilianum voc(ar)etur; quod quidem retinemus et nos,
nec posteri nostri permutare valebunt.
Racha, racha. Quid nunc personat tuba novissimi Frederici, quid
tintinabulum secundi Karoli, quid
cornua Iohannis et Azzonis marchionum potentum, quid aliorum
magnatum tibie, nisi «Venite
carnifices; venite, altriplices; venite avaritie sectatores?
Lo heroes e lo heroico more, che possono sembrare non molto
calibrati, un po’ lo divengono quando se ne ipotizzi la provenienza
da Pietro da Eboli. Ai suoi occhi Enrico VI è un “eroe” fin dal
primo affacciarsi alla ribalta; anzi, un pius…heros: «A vice, Petre, tua
pius introducitur heros». È il verso 274 della Imperialis unctio. Cui
segue, a v. 305, l’ingresso non meno “eroico” nel Regno di Sicilia:
«En movet imperium mundi fortissimus heros».
Ma è il ponte Sicilia-Italia, qui gettato con robusti materiali eticopolitico-
linguistici, che si può vedere già costruito nel Liber di Pietro.
L’“italianità” vi è espressa in lingua ora esplicita, ora indiretta,
a cominciare dal v. 541, che definisce “italiano” l’esercito di Enrico
VI: «Labor est Itala castra sequi». E prima l’Arcidiacono di Enrico
piange del dover abbandonare l’Italia, così esprimendo la sua fedeltà
(vv. 542-544):
Quem non matris amor, nec presens gloria rerum
nec fratrum pietas, nec grave vicit iter,
imperium sequitur, sub alta mente labores.
E qui ancora un dubbio: è pensabile che di questi versi Dante
conservi l’eco per il personaggio di Ulisse, quando gli fa dire quello
che tutti sanno, prima che si metta per l’alto mare aperto? Controlliamo:
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,
vincer potero dentro me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
e de li vizi umani e del valore;
[19] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE. PARTE SECONDA 645
ma misi me per l’alto mare aperto …
(If XXVI, 94 ss.)
Colpisce innanzitutto l’uguaglianza del percorso grammaticalesintattico,
scandito dalla serie delle particelle negative: non, nec, nec,
nec=né, né, né. Poi l’identità di fondo degli agenti, che sono tutti
“familiari”: matris amor=debito amore; nec fratris pietas=né la pièta/
del vecchio padre. Poi lo sbocco delle azioni dei soggetti nello stesso
verbo, “vincere”: nec vicit=né…vincer potero. Infine l’“altezza”:
che è della decisione in Pietro (alta…mente), e del mare (e poi del
passo) in Dante. E vorremmo tirarci anche il “seguire”: «sequitur
imperium»=«seguir virtute e canoscenza»; ma sarebbe troppo, potendo
peraltro anche il dilemma famiglia-gloria rientrare tra i luoghi
comuni. Giova invece tornare all’“italianità”. Con questo concetto
“nazionale”, nuovo e precorritore, che è sposato con la “totalità”-
universalità dell’Impero, Pietro supera l’ideologia particolaristica
(brevior) di un Tancredino, Elia di Gesualdo, quale traspare dalle
parole con cui egli vorrebbe dissuadere Costanza (vv. 677-678): «Sic
tibi, dum velles totum, quod volvitur evo,/contigit, et regno pro
breviore cadis».
Per contro a v. 1016 Costanza è definita nei termini più inequivocabilmente
“italiani”, di “sole esperio”: «Ausus es Experiam detinuisse
diem?». E italico, in forza della nascita da tale madre, Pietro
dice l’infante che sta per nascere, Federico II, a v. 1363: «Venit ab
Esperia nativi palma triumphi». Così, per uscire d’imbarazzo quanto
alla sua ascendenza maschile, a v. 1378 Pietro inventa una fusione
di “geni” normanni e tedeschi. Federico II sarà da una parte un
secondo Ruggiero, dall’altra un secondo Barbarossa (ex hinc Rogerius,
hinc Fredericus eris), per concludere poi, a v. 1407, con l’appartenenza
all’Italia: «Vive, puer, decus Ytalie». Che comporta, s’intende,
l’eredità “romana”, come è scolpita a v. 1411: «Vive, Iovis proles,
Romani nominis heres».
La compatibilità dei titoli già in Enrico è sancita anche per le
sedi, la Sicilia e Roma; così a v. 1470: «Siciliam repetens, Rome reget
aurea sceptra». Né manca l’accento forse più “patriottico”, che sembra
anticipare il Dante dell’umile Italia «per cui morì la vergine
Cammilla,/ Eurialo e Turno e Niso di ferute» (If I, 106-108): «Cui
cruor Ytalicus potus et esca fuit» (v. 1644).
Pietro è forse tra i primi, dunque, non solo a prospettare, ma a
dare per fatta un’unità dell’Italia che è insieme di razza, di lingua
e d’altare, ma anche di nazione: e Dante approva.
646 MARIO AVERSANO [20]
III
Un aiuto per restaurare Dante
1. Pg VI, 105: «che ’l giardin de lo ’mperio fia deserto»
Ma infine: con l’aiuto del Liber ad honorem Augusti noi arriviamo
delle volte a fare buona ectodica, a stabilire, cioè, quali vocaboli
siano usciti effettivamente dalla penna di Dante: controllo indispensabile,
perché della Commedia, si sa, non abbiamo né l’autografo, né
una copia egemone, ma una selva di manoscritti di non pacifica
attendibilità. Bisogna chiedersi: al verso 105 del canto VI del Purgatorio,
qual è il lemma che ha vergato Dante? Il congiuntivo “sia”
(«che ’l giardin de lo ’mperio sia diserto»), come a tutt’oggi si preferisce?
O, invece, ha scritto fia («che ’l giardin de lo ’mperio fia
diserto»), com’è in alcuni dei codici più antichi? Tutti ci vedono il
passivo di “disertare”, nel senso di “abbandonare”, e spiegano: “tu,
o imperatore Alberto, e tuo padre Rodolfo, avete sopportato che il
giardino dell’Impero, l’Italia, sia abbandonato”. Ma così avremmo
poi un’inutile ripetizione, perché egli ha già detto prima: «O Alberto
tedesco ch’abbandoni/ costei…». Altra glossa daremo, invece, seguendo
Pietro da Eboli, che ci suggerisce «fia diserto»: diserto come
sostantivo. Quindi: “divenga un deserto”. Nel Liber, infatti, il
Vicecancelliere Matteo d’Aiello non solo chiama il Regno meridionale
“giardino di rose”, ma anche teme che, rimasto privo di reggenza,
possa andar bruciato per brutti climi: «ne Nothus aud Boreas,
ne gravis urat yemps» (v. 117); che è come dire: “si trasformi in un
deserto”. Ne riesce così implicato anche il canto VIII del Paradiso,
che è per tanta parte “siciliano”, coi venti (v. 22) e con l’Euro da cui
il golfo tra Pachino e Peloro riceve maggior briga (vv. 67 ss.). E questo
è tra l’altro, ora vedremo, un passo a cui Pietro da Eboli fa giungere
lumi per una corretta lezione-interpretazione testuale. Ma se a riguardo
dell’Italia che diventa un deserto ancora dubbi possono esserci,
ecco un altro indizio a favore: Dante condivide con Pietro
anche il verbo principale della terzina deprecativa dell’inerzia imperiale.
Lo avete…sofferto, infatti, che vuol dire “avete tollerato”, imputato
com’è a due “tedeschi”, è leggibile come traduzione del
“tolerare” che ricorre nel su citato luogo del poema di Pietro, riferito
anch’esso a un monarca “teutonico”: «Teutonicam rabiem quis
tolerare potest?». A conferma ultima può venire il riscontro “sacro”:
in Isaia (LXIV, 10) – che Dante ben conosce – ricorrono sia il fia, sia
il diserto: «Sion facta est deserta».
[21] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE. PARTE SECONDA 647
2. Pd VIII, 62: «‘di Bari, di Gaeta e di Catona’»
Ma Pietro aiuta a sciogliere, ci sembra, anche un altro nodo
testuale della Commedia, riguardante la lectio di Pd VIII, 62, il su
citato canto di Carlo Martello; un canto “siciliano”, ma che è conseguentemente
proiettato nella geografia politica europea:
«Quella sinistra riva che si lava
di Rodano poi ch’è misto con Sorga,
per suo segnore a tempo m’aspettava,
e quel corno d’Ausonia, che s’imborga
di Bari, di Gaeta e di Catona,
là ove Tronto e Verde in mare sgorga.
(…)
E la bella Trinacria, che caliga
tra Pachino e Peloro, sopra ’l golfo
che riceve da Euro maggior briga,
non per Tifeo, ma per nascente solfo,
attesi avrebbe li suoi regi ancora,
nati per me di Carlo e di Ridolfo,
se mala segnoria, che sempre accora
li popoli suggetti, non avesse
mosso Palermo a gridar: ‘mora mora’».
(Pd VIII, 58 ss.)
Si sa che a verso 62 altri preferisce leggere «di Bari, di Gaeta e
di Crotona», che è anche presente nei primi codici: Catona sostituito
con Crotona, siccome Crotone è città più grande e più nota. Così
alcuni dei primi commentatori (Pietro di Dante, Benvenuto) e di
altri poi, non meno illustri (Landino, Lombardi, ecc.).
Ma qui il poeta nativo di Firenze è andato a consultare la
toponomastica letteraria (giacché non appare molto verisimile una
sua peregrinatio nell’Italia meridionale, pure da alcuni adombrata): e
prima fra tutte quella di Pietro. Nel Liber c’è un verso, l’83 della
Particula III, che può far dirimere la questione, e pendere la bilancia
tutta dalla parte di Catona, borgo che si trova alla punta dello Stivale:
«Imperii cornu iungat utrumque sui». Pietro nomina due “corni”
(cornu…utrumque), intendendo i due “triangoli” della Sicilia e del
Meridione peninsulare. È da questo verso che Dante ha potuto
mediare il corno d’Ausonia. Lo proverebbe anche la presenza del
dimostrativo, che serve a specificare tra due o più entità58: «quel
58 Così, ad es., a Pg XVI, 47-48: «e quel valore amai/ al quale ha or ciascun
disteso l’arco». Che significa: “e amai quello, tra i valori, a cui tutti non mirano
648 MARIO AVERSANO [22]
corno». Di qui, allora, la menzione dell’altro corno, indicato ugualmente
in termini topografici: Pachino e Peloro, cui segue Palermo, che
supplisce al capo Lilibeo. Essendo dunque nell’intenzione del poeta
riferirsi ai due corni d’Ausonia, sarà senz’altro da scartare Crotone,
che dista molti chilometri da Reggio Calabria: accogliendo Crotona,
cancelleremmo il primo corno, che invece viene a formarsi quando
si assume Catona a indicare la sua punta. Il vocabolo Trinacria (d’origine
greca) voleva dire, nella vulgata, proprio “tre punte”. E può
entrarci anche il cornua della Particula XXIV (v. 707), riferito a un
gioiello onde Costanza adorna il petto, forse con intenzione simbolica,
a proclamare il suo duplice dominio: «Pectoris in medio coeunt
se cornua lune». Fatto sta che anche a v. 1021 (Particula XXXIII) il
cornua è impiegato in accezione politica: «Quam geris inclusam,
trans Alpes cornua fundit,/ sollicitans solem regia luna suum».
Ma lo stesso Trinacria può appartenere al Liber (v. 1179), in quanto
unito con bella: così non è nelle altre fonti generalmente additate.
Pietro più volte decanta la bellezza della Sicilia. Abbiamo appena
veduto la denominazione di “guardino di rose”, che riceve da Euro
(e da Noto) «maggior briga». Gioverà ricordare che è la stessa briga
di Pg XVI, 115-120, quella che s’ebbe Federico I: menzione fatta al
centro della Commedia, e per bocca di un grande Consigliere, Marco
Lombardo. Anche è risaputo, dicevamo, che per Dante a tale briga
bisogna far risalire la fine della pace in Italia. Il che comporta, tra
l’altro, che non a caso nell’Epistola VI vengono indotti i “fulmini”
di Federico I; sono gli stessi di cui già parla il nostro Pietro: «Hic
Frederici ales fulminat ense procer» (v. 1596).
Ma a quello del roseto fanno seguito anche altri incisi di bellezza
naturale e artistica. Così l’apostrofe a Palermo di v. 194, che ha l’invitante
termine paradisus: «Altera mellifluens paradisus dulce Panormum
». Anche richiedono citazione i vv. 1231-1232 della Particula
XXXIX, dov’è lo stupore e il diletto di Enrico VI all’ingresso in
Sicilia: «Fabariam veniens, socerum miratus et illam,/delectans
animos nobile laudat opus».
Quest’idea di “paradiso siciliano” – corrente nel Medioevo anche
oltre Italia – agisce nella fantasia di Dante forse anche in quel che
collega la mitica Sicilia di Proserpina al “suolo” che fa da luogo
deputato (altro dal locus amoenus) di Matelda nel Paradiso terrestre:
più”. È Marco Lombardo a parlare; e per presentarsi dice che in vita amò sopra
tutto – da buon Consigliere qual volle essere – la giustizia, di cui non c’è più
chi abbia sete.
[23] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE. PARTE SECONDA 649
Tu mi fai rimembrar dove e qual era
Proserpina nel tempo che perdette
la madre lei, ed ella primavera.
(Pg XXVIII, 49-51)
Beatrice poi, a Pg XXX, 75, redarguisce il suo fedele ricordandogli
la “felicità” dell’Eden; che ci sia consonanza – stanti le cose fin
qui vedute – con quella che regnava nel Meridione con Guglielmo
II? Ma non è da insisterci. Molto di vero c’è ad ogni modo – per le
ragioni storico-politico-linguistico-paesaggistiche che sono affiorate
da questa ispezione – nelle parole che Pascoli volle dire in una
conferenza all’Università di Messina, sul principio del secolo XX:
«alla Sicilia tendeva il cuore di Dante». La Sicilia terra dove Proserpina
cantando coglieva fiori, come la Matelda di Dante.
Ma il mito, si sa, ci consegna una dea triforme: Proserpina degli
Inferi è anche Diana delle selve e Trivia del cielo, la luna. Che riluce
con Febo, come Costanza con Enrico59. Chissà che non si debbano
leggere con la mente alla “serenità” siciliana, per via del sereni, di
Trivia e del Sol, anche i versi di Pd XXIII, 25 e segg., dov’è il più
incantato plenilunio che si conosca:
Quale ne’ pleniluni sereni
Trivia ride tra le ninfe etterne
che dipingono ’l ciel per tutti i seni,
vid’io sopra migliaia di lucerne
un Sol che tutte quante le accendea,
come fa il nostro le viste superne …
Ciò stanti anche le coincidenze cui s’è accennato, per il tema
della benignità, nel paragrafo riguardante il Veltro.
3. If XXXI, 67: «‘Raphel maì amècche zabi almi’»
Altre cose ancora andrebbero agitate, e qualcuna non proprio
ordinaria. Si pensi, per un esempio, all’ugual valore che il termine
“almo” ha in Pietro e in Dante: sempre connesso col concetto politico
dell’unire e del pacificare. In accordo con gli impieghi di Pietro
l’«alma Roma» di If II, 20 potrà indicare la Roma che ridusse il
59 Si rivada al Phebi …lune del Liber (vv. 706-707), il passo dove – si faccia
caso – Costanza fausta venit, sfolgorante in tutta la sua bellezza, per veleggiare
proprio verso Palermo!
650 MARIO AVERSANO [24]
mondo in pace con la creazione dell’Impero ad opera del buon
Augusto. Enea «‘… fu de l’alma Roma e di suo impero/ne l’empireo
ciel per padre eletto». Lo alma …padre, col resto del distico, sembra
essere fiorito dallo Alme pater …pacis iter della Particula V (vv. 112-
114), cui tien bordone lo almipater della Particula XV (v. 410). Ne
scatta una conseguenza non trascurabile. Lo “almo” è rarissimo nella
Commedia, avendo solo tre impieghi. Uno di essi – con ogni evidenza,
allora, programmato – si riscontra a If XXXI, 67, nel verso-grido
di Nembrotte, l’ideatore della torre di Babele:
«Raphèl maì amèch zabi almi»
Ho trascritto almi (e non almì, come vorrebbero alcuni) non perché
così si ottiene una rima non forzata con salmi, ma perché il
vocabolo – dato il numero eccezionalmente scarso delle ricorrenze:
cosa che in Dante sempre invita a “collegare” – è da mettere con
sicurezza in relazione con lo alma riferito a Roma. In che modo,
forse già si sarà intuito. Il commento secolare reputa, con generale
concordia, che lo almi posto nella fiera bocca del gigante biblico non
abbia alcun significato: al modo degli altri lemmi (che Dante avrebbe
buttato giù più o meno “a casaccio”): meri fonemi contrari ad
ogni altra logica che non sia dell’inespressività (ciò, beninteso, salvo
il valore che Nembrot certo voleva dare alle sue parole, e sul quale
i dantologi si accaniscono da sempre, con le più disparate ipotesi).
Il verso conterrebbe, in altri termini, un’accozzaglia di sillabe sconnesse,
ideata come contrappasso analogico della confusione-incomprensibilità
degli idiomi che conseguì a Babele. Invece, a conti fatti,
la sostanza delle cose – e Pietro contribuisce a svelarla – potrebbe
essere un’altra: il contrappasso va certo richiamato, ma nel senso
che da Nembrotte scaturirono delle conseguenze contrarie a quelle
che provennero dall’alma Roma. Egli divise linguaggi e popoli,
laddove Roma li unì e pacificò. La torre di Babele comportò la
rottura della concordia e della pace, e non solo linguistiche. Prova
di tutto questo sia anche la “gestione” dell’altro solo impiego di
almi: esso ricorre a Pd XXIV, 138, per lo Spirito santo che, disceso
sugli Apostoli, avviò la loro predicazione e fece sì che tutti la capissero;
una riunione delle lingue, dunque, e dei cuori: «poi che l’ardente
Spirto vi fè almi…».
Ma a ritornare, col punto fermo di almi, sul resto del verso, si
può tentare di decrittarne qualche altro lemma, ad es. il maì (o mai).
Lo si prenda alla lettera, come una negazione assoluta: un corrispet[
25] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE. PARTE SECONDA 651
tivo del mai di cui s’è detto per la “fede” di Pier della Vigna e di
Costanza d’Altavilla. Lo si congiunga poi con l’almi: ne viene fuori
“mai almi”, nel senso di “mai operatori di pace”. Lo almi, prospettandosi
con sufficiente evidenza (almeno nel calcolo delle probabilità)
come un plurale, implica che il rapporto non è riferibile a un
unico soggetto: gli agenti grammaticali dovranno essere almeno due.
Due, è pensabile, quanti sono coloro ai quali Nembrotte si rivolge
“gridando”: Virgilio e il suo discepolo. Nel verso, allora, potrebbe
essere indicata un’altra persona (quantunque non necessariamente
tramite un nome proprio), che si accompagna a Raphèl: il quale, ci
sembra abbastanza pacifico, altri non può essere che l’Angelo Raffaele.
Di un secondo individuo è difficile che ci possa essere agnizione
nello amèch (nel senso di “amico”): a cui forse è da preferire
amècche, per il parallelismo (ben sospettabile) con lo alèppe, che è
volgarizzazione di aleph (sul tipo: Ioseph-Giuseppe), e si trova in un
altro cominciamento “salmodico”: il «Pape Satàn, Pape Satàn, aleppe»
di Pluto (If VII, 1). Quest’ultimo verso, intanto, già mostrammo che
ha molto di quello che Nembrod grida: al meno, in entrambi i casi
potrebbe esserci il tentativo di cantare, e addirittura un salmo60. Ne
consegue che, a poter fare “duo” con l’Angelo Raffaele, rimane il
bisillabo zàbi (cui, anticipando, diamo subito il maiuscolo: Zabì). Lo
amècche potrebbe essere (ma ai fini di quanto qui si ipotizza non è
importante) un rafforzativo di maì: maì amècche verrebbe a suonare
come uno stravolgimento fonico del già mai ora detto. Ma, a pensarci
ancora, il verso potrebbe essere ricostruito – e forse meglio, in
ordine al secondo soggetto che lo almi esige: magari con la congiunzione
“e” da porre tra lo amécche e lo Zabì – in quest’altro modo:
Raphèl maì amècche (e) Zabì almi. Ne uscirebbe un “grido” ottuso e
smozzicato, ma pur sempre avente un che di referenziale.
Ma tutto dipende da un controllo: se e dove la Bibbia dia luogo
a Raffaele – di cui Virgilio si va profilando come l’alter – nel compito
di “maestro e duca” inviato dal Cielo per altrui campare. Dal
censimento emergono due dati: 1) la presenza protagonistica dell’Angelo
si riscontra solo nel Libro di Tobia; 2) in esso il suo ruolo
è duplice: quello di “guaritore”, e quello di guida. Tutte e due le
risultanze, ognuno già lo intravede, sono più che significative. La
prima consiglia e induce a trovare il motivo della presenza nel testo
60 Il termine convenire (v. 69) è musicale, come corno (vv. 12 e 71) e passion (v.
72); e va congiunto col disconvenevole di If XXIV, 66: a lume della nota convenientia
di cui nel De vulgari eloquentia.
652 MARIO AVERSANO [26]
sacro di Raphèl (e non d’altri), come figura soterica. Andando al
controllo, vediamo che il Signore mette alla prova Tobìa, novello
Giobbe, con la povertà, la persecuzione, l’esilio e infine con la cecità.
E Raffaele in tanto è inviato a liberazione da questi mali, in
quanto ciò è conforme al significato che al suo nome bisogna dare,
come dice san Girolamo (glossando Dn VIII, 16): Raphel = “medicina
di Dio”.
E qui deve subentrare una presa d’atto che costituisce l’elemento
di prova intratestuale. Proprio in questo canto di Nembrotte, e nella
prima terzina, si registra l’unico impiego del termine “medicina”
nella prima Cantica: «e poi la medicina mi riporse» (If XXXI, 3).
Poiché a porgerla è Virgilio, ecco riaffacciarsi la possibilità di accostare
Virgilio a Raffaele. Questi, per guarire il vecchio Tobia dalla
cecità, accompagna in un viaggio fino a Rages dei Medi un giovane,
Tobia figlio, prendendolo sotto scorta, e istruendolo ad ogni tappa.
Ecco la spiegazione del secondo dato, del viaggiare-guidare, che riconvoca
Virgilio: lui – come Raffaele-guida – da una parte; Dante –
come Tobia iunior-guidato – dall’altra.
A questo punto non rimane che un atto solo da compiere: l’assunzione
dello Zabì (o Zobì: ove qualcosa del genere non sia pure
nei codici) come deformazione di Tobìa.
A chi obiettasse che Dante parla di “confusione” e basta, e che
dunque non è il caso di perderci altri sonni e polsi, converrà ricordare
che la testualità del canto consiglia in altro modo. Virgilio dice
con chiarezza che Nembrotte compie con le sue “parole” un’autoaccusa:
«‘Elli stesso s’accusa’» (v. 76); e ciò significa che il duca ha ben
compreso il contenuto della sentenza emessa dalla fiera bocca del
nemico, ad onta della “confusione” fono-morfologica con cui è stata
espressa: come ha compreso il verso uscito dalla voce chioccia di
Pluto. Non è verisimile che Nembrotte “si accusa egli stesso” per il
fatto che parla in modo incomprensibile (non sarebbe un’autoaccusa).
È più ragionevole intendere, ci sembra, che egli ricordi la propria
colpa (come tanti altri personaggi del Poema), e che la confessi, sia
pure obliquamente, per quella che è: colpa di aver disunito – e cioè
resa “non alma” – la propria comunità. “Sì, ho diviso il mio popolo”,
egli ammette, “ma lo stesso hai fatto, e farai sempre, tu Dante,
che ti credi menato da un Angelo. Consigliere perverso, io (mal
coto); ma tale sei anche tu”. In conclusione, Nembrod apostroferebbe
Virgilio e Dante con questo canto-grido: Raphél maì amécche Zabì
almi; e le parole andrebbero così “tradotte”: Raffaele giammai e
Tobìa almi (operatori di pace). In altri termini: “Voi due, novelli
[27] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE. PARTE SECONDA 653
Raffaele e Tobia, non sarete mai guaritori-pacificatori di popoli”.
Con un sottinteso, presente già nelle parole di Minosse (If V, 19:
«guarda com’entri e di cui tu ti fide»), e implicito in quelle di Pluto:
“non fidarti troppo di Virgilio e della sua scienza”. Superfluo ricordare
come e in che misura Dante voglia essere, con l’aiuto di Dio,
“medicina” per l’Italia e per tutti i viventi. E qui, finalmente, possono
giungere in perfetta chiave due altri conforti: l’intestazione della
quinta Epistola, e le sue righe iniziali. Essa offre il quarto ed ultimo
impiego dantesco del termine “almo” riferito ancora a Roma, e si
chiude con quello di “pace”, la pace che Dante invoca in veste di
gran Consigliere: «Universis et singulis Ytalie Regibus et Senatoribus
alme Urbis nec non Ducibus Marchionibus Comitibus atque Populis,
humilis Ytalus Dantes Alagherii florentinus et exul inmeritus orat
pacem». Quanto all’avvio della Lettera, esso ripropone, e in chiusa a
un esclamativo, ancora e sempre la pace: «‘Ecce nunc tempus
acceptabile’, quo signa surgunt consolationis et pacis».
A questa interpretazione potranno venire altri riscontri dimostrativi,
quando ci si dia a una più vasta ricerca. Converrà muovere,
a ogni modo, sempre da una considerazione: Virgilio non avrebbe
reagito con tanta violenza verbale («‘Anima sciocca…’»), se gli accenti
emessi da Nembrotte, infelici conati di salmi (“non convenienti”)
61, fossero semplice flatus vocis, e non comportassero offesa per la
sua persona e per il suo alunno. Il savio gentil che tutto seppe ne ha
ben compreso il significato negativo, e risponde come il superbo
ideatore di Babele si merita.
Mario Aversano
CIRO PERNA
I capitoli di Romano Alberti tra satira e burlesco
The unpublished collection of lyrics by Romano Alberti contains fifteen
poems in terza rima in which satirical elements clearly derived from
Ariosto coexist with cues drawn from Berni’s literary lusus. The satirical
and burlesque genres appear to be mingled in them, as other works
written towards the close of the sixteenth century also demonstrate.
Mi basta sol che ’l vitto io mi proveggia
con quel poco che so del mio mestieri,
che ricco è quei ch’alcun non lo dileggia1.
Ser Zero ha monna Nulla per consorte,
né teme come gli altri maritati,
ch’ella gli faccia mai le fusa torte2.
Il canzoniere di Romano Alberti (1540ca.-1600ca), testimoniato
esclusivamente dal codice xiii D 54 della Biblioteca «Vittorio Emanuele
iii» di Napoli3, è caratterizzato da una bipartizione strutturale
corrispondente a due tradizioni letterarie diverse, antitetiche per
1 R. Alberti, Presto mastro di casa or or sia detto, con didascalia Al signor
Ottaviano Vittoria scultore, vv. 94-96 (Napoli, Biblioteca Nazionale «Vittorio
Emanuele iii», ms. xiii D 54, d’ora in avanti N, c. 107v). Tutte le citazioni
albertiane saranno trascritte con criteri conservativi, che prevedono comunque
taluni necessari interventi di ammodernamento grafico, al fine di agevolarne
l’approccio, quali: 1) eliminazione delle maiuscole a principio di verso e di
quelle enfatizzanti nelle iniziali di nomi comuni o aggettivi; la maiuscola è
conservata nelle personificazioni; 2) eliminazione dell’h etimologica e
paretimologica nei sostantivi, aggettivi, avverbi e nelle forme graficamente
desuete del verbo avere; 3) resa con zi del gruppo ti + vocale; 4) scioglimento
delle abbreviazioni e contrazioni senza indicazioni in loco; 5) ammodernamento
nei casi di ch o gh davanti a vocale posteriore o consonante.
2 Id., Dimostrò pur d’esser un uom leggiero, con didascalia Allo eccellente signor
dottor Giovanni Vergici capitolo in lode del Zero, vv. 70-72 (N, c. 85v).
3 Per approfondite notizie sulla vicenda biografica e intellettuale dell’Alberti,
nonché sul codice N, sia consentito il rinvio a C. Perna, Romano Alberti e un
[2] I CAPITOLI DI ROMANO ALBERTI TRA SATIRA E BURLESCO 655
certi aspetti: nella prima parte sono raccolti, infatti, 84 sonetti, 49
madrigali, 3 componimenti in ottave e 2 canzoni, mentre la Seconda
parte delle Rime di Romano Alberti nella quale si contengono satire e bernieschi
scritte a diversi signori e patroni4, consta di 15 capitoli in terza
rima e 6 sonetti, di cui 5 caudati. Fatta eccezione per le ottave, di
chiara ascendenza ariostesca, i testi della prima parte risultano pienamente
ascrivibili a quel petrarchismo di maniera tardocinquecentesco,
caratterizzato da una riproposizione centonistica di abusati topoi e
vuoti stilemi, ossia quegli «[…] unquanco, pallide vïole, / e liquidi
cristalli e fere snelle» a cui il Berni chiedeva di tacere5. Se i 6 sonetti
della seconda parte sono chiaramente riconducibili alla pratica comico-
bernesca, i 15 ternari si inseriscono, invece, nell’alveo di una
tradizione relativamente giovane, ma che a quell’altezza cronologica
aveva già percorso una lunga linea evolutiva: nel giro di circa mezzo
secolo dalle contemporanee prove ariostesche e bernesche, infatti,
la satira e il burlesco non avevano proceduto in direzione di una
netta specializzazione in generi, quanto piuttosto verso una sfumatura
delle idiosincrasie, generata da sempre più ampie interferenze
tematiche, oltre che stilistiche e favorita da innegabili affinità strutturali.
I capitoli in terza rima, dunque, assumevano «liberamente
caratteri tematici e formali dell’uno e dell’altro codice, rimescolandoli
e assoggettandoli ad una nuova grammatica compositiva»6.
Sia ammettendo che la dicitura satire e bernieschi nella didascalia
di c. 70r fosse indistintamente riferita ai 15 capitoli e ai 6 sonetti,
sia, come più verosimile, attribuendo il termine satire ai primi e
l’aggettivo bernieschi ai sonetti7, sarà comunque il caso di parlare di
ibridismo. I componimenti albertiani in terza rima, infatti, manifestano,
come vedremo, espliciti momenti di sovrapposizione dei codici:
al di là della qualifica livellante di satire, come già accaduto ad
sonetto attribuito a Torquato Tasso, «Filologia e Critica», xxxii (2007), n. 2, pp. 275-
89, e Id., La «verace maniera artificiosa»: due satire inedite di Romano Alberti in difesa
della Gerusalemme Liberata, «Filologia e Critica», xxxiv (2009), n. 2, pp. 77-115.
4 Didascalia rilevabile a c. 70r di N.
5 F. Berni, Padre a me più che gli altri reverendo, con didascalia A fra’ Bastian
del Piombo, vv. 29-30, in Id., I Capitoli, a cura di R. Dusi, Torino, UTET, 1926,
p. 110.
6 S. Longhi, Lusus. Il capitolo burlesco nel Cinquecento, Padova, Antenore, 1983,
p. 241.
7 A sostegno di questa ipotesi concorre la didascalia di c. 108v, Sonetto bernesco
all’eccellente signor Dottor Giovanni Vergici, relativa al sonetto caudato Signor
Vergici mio tanto saputo (N, cc. 108v-109r).
656 CIRO PERNA [3]
esempio nelle sillogi di Pietro Nelli o di Agostino Cazza8, la raccolta
palesa una fisionomia cangiante, in cui il registro di conio orazianoariostesco
è mescidato a quello burlesco (e a quello lirico), anche
nell’ambito dei singoli testi. La trascrizione di questi ultimi nel codice
N segue un’ordine che non risponde a criteri cronologici né
tematici o strutturali:
i: Al gentilissimo signor Girolamo Magagnati [vv. 211, cc. 71r-75v];
ii: Allo eccellente signor dottor Giovanni Vergici [vv. 220, cc. 76r-
80v];
iii: Al clarissimo signor Marco Ruggiero. Capitolo in lode del mezo
[vv. 155, cc. 81r-83v];
iv: Allo eccellente signor dottor Giovanni Vegici. Capitolo in lode del
zero [vv. 118, cc. 84r-86v];
v: Alle magnifiche melensaggini e alle melense magnificaggini dei
motteggievoli signori Accademici della Crusca [vv. 298, cc. 87r-93v];
vi: Alla bellissima e gentilissima signora Erminia Andovina [vv. 279,
cc. 94r-100v];
vii: Al signor Salustio Maffei [vv. 172, cc. 102r-105v];
viii: Al signor Ottaviano Vittoria scultore [vv. 115, cc. 106r-108r];
ix: Al clarissimo signor Carlo Berengo mertissimo secretario del Gran
Consiglio dei Dieci Capi di Venezia [vv. 202, cc. 111r-114v];
x: Al signor Anastasio Giusberti [vv. 199, cc. 115r-118v];
xi: Contra alcuni insolenti [vv. 135, cc. 119r-121v];
xii: All’eccellentissimo signor Abbate Gio.Battista Attendolo [vv. 106,
cc. 122r-124v];
xiii: Al signor Gasparo Burgi fiscale di Campidoglio [vv. 147, cc.
125r-129r];
xiv: All’illustrissimo signor don Gasparo Toralto [vv. 256, cc. 130r-
136r];
xv: Alla bellissima e gentilissima signora Erminia Andovina [vv. 238,
cc. 137r-142r].
Tutti i destinatari dei componimenti appartengono ad ambienti
determinati localmente, cronologicamente e socialmente, con i quali
l’Alberti è entrato in contatto nell’arco delle sue tortuose vicende
8 Si tratta delle Satire alla Carlona di messer ANDREA DA BERGAMO, Venezia,
per Pauolo Gherardo, 1546 e le Satire et capitoli piacevoli di messer GIOAN
AGOSTINO CAZZA gentilhuomo Novarese, Milano, s.n.t., 1549, per cui cfr. S.
Longhi, Lusus. Il capitolo burlesco nel Cinquecento, cit., pp. 239-41 e P. Floriani,
Il modello ariostesco. La satira classicistica nel Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1988, pp.
138-57 e 163-67.
[4] I CAPITOLI DI ROMANO ALBERTI TRA SATIRA E BURLESCO 657
biografiche: premesso che per nessuno dei 15 ternari è stato individuato,
allo stato attuale delle ricerche, alcun riferimento esterno al
testimone N9, sarà possibile proporre, dunque, talune ipotesi
cronologiche esclusivamente sulla base delle notizie (allusive in alcuni
casi, di cronachistica precisione in altri) fornite dall’autore all’interno
dei versi. Agli anni del soggiorno napoletano (1585-1587)
andranno certamente ascritte le satire in difesa della Gerusalemme
Liberata, come in altra sede dimostrato10, ossia i componimenti v, xii
e xiv, nonché il capitolo xiii, indirizzato al maceratese Gaspare Burgi,
procuratore fiscale capitolino. Al periodo veneziano (1587-1588) sono
riconducibili, invece, il componimento i a Girolamo Magagnati, l’xi
contra alcuni insolenti, il xv ad Erminia Andovina, datato «sedici
d’aprile / de l’Otantotto» (vv. 1-2, N., c. 137r), e, con qualche dubbio,
il ix per Carlo Berengo e il x ad Anastasio Giusberti. I ternari
ii e iv a Giovanni Vergici, il iii a Marco Ruggiero, nonché il vi,
ancora indirizzato alla Andovina e esplicitamente datato «di Candia
il primo de l’Ottantanove» (v. 279, N., c. 100v), sono collocabili nel
difficile periodo cretese (1588-1591ca), quando l’Alberti era arruolato
tra le truppe veneziane di stanza negli avamposti dell’Egeo. Mancano
di qualsiasi riferimento utile ad una collocazione cronologica,
invece, i componimenti vii e viii, indirizzati rispettivamente a Sallustio
Maffei e allo scultore Ottaviano Vittoria: si tratta, infatti, di
testi in cui il motivo misogino (vii) o della reprimenda degli eccessi
dei ricchi (viii) non è corredato da circostanziati riferimenti alla
realtà quotidiana. Poco o nulla, per di più, conosciamo dei due
destinatari, a parte la provenienza romana del primo, come specificato
dall’Alberti a c. 146v, nell’elenco di personaggi noti che chiude
il codice (cc. 146v-147v), nonché il sonetto Roman solo il tuo nome
altrui discopre, che reca la didascalia Del signor Sallustio Maffei a
Romano Alberti, trascritto in N a c. 145v.
Da una sommaria lettura delle didascalie si evince immediatamente
come, esclusi il capitolo v, impostato piuttosto come spazio di riflessione
poetico-letteraria in difesa dalle accuse cruscanti alla Liberata11, e il
9 L’unica eccezione è la cursoria citazione del componimento per gli accademici
della Crusca nell’introduzione alle lettere tassiane della prigionia del curatore
ottocentesco Cesare Guasti. Cfr. C. Perna, La «verace maniera artificiosa»: due
satire inedite di Romano Alberti in difesa della Gerusalemme Liberata, cit., p. 84.
10 Cfr. Ivi, pp. 82-86.
11 Il testo accademico con cui polemizza l’Alberti in vari luoghi del ternario è
la Stacciata Prima di Leonardo Salviati. Per tutta la questione cfr. Ivi, pp. 89-102.
658 CIRO PERNA
capitolo xi, aspra invectiva rivolta a indefiniti «insolenti» veneziani,
tutti gli altri componimenti manifestino il carattere privato dell’esperienza
satirica, affidata, tra l’altro, a una circolazione esclusivamente
manoscritta, ordinata a posteriori nel codice N e priva di alcun progetto
certo di edizione a stampa. Scrivendo a pochi, l’autore circoscrive
e seleziona il codice comunicativo, rendendolo così sfumato e
meno accessibile, «nel senso che i suoi comportamenti, e in definitiva
la sua morale, si intendono condivisibili solo da coloro ai quali
egli sta parlando»12. Attraverso l’indicazione dei corrispondenti è
testimoniata, inoltre, la circostanzialità di quel messaggio, ovvero
l’esistenza di un’occasione puntuale a monte dei versi inviati, che
palesano a più riprese i tratti di una «autobiografia minima»13. L’assenza
di testimonianze esterne non consente di capire se i testi
siano stati effettivamente inviati o piuttosto se siano giunti a destinazione:
la sola presenza dei destinatari è, tuttavia, sufficiente a
designare «una zona ed un livello della società coeva»14, in cui viene
rappresentata una rete di relazioni fondata sulla testimonianza di
scelte esistenziali, sull’enunciazione di principi e giudizi, sul resoconto
di situazioni di fatto o, al limite opposto, sul lusus letterario.
Questa circolazione di idee è sovente ritratta con cura estrema
della verosimiglianza, che ha reso questi testi documenti fondamentali
per la ricostruzione della vicenda biografica albertiana, tenuta
naturalmente conto della mediazione letteraria ad essi sottesa15. Tra
vissuto e narrato, tra fictio e veritas il limite è, infatti, estremamente
sottile: ogni dato andrà accolto, dunque, con cautela e discrezione,
alla luce di quella «inevitabile trasformazione che ogni elemento
della realtà, soprattutto se interiore, subisce nel processo di rappresentazione
fantastica»16, e considerato, poi, l’atteggiamento particolare
che l’autore imprime su ciò che un’urgenza, una necessità o
uno sfogo personale hanno imposto di dire. Lo speaker satirico è
portato dalla potenza del sentimento a seguire le varie contingenze
12 A. Corsaro, La regola e la licenza. Studi sulla poesia satirica e burlesca fra
Cinque e Seicento, Roma, Vecchiarelli, 1999, p. 9.
13 G.M. Stella Galbiati, Per una teoria della satira fra Quattro e Cinquecento,
«Italianistica», xvi (1987), n. 1, p. 15.
14 P. Floriani, Il modello ariostesco. La satira classicistica nel Cinquecento, cit., p.
19.
15 Cfr. C. Perna, Romano Alberti e un sonetto attribuito a Torquato Tasso, cit.,
pp. 275-279.
16 G. Fatini, Umanità e poesia dell’Ariosto nelle “Satire”, «Archivium
Romanicum», xviii (1933), n. 4, p. 504.
[5]
[6] I CAPITOLI DI ROMANO ALBERTI TRA SATIRA E BURLESCO 659
della vita, piegandole alla forza rielaboratrice, innovatrice della letteratura.
Attraverso una sistematica prassi allocutiva, che in tutti i casi
prevede l’utilizzo del voi e che ribadisce «l’individualità esistenziale
dell’io che parla»17, l’Alberti coinvolge i destinatari in queste urgenze,
instaurando un dialogo che, lungi dalla complessità ariostesca,
assume piuttosto un carattere univoco, monodirezionale, nella quale
acquista valore la riflessione anche risentita sugli eventi e sulle difficoltà
del presente. La struttura dialogica non è impostata su un
effettivo scambio dialettico con gli interlocutori: a questi ultimi, infatti,
l’autore non attribuisce obiezioni, dubbi, insinuazioni, ma richiede
ascolto, comprensione, rispetto a ciò che attraverso un vero
e proprio monologo si accinge a esprimere. Mittente e destinatario
sono sul medesimo piano in una comunicazione orizzontale, ma è
lo speaker con la sua voce, la sua storia, il suo mondo, il protagonista
indiscusso dei versi. Il realismo dei componimenti consiste innanzitutto
nell’esposizione a un interlocutore preciso di un punto di
vista soggettivo, di un personale modus vivendi. Manca tra le realizzazioni
del rapporto io/tu alla base del modello ariostesco18, dunque,
il tu rivolto all’autore dai destinatari o da una voce anonima,
salvo rare eccezioni:
fedel mio caro qual demon sì pronto 165
fu a disturbar nostri commun diletti?
Alberti mio, chi t’ha da me disgionto?
In qual parte ora sei? Dove m’aspetti?
Certa ch’in mille rischi sei trascorso
quanti ho del viver tuo fieri sospetti. 170
[…]
La tua diletta Erminia (ahi cieli ingrati
perché ufficio sì giusto e pio vietarmi?)
gli ultimi baci non t’avrà donati19.
Ben rappresentati, invece, i rapporti io/tu che si figurano come
«finzioni di secondo grado»20, ossia il tu con cui l’autore apostrofa
ed è apostrofato da personaggi da lui evocati:
17 C. Segre, Struttura dialogica delle “Satire” ariostesche, in Id., Semiotica filologica.
Testo e modelli culturali, Torino, Einaudi, 1979, p. 119.
18 Ivi, p. 120.
19 vi, vv. 165-179, N, c. 98r.
20 C. Segre, Struttura dialogica delle “Satire” ariostesche, cit., p. 120.
660 CIRO PERNA [7]
con mia gran meraviglia apunto quando
entro, veggo il barbier ch’in terra getta 5
un libro tutto irato borbottando:
«oh che ottava oscura e maledetta21,
venga il morbo a chi a leggerlo m’indusse»,
poi mi raccolse e fece di beretta.
Io vago di saper che libro fusse 10
gliel’ chiesi et ei rispose: «egli è ’l Tassino
che gli venghin’ov’è mille ghiandusse».
«Oh», gli diss’io, «questi non è il divino
Arïosto del qual prende piacere
ogne artegiano, ogni oste, ogni facchino»22. 15
Ad un livello che potremmo definire metadiegetico appartengono,
invece, i tu con cui interagiscono i personaggi protagonisti di favole
fittizie o di racconti esemplari:
infin quanto vorrei lodar non posso
il capitan Lorenzo de’ Sostegni,
capitan fiorentino grande e grosso. 90
Questi un giorno per certi suoi disegni
sovra un picciolo scoglio andò a fermarse
con un battello de’ suoi grossi legni,
quando uno spagnolicco in riva apparse
e, visto il burchio ov’era il marinaro, 95
a lui venne ancor voglia d’imbarcarse
e con un viso di caldarostaro
gridò: «oh buscïaron de la barchiglia,
chiero passar di là, vien qua somaro».
Alora il capitano alzò le ciglia 100
e si fece veder da quel marrano,
sì ch’ei si vide scorso a molte miglia
e, per scusarsi, co· ’l capello in mano
disse: «vuessa mestè non miri a cheglio
ch’e’ diccio pour ablar con est’hermano». 105
Il capitan, per attaccarla meglio,
risponde: «venga pur vosignoria»
e fa spinger la barca verso d’eglio23.
Alla tradizione propriamente satirica, con particolari affinità rispetto
al modello ariostesco e ai suoi successivi risvolti, bentivoleschi
innanzitutto, andranno ricondotti i ternari vii e viii, indirizzati ri-
21 Il verso è ipometro se si esclude una (improbabile) dialefe tra che e ottava.
22 xii, vv. 4-15, N, c. 122r.
23 xiii, vv. 88-108, N, c. 127r-v.
[8] I CAPITOLI DI ROMANO ALBERTI TRA SATIRA E BURLESCO 661
spettivamente a Sallustio Maffei e Ottaviano Vittoria, nonché il x
per Anastasio Giusberti. Se per i primi, come anticipato, non è possibile
proporre ipotesi di datazione, risultando completamente svincolati
da qualsiasi riferimento al quotidiano, per l’ultimo si può
cautamente avanzare una collocazione cronologica nel periodo veneziano,
in ragione di un (labile) indizio: nella salutatio l’Alberti fa
riferimento ad una «sventura» (v. 2) di cui sembrerebbe rattristarsi
il suo interlocutore veneziano24 e che potrebbe probabilmente significare
l’improvvisa fuga in laguna con il conseguente abbandono
dei suoi affetti, di cui spesso è fatto riferimento nelle rime:25
Giusberti, da che voi per grazia vostra
vi condolete de la mia sventura
e molta cortesia m’avete mostra,
io mi consolo sì, perché non dura
il mal come il bene anco et al fin viene 5
il chiaro dì dopo la notte oscura26.
Gli argomenti delle tre satire manifestano una piena aderenza ai
topoi etici della tradizione oraziana-ariostesca: il rapporto con le donne,
non senza punte misogine (vii), gli eccessi dei ricchi e la vacuità
del loro vivere (viii) e i vizi del mondo generati dall’avarizia (x). Di
fronte a queste tematiche lo speaker si pone generalmente con atteggiamenti
di saggezza epicurea, nonostante un evidente disagio che
in certi casi sembra generare un vero e proprio sfogo in versi:
«Presto, mastro di casa, or or sia detto
al cuoco che mi faccia qualche nuovo
intingolino o ver manicaretto.
Lo stomaco sì sconcio mi ritrovo
che, per ricuperare l’appetito, 5
mastico ciò che voglio e in van mi provo.
Fà ch’una volta mi si porti un dito
di vin che fresco sia, fà ch’una volta
mi s’agghiaccino i denti: haimi tu udito?
24 Anastasio Giusberti è ricordato dal Foscarini tra i vari intellettuali autori
di lettere d’encomio stampate nella prima edizione della PETRII JUSTINIANI
patritii Veneti Aloysii F. rerum venetarum ab urbe condita historia (Venezia, apud
Comino de Tridino Montisferrati, 1560). Cfr. M. Foscarini, Della letteratura veneziana
ed altri scritti intorno ad essa, Venezia, co’ Tipi di Teresa Gattei, 1854, p. 293.
25 Cfr. C. Perna, Romano Alberti e un sonetto attribuito a Torquato Tasso, cit., p.
277.
26 x, vv. 1-6, N, c. 115r.
662 CIRO PERNA [9]
Mi s’è di dietro una stringa disciolta, 10
chiama sti paggi, che nessuno appresso
mai me ne veggo, tutti vanno in volta».
Oh degni d’esser gettati in un cesso
fatevi udir, alzate pur la voce,
che quanto dite v’è per buono ammesso27. 15
Trincerato nei confini di un’aurea (e spicciola) mediocritas, lo
speaker si abbandona alla rappresentazione del vizio, attraverso un
andamento incostante ed errabondo, ispirato senza dubbio alla fisionomia
aperta e divagante della satira ariostesca:
quando a tavola state otto ore parvi
di far, mi penso, una solenne prova
attendendo benissimo a inzepparvi.
Vogliono da l’un lato uno che mova 70
sul lïuto la man concordemente,
da l’altro alcun che conti qualche nova.
Ruffiani, parasiti e simil gente
fanno sguazzare in casa loro, intorno
se li voglion veder continuamente. 75
Virtuosi tener gli sarïa scorno,
perché sanno ch’un animo gentile
non può star dove un sozzo fa soggiorno.
E se talora gli entra nel cortile
alcuno che per Dio lor chieda aita, 80
per la sua povertà mendico e vile,
«scacciatelo, toglietegli la vita»
gridan, «s’un’altra volta egli ci appare»,
con voce ch’a vendetta il cielo irrita28.
L’Alberti si commisura al vizio, sostenendo, alla maniera bentivolesca,
«un’autarkeia realizzata contro lo sfondo della dismisura e
della volgarità altrui»29: è esibita, dunque, una dimensione contrastiva,
di antitesi tra l’io (e la ristretta cerchia di destinatari) versus il
mondo. Il linguaggio satirico è inteso innanzitutto come luogo della
rivendicazione del sé, autocompiaciuta celebrazione nel proprio limitato
orizzonte. L’autoritratto dell’io che parla, una sorta di eroe
del quotidiano, è frutto di una contrapposizione, ovvero di un
capovolgimento dei vizi inteso come ritorno alla rectitudo:
27 viii, vv. 1-15, N, c. 106r.
28 Ivi, vv. 67-84, N, c. 107r-v.
29 P. Floriani, Il modello ariostesco. La satira classicistica nel Cinquecento, cit., p.
134.
[10] I CAPITOLI DI ROMANO ALBERTI TRA SATIRA E BURLESCO 663
mi basta sol che ’l vitto io mi proveggia
con quel poco che so del mio mestieri, 95
che ricco è quei ch’alcun non lo dileggia.
Son le mani i miei paggi, i pie’ staffieri,
mi sto, cammino e quel ch’io voglio faccio
senza chiamar Gianni, Michele o Nieri
e senza dare a’ miei parenti impaccio, 100
l’Italia ho per mia casa, ov’io son nato:
spasseggio in questa, in questa dormo e giaccio.
S’in Roma, in Siena, in Napoli son stato,
ne la mia patria, in Venezia, in Vicenza
il mio bisogno non mi ci è mancato, 105
ch’in quanto a me non faccio differenza
di vivere in qualunque modo io vivo,
in Bergamo, in Ferrara od in Fiorenza30.
La saggezza non è più nella riflessione dialettica, nella «macchia
di pazzia»31, dal momento che non incombe affatto nelle scelte personali
la minima traccia della contraddizione. Il modello ariostesco
risulta, così, semplificato, ridimensionato: resta «l’uomo da bene […]
costretto ad una lamentosa difesa di spazi minimi, garantiti dall’ideologia
di un’autarkeia astratta»32. Lo speaker sostiene con fermezza
di essere distante dalla “follia” del mondo e ben pronto ad
affrontarne la mutevolezza:
l’animo mio costante non si muta,
cadon le foglie incontro a Borea algente,
ma la quercia riman, benché sbattuta.
Questa fortuna pur tanto possente 25
ci la facciam da noi medesmi, ch’ella
si trova buona dov’è bona gente:
se l’età nostra sì maligna e fella
non fosse ai virtüosi, la fortuna
divenirebbe di tiranna ancella. 30
Rara bontà negli uomini o nessuna
si scorge: ogn’uno avaro chiude e serra
quanto per mille torte vie raguna33.
30 viii, vv. 94-108, N, cc. 107v-108r.
31 L. Ariosto, Satira ii, v. 149, in Id., Satire, a cura di C. Segre, Torino,
Einaudi, 1987, p. 17.
32 P. Floriani, Protostoria delle satire ariostesche, «Rivista della letteratura italiana
», i (1983), n. 3, p. 496.
33 x, vv. 22-33, N, c 115v.
664 CIRO PERNA [11]
La reprimenda nella gemella satira x è organizzata con il medesimo
dettato apparentemente incostante, brachilogico in alcuni casi,
realistico in altri, in cui le pause, gli incisi, il sopravvenire casuale
di elementi eterogenei sembrano mimare il tipico andamento di
un’epistola familiare34. Non soltanto, dunque, la convocazione di
personaggi reali o l’episodio di vita vissuta come pretesto del componimento
(almeno per le satire vii e x), ma anche la struttura
espositiva e l’organizzazione del messaggio lasciano intravedere nei
testi una connotazione epistolare. Con questa impostazione viene
ancora rappresentata l’inconciliabile antitesi tra il sé e il mondo, la
distanza assoluta tra osservatore saggio e realtà afflitta dall’errore,
tra «buoni essempi» e «vizii armati»:
oh insensati ricchi, oh scïocchi avari, 40
l’onor che vi vedete far intorno
non a voi ma si fa ai vostri denari.
Fate ribalderie la notte e ’l giorno,
stupri, assasinamenti, sacrilegi,
che sopra voi non cade pena o scorno. 45
Voi pieni di virtù, d’animo egregi
siete chiamati da l’adulatore,
onde a lui sol donate premi e fregi.
Ma verrà tempo che ’l pazzo furore,
la discordia insolente, scatenati, 50
vi faran ravveder del vostro errore,
ché quando la virtù dai vizii armati
è posta sotto, essi fra lor discordi
pongon poi tutti sottosopra i stati.
Ma chi non dice cosa che s’accordi 55
co· ’l vivere scorretto ch’oggi si usa,
sono fatti per lui gli uomini sordi.
Io mi sto con la mente sì confusa,
che vorei per onor de’ nostri tempi
trovar simile al vero qualche scusa, 60
ma non accade ch’a far ciò m’attempi,
che peggiorando il mondo tuttavia,
non curerebbe i nostri buoni essempi.
Lasciam correre il fiume a la sua via:
peggiori ’l mondo pur quanto gli piace, 65
ch’io non ci voglio por più fantasia
e già ch’opressa la virtù si giace,
34 Cfr. P. Floriani, Il modello ariostesco. La satira classicistica nel Cinquecento,
cit., pp. 79-88.
[12] I CAPITOLI DI ROMANO ALBERTI TRA SATIRA E BURLESCO 665
poco parlando e comportando assai,
ben posso anch’io vivere oppresso in pace35.
Nonostante l’indubbio disordine espositivo, in entrambe le satire
è individuabile, comunque, un percorso che può essere agevolmente
schematizzato in tre fasi: 1) esposizione del vizio, della
follia del mondo; 2) biasimo, ovvero inoppugnabile condanna; 3)
rappresentazione del sé, ossia della saggia alternativa. Tra i tre
momenti non sussiste, tuttavia, un rigido rapporto consequenziale,
ma piuttosto un’irregolare alternanza, specchio della libera successione
di pensieri.
Molto più compatta, invece, la satira vii, ispirata da un singolare
episodio di vita vissuta che coinvolge mittente e destinatario: una
donna contesa dall’Alberti e dall’amico romano Sallustio Maffei scelse
di accontentare un terzo incomodo e fuggire via con lui, lasciando
i due litiganti nel rimpianto di inutili indugi:
io mi credea (né però n’avea duolo)
che quelle membra così delicate 20
ve le godeste voi sotto il lenzuolo.
Per lo contrario voi vi credevate,
ch’io le godessi e l’uno e l’altro infine,
oh scioccheria, non l’abbiam pur toccate
et un poi ch’è venuto dal confine 25
d’Italia e Schiavonia in tanta malora
ne l’ha portata fuor d’este marine.
Infatti egli è pur ver: chi s’inamora
e vuol’andar con creanze e rispetti,
entra un più audace et ei resta di fuora. 30
Che siano mille volte maladetti
li giorni e l’ore che ci abbiam perdute,
senza venir da le burle agli effetti36.
L’opportunismo e la spregiudicatezza di questa donna offrono il
pretesto per riflessioni poco lusinghiere sul sesso femminile, che
andranno ascritte al trend misogino di ascendenza giovenaliana, sistematicamente
praticato nella scrittura satirica e canonizzato dall’illustre
precedente ariostesco37:
35 x, vv. 40-69, N, c. 116r-v.
36 vii, vv. 19-33, N, c. 102v.
37 Cfr. G. Manacorda, Notizia intorno alle fonti di alcuni motivi satirici ed alla
loro diffusione durante il Rinascimento, «Romanische Forschungen», xxii (1908),
666 CIRO PERNA [13]
perfida infame, ingannatrice ria, 70
segui ’l bel drudo che t’hai scelto a prova,
seguilo co· ’l malan che Dio ti dia.
Che meraviglia è se l’uom si ritrova
ingannato alla fin, se sotto aspetto
angelico il dïavolo si cova. 75
Sangue di me, ch’io voglio a mio dispetto
tener ciascuna donna per fallace
e da quello ch’io son ve lo prometto.
Se l’uomo le vuol bene e a lei dispiace,
in guai sempre ti tiene e in precipizio 80
ti mena se saziarti ancor le piace38.
Il denominatore comune delle tre satire vii, viii e x, da cui per
altro risulta evidente il peso del modello ariostesco, consiste nell’utilizzo
di apologhi, che «stabiliscono la trasposizione della riflessione
morale dall’esperienza personale all’universo narrativo della
favola»39. Solo in un caso, ovvero nella satira per il Maffei, l’apologo
assume, tuttavia, il canonico carattere di fabula; la breve deviazione
diegetica non ha fini propriamente esemplari, ma metaforici:
è intervenuto a noi, fate pensiero,
come a que’duo golosi ch’appiattati
stavan di notte per spogliare un pero.
L’un non sapea de l’altro; quando alzati 10
ambeduo a un tempo, per salirvi suso,
non così presto s’ebbero mirati,
che l’un patron l’altro credendo, a l’uso
de’ ladri in fugga si rivolser ratti,
l’uno verso la costa e l’altro in giuso. 15
Così que’ peri alor restaro intatti,
ma un altro ladro che poi venne solo
tutti se li godè maturi e fatti40.
Ancora introdotti ex abrupto nel procedere delle terzine indirizzate
al Vittoria e al Giusberti, ma dal registro morale, parenetico, sono gli
altri due apologhi, che, a differenza del precedente, dovranno situarsi
piuttosto nella sfera della historia. In entrambi i casi, infatti, l’Alberti
pp. 746-47. Cfr., inoltre, A. Corsaro, La regola e la licenza. Studi sulla poesia
satirica e burlesca fra Cinque e Seicento, cit., pp. 39-47.
38 vii, vv. 70-81, N, c. 103v.
39 A. Corsaro, La regola e la licenza. Studi sulla poesia satirica e burlesca fra
Cinque e Seicento, cit., p. 19.
40 vii, vv. 7-18, N, c. 102r.
[14] I CAPITOLI DI ROMANO ALBERTI TRA SATIRA E BURLESCO 667
sembra attingere dal vissuto, dalla (presunta?) veritas autobiografica,
per la rappresentazione di exempla di carattere didascalico e insegnativo:
protagonisti dei due apologhi sono, infatti, un contadino
della «val di Capresa»41 (località poco distante da Borgo Sansepolcro,
città natale dell’Alberti) e un «giudice ch’avea prattica mia»42.
Ai semplici gesti, alle parole icastiche configurate quasi come dei
motti arguti del contadino presiede una rilevante carica esemplare,
sottolineata dallo speaker nei versi immediatamente successivi alla
divagazione narrativa:
un contadino di val di Capresa
zappava nel terren d’uno avaraccio,
che non fu mai veduto entrare in chiesa.
Al miserone dava grande impaccio
il vederlo mangiar ad ora ad ora 35
e vuotar di buon vino un boccalaccio.
E non potendo al fin far più dimora,
sborrò con la saliva in su le labbia:
«ben col malanno sè tu sazio ancora?
Io credo, certo, che per farmi rabbia 40
tu mangi tanto: altri ha pur qui zappato
senza che tanta spesa dato m’abbia».
Il contadino subito inchinato
prese due zuppe di terreno in mano
e stringendo la bocca da l’un lato, 45
disse: «gnaffè, patron mio bel, pian piano
non vi pigliate collora perch’io
voglio mostrarvi che gridate invano.
Ciò ch’io v’impongo fatelo per Dio,
tenete questa zuppa voi nel seno 50
vostro e quest’altra io la terrò nel mio».
Ciò detto a franger ritornò il terreno,
e poi che s’ebbe affaticato assai,
disse al patron che si sedea sul fieno:
«ben, la zuppa ch’in grembo io vi lasciai 55
a che termine sta»? Rispose: «intiera,
né più né meno com’io la pigliai».
Soggiunse il contadin: «la mia leggiera
s’è fatta molto, a mano a man zappando
m’è sdrucciolata giù de la panciera. 60
Or sappiate patron che, lavorando,
il pane e ’l vino ancor ch’in corpo metto
41 viii, v. 31, N, c. 106v.
42 x, v. 109, N, c. 117v.
668 CIRO PERNA [15]
si viene in questo modo consumando».
Che sia quel Capresano benedetto:
imparate ricconi a essercitarvi, 65
non state insino a mezo giorno in letto43.
L’apologo inserito nella satira per il Giusberti costituisce un corredo
alla rappresentazione del vizio dalla indubbia forza iconica,
ponendosi, dunque, come utile sostegno all’impianto espositivo. La
meschinità del giudice è un esempio della distorsione del mondo e
delle estreme conseguenze cui può condurre e rappresenta solo uno
dei casi limite di cui l’Alberti ha avuto testimonianza diretta. Al di
là della prevedibile enfatizzazione, il dato autobiografico risulta,
infatti, esplicitamente dichiarato nella chiosa conclusiva44:
a un giudice ch’avea prattica mia,
un meschin, per riavere un castelletto, 110
ch’in vero di ragione le venia,
dopo lungo contrasto al fine astretto,
per vedersi di già la borsa manta,
la propria figlia gli condusse in letto.
Con tutto ciò (sentite se fu bella) 115
perché la parte avversaria più ricca
donò tanti bei ricci di copella,
ha la sentenza contra, ond’ei si ficca
in tal desperazion ch’indi si parte
e di sua mano subito s’appicca. 120
Il giudice ancor vive ed in tal arte
persevera anco senza che rimorso
di conscienzïa ne ’l rimova in parte.
A dirvi questa sola io son trascorso,
che ve ne potrei dir de le più grandi, 125
a le quali io medesmo sono occorso45.
Non come discontinue operazioni mimetiche del registro epistolare,
ma come vere e proprie «lettere in capitoli»46 sono strutturati i
ternari i (al Magagnati), ii (al Vergici), vi (alla Andovina), xiii (al
Burgi) e xv (alla Andovina). L’interferenza tra satira e burlesco si
43 viii, vv. 31-66, N, cc. 106v-107r.
44 Anche per l’Alberti, alla luce dei tre componimenti finora analizzati e con
le dovute proporzioni, è possibile, dunque, parlare di satire concepite come un
«libro di note e memorie autobiografiche con sparse riflessioni satiriche e morali
» (S. Debenedetti, Intorno alle satire dell’Ariosto, «Giornale Storico della Letteratura
Italiana», lxii (1945), n. 122, p. 115).
45 x, vv. 109-126, N, c. 117v.
[16] I CAPITOLI DI ROMANO ALBERTI TRA SATIRA E BURLESCO 669
realizza in maniera evidente in questo genere di componimenti:
l’«assunzione di un interlocutore amico e familiare», la «sua presenza
non solo nello spazio extra testuale, ma all’interno stesso della
scrittura», la «continuità del dialogo che ricopre tutta l’estensione
del teso»47, sono, infatti, «un elemento di strutturazione»48 del modello
satirico ariostesco e costituiscono, al contempo, i caratteri peculiari
delle lettere in capitoli dei vari Berni, Mauro, Bini o Franzesi.
Ai dati base individuati, andrà aggiunto poi un elemento di novità
esclusivo dell’epistola burlesca in terza rima: il fenomeno, cioè,
dell’insistita riproposizione di formule stereotipe tipiche delle
missive. A conferma dell’ibridismo dei ternari albertiani di cui abbiamo
accennato, si registra nei cinque capitoli-epistola la compresenza
di tutti gli elementi, compresa la frequenza di queste formule,
a cominciare innanzitutto dalla salutatio:
signor Gasparo Burgi, che fiscale
sete di Campidoglio, io vi saluto
con una riverenza principale.
Sempre per mio patron vi ho conosciuto
per fare in parte dunque il mio dovere 5
vi mando questa lettera in tributo49.
Proprio come in una normale lettera in prosa, si riscontra nel
capitolo per il Magagnati, poi, la caratteristica chiusa colloquiale e
affettuosa, in cui saluti e ossequi si susseguono in un «rosario di
terzine fitte di nomi e di cerimonie di cortesia»50. Il destinatario
assume, così, la funzione di un mediatore, di anello di congiunzione
con una molteplicità di destinatari di secondo grado:
fra tanto salutate a nome mio
il mio signor don Gasparo Toralto,
che grandemente riveder desio.
Al signor don Vincenzo ch’è troppo alto 190
rispetto a voi che siete assai grandino
con una scala darete un’assalto.
46 S. Longhi, Lusus. Il capitolo burlesco nel Cinquecento, cit., p. 182. L’espressione
(con il singolare «lettera») fu utilizzata dal Berni in un’epistola a Blosio
Palladio del 31 dicembre 1534.
47 Ivi, pp. 186-87.
48 C. Segre, Struttura dialogica delle “Satire” ariostesche, cit., p. 121.
49 xiii, vv. 1-6, N, c. 125r.
50 S. Longhi, Lusus. Il capitolo burlesco nel Cinquecento, cit., p. 190. L’autrice
fornisce numerosi esempi in cui si riscontra tale prassi.
670 CIRO PERNA [17]
Ditegli ch’io sin di qua me gli inchino:
così al signor abbate Attendol nostro
et al signor Camillo Pellegrino. 195
Mi racommando51 poi di buono inchiostro
al Barbarito, al Marotta, al Montano,
che tanto è mio quanto voi siete vostro.
Al mio parente baciate la mano
signor Giacomo Alberti, a cui la vita 200
sono ubligato come al Capitano.
Di voi non dico, ch’ella era spedita
per me se voi insieme co’ sopradetti
pronto non eravate a darmi aita.
Al Riccardi e al Caputi, due sogetti 205
rari, dite ch’io son lor servitore
e che lo mostrerò un dì co· gli affetti.
Al mio nemico poi che fa l’amore
sì con se stesso, cioè a Carlo Noce,
farete intender ch’io di tutto cuore 210
prego Dio di vederlo un giorno in croce52.
Un altro evidente tratto di marcata riproposizione di formule
epistolari consiste nell’apporre generalmente nella chiusa del capitolo,
oltre ai saluti abituali, la data o la firma dello scrivente. Sulla
scorta di illustri antecedenti (Aretino, Domenichi, Mauro)53, Romano
Alberti segue questa prassi nelle due missive per la Andovina.
Nella prima la firma è apposta in incipit:
Romano, quel sì caro antico vostro
servo, Erminia gentil, questa vi scrive
sparsa di pianto assai più che d’inchiostro,
e la data in explicit: «Di Candia il primo de l’Ottantanove»54. Nella
seconda, invece, datazione e firma sono collocate in posizioni invertite,
laddove la terzina introduttiva è:
da Venezia alli sedici d’aprile
de l’Otantotto mando questi versi
a voi signora Erminia mia gentile,
mentre i versi conclusivi ospitano la firma:
51 La formula, frequente nei burleschi, fu canonizzata dal Berni in un capitolo
per Sebastiano del Piombo. Cfr. ivi, pp. 190-92.
52 i, vv. 187-211, N, c. 75v.
53 Cfr. S. Longhi, Lusus. Il capitolo burlesco nel Cinquecento, cit., pp. 195-97.
54 vi, vv. 1-3, N, c. 94r e v. 279, N, c. 100v.
[18] I CAPITOLI DI ROMANO ALBERTI TRA SATIRA E BURLESCO 671
e perché già veggo la carta piena 235
vi lascio e prego (quando ch’io lo merti)
che mi vogliate ben. Schiavo in catena
de la vostra beltà, Romano Alberti55.
I capitoli epistolari sviluppano esplicitamente il versante privato
dei rapporti di amicizia e sono depositari di una ricca aneddotica
personale, di «detti e fatti non esemplari ma eminentemente transeunti
»56: è soprattutto in questi testi che si realizza la piena consonanza
tra autore e destinatario, proiettati in momenti comuni di vita
quotidiana. Esistono nei cinque testi albertiani due tematiche preferenziali,
entrambe determinate dal motivo del viaggio: il disagio
generato dalle difficoltà spesso patite e lo stupore suscitato dall’approccio
a realtà sconosciute, stili di vita differenti, tradotto in una
sorta di diario in versi, in cui si susseguono liberamente giudizi
lusinghieri o espliciti improperi.
I due ternari scritti a Creta e indirizzati a Giovanni Vergici (ii) e
a Erminia Andovina (vi) sono lo specchio della difficile vita sull’isola,
che diviene, dunque, elemento essenziale del capitolo. Dei
destinatari conosciamo pochissimo: il primo, erudito cretese di origini
veneziane, è autore di una inedita Historia della peste nella città
di Candia, databile intorno alla metà degli anni ’90 e tràdita dal
codice It. VII 657 (7481), cc. 118r-179r, della Biblioteca Marciana di
Venezia57, nonché del madrigale D’amor l’arco e gli strali (con didascalia
Del signor dottor Vergici) e del sonetto Quel mezo lucidissimo
e divino (con didascalia Dello eccellente Signor dottor Giovanni Vergici),
trascritti in N rispettivamente alle cc. 56v e 146r58. Di Erminia
Andovina non vi sono tracce esterne al codice N: sulla scorta degli
indizi interni, è tuttavia ipotizzabile collocare l’incontro con l’Alberti
negli anni romani, precedenti al soggiorno napoletano59. Erminia è
55 xv, vv. 1-3, N, c. 137r e vv. 235-38, N, c. 142r.
56 S. Longhi, Lusus. Il capitolo burlesco nel Cinquecento, cit., p. 202.
57 Cfr. G.C. Persio, La nobilissima barriera della Canea. Poema cretese del 1594,
a cura di C. Luciani, Venezia, Istituto ellenico di studi bizantini e postbizantini,
1994, p. 145.
58 Il sonetto costituisce, come vedremo, un elogio al Capitolo in lode del mezo,
inviato dall’Alberti a Marco Ruggiero, altro intellettuale probabilmente cretese. È
facilmente ipotizzabile un proficuo scambio di rime con il Vergici, come testimoniato
dai due caudati indirizzatigli, ossia il già citato Signor Vergici mio tanto
saputo (N, cc. 108v-109r), nonché Sopra un massiccio di pietra focaia (N, c. 136v).
59 Cfr. C. Perna, Romano Alberti e un sonetto attribuito a Torquato Tasso, cit., p.
276.
672 CIRO PERNA [19]
destinataria di numerosi componimenti della prima parte del canzoniere
e compare altresì in un madrigale di Marco Ruggiero per
l’Alberti, ove è definita «cagion de’ tuoi gran danni»60.
Il capitolo epistola per il Vergici rappresenta il resoconto di una
notte brava vissuta in casa di quest’ultimo, in occasione di una festa
da ballo, ed è evidentemente motivato dalla richiesta di aiuto per le
amare conseguenze sopraggiunte, efficacemente collocata in ouverture:
signor dottore or sì mi fa mestiero
del vostro aiuto, ché sto sotto pena
di morte seguestrato nel quartiero.
Per Dio fui pur un pazzo da catena
a non restar secondo il mio costume 5
per quella sera in casa vostra a cena61.
L’Alberti propone a questo punto la sua versione dei fatti, cercando
di seguire pedissequamente la naturale successione degli
eventi. Il racconto prende avvio, perciò, dall’antefatto, ossia dalla
cena e dall’organizzazione della festa, mediante icastiche terzine in
cui il (burlesco) realismo culinario o l’espediente onomatopeico (v.
28) assumono particolare rilevanza fonico-ritmica:
giunto a casa ch’io fui: «misser Romano
ceniam presto, che dopo un bel festino
vo’ che facciam», mi disse il capitano.
«I’ ho già ’nvitato ogni nostro vicino:
non ne mancherà al solito chi suoni 20
la citera, il lïuto e ’l vïolino».
Ciò detto una lepretta, due piccioni,
una torta e qualche altra cosa appresso
mangiammo prestamente in due bocconi.
Il bicchiero s’empia poco ma spesso, 25
secondo la dottrina di Galeno,
che Dio ’l sa s’egli acettò per se stesso.
Tic toc, s’apre l’uscïo, et ecco in meno
ch’io lo dico il salotto di soldati,
di femine e di maschere fu pieno62. 30
Nella concitazione delle danze un gruppo di «due o tre di questi
che fanno il gradasso» (v. 89) guastò l’armoniosa atmosfera con
60 Dal madrigale Fu la bella Indovina, con didascalia Del clarissimo signor Marco
Ruggiero a Romano Alberti, v. 2 (N, c. 144r).
61 ii, vv. 1-6, N, c. 76r.
62 Ivi, vv. 16-30, N, c. 76r-v.
[20] I CAPITOLI DI ROMANO ALBERTI TRA SATIRA E BURLESCO 673
irriverenti atteggiamenti. La reazione dell’Alberti nei confronti del
«capo» (v. 91) del drappello fu inizialmente solo verbale, ma costituì
il preludio al disastroso epilogo:
io, perché aver a fare co’ balocchi
non si credesse, lo aviso che taccia
e che non entri dove non gli tocchi;
egli avampando tutto d’ira in faccia, 100
subito a tu per tu con me venuto,
si pensò, credo, di darmi la caccia.
Ond’io c’ho un cervellaccio risoluto,
«se tu non sai parlar», dissi altrimenti,
«per te assai meglio sarebbe esser muto». 105
Ei replicommi digrignando i denti,
«che di’ tu, bestia? Alora io co· ’l bastone
ti mostrerò fuor di qui che tu menti»63.
All’uscita, infatti, le bastonate dell’Alberti arrivarono puntuali,
prima della rocambolesca «ritirata in un cantone» (v. 177), ovvero
nel luogo stesso in cui dichiara di comporre i suoi versi. Esaurito il
flashback, il racconto torna, dunque, a situarsi nel presente ed è
chiuso con il motivo del disagio, «componente primaria della tradizione
burlesca»64, dei problemi pratici del quotidiano:
io sto in una stanza fredda e scura,
dove passeggio tutta la giornata 200
e questa ha una fenestra mal sicura,
perché senza catorcio, ben tarlata,
da la via che gli’è dietro ove si tente,
agevolmente altrui può dar entrata.
La porta ancora non saria possente 205
contra un calcio, ché qua non si fan porte
né case all’uso nostro di ponente.
In somma io vivo ogn’ora co· la morte
sugli occhi, né mi basta tener carche
sempre in mano pistole un palmo corte, 210
ché, se crudeli voranno le Parche
troncar il fil che naspan di mia vita,
in van formo cavalli in aria e barche.
Almeno facess’io la rïuscita
63 Ivi, vv. 97-108, N, c. 78r-v.
64 D. Romei, Il “doppio gioco” dei poeti burleschi del Cinquecento, in Passare il
tempo. La letteratura del gioco e dell’intrattenimento dal XII al XVI secolo. Atti del
convegno di Pienza, 10-14 sett. 1991, Roma, Salerno Editrice, 1992, I, p. 400.
674 CIRO PERNA [21]
di Dedalo, ch’in questo regno l’ale 215
mettendo, anch’io quinci farei partita.
Ma pensato ho a la fin per minor male
pria de venir in man de’ miei nemici
di trapassar me stesso co· ’l pugnale.
Vi do l’ultimo a Dio, signor Vergici65. 220
L’epistola indirizzata a Erminia Andovina sviluppa allo stesso
modo il motivo del malessere, delle difficoltà patite in una terra così
lontana, in cui l’Alberti
stassi a forza di sua fiera sventura
privo (può dirsi) di commercio umano,
ché, se bene hanno d’uomini figura, 10
i veri paesani d’esto loco
per lo più sono di bestial natura.
Questi a rinegar Dio pronti per poco,
vivendo a lor capriccio, il Papa e veri
santi decreti suoi prendonsi a gioco. 15
Non son di Roma qua gli agi e i piaceri,
le guglie, i mausolei di marmi fini,
i regii tempii e i gran palagi alteri.
Di Farnese e di Medici i giardini,
Tivoli non son qua né Caprarole, 20
opre di rari ingegni pellegrini;
non son d’amor qua le soavi scole,
dotte academie de’miglior poeti,
ch’oggidì sian per quanto gira il sole.
Gli Attendoli, i Caselli, i Sadoleti, 25
i conti Gottifredi sonmi accorto,
che qua non sono i gran Tassi e i Mureti66.
Lungi dal risolversi, però, in una sorta di monotono enueg o di
stucchevole repertorio di antitesi, il componimento sembra porsi
piuttosto in un orizzonte elegiaco, dove il malessere, il disagio, è
inteso innanzitutto come pena d’amore, determinata dalla lontananza
dell’amata. Già in una lettera indirizzata nel 1504 a Isabella d’Este,
Vincenzo Calmeta ammetteva un possibile «officio de la elegia» per
i componimenti in terza rima:
or essendo a li moderni poeti piaciuto volere che ’l terzetto faccia de
la canzone l’officio e in quello, secundo li èlegi latini, flebili affetti e
65 ii, vv. 199-220, N, c. 80v.
66 vi, vv. 8-27, N, c. 94r-v.
[22] I CAPITOLI DI ROMANO ALBERTI TRA SATIRA E BURLESCO 675
amorose lamentazioni esprimere e talvolta ancora per missive epistole
operarli, doveriano da quello effetto che fanno el nome sortire,
a ciò che li stili meno se venessero a confundere67.
In linea, dunque, con una già datata prassi, l’Alberti scelse di
impostare la sua «missiva epistola» innanzitutto come «amorosa
lamentazione», offrendo tra le pieghe del ternario momenti di languido
lirismo dalle sfocate tinte petrarchesche:
«Beato chi la mira e con lei tratta»
alcuno esclama: alor (da che perduta
io vi ho) pensate come il cor mi batta.
S’ella è in pittura sì beltà compiuta, 120
che stupore esser dee a vederla viva
ne la cittade ov’ella è conosciuta?
Quindi un novo pensier mi soprarriva,
ch’ond’io non trovi altra a voi par, m’incline
mia stella a gir così di riva in riva68. 125
Le pene d’amore sono canonicamente stemperate nel ricordo,
che sembra concedere una breve apertura all’orizzonte del plazer,
attraverso spunti lirici di retrogusto tassiano:
passato è il tempo ch’Amor per diporto
l’un dopo l’altro a Napoli ne spinse,
città de le delizie antico porto. 30
Là, più ch’altrove, i nostri cori ei strinse
in vita giocondissima e beata,
qual de l’età de l’oro alcun dipinse.
Ora dov’è per me quella spalmata
felluca, che fra dolci suoni e canti 35
a solazzo era di portarne usata?
Paradiso terrestre degli amanti,
Posilipo, ove or son tue regie scene
in ripa al mar fondate per incanti?
Romano a diportarsi or più non viene 40
a’ tuoi scogli, felici antri amorosi,
alberghi di Nereide e di Sirene.
Gli occhi, ch’a ragion porto or lagrimosi
ben sanno in cotal luogo a’ tempi estivi
quanti io scoprissi ampii tesori ascosi. 45
Qual dolcezza a me sol fu veder quivi
67 V. Calmeta, Prose e lettere edite e inedite (con due appendici di altri inediti),
a cura di C. Grayson, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1959, p. 54.
68 vi, vv. 117-25, N, cc. 96v-97r.
676 CIRO PERNA [23]
sembrar, ben mio, voi nuda in mezo a l’acque,
neve ch’alor alor dal cielo arrivi.
Il sole a cui quel dì mostrar vi piacque,
a prova fatto avea sereno il cielo, 50
sì di mirarvi nuda ei si compiacque.
Qual più lucente egli si mostra in Delo
tutto invaghito non puotè soffrire
nuvola alcuna gli facesse velo.
Taccia chi di Dïana osasse dire, 55
o d’altra: «mai, mai da più belle braccia
liquido argento non si vide aprire»69.
Le immagini evocate proiettano gli amanti in una dimensione
rarefatta, fragile, naturalmente fuggevole: dipingere (e riprodurre in
versi) il ritratto dell’amata rappresenterà, dunque, il tentativo di
fissare per sempre il bello, di possederlo, di accedervi nella contemplazione
attraverso la mimesi pittorica (e poetica)70. Nei vv. 72-113
è descritto con dovizia di particolari, così, il ritratto di Erminia,
«quanto ho potuto più simile al vero» (v. 74), con una costante
riproposizione di immagini di ascendenza petrarchesca, al contempo
fondanti del canone poetico cinquecentesco: la «bella gola discoperta
/ […] cinta di perle» (vv. 81-83), le «guance liete» (v. 89), il
«ritondetto mento / che candido qual neve sorge in fuore» (vv. 91-
92), i «begl’occhi ov’armato / amore aventa mille dardi ai cori» (vv.
97-98), il «bel naso affilato / qual puro avorio candido e gentile»
(vv. 100-101), la «natural corona del bel crine» (v. 106), le «trecce
odorose, angeliche, divine» (v. 108), rappresentano topoi dalla chiara
matrice lirica che irrompono in un territorio generalmente renitente
come quello del capitolo burlesco.
Con il solito procedere rapsodico del ternario è rappresentato un
ritorno alla realtà quanto meno traumatico, poiché l’assenza della
donna amata è solo uno dei tristi aspetti del quotidiano:
io sono in Candia, onde sì ben tornaro
ricchi in Italia i ladri e le bardasse,
è forza pur ch’io parli schietto e chiaro. 200
[…]
Basta ch’insino ad ora io non ci vedo
strada ov’io possa incaminarmi a bene
69 Ivi, vv. 28-57, N, cc. 94v-95r.
70 Dall’imponente bibliografia sull’argomento mi limito a citare L. Bolzoni,
Poesia e ritratto nel Rinascimento, Roma-Bari, Laterza, 2008, in cui è analizzata la
diffusa pratica cinquecentesca di descrivere in versi i ritratti di donna.
[24] I CAPITOLI DI ROMANO ALBERTI TRA SATIRA E BURLESCO 677
e ’l vitto apena sol mi ci provedo.
E questo se lo voglio mi conviene 210
armato di celata e d’arcobugio
star a la soldatesca in mille pene.
La paga di San Marco è il mio rifugio,
poveri studi dove sete scorsi,
e chi non può aspettar, crepa d’indugio71. 215
Fascinazioni petrarchesche e modalità elegiaca riaffiorano con
evidenza nel capitolo epistola indirizzato alla Andovina da Venezia
(xv): il ternario presenta una struttura chiaramente bipartita, laddove
i vv. 1-117 ripropongono il motivo della disperazione per la lontananza
dell’amata, del travaglio d’amore attenuato dalla pallida speranza
di un incontro o dalla canonica fuga nel ricordo:
e tanto il duolo mi travaglia e incalza,
che se non ch’io di rivedervi spero, 20
gettato mi sarrei già d’una balza.
Pur la Dio grazia mi conservo intero,
se pur intero è un uom che senza core
vive d’amor sotto ’l crudele impero.
S’io mi sto dentro in casa o vado fuore 25
con voi sempre ragiono, con voi tratto,
voi miro e voi vagheggio a tutte l’ore:
cagion amor, che non ha legge o patto,
in ogni cosa vi contemplo al vivo,
se ben mi si parasse avanti un gatto. 30
E così adentro nel pensiero arrivo,
ch’io grido spesso che mi sente ogn’uno,
«son pur d’ogni mio ben rimaso privo»!
Mi rammento i piaceri ad uno ad uno,
ch’io sentia ’n goder voi bella e cortese 35
nuda ne le mie braccia a l’aer bruno.
Poi maledico l’ora, il giorno e il mese,
che mi fu forza di partir da voi
e trasportarmi in sì lontan paese72.
Il ricorso manieristico a stilemi petrarcheschi risulta a tratti fittissimo,
addirittura congestionante, ossessivo, in terzine dal vago sentore
madrigalistico:
i capei vostri di finissimo oro
veggio in alcuna, in altra il rilevato
71 vi, vv. 198-215, N, cc. 98v-99r.
72 xv, vv. 19-39, N, c. 137r-v.
678 CIRO PERNA [25]
bel petto vostro, in altra il bel decoro, 90
il parlar amoroso e delicato,
il dolce collo candido e ritondo
trovo in alcuna il bel rossore amato,
in altra quel ghignetto almo e giocondo;
ma, per cercar, non trovo già in nessuna 95
i bei vostri occhi unichi e soli al mondo.
Di qui voi no· ’l avete pari alcuna,
ché le bellezze in mille donne sparse
tutte sono raccolte in voi sol’una73.
Con un’improvvisa interruzione delle amorose lamentazioni si
dichiara apertamente l’abbandono del tono elegiaco:
ma da me mille volte avete intese
tai cose: alcun raguaglio io vi vo’ dire
di questo giocondissimo paese74. 120
I vv. 118-120 costituiscono, dunque, lo spartiacque del componimento
e segnano il passaggio al motivo diaristico, al racconto di
viaggio, in cui l’Alberti propone una libera successione di immagini
relative al luogo da cui scrive. La straordinaria conformazione geografica
di Venezia, «che sopra l’acque dagli Angeli a nuoto / alzata
fu per permission divina» (vv. 173-174), il particolare modo di vestire
dei pubblici amministratori, «con maniconi di larghezza onesta, /
con una calza su la spalla manca, / con un berrettin tondo negro in
testa» (vv. 127-129), l’inconfondibile profilo delle gondole «leggiere,
lunghe e strette, / tutte in un modo coperte di negro» (vv. 196-197),
offrono all’autore variegati spunti descrittivi. Un fondo di meraviglia
sembra sotteso ai versi, dal quale trapela l’entusiamo di colui che,
straniero in terra straniera, percepisce la varietas del mondo:
s’andate ne la piazza di San Marco,
v’udite tanti e sì vari sermoni,
che par di tutte le nazioni il parco:
turchi, arabi, giudei, greci, schiavoni, 220
fiamminghi, inglesi, tedeschi, franciesi
spagnoli, armeni, squizzeri e grigioni,
tutti vestiti a l’uso dei paesi
loro: cosa sì vaga da vedere,
che molti a posta stan qua gli anni e i mesi75. 225
73 Ivi, vv. 88-99, N, c. 139r.
74 Ivi, vv. 118-120, N, c. 139v.
75 Ivi, vv. 217-225, N, c. 141v.
[26] I CAPITOLI DI ROMANO ALBERTI TRA SATIRA E BURLESCO 679
Venezia è al centro della narrazione nel coevo capitolo indirizzato
a Girolamo Magagnati, che apre la seconda parte del canzoniere
albertiano. Al destinatario, probabilmente in partenza per Napoli o
già alle falde del Vesuvio76, alla luce dei saluti in chiusura di componimento
poc’anzi esaminati, l’Alberti invia un capitolo epistola in
cui celebra la città e i cittadini con le solite entusiastiche descrizioni.
L’impareggiabile scenario che accoglie il viaggiatore sembra addirittura
trascendere le sue fantasie:
oh Dio, signor Girolamo, fratello,
che mirabil Vinezia è questa vostra?
Io straluno, per Dio, né son più quello.
La natura con l’arte a gara giostra
per abbellirla: di quanto io credevo 5
mille volte più bella mi si mostra.
Perdon vi chieggio se talor dicevo
ch’era impossibil ch’ella fusse tale
come di bocca vostra l’intendevo.
Non è città nel mondo a questa eguale 10
né in pensier si potrebbe megliorare:
canchero vegna a chi ne dice male77.
L’elogio dei veneziani procede, poi, «per contrario» (v. 71) rispetto
ai romani e soprattutto ai napoletani:
oh malanaggia lo napoletano,
con quel chiamarsi gentiluom di Seggio,
di quattro quarti co· le mosche in mano. 60
E non si può veder al mondo peggio
d’un che la tiri più che non si stende,
che si pasca di fumo e di spasseggio.
Tutte l’entrate sue ’l meschino spende
per comparir fra gli altri cavallieri 65
in drappi che di là a poco rivende.
76 Per notizie dettagliate sulla biografia nonché sulla produzione letteraria
del Magagnati si rinvia a Lettere a diversi del Signor Girolamo Magagnati, a cura
di L. Salvetti Firpo, Firenze, Olschki, 2006. Il sodalizio con l’Alberti risale
almeno agli anni romani: nel Trattato della nobiltà della pittura. Composto ad istanzia
della venerabil Compagnia di S. Luca e nobile Accademia, elaborato dall’Alberti nei
primi anni ’80 e stampato a Roma nel 1585 presso Francesco Zanetti, compaiono
due sonetti del Magagnati in apertura, ovvero Grazie ch’a pochi ’l ciel largo destina,
con didascalia Sonetto transferito dal Petrarca di Girolamo Magagnati all’Autore
e Giovane a cui la terra e ’l ciel scoperse, con didascalia Dell’Istesso (trascritto anche
in N, c. 144v).
77 i, vv. 1-12, N, c. 71r.
680 CIRO PERNA [27]
Quindici paggi, quaranta staffieri
il sauro, il baio, la chinea, ’l gianetto,
né in casa han poi da far rosso un bicchieri.
Ma il viniziano, sia egli benedetto, 70
per contrario modesto nel vestire
tien ben fornita la casa in asetto.
Voi lo vedete a passi gravi gire
co· la sua veste lunga sino al piede,
che par un religioso si può dire78. 75
L’operazione denigratoria (e la conseguente esaltazione degli
integerrimi veneziani) si avvale anche di cursori inserti dialettali
dall’«intento palesemente mimetico»79, che contribuiscono a sottolineare
l’inettitudine dei napoletani:
ma tu sier napoliello dove vai? 85
A Banchi novi a giocar al pallone
o fra le dame a far lo sguaitaguai.
Sul corsiero a frusciare lo cauzone
tutto lo iuorno; ma il pranso e la cena
poi si riduce in una collezzione80. 90
Se il rapporto con i letterati di Napoli fu cordiale e soprattutto di
totale sintonia critica81, l’ambientamento umano nella città fu tutt’altro
che positivo, come dimostrato dal capitolo epistola indirizzato a
Gaspare Burgi, fiscale di Campidoglio82:
oh questo sì che è novo e bel sentire,
signor Gasparo a Napoli correte
se re bramate a un tratto divenire.
Che state in Roma a mangiar fave e biete?
S’a Napoli venite, io vi prometto 25
che similmente Papa diverrete.
Voi darete in alcun talor di petto,
78 Ivi, vv. 58-75, N, c. 72r-v.
79 S. Longhi, Lusus. Il capitolo burlesco nel Cinquecento, cit., p. 223.
80 i, vv. 85-90, N, c. 72v.
81 Cfr. C. Perna, La «verace maniera artificiosa»: due satire inedite di Romano
Alberti in difesa della Gerusalemme Liberata, cit.
82 Scarse e incerte le notizie relative al Burgi, citato nell’elenco di personaggi
noti in chiusura del codice N come originario di Macerata (c. 146v). Un Gaspare
Burgi di Macerata è segnalato nel regesto allestito da Vincenzo D’Avino tra i
vescovi della diocesi di Atri e Penne (cfr. Cenni storici sulle chiese arcivescovili,
vescovili e prelatizie del Regno delle due Sicile raccolti, annotati e scritti per l’Ab.
VINCENZO D’AVINO, Napoli, delle Stampe di Ranucci, 1848, p. 534).
[28] I CAPITOLI DI ROMANO ALBERTI TRA SATIRA E BURLESCO 681
che vi dirà, come se fuste il Papa,
«vi bacio ’l piede» e ’l mostr’anco in effetto.
Come vi lascia poi tutto s’incapa 30
e, a qualche suo mostrandovi, gli dice:
«vì chillo è ’no romano mangiarapa».
E s’a sorte ei vi può far infelice,
lo fa di buona voglia, verbi grazia
vi darebbe la spinta a una pendice. 35
Gente che di far male non si sazia,
gente ch’ai forestier si mostra grata,
poi sottomano gli malmena e strazia;
gente come una raspa delicata,
gente che per lo più, anzi ciascuno, 40
fa proffession di vivere d’entrata,
né si cura però di star digiuno
pur che vada vestito a la spagnola,
Dio sa poi quel ch’e’ fanno a l’aer bruno83.
Il poco lusinghiero ritratto dei napoletani è completato, poi, dagli
ingiuriosi endecasillabi riservati ai dominatori spagnoli, responsabili
della rovina della città:
spagnoli in viso affumicati et arsi,
che voglion far del principe con tutti,
né altro san far che tutto ’l dì vantarsi:
questi pascon di foglie gli altri e i frutti 75
serban per loro, questi i cavallieri
napolitani fanno star destrutti.
Ogni uffizio che vaca essi i primieri
sono a tomarlo et un boccon che grasso
sia no· ’l lasciano già sovra ’l taglieri. 80
Questi se ’n vanno per Toledo a spasso
con la squarciglia a canto e co· ’l pugnale,
facendo con chi scontrano il gradasso84.
Se ai versi denigratori rivolti ai napoletani o agli spagnoli sembra
presiedere un ironico distacco, l’astio che si evince dall’aspra
invettiva contra alcuni insolenti risulta certamente dettato da un reale
malessere (oltre che da una precisa motivazione). Scritto a Venezia,
probabilmente di getto e certamente dopo la Pasqua del 1588 («Io
pazïente, riverendo il loco / e ’l tempo, ch’era pur Pasqua maggiore
», vv. 12-13), all’insegna di uno spiccato giovenalismo, il capitolo
83 xiii, vv. 21-44, N, cc. 125v-126r.
84 Ivi, vv. 72-83, N, c. 127r.
682 CIRO PERNA [29]
rappresenta, infatti, una stizzata risposta alle ingiurie rivoltegli da
taluni insolenti per futili motivazioni:
persona forestiera che procura
di far bene in Venezia, dunque, in chiesa 25
il dì di Pasqua non può star secura?
Che cosa avevo in me c’avesse resa
materia a voi di riso? Vita o veste
io no· l’ho degna d’esser vilipesa.
Vi mosse a riso perché vi credeste 30
a la favella ch’io fossi romano:
oh che insolenzia, oh che infamia, oh che peste!
Un bel parlare è il vostro veneziano,
bello da vero, da che vi ridete
e dileggiate il favellar toscano85. 35
L’Alberti dà libero sfogo all’indignatio, alla vituperatio, attraverso
una cadenzata successione di insulti, che procede con ripetitività
sino alla conclusione del capitolo:
oh villani peggiori de le fiere,
che se ne possa spegner la semenza, 40
cori da dare in pasto a lo sparviere.
La toga ch’altri porta a riverenza
del nobil sangue e de le sue virtudi
dunque portate per far insolenza?
Che vale avere in banco quattro scudi 45
et esser poi non sol di virtù privi,
ma d’ogni umanitade a fatto ignudi?
Per altro non si sa che sete vivi
se non per qualche insulto o furberia:
che ’l boia su le spalle un dì v’arrivi. 50
Seguite pur l’incomminciata via,
andatene in malora furbi infami,
andate co· ’l malan che Dio vi dia.
Perché la vite (dove no· ’l si brami)
afatto non divenga infruttuosa, 55
e’ bisogna troncar via questi rami.
Qual cagion è così possente ascosa,
che da tre o quattro infami puzzolenti
s’abbia a lasciar corrompere ogni cosa?86
Con i ternari indirizzati al Ruggiero in lode del mezo, al Vergici in
lode del zero e a Carlo Berengo, secretario del Gran Consiglio dei Dieci,
85 xi, vv. 24-35, N, c. 119v.
[30] I CAPITOLI DI ROMANO ALBERTI TRA SATIRA E BURLESCO 683
risulta esplicita la pratica albertiana del lusus letterario: i tre componimenti
palesano, infatti, delle caratteristiche certamente affini al
genere burlesco, da cui sembrano, al contempo, distaccarsi per taluni
elementi di novità. Peculiare, senza dubbio, della poesia burlesca «il
vezzo degli autori […] di rimandare indefinitamente dall’uno all’altro,
in un cerchio che si richiude su se stesso»87: in due casi l’Alberti
è in linea con questa prassi, rivendicando il carattere innovativo del
suo encomium nel panorama letterario, dal quale pure estrapola un
preciso ascendente. Nelle prime terzine del capitolo in lode del zero
è sottolineata, infatti, l’originalità del tema in rapporto al Capitolo di
noncovelle di Francesco Beccuti il “Coppetta”88, anche mediante l’utilizzo
di una metafora tipicamente burlesca come l’“unto”89:
dimostrò pur d’esser un uom leggiero
quei che più tosto volse noncovelle
lodar, che ’l suo cugino misser Zero.
Ei ne fu ben rimorso in pelle in pelle,
pur se ne tolse giù e del zero infatti 5
si posson dire cose assai più belle.
Or i’ho caro che gli altri sciocchi e matti
m’abbian lasciato un sì grasso boccone:
unger me ne voglio or sino gli usatti90.
Sulle medesime rivendicazioni è impostato l’incipit del capitolo
per Carlo Berengo in lode del sudore:
clarissimo signore e patron mio,
quando io ci penso farei grand’errore
non adempiendo un giusto mio desio.
Vogl’io ’l primo beccarmi un grande onore,
ché veramente in questi versi io canto 5
cosa non mai più tocca da scrittore91.
86 Ivi, vv. 39-59, N, cc. 119v-120r.
87 S. Longhi, Lusus. Il capitolo burlesco nel Cinquecento, cit., p. 138.
88 Il ternario del Beccuti, composto tra il 1546 e il 1553 fu edito per la prima
volta nella silloge Il secondo libro delle opere burlesche di M. FRANCESCO BERNI,
del MOLZA, di M. BINO, di M. LODOVICO MARTELLI, di MATTIO FRANCESI,
dell’ARETINO, et di diversi Autori. Nuovamente posto in luce et con diligenza stampato,
in Fiorenza, apresso li heredi di Bernardo Giunti, 1555, cc. 20r-21v. Cfr.,
inoltre, Le antiche memorie del nulla, a cura di C. Ossola, Roma, Edizioni di
Storia e Letteratura, 20073, p. xi.
89 Cfr. S. Longhi, Lusus. Il capitolo burlesco nel Cinquecento, cit., pp. 75-78
90 iv, vv. 1-9, N, c. 84r.
91 ix, vv. 1-6, N, c. 111r.
684 CIRO PERNA [31]
Ancora prettamente burlesco è l’atteggiamento pseudo-epico
generalmente evidente nel topos dell’inadeguatezza della celebrazione,
che, «espresso in forme vistosamente iperboliche»92, innesca particolari
effetti di scompenso tra il tono e la materia dell’encomio.
Emblematica a tale proposito la conclusione del capitolo per il
Ruggiero:
anzi il mio canto (e questo mi contrasta
più ch’altro) il mezo istesso temo sdegni,
ché ’l drizzar a sì nobil mezo l’asta
e’ non è cosa da mezani ingegni93, 155
o l’esagerata invocazione alle muse in apertura del capitolo in lode
del zero:
muse venite tutte in processione 10
a darmi aita, sì ch’io possa dire
le gran lodi del zero a le persone94.
Manca, invece, nei burleschi albertiani una caratteristca fondante
del genere, ovvero il sottofondo erotico, il gioco di doppi sensi95:
mai si ricorre, infatti, all’equivoco osceno negli endecasillabi, a parte
cursorie aperture alla licenziosità (nient’affatto velate):
e la maggior dolcezza che si prova,
l’uomo nel mezo de la donna e in mezo
de l’uom scambievolmente ella ritrova:
tutti quanti noi siam da questo mezo 40
usciti al mondo e tutti per natura
cerchiam di reficcarci in questo mezo.
Quand’io ’l provo per mia buona ventura
vorrei poter reficcarmici tutto
quant’io sono in persona et in figura96. 45
Si leggano inoltre i vv. 154-162 del capitolo per Carlo Berengo
(N, c. 114r):
quanti piacer, quante consolazioni,
quante allegrezze in questo mondo abbiamo, 155
92 S. Longhi, Lusus. Il capitolo burlesco nel Cinquecento, cit., p. 217.
93 iii, vv. 152-155, N, c. 83v.
94 iv, vv. 10-12, N, c. 84r.
95 Cfr. J. Toscan, Le carnaval du langage. Le lexique érotique des poètes de l’équivoque
de Burchiello à Marino (XIe-XVIIe siècles), Lille, Presses Univesitaires, 1981.
96 iii, vv. 37-45, N, cc. 81v-82r.
[32] I CAPITOLI DI ROMANO ALBERTI TRA SATIRA E BURLESCO 685
tutte son del sudor favori o doni.
E quando quel piacer dolce pigliamo,
che sen con sen, lingua con lingua unisce,
tanto più piace quanto più sudiamo;
come söavemente si languisce, 160
come confusamente si sospira
e come quel sudor n’intenerisce.
Che si presenti, insomma, «di bassa statura o con le membra
stirate in modo anomalo, con aria naturale o un pò selvatica e incolta
»97, questa poesia si caratterizza per un gioco di sproporzioni o
eccessi. Una figura di eccesso è senza dubbio la digressione, intesa
come lungaggine, fastidioso sproloquio, prolissità insistita: l’autore
sembra voler porre un freno in certi frangenti al flusso sregolato
delle terzine attraverso il topos dell’egestas calami:
oh illustre mezo, io ti loderei ancora,
ma aver mi converria lingua d’acciaio
e ragionar de le tue lodi ogn’ora. 135
Per or mi basti averne detto un paio,
ch’in vero anzi di dirle tutte quante
mi mancheria la penna e ’l calamaio98,
oppure mediante autoironici propositi, quale la dichiarata brevità in
apertura dell’encomio del sudore (a cui saranno invece riservati
circa 200 versi):
piaccia a vosignoria ascoltarmi alquanto,
ché brevemente le vo’ far vedere
le lodi del sudor, la gloria e ’l vanto99.
Come, dunque, i capitoli-epistola e (in parte) i componimenti di
matrice propriamente satirica, i burleschi albertiani procedono con
una libera quanto disordinata successione espositiva. Contraddistinte
da una notevole varietas tematica, le lodi si susseguono a cascata,
senza soluzione di continuità: la strategia albertiana consiste nel
fornire i più disparati elementi probatori della eccezionalità di ciò
che ha scelto di elogiare. Se lo zero e il sudore sono concetti emblematici
per l’elogio paradossale, inteso innanzitutto come possibilità
di rovesciamento della realtà, di «inversione di segno dal nega-
97 S. Longhi, Lusus. Il capitolo burlesco nel Cinquecento, cit., p. 216.
98 iii, vv. 133-138, N, c. 83v.
99 ix, vv. 7-9, N, c. 111r.
686 CIRO PERNA [33]
tivo al positivo»100, il mezzo non può essere ascritto a nessuna delle
due categorie oggetto di lusus, ovvero le «cose indegne perché
moralmente censurabili o perché oggettivamente nefaste» o quelle
«di poco conto e di poco valore»101.
Nel capitolo per Marco Ruggiero102 è praticato, perciò, un elogio
alla maniera burlesca di una tematica prettamente satirica, ossia la
medietas: non al paradosso, non alle nugae, dunque, ma a una seria
veritas l’Alberti rivolge le sue lodi, percorrendo ancora una singolare
via di ibridismo letterario. Con uno sfrenato e (apparentemente)
incontrollato ricorso a tematiche eterogenee e bizzarre, che sovente
non occupano nemmeno lo spazio di una terzina, prende forma,
così, l’encomio in un ritmo frequentemente inarcato:
quando almeno dipinto ci abbattemo
a contemplar un campo ben armato
in mezo il general sempre vedemo.
Mirisi quando da uno a l’altro lato 85
si trasportano l’api, ch’il re loro
in mezo a tutte è per onor portato.
Il Papa e tutti i coronati d’oro
imperatori, re, duchi, marchesi
od altri che possieda territoro, 90
per l’ordinario in mezo a lor paesi
stanziano e quivi in mezo de’ vasalli
si stanno, perché sian meglio diffesi.
In mezo ai prati i liquidi cristalli
scorron più vaghi e dal timone il cocchio 95
è tratto messo in mezo a due cavalli.
E quella chiesa non vale un finocchio
100 S. Longhi, Lusus. Il capitolo burlesco nel Cinquecento, cit., p. 166.
101 Ivi, pp. 154-55.
102 Nulla conosciamo del Ruggiero per la sostanziale assenza di testimonianze
esterne al codice N, a parte una cursoria citazione in Iter Italicum. Accedunt
alia itinera: a finding list of uncatalogued or incompletely catalogued humanistic
manuscripts of the Renaissance in Italian and other libraries, a cura di P.O. Kristeller,
London, The Warburg Institute, 1983-, iv (alia itinera ii), p. 85, nella descrizione
del cod. London, British Library 8640 (xvi-xvii sec., ff. 50), dove compare tra gli
autori di sonetti in appendice ad un’orazione di Andrea Cornaro per l’Università
di Candia. Probabilmente originario dell’isola, è destinatario in N, oltre che
del ternario in lode del mezzo, del sonetto caudato In fede mia gli è pur un caso
strano, con didascalia Al clarissimo Marco Ruggiero (c. 109v), nonché autore del
già citato madrigale Fu la bella Indovina (c. 144r). Il capitolo del mezzo fu letto
anche dal Vergici che indirizzò a sua volta all’Alberti il già citato sonetto d’encomio
Quel mezo lucidissimo e divino (N, c. 146r).
[34] I CAPITOLI DI ROMANO ALBERTI TRA SATIRA E BURLESCO 687
che non abbia per dar dentro buon lume
nel mezo de la sua facciata un occhio.
Et è d’ogni architetto che presume 100
d’esser pregiato, in mezo de la casa
far far la porta antico e bel costume103.
Con un procedimento analogo si intessono le lodi dello zero,
laddove il tono pseudo-scientifico del ricorso a prove storiche o
matematiche estremizza la pratica del paradosso:
quel gran Cesar, che tanti avea domati
popoli e regni, giunto per le poste
là dove i nostri padri sono andati,
dentro un zero sue ceneri fur poste 85
sopra una guglia, com’ han visto molti,
prima ch’elle ne fussero deposte.
Perché a consiglio i romani raccolti
non parve loro altro loco più degno
a quei grand’ossi in cenere rivolti. 90
Quello abachista di sì grand’ingegno,
che sol per via di numeri insegnava
cose da far star i Platoni a segno,
il zero a gran ragion tanto stimava,
ch’oltre seicento mila millïoni 95
de’ millïon co· ’l zero numerava104.
Il fiume di elogi per il sudore nel capitolo indirizzato a Carlo
Berengo rappresenta l’apoteosi dell’eccesso, della sproporzione: le
terzine sembrano poter moltiplicarsi all’infinito, ponendosi come la
realizzazione di un rapsodico flusso di idee. L’Alberti sfrutta le
potenzialità semantiche della parola “sudore” (dal prodotto di attività
fisica alla pioggia, dalla rugiada alla linfa), realizzando, così, un
variegato sistema encomiastico, compattato in alcuni casi solo dal
prevedibile ricorso a terzine capfinide:
perché a la lotta et al pallon si gioca
Se non che per sudar, rendersi forti,
perché lo star in ozio non ci nuoca?
[…]
Suda anco il cielo a lo spuntar dei rai
del sol: l’erbetta se ne inaffia e ’l piano 140
e se ne spruzzan gli augelletti gai.
103 iii, vv. 82-102, N, cc. 82v-83r.
104 iv, vv. 82-96, N, cc. 85v-86r.
688 CIRO PERNA [35]
Senza il sudor la vita nostra invano
si manteria, senza il sudor la terra
rimarria come una pianta di mano.
[…]
Mille alchimisti affumicati e neri
non attendono ad altro ch’a trar fuora 185
questi sudor con lambicchi e bicchieri.
E i bicchieri e le tazze onde s’onora
tanto Muran, come ornerian le mense
senza il sudor di quei che li lavora105?
Il lusus è praticato, dunque, dall’Alberti non senza spunti di
novità, perché se da un lato condivide l’impianto formale ormai
istituzionalizzato, dall’altro evita, alla maniera tansilliana, «adesioni
tout court alle implicazioni ideologiche proprie dei cosiddetti berneschi
e delle loro istanze eversivamente polemiche»106. Nella raccolta
albertiana risulta oramai concretizzata la contaminazione dei
generi satirico e burlesco, più che per una indistinta mescidazione
di elementi di codici diversi, per un tentativo di mimesi poetica con
i differenti risvolti del quotidiano.
Ciro Perna
(Napoli – Univ. “Federico II”)
105 ix, vv. 26-28, N, c. 111v; vv. 139-144, N, c. 113v; vv. 178-189, N, cc. 114v.
106 C. Boccia, Edizione critica dei “Capitoli giocosi e satirici” di Luigi Tansillo,
Tesi di Dottorato di Ricerca in Filologia Moderna, xxi ciclo (2005-2008), tutor
T.R. Toscano, Napoli, Università degli Studi “Federico II”, 2009, p. 9.
DANIELA DE LISO
“Così potess’io, mia dolce amica, mostrarti,
scrivendoti, tutta tutta la mia anima”.
Foscolo tra le Lettere d’amore e l’Ortis.
The massive corpus of letters written by Ugo Foscolo has always
been of great interest for literary critics. The same cannot be said,
however, of the love letters the poet addressed to different women
in different places and times. This essays aims at underlining their
importance from a documentary and literary viewpoint.
Come scriveva Vittorio Alfieri nelle pagine introduttive della sua
Vita: «Il parlare, e molto più lo scrivere di sé stesso, nasce senza
alcun dubbio dal molto amor di se stesso»1.
Chiunque scriva di sé difficilmente può sottrarsi alla tentazione
mitopoietica. Perciò l’autobiografia, consegnata ad un romanzo o ad
un epistolario, non racconta quasi mai l’uomo reale, ma piuttosto
l’immagine che l’autore intende offrire di sé. I confini tra l’uomo ed
il personaggio sono spesso così labili da impedire al lettore quanto
al critico di tracciare una netta linea di demarcazione tra vita e
poiésis. A questa tentazione mitopoietica, senza alcun dubbio, cede
Ugo Foscolo, che nasconde, dietro ognuno dei suoi personaggi, da
Ortis ad Aiace, a Didimo, all’autore del Sesto tomo dell’Io, la smania
dell’autobiografismo2.
1 V. Alfieri, Vita, Asti, Casa d’Alfieri, 1951, p. 5.
2 Cfr. F. Flora, La mente e l’anima di U. Foscolo, in Storia della letteratura
italiana, IV, Milano, Mondadori, 1959; M. Fubini, Ugo Foscolo, Firenze, La Nuova
Italia, 1962; C. Varese, Introduzione a U. Foscolo, Autobiografia delle lettere, Roma,
Salerno, 1979; P. Fasano, La vita e il testo: introduzione a una biografia foscoliana,
«La Rassegna della Letteratura italiana», 1980. Sul problema dell’autobiografia
si vedano anche: J. Starobinski, Lo stile dell’autobiografia e Stendhal pseudonimo,
in Id., L’occhio vivente, Torino, Einaudi, 1973; R. Scrivano, L’ottica autobiografica,
in Id., Biografia e autobiografia. Il modello alfieriano, Roma, Bulzoni, 1976; M. Gu690
DANIELA DE LISO [2]
La critica foscoliana ha scritto da tempo la parola definitiva intorno
alla natura autobiografica dell’Ortis ed ha, ampiamente ormai,
sin dalla pubblicazione del corposo Epistolario nell’Edizione Nazionale
delle opere dell’autore per i tipi di Le Monnier, stabilito l’importanza
dell’epistolografia per la comprensione dell’intera opera
foscoliana3. Dunque, un’indagine unicamente volta a rintracciare gli
inserti autobiografici presenti nelle Lettere d’amore e trasfusi nelle
varie edizioni delle Ultime lettere di Iacopo Ortis apparirebbe quanto
meno oziosa e, se pure riuscisse a suggerire nuove consonanze
intertestuali, probabilmente poco aggiungerebbe alla ricostruzione
dell’universo foscoliano. Perciò questa lettura parallela delle Lettere
d’amore e dell’Ortis, lungi dal ricordare ciò che altri, prima e meglio
di me, hanno dimostrato4, intende solo evidenziare alcuni dei volti
di quell’«anima» che «tutta tutta», come scrive in una lettera ad
Antonietta Fagnani Arese, l’uomo e lo scrittore Foscolo intendono
consegnare alla posterità.
Come suggeriva il Varese, in uno studio datato, ma importante,
il nostro autore, sin dall’Ortis e dai primi sonetti autobiografici, «si
è fermato spesso a guardarsi e a definirsi», quasi che avvertisse
l’esigenza di «assicurarsi» periodicamente della propria identità di
uomo e di scrittore, per poterla poi contrapporre, in una continua e
letteraria sfida, al mondo a lui contemporaneo5, proprio come un
glielminetti, Memoria e scrittura. L’autobiografia da Dante a Cellini, Torino, Einaudi,
1977.
3 «Egli medesimo si descrisse e si narrò più volte, specie nelle Lettere ove è
tanta parte della sua più romita anima, e del suo pensiero, e dalla più segreta
lirica; qui, meglio che nel ritratto Solcata ho fronte, egli svela la sua anima folgorante
e mesta» (F. Flora, La mente e l’anima di U. Foscolo, cit., p. 29).
4 Il riferimento è, ovviamente, ai curatori dell’Edizione Nazionale dell’Epistolario
(Plinio Carli, per i voll. I-V; Giovanni Gambarin e Francesco Tropeano,
per il vol. VI; Mario Scotti per i voll. VII-VIII); in relazione alle lettere di argomento
amoroso si sono cimentati nell’impresa prima Giovanni Pacchiano, nella
curatela di U. Foscolo, Lagrime d’amore. Lettere a Antonietta Fagnani Arese, Milano,
Serra e Riva, 1981, poi Guido Bezzola, nella curatela di U. Foscolo, Lettere
d’amore, Milano, Bur, 1983 (d’ora in poi Lettere d’amore). Per le Ultime lettere di
Jacopo Ortis si utilizzerà l’edizione curata da G. Ioli, (Torino, Einaudi, 2004),
d’ora in poi Ortis.
5 «Didimo Chierico è un Ortis ricordato, ma non rifiutato: Ortis è un Foscolo
che si vuole tutto nel presente immediato della passione. Quando lo scrittore
nelle sue lettere o nei suoi progetti si ripropone come Ortis o pensa di trarre il
racconto di un altro Ortis dalle ripetute e pur modificate situazioni della sua
esperienza, vive e sente se stesso in un nuovo confronto, in un’aggiunta, in uno
spostamento. Ortis e Didimo sono due centri di richiamo e di riferimento, anche
[3] FOSCOLO TRA LE LETTERE D’AMORE E L’ORTIS 691
eroe tragico sull’orlo di una sempre apparentemente imminente
katastrofhv6.
Naturalmente la lettera costituisce lo strumento più idoneo ad
ospitare le passioni di questa anima, in realtà, borghese e, per certi
aspetti, ordinaria, ma impegnata a costruire una turbolenta rappresentazione
di sé.
Le lettere di Foscolo in particolare, come egli stesso suggerisce
nelle pagine londinesi del suo Gazzettino del bel mondo7, anche quelle
apparentemente composte di getto, nel turbine delle passioni8, non
necessariamente veicolano un messaggio al destinatario esplicito;
più spesso, invece, sembrano guardare ad un destinatario implicito,
un immaginario lettore che in quelle lettere vorrà rintracciare nuovi
aspetti dell’anima dell’autore, un lettore, insomma, al quale esse
possano apparire una sorta di «poesia minore», come ha scritto
Fubini9.
Parlare di sé, definirsi, descriversi, narrarsi10, quasi volendo prese
ognuno in distinti aspetti, ma, pur predominando, non escludono altri nomi
di autori o di personaggi che ritornano in un intreccio dove scelte biografiche
e letterarie si connettono. Per chiarire e difendere la sua identità in una dimensione
universale e molteplice e tuttavia con una preferenza indicativa, il Foscolo
vagheggia con una particolare e affettuosa insistenza don Chisciotte, come antenato
e amico, e insieme Parini, l’amicissimo suo Montaigne, Lorenzo Sterne,
Socrate e, negli anni inglesi, talvolta l’amico Amleto; né mancano altri nomi» (C.
Varese, Introduzione a U. Foscolo, Autobiografia delle lettere, cit., pp. 10-11).
6 Il senso tragico del Foscolo, in particolare nell’Ortis, è stato oggetto di
molti studi, tra i quali vanno almeno ricordati: M. Fubini, Ugo Foscolo, cit.; E.
Raimondi, Le pietre del sogno, Bologna, Il Mulino, 1985; M. Palumbo, Saggi sulla
prosa di Ugo Foscolo, Napoli, Liguori, 1994, pp. 1-20.
7 «Ma a studiarle bisogna più lavoro che a comporre un trattato, e le riescono
peggiormente noiose. Perché quando i letterati prevedono che un loro
bigliettino alla loro innamorata sarà per essere aggiunto alla serie delle lor
opere, lo scrivono appunto con lo stile di Plinio e di Voiture» (U. Foscolo, Il
Gazzettino del Bel-Mondo, in Id., Prose varie d’arte, a cura di M. Fubini, vol. V
dell’Edizione Nazionale delle Opere di U. F., Firenze, Le Monnier, 1953, p. 429).
8 «Sul carattere di “primo getto” di molte opere foscoliane (non a caso spesso
ancorate al modulo epistolare: l’Ortis e le Lettere d’Inghilterra) che ha appunto
assai spesso l’epistolario hanno richiamato l’attenzione molti. Forse sarà il caso
di precisare meglio: l’epistolario di Foscolo è metodologicamente il sostrato
organico della sua opera, al di là dei riporti a volte letterali, comunque spesso
consistenti, tra i due livelli di scrittura» (P. Fasano, La vita e il testo: introduzione
a una biografia foscoliana, cit., p. 163).
9 Sulla prosa epistolare si veda: P. Ambrosino, La Prosa epistolare del Foscolo,
Firenze, La Nuova Italia, p. 4.
10 «Il Foscolo ha sempre ricordato modificandoli e adattandoli, i suoi vari
692 DANIELA DE LISO [4]
venire contemporanei giudici e futuri biografi11, sembra una sorta di
ossessione, che induce l’uomo a vestirsi delle maschere di molti
personaggi12: Ortis, ma anche l’amico editore Lorenzo, Didimo e
Yorick, l’autore del Sesto tomo dell’Io, Lauretta, che dal precoce Piano
di studi attraversa, nascosta in chiaroscuro, quasi tutta la scrittura
foscoliana. A ben guardare nessuno dei suoi personaggi sa essere
immune dal contagio autobiografico, con ognuno di essi egli avverte
il bisogno di contaminarsi, come se scrivere di altri rappresentasse
l’unico modo per giungere alla gnoseologia dell’io13. Né i numerosi
amori, che contribuiscono a nutrire il mito della sua eterna giovinezza,
sono immuni da questa contaminazione: le donne amate
non esistono se non nello specchio del suo amore e nessuna di esse
ha voce, se non quella che l’autore modula per lei.
Non è un caso, dunque, che la critica foscoliana non sia stata
sempre benevola nei riguardi delle lettere d’argomento amoroso14,
autoritratti, che nel corso degli anni si trasmutano, si coloriscono, acquistano o
perdono ombre lungo il filo di una interna memoria protagonista, che conserva
e rinnova» (C. Varese, Introduzione a U. Foscolo, Autobiografia delle lettere, cit.,
p. 9).
11 «Anche dopo la morte il Foscolo sembra richiedere ai suoi lettori una
partecipazione intera ai suoi sentimenti, ai suoi odi e ai suoi amori: di qui le
simpatie e le antipatie profonde […] Parlare pacatamente del Foscolo fu per
tutto il secolo scorso, si può dire, impossibile: distinguere tra i suoi vizi e le sue
virtù, tra la vita pratica e la sua poesia, sembra non facile neppure oggi: ancora
oggi il Foscolo si presenta a noi come un contemporaneo, che non ci chiede
tanto un giudizio, quanto una dedizione intera, che non ci offre un’opera compiuta,
e facilmente isolabile dalla sua persona, ma un incessante travaglio a cui
noi stessi dobbiamo partecipare» (M. Fubini, Ugo Foscolo, cit., pp. 77-78).
12 «[…] il Foscolo non sapeva andare molto al di là di se stesso o delle
proprie proiezioni eroiche, nel momento di creare dei personaggi; non per nulla
il romanzo sulla letterata ferrarese Olimpia Morati, che egli aveva ideato nel
1795, stando a quanto più tardi ne scrisse al Monti, non fu mai composto,
mentre forse furono stese (almeno in parte, e non ne sapremo mai con esattezza
i rapporti profondi on l’Ortis) le lettere intitolate Laura cui si accenna nel Piano
di studi del 1796» (G. Bezzola, Introduzione a Lettere d’amore, p. 10).
13 Sull’argomento si vedano almeno: M.A. Terzoli, Con l’incantesimo della
parola. Foscolo scrittore e critico, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2007; M.
Palumbo, Foscolo, Bologna, Il Mulino, 2010.
14 Scriveva l’Apollonio: «E ritornando infine a quelle lettere amorose che una
curiosità biografica troppo elementare colloca nella memoria divulgata dei più,
vorrei notare qui soltanto la povertà del tema fondamentale e la ricchezza delle
modulazioni preliminari e successive all’amoroso incontro. Una squallida povertà
denuda i sentimenti quando domina la passione; mentre la ricchezza della
vita degli affetti umani si moltiplica quando, ora dispettoso, ora svagato, ora
[5] FOSCOLO TRA LE LETTERE D’AMORE E L’ORTIS 693
considerandole le meno interessanti del ricchissimo Epistolario, e che
un esame complessivo di esse, forse proprio per questo atteggiamento
pregiudiziale, non sia stato ancora compiuto, se non in ossequio
ad una curiositas puramente biografica. Al di là della curiositas,
in realtà, la lettura di queste lettere, estrapolate dalla mole dell’Epistolario
foscoliano, (impresa resa semplice dall’edizione curata da
Guido Bezzola, per Rizzoli nel 1983), consente di costruire, anche
grazie al confronto con passi omologhi del libro «del suo cuore»15,
l’Ortis, uno dei molteplici ritratti che il Foscolo scrive di sé nella sua
opera.
Se si eccettua un unico biglietto amoroso che, nel 1795, Foscolo
indirizza ad Isabella Teotochi Albrizzi, all’epoca ancora moglie del
nobile Carlo Marin16, bisognerà attendere il 1801 e l’amore per la
nobildonna fiorentina Isabella Roncioni perché le lettere comincino
a costruire la trama d’un romanzo, che, come accadrà anche per
buona parte del carteggio con la Arese, impiegherà un intreccio, per
così dire, ed un lessico molto vicini all’Ortis che in quegli anni
l’autore sta scrivendo, dopo la rinnegata edizione del 1798.
L’amore tra la Roncioni ed il Foscolo fu impedito dai parenti di
lei per fondati motivi economici e, poco dopo la partenza del giovane
esule da Firenze, la ragazza avrebbe sposato, in quello stesso
sazio, dall’amore entra nella cerchia dell’amicizia. Capovolgimento del suo Petrarca
[…]» (M. Apollonio, Foscolo, in Fondamenti della cultura italiana moderna.
Storia letteraria dell’Ottocento, I, Vite di poeti, Firenze, Sansoni, 1948, p. 164). Ed
ancora si legga Fubini: «Appena la passione si fa dominante e lo scrittore vuole
persuadere o gridare, meno schietta suona la sua voce: perciò di tanto inferiori
a quelle dirette ad Isabella Albrizzi sono quelle dirette all’amica Antonietta, in
cui è troppo spesso il linguaggio esagerato e convenzionale della passione
amorosa, perciò nell’epistolario foscoliano stona la lettera del 19 agosto 1809
alla Giovio, così oratoria e studiata. Tanto pura è la vena lirica di questo
epistolario, che facilmente è dato distinguervi i momenti di ispirazione da quelli
oratorii o smodatamente appassionati» (M. Fubini, Ugo Foscolo, cit., p. 81).
15 In una lettera ad un’ignota, nel 1802, Foscolo scrive: «Allora io ti darò il
libro; io lo amo assai perché è il libro del mio cuore; ne scriverò de’ migliori
forse per gli altri; ma niuno mi farà sentire tanto quanto questo» (Lettere d’amore,
p. 50).
16 Non restano nell’Epistolario tracce di questo amore, importante investitura
amorosa per il giovane intellettuale, trasfuso poi nelle pagine del Sesto tomo
dell’Io, dove della nobildonna si parlerà come di Temira, appellativo già conferitole
dal Pindemonte. Il gruppo di lettere del 1806, indirizzate all’Albrizzi in
occasione di un riaccendersi della relazione, è assai poco sentimentale e testimonia
di una liaison effimera che si esaurì senza drammi per entrambe le parti
coinvolte.
694 DANIELA DE LISO [6]
1801, Pietro Leopoldo Bartolommei. In una lettera indirizzata ad
Eleonora Nencini, intermediaria tra i due, emerge chiara l’idea d’amore
del Foscolo, che qui appare un giovane appassionato, dimidiato
tra le ragioni del cuore e quelle della mente:
E che mai potrà placare i miei mali nei paesi dove non potrò né
vederla né udirla? Unica mia occupazione sarà piangerla sempre…
giacché l’ho perduta senza speranza. Ma se anche io tornassi in
Firenze, oserò io più vederla? No, no! Ch’io mora nel mio dolore,
innanzi ch’io le sia cagione di una lagrima sola. […] Ella è sposa…
– e se pure nol fosse, io non oserei mai offrir la mia mano ad una
donna più ricca di me. La delicatezza in ciò supererebbe l’amore. –
ma non per altro che per gettarmi più presto nel sepolcro17.
Al di là della scoperta intonazione ortisiana18, nel riferimento al
sepolcro come remedium doloris, sin da questa lettera è evidente che
l’idea d’amore di Foscolo è strettamente connessa all’ineluttabilità
del dolore. È un amore impossibile non solo perché Isabella è promessa
ad un altro, ma anche perché ha le sembianze di un pàthos
che consuma e distrugge; è un sentimento totale, che fagocita in sé
ogni spazio vitale. La costruzione del testo sembra concepita per
unire, in una sorta di concordantia ad sensum, infelicità amorosa e
disavventure di un esilio, che, in maniera volutamente ambigua,
potrebbe qui essere effetto della disillusione d’amore quanto indicare
la realtà biografica dell’autore, esule politico, come il suo sventurato
alter ego Ortis. Mi sembra anche interessante soffermarsi sull’iterazione
dei nessi negativi, che, oltre a richiamare allusivamente
alla memoria i notissimi versi del celeberrimo sonetto dedicato all’isola
natìa, ribadiscono l’esigenza di trasformare l’amore in esperienza
lacerante, dalla quale non sia possibile guarire se non scegliendo
di conciliare gli opposti della dialettica tra e[ro” e qavnato”. È
già chiaro, in questo primo stralcio epistolare, che la donna amata,
qui la Roncioni, è ridotta al ruolo di semplice comprimario: Foscolo
ama ardentemente, Foscolo sceglie di partire, Foscolo sceglie di
17 Lettere d’amore, pp. 44-45.
18 In una lettera datata Rovigo, 20 luglio Ortis scrive: «Cos’è più l’universo?
Qual parte mai della terra potrà sostenermi senza Teresa? E mi pare d’esserle
lontano sognando. […] Fuggo e con che velocità ogni minuto mi porta ognor
più lontano da lei. E intanto? Quante care illusioni! Ma io l’ho perduta. Non so
più obbedire né alla mia volontà, né alla mia ragione, né al mio cuore sbalordito:
mi lascerò strascinare dal braccio prepotente del mio destino» (Ortis, p.
102).
[7] FOSCOLO TRA LE LETTERE D’AMORE E L’ORTIS 695
«piangerla sempre», Foscolo potrebbe scegliere, se dovesse essere
causa di dolore ad Isabella, la strada del sepolcro. Alla giovane
donna viene sottratta anche la possibilità di versare lagrime: solo in
una postilla conclusiva e fugace l’autore ricorda di chiedere alla
Nencini, destinataria della lettera, di essere rassicurato intorno alla
reciprocità dei sentimenti di Isabella.
La morte remedium amoris è, del resto, periodicamente invocata
nell’epistolario amoroso, giungendo a costituirne un imprescindibile
leit motiv. In questa lettera all’Arese si legge:
[…] noi ci amiamo, e lealmente, ardentemente: non basta? Devo io
dirti il mio unico voto? …quando i tuoi sospiri si trasfondono nella
mia bocca, e mi sento stretto dalle tue braccia… e le tue lacrime si
confondono alle mie… e …sì: io invoco la morte! Il timore di perderti
mi fa desiderare che la vita in quel sacro momento si spenga in
noi insensibilmente, e che un sepolcro ci serbi congiunti per sempre19.
Il motivo quasi sacrale20 della morte apparirà nuovamente,
attingendo questa volta a piene mani da un luogo analogo dell’Ortis21,
in una lettera del 1813 a Lucietta Frapolli, amata con la stessa intensità
dell’Arese e forse anche con maggiore dedizione, per l’evidente
corresponsione sentimentale da parte della nobildonna22:
Così avendo tutto perduto, ed errando in un esilio continuo lontano
da te, dovrei cercar la mia vera pace, e lasciarti insieme la perpetua
certezza ch’io non turberò più la tua. […] se la mia religiosa com-
19 Lettere d’amore, p. 69.
20 Cfr. M.A. Terzoli, Il libro di Jacopo. Scrittura sacra nell’Ortis, Roma, Salerno,
1988.
21 Si legge nell’Ortis: «E mentre tu m’ami, e io t’amo, e sento che t’amerò
eternamente, ti lascerò per la speranza che la nostra passione s’estingua prima
de’ giorni nostri? No, la morte sola, la morte. […] Che se il Padre degli uomini
mi chiamasse a rendimento di conti, io gli mostrerò le mie mani pure di sangue,
e puro di delitti il mio cuore. Io dirò […] Ho amato! […] Consolati, Teresa, quel
Dio a cui tu ricorri con tanta pietà, se degna d’alcuna cura la vita e la morte di
una umile creatura, non ritirerà il suo sguardo neppure da me. Egli sa ch’io non
posso resistere più; egli ha veduto i combattimenti che ho sostenuto prima di
giungere alla risoluzione fatale… ed ha udito con quante preghiere l’ho supplicato,
perché mi allontanasse questo calice amaro» (Ortis, pp. 168-169). E più
avanti: «Perdonami, Teresa, se mai – ah consolati, e vivi per la felicità de’ nostri
miseri genitori; la tua morte farebbe maledire le mie ceneri. Che se taluno
ardisse incolparti del mio infelice destino, confondilo con questo mio giuramento
solenne ch’io pronunzio gittandomi nella notte della morte: Teresa è innocente.
– Ora tu accogli l’anima mia» (Ivi, pp. 172-173).
696 DANIELA DE LISO [8]
passione fosse superata dall’immenso dolore a cui non so come un
cuore umano possa resistere; se nella veemenza de’ miei tristi delirj
la ragione non potesse più opporsi, e a me non rimanesse altra forza
fuorché l’estrema di troncare i miei giorni, sono sicuro che dio, se
tutto non perisce con noi, egli che vede i miei lunghi combattimenti
e l’irresistibile necessità che mi ha precipitato infermo e cieco al
sepolcro, dio mi sarà clemente ed avrà pietà dell’anima mia. E tu,
mia cara amica, non incolparti mai, te ne prego, né della tormentata
mia vita, né dell’infelice mio fine. Da te, donna divina e fatale per
me, come ho tratte le angosce più acerbe, così anche ho avute le
illusioni più dolci e più care de’ giorni miei. Ti ringrazio anche della
forza che tu mi hai saputo infondere con le tue lettere; e del disprezzo
ch’io rileggendole sento sempre più per la vita. Quando mi giungevano
io le accoglieva come prove care dell’amor tuo: oggi nel
rivederle sovente, ritrovo in esse molte e sacre lezioni di Morte23.
D’intonazione anche più ortisiana24 – la corrispondenza è quasi
letterale – è la lettera alla Roncioni, di cui mi sembra utile riprodurre
uno stralcio:
Il mio dovere, il mio onore, e più di tutto il mio destino mi comandano
di partire. Tornerò forse; – se i mali e la morte non m’allonta-
22 In realtà anche in una lettera del 1806, indirizzata a Francesca Giovio,
Foscolo invoca la morte come remedium amoris, ma in questo caso l’intonazione
retorica è ben più evidente: «Nell’ora della morte d’innanzi al tribunale d’Iddio
io dirò che vi amo con tutta la tenerezza e la lealtà; e potesse la mia morte farvi
felice! Questo è il miglior premio ch’io possa sperare al mio misero amore; e
sarebbe ad un tempo d’espiazione al mio fallo, ed io troverei la tranquillità che
la natura del mio nascere non mi promette che nel sepolcro. Oh sì! Potesse la
mia morte farvi felice! Ma finché io vivrò non sarò mai traditore; e voi non
sarete la moglie d’un uomo che può in faccia al mondo apparire d’avervi acquistata
con la seduzione e l’ingratitudine» (Lettere d’amore, p. 372).
23 Ivi, p. 445.
24 Il passo dell’Ortis è omologo: «[…] Mandami in qualunque tempo, in
qualunque luogo il tuo ritratto. […] nelle ore fantastiche del mio dolore e delle
mie passioni, annojato di tutto il mondo, diffidente di tutti, con un piè su la
sepoltura, mi conforterò sempre baciando dì e notte la tua sacra immagine, e
così tu m’infonderai da lontano costanza per sopportare ancora questa mia vita.
Farà men angosciose le mie notti, e meno tristi i miei giorni solitari, que’ pochi
ch’io potrò vivere senza di te. Morendo, io volgerò a te gli ultimi sguardi, io ti
raccomanderò il mio ultimo sospiro, io verserò su te tutta l’anima mia, io ti
porterò con me, nel mio sepolcro, attaccata al mio petto. […] Ho l’unica tua
lettera che mi scrivesti quand’io era a Padova; felice tempo! Ma che l’avrebbe
mai detto? Solo e sacro testimonio del mio dolore e dell’amor mio non mi
abbandonerà mai, mai. O mia Teresa, questi sono delirj; ma l’uomo sommamente
misero non ha altra consolazione» (Ortis, p. 99).
[9] FOSCOLO TRA LE LETTERE D’AMORE E L’ORTIS 697
neranno per sempre da questo sacro paese, io verrò a respirare l’aria
che tu respiri, ed a lasciare le mie ossa alla terra ove sei nata. M’era
proposto di non più scriverti, e di non più vederti. Ma… – io non ti
vedrò, no. Soffri soltanto queste due ultime righe che io bagno delle
più calde lagrime. Fammi avere in qualunque tempo, in qualunque
luogo il tuo ritratto. Se un sentimento di amicizia e di compassione
ti parlano per questo sventurato…non mi negare il piacere che compenserebbe
tutti i miei dolori […] io nelle fantastiche ore del mio
cordoglio e delle mie passioni, annoiato di tutto il mondo, diffidente
di tutti, malinconico, ramingo, con un piè sulla fossa, mi conforterò
sempre baciando dì e notte la tua sacra immagine […] Morendo, io
ti volgerò le ultime occhiate; io ti raccomanderò il mio estremo sospiro,
io ti porterò con me nella mia sepoltura, con me… attaccata al
mio petto… –25
L’insistita anafora iniziale è abbastanza eloquente in merito alla
considerazione che l’amante attribuisce all’amata. «Il mio dovere, il
mio onore, il mio destino»,«io verrò a respirare»,«io non ti vedrò»,
«io ti porterò con me»: non esiste un noi nel presente e non esiste
nel passato o nel futuro. C’è piuttosto un io solitario che diviene
una monade inoppugnabile, quando, con il ritratto di lei «attaccato
al petto», scenderà nella sua sepoltura. Sebbene il gusto moderno
ed il buon senso delle donne, atavicamente avvezze alle promesse e
profferte degli uomini innamorati, riconoscano in queste righe un’enfasi
retorica talvolta leziosa, il dovere del critico che si propone di
leggere i testi, ricostruendo il più possibile le categorie di gusto e
pensiero del tempo in cui l’autore vive, è quello di riconoscere nell’io
di queste righe il fil rouge di quel forte sentire, che alfierianamente
intesse tutta la scrittura foscoliana. Tornano il riferimento alle lagrime
d’amore, all’andare ramingo per altri paesi e alla quasi
ineluttabilità della morte che sono poi motivi dominanti dell’Ortis,
ma anche delle successive lettere ad Antonietta Fagnani Arese26, la
nobildonna milanese, molto meno ingenua ed indifesa della giovane
Isabella che non rinunciò mai per Foscolo alle lusinghe dei suoi
molti ammiratori.
25 Lettere d’amore, p. 46.
26 Anche all’Arese Foscolo-Ortis chiederà il ritratto per le medesime motivazioni:
«Per carità: dammi il tuo ritratto, il tuo solo ritratto; io me ne anderò in
campagna, a Venezia. Dove mi strascinerà il mio destino; ti lascerò tranquilla e
libera. Porterò con me la mia tremenda passione, le tue lettere, tutte tutte le
tristi e care memorie del tuo amore… o il tempo e le sventure mi saneranno, o
morirò lontano da te per non funestarti con la vista delle mie ultime sventure»
(Ivi, p. 99).
698 DANIELA DE LISO [10]
Edoardo Sanguineti, nella Premessa alle Lagrime d’amore curate da
Giovanni Pacchiano, definisce le lettere ad Antonietta Fagnani Arese
«un romanzo scritto non volendo», un po’ abbozzo dell’Ortis in elaborazione
perpetua, un po’ di un secondo possibile o vagheggiato
romanzo27. Questa «suite ad una voce», per citare Jean Rousset, (delle
lettere della Arese a Foscolo non restano che due biglietti), guida il
nostro autore alla costruzione di un ben definito ego eroico, ospitando
in molti luoghi i modelli capitali anche per l’Ortis, dal Goethe del
Werther al Rousseau del mito supremo della trasparenza assoluta («mostrarti,
scrivendoti, tutta tutta l’anima mia»), senza dimenticare ovviamente
Sterne. Tuttavia, accanto a questo eroe, così simile al suo Jacopo
e, quindi frutto della fictio letteraria, fa capolino l’uomo libertino,
amante dei salotti e delle loro beghe civettuole, l’uomo insicuro, che
attende alla moda delle passeggiate al corso e delle soirées teatrali,
solo per affermare la propria presenza in un ceto sociale cui non
appartiene per nascita, ma che sente affine. Perciò, se la passione per
Antonietta svela da un lato l’eroe che ama con un’intensità fuori dal
comune, dall’altro denuda l’anima dell’uomo, tremante davanti all’evidente
mutevolezza dei sentimenti dell’amata.
Anche questo amore, come quello per la Roncioni è impossibile,
poiché la Arese è sposata ad un uomo che il Foscolo ritiene una
«buona persona», proprio come l’Odoardo di Teresa nell’Ortis ed
anche in questo caso la vittima predestinata al dolore è l’uomo
amante, ben consapevole della mutevolezza dei gusti e delle passioni
della donna amata e della non eternità dei sentimenti di lei, che
egli non può che accogliere come un «bel dono», bagnando di «lagrime
riconoscenti» le lettere di lei che confessano l’amore. Sin dagli
esordi di questo love affaire Foscolo dichiara la propria consapevolezza
della superiore intensità del suo amore:
Come mai ci siamo amati noi? Io non lo so; io guardo questa avventura
come un dono del cielo. Ma s’io potessi un giorno narrarti tutta
la storia della mia passione per te, e come ti ho conosciuta, e come
ti ho amata tremando, e a quali ripieghi… io ti farei ridere e avere
a un tempo pietà del tuo Foscolo28.
Al di là dell’enfasi retorica di quella prima interrogativa si nasconde
un giovane ventiquattrenne innamorato, che dichiara, secondo
un tòpos della scrittura d’amore, la propria incredulità di fronte
27 E. Sanguineti, Premessa a U. Foscolo, Lagrime d’amore, cit., p. 11.
28 Lettere d’amore, p. 53.
[11] FOSCOLO TRA LE LETTERE D’AMORE E L’ORTIS 699
alla donna bellissima, ricca, nobile ed ammirata che sceglie lui, il
letterato di belle speranze, esule, non bello (come si affretta a chiarire
nei suoi numerosi autoritratti) e poco incline, per atteggiamento,
più che per reale intendimento, alle beghe degli ambienti alla
moda. Vorrebbe narrarle la storia del suo innamoramento, ma, in
realtà, proprio in quel periodare di anafore polisindetiche incapaci
di dire i modi dell’amore, ne svela un’ineffabilità, forse più sincera
di molte parole. Questa dichiarazione d’incapacità narrativa è la più
certa garanzia di autenticità del sentimento amoroso, che, tuttavia,
nell’enfasi retorica della scrittura, non sempre è immune da trasposizioni
mitopoietiche.
Questa è anche la fase in cui il giovane intellettuale utilizza le
armi della scrittura per redigere un ritratto di sé all’amante, che
poco lo conosce e che certamente, come si desume dalle lettere, mostra
sentimenti altalenanti nei suoi confronti, passando da una passione
smodata a disattenzioni clamorose che lo gettano nello sconforto,
ponendo spesso in discussione la reciprocità dei sentimenti.
Per Foscolo Antonietta non è solo un’avventura licenziosa – gli occhi
di lei, più di ogni altra parte del corpo, sono irresistibili per lui –,
e, dunque, vuole che la sua donna abbia stima dell’uomo, accanto
alla passione per l’amante:
Quante volte io prendo la penna per narrarti ogni minima mia azione,
e per farti, per così dire, un giornale di tutti i miei pensieri! Così
potess’io, mia dolce amica, mostrarti, scrivendoti, tutta tutta l’anima
mia; io sono sicuro che tu m’ameresti assai più e oso dire che se
qualche volta in te languisse l’amore per me, ti resterebbe sempre
un’amicizia candida, eterna29.
Foscolo ritiene che solo se Antonietta riuscisse a conoscere la sua
anima, le sue idee, il suo modo di stare al mondo, potrebbe amarlo
al di là delle passioni brucianti, ma effimere del cuore. Alla base di
questa convinzione c’è, dunque, una idea molto alta di sé: egli non
è un uomo comune, ma è, talvolta, costretto a nascondersi tra gli
uomini comuni, che, ovviamente, non sono in grado di apprezzarlo,
perché non sanno amare se non ciò di cui anch’essi si sentono capaci.
Poiché egli non è ricco e non ama il gran mondo, potrà essere
amato solo da una donna del gran mondo che sia disposta a riconoscere
la sua “straordinarietà” di uomo, dietro la maschera di una
quotidianità ordinaria. Così l’io dell’uomo si fa io letterario, anima
29 Ivi, p. 60.
700 DANIELA DE LISO [12]
bella che attinge al reale solo per migrare in maniera più netta
nell’ideale:
Ma quando io mi vedo importunato da una turba di volpi e cani, e
di tutte le bestie adulatrici e maligne della società, io per farle fuggire
conviene che mandi un ruggito da leone. Tra costoro e me non
vi può essere tregua; perch’io mi sento un’anima sublime e sdegnosa
d’imbrattarsi nel fango di quella nobile e galante canaglia. Hanno
dunque ragione s’io son brutto per essi, perché non devono credere
bello che chi loro somiglia. Mi sono fedelmente dipinto con tutte le
mie follie nell’Ortis, e spero che tu nel mio carattere trovi molte cose
strane, ma nulla di brutto30.
Foscolo vorrebbe che Antonietta fosse in grado di cogliere la
differenza che egli sente tra sé, il «Mondo Grande» ed il «mondo
piccolo» dell’amata, popolato da «uomiciattoli» privi di quell’ingegno
e quell’onestà che invece sono, nella realtà, sue caratteristiche
precipue ed, in letteratura, quelle dell’Ortis31, le cui opinioni sul
mondo a lui contemporaneo, non si discostano, infatti, molto da
quelle del suo demiurgo. In una delle lettere a Lorenzo scritte da
Padova, (in cui, a partire dall’edizione del 1802, furono inseriti molti
stralci delle lettere all’Arese, relativi alla contesa tra Foscolo ed un
altro amante dell’Antonietta, Angelo Petracchi), Ortis non sa nascondere
il disprezzo per l’ignoranza dilagante, per la presunzione
arrogante dei ricchi e dei nobili:
Onde se v’ha taluno nelle cui viscere fremano le generose passioni,
o le deve strozzare, o rifuggirsi come le aquile e le fiere magnanime
ne’monti inaccessibili e nelle foreste lungi dalla invidia e dalla vendetta
degli uomini. Le sublimi anime passeggiano sopra le teste
della moltitudine che oltraggiata dalla loro grandezza tenta di incatenarle
o di deriderle, e chiama pazzie le azioni che essa immersa
nel fango non può, non che ammirare, conoscere32.
30 Ivi, p. 54.
31 «Dopo quello che io ho veduto nel Mondo grande e nel tuo mondo piccolo,
e negli uomiciattoli che fanno da satelliti al tuo pianeta, sai tu cosa ho
ricavato? Che Werther e Ortis sono i due più galantuomini della terra, e che io
trovo ogni dì più ragione di stimarmi superiore alla galante gentaglia che parla
assai male che non fa bene perché non ha virtù, e che non fa male perché non
ha coraggio. Eppure Werter e Ortis, malgrado il loro cuore, il loro ingegno e la
loro onestà, non sono preferiti a certi sciagurati che fanno il ruffiano alle donne
per isfamare la loro libidine, e che vendono il proprio onore agli uomini per
fomentare i loro vizi» (Ivi, pp. 193-194).
32 Ortis, p. 39.
[13] FOSCOLO TRA LE LETTERE D’AMORE E L’ORTIS 701
È abbastanza evidente che, se Lorenzo è per Ortis l’interlocutore
ideale cui rivelare le proprie idee di superiorità morale, Antonietta
non può avere lo stesso ruolo per Ugo, perché, pur essendo una
donna colta e sensibile, fa felicemente parte di quel mondo – né è,
anzi, in molti casi animatrice –, verso il quale il suo amante vorrebbe
farle provare disgusto. Per questa splendida regina dei salotti
milanesi Foscolo è, purtroppo, solo uno dei satelliti che è avvezza a
veder gravitare intorno a sé ed a lui chiede, in base all’umore del
momento, una passione bruciante o un amore discreto: per Antonietta
Ugo non è l’uomo della vita. E se, in taluni improvvisi attimi di
“sobrietà sentimentale”, il nostro mostra di esserne consapevole33,
nella maggior parte delle lettere si profonde in giuramenti appassionati
sull’unicità di questo suo amore:
Intanto odilo; niuna donna può vantar si di essere stata tanto amata
da me. Ho amato, è vero, ma non sapeva di poter amare tanto; i
miei passati amori hanno avuto o i caratteri romanzeschi, o con
qualche donna del gran mondo, quei del libertinaggio; ma con tanta
passione, con tanta ingenuità, con tanta verità di amore non ho
amato mai. E non amerò più! Io te lo ripeto, o Antonietta, questo
giuramento: tu sarai l’ultima donna ch’io amerò e dopo di te non mi
avrà che la solitudine, o la sepoltura34.
Ovviamente Antonietta non fu affatto l’ultima donna amata da
Foscolo e nessuna sepoltura ospitò il poeta quando, avendo incontrato
un nuovo amore, la donna celeste decise di dargli il benservito,
ma i suoi sentimenti sono autentici. Esattamente come le sue idee
sul mondo, sugli uomini, sull’Italia sono inderogabili, indiscutibili,
i suoi sentimenti sono assoluti; in lui si incarna perfettamente l’ideale
dell’eroe tragico del forte sentire. Per questo, nel momento in
cui scrive, egli sente tutta la veridicità di promesse che all’orecchio
smaliziato dei più suonano necessariamente false. Foscolo ama indipendentemente
dalla persona amata, la forza dei suoi sentimenti
33 «Io t’amo ardentemente e credo di non essere amato. Tu me l’hai predetto
che la morte mi è necessaria, ed io nelle mie afflizioni e nella tua condotta vedo
ogni giorno di più che mi conviene abbandonare tutte le speranze della vita. Ma
v’è ancora un solo mezzo che mitigherebbe i miei mali. O il tuo amore di prima,
o la tua schietta confessione. Forse nella disperazione di più possederti potrei
darmene pace, e certamente ti lascerei quieta […] Se hai bisogno di un nuovo
amore io sono pronto a lasciarti libera, e morire, ma lasciarti libera» (Lettere
d’amore, p. 95).
34 Ivi, p. 71.
702 DANIELA DE LISO [14]
non si nutre dell’amore dell’altra, ma attinge alla fonte del mito
dell’amore, quale forza primigenia che travolge corpo ed anima.
Antonietta, dal canto suo, mette spesso in discussione i sentimenti
di Ugo, lo chiama il suo «romanzetto ambulante»35, gli chiede
promesse di amore eterno per nutrire la vanità femminile, quel desiderio
civettuolo di sentirsi apostrofata come l’unica donna mai
amata da un uomo; utilizza tutte le armi in suo potere per destare
di continuo nell’amante quello «spirto guerrier», che, lungi dal temere
la morte, ne fa il suggello verbale dell’amore36:
[…] ho tirato dritto e sono andato al boschetto; e ho passeggiato; e
mi sono sdraiato sopra uno di que’ sedili, illudendomi per tre ore
continue. Io ti vedeva venire verso di me, così semplicemente vestita
come ti vidi ieri mattina… e come un pellegrino ho visitato que’
luoghi dove noi abbiamo passeggiato, e dove ti sei seduta, e il sito
di quel bacio… (o anima mia! Io mi sento ancora le labbra umide e
odorose)… Non v’ha riparo. Questo fuoco divoratore, immenso, non
può starmi più dentro il petto. Me lo sento scoppiare da tutti i sensi,
dagli occhi, dalle mani…37
Il Foscolo Ortis scrive queste righe: Antonietta e Teresa sono
“semplicemente” vestite nei pensieri di Ugo e di Jacopo; entrambi
gli amanti si recano spesso in quel boschetto che è il luogo memorabile
del loro più importante incontro. L’impossibilità di tenere
35 Cfr.: «[…] – Che vuol dire romanzetto ambulante? – O Antonietta; vuol dire
ch’io non era immensamente innamorato e che il tempo vinse la passione…
perché…, a dirtela, la passione non era più forte del tempo. Confesso che in altri
casi non avrei avuto tanta costanza» (Lettere d’amore, p. 62); «La mia esistenza, i
miei pensieri, tutto è consacrato a te sola. […] Chiamami romanzo, ed hai forse
ragione; ma non lo sono per elezione… io devo alla natura questa ardente immaginazione
e questo cuore, che mi hanno fatto soffrire tanti tormenti, ma che non
sono stati mai domati, né dall’esperienza, né dalle sventure» (Ivi, p. 66).
36 Cfr.: «Io unirei il mio cadavere al tuo per non sopravvivere nel pianto,
circondato dalle perfidie e dalle sciocchezze degli uomini. Se un onnipotente
destino ci separasse, se le circostanze domestiche esigessero in me una vittima
della pace di tutta la tua famiglia, e se il rispetto per la tua fama, che a me è più
cara della tua stessa bellezza, mi costringesse a …oh sì! Io mi abbandonerei alle
lagrime e alla disperazione» (Ivi, p. 63); «Ma poss’io farti felice? Oh mia dolce
amica! Lo credi tu? Ti senti capace di darmi tutta la tua anima, di abbandonarti
a me solo; di amarmi… e di non sentire in tutto l’universo che me solo, com’io
non sento che te? Pensa; ed esamina profondamente il tuo cuore: egli è un capriccio
o una passione quella che tu hai concepita per me? – Io tremo. – Ma tu no…
non temere… io sono già tua vittima… io non posso più ritirarmi… e dopo che
tu mi avrai abbandonato io non avrò altro rifugio che la sepoltura» (Ivi, p. 87).
37 Ivi, p. 72.
[15] FOSCOLO TRA LE LETTERE D’AMORE E L’ORTIS 703
a freno i propri sentimenti è descritta proprio come in tragedia si
descrive la condizione del furens, perché Ugo e Jacopo non amano
come uomini comuni, amano come eroi, in cui forza, ingegno, sentimento,
passione convivono al massimo grado, non sempre riuscendo
a rientrare negli argini della normale quotidianità. Non è un
caso che Foscolo ami più furiosamente solo donne che, in qualche
modo, non possono essere completamente sue. Una relazione normale
lo costringerebbe all’assunzione di responsabilità, che egli,
facendosi scudo della sempre precaria condizione economica e di
quella altrettanto precaria di esule, rifugge ogni volta. L’amore sincero
per la Roncioni è tanto più forte, quanto più gli risulta chiaro
che non potrà mai ambire a sposare la più ricca e nobile Isabella;
quando, invece, nel 1809, farà innamorare di sé la bella Francesca
Giovio, che, con qualche riserva della famiglia, legata per altro al
Foscolo da rapporti di stima ed amicizia, avrebbe forse potuto sposare,
le indirizza una lunga lettera, in cui la studiata costruzione
retorica non riesce ad occultare la sua chiara indisponibilità a diventarne
lo sposo.
Nella lettera del 19 agosto 1809 egli si finge costretto a lasciare
la donna amata, utilizzando il più classico dei cliché, che potremmo
riassumere nel “non ti merito”:
È un anno ormai ch’io sopporto le angosce del silenzio, e ch’io mi
struggo nell’ardore secreto che mi consuma, e che sarà di rimorso e
di lagrime a tutta la vita che mi rimane: è un anno ch’io vo combattendo
con me stesso; e forse la lunga abitudine di sacrificarmi a’
miei principj e all’altrui pace m’avrebbe conceduto di vincermi. Ma
come potrò io obbedire a’ miei doveri, e lasciarvi ad un tempo nel
dubbio ch’io vi ho abbandonata più per indifferenza che per virtù,
e ch’io pago di ingratitudine un cuore che mi si mostra sì spassionato
e sì nobile? No, mia cara amica: non vi lascerò senza prima
accertarvi che voi siete riamata; amata caldamente, teneramente. La
riconoscenza a’ vostri sentimenti spontanei verso di me, la pietà per
la vostra gioventù, la stima alle doti dell’animo vostro fanno puri ed
ardenti, faranno sacri e perpetui quei palpiti che la vostra bellezza e
le vostre grazie mi hanno eccitato nel cuore dal primo giorno che vi
ho veduta. – Felice giorno!
Ma per quanti sentieri di desiderj, di pentimenti e d’affanni vo errando
miseramente dopo quel tempo! E sempre, sempre senza la
speranza di possedervi mai; e solo mi sostiene e m’illude la certezza
d’essere amato: eppure da questa certezza nacque e crebbe e si nutre
il mio disperato dolore38.
38 Ivi, pp. 367-368.
704 DANIELA DE LISO [16]
L’amante appassionato che scrive ad Antonietta di «preparargli
un migliaio di baci», affinché possa «succhiarli» dalle sue labbra,
che scrive ad un’ignota di non averle inviato dei fiori perché non
voleva «far quest’onore ai fiori» del suo giardino, l’amante che scrive
alla Martinengo di non poter resister un giorno di più senza
vederla e alla Frapolli di sospirare i suoi baci e «succhiare una sua
lagrima», non c’è in queste righe per la Giovio. A ben guardare tra
lagrime d’inchiostro e blandi combattimenti con se stesso fa capolino
solo il fantasma raziocinante di un amante da tragedia, che ha
dimostrato, invece, altrove di non conoscere razionalità in amore.
Quanto è triste quella rassicurazione di reciprocità dell’amore, quanto
poco foscoliana è l’evocazione di quella «pietà» per la gioventù
dell’amata39 o di quella «stima alle doti dell’animo», più adatte ad
un’amica bruttina che alla donna amata!
Il grigio è il colore di questa lettera, che esprime «compassione»
più che amore40, per una donna, che, come dimostra la bella risposta
di Francesca41 a questa brutta pagina del Foscolo amante, era
intellettualmente in grado di competere con l’uomo di cui sventuratamente
si era innamorata42. Che siamo di fronte ad una pura prova
di letteratura, più che ad una confessione d’amore sincera, lo dimo-
39 Si legga anche: «Così i sentimenti del malaugurato amor mio, della mia
tenera riconoscenza al vostro cuore, che mi si è dato spontaneo, della mia pietà
all’età vostra, del dolore a cui sentiva di abbandonarvi dopo di avervelo
esulcerato io medesimo, combattevano fieramente, ostinatamente co’ miei principj,
co’ pensieri sulla mia sorte povera ed incertissima, con le opinioni della vostra
famiglia, co’ miei doveri verso la mia, con l’amicizia ch’io aveva giurata a
vostro fratello; l’amore insomma con tutti i suoi delirii, l’onore e i suoi rimorsi
mi laceravano: voi frattanto, voi povera innocente, eravate la causa e la vittima»
(Ivi, p. 373).
40 Cfr. «Io guardava la vostra bella fisionomia, quasi ringraziando il cielo che
me l’avesse offerta d’innanzi per consolare gli occhi miei, che da molti anni si
vanno disgustando ognor più di tutte le cose del mondo; ma nel tempo stesso
l’amore per vostro fratello e le gentilezze di vostro padre e la coscienza del mio
povero stato vi rendevano meno pericolosa al mio cuore, che volgevasi a voi,
ma senza timore, né rimorso. Vedeva, è vero, talora gli occhi vostri fissarsi
sopra di me, vi vedeva sul volto e più sulle labbra un silenzio mesto e soave;
ma io non aveva avuto ancor tempo di distinguere il linguaggio dei vostri
sguardi; forse, io diceva a me stesso, gli occhi suoi si volgono sempre così e
naturalmente sopra di tutti, e quella mestizia è carattere; e chi sa! Fors’anche
quel cuore geme in qualche passione. – Così io vi compiangeva, e senza accorgermi
incominciava forse ad amarvi» (Ivi, pp. 368-369).
41 Cfr., Ivi, pp. 386-387.
42 Cfr. Ivi, pp. 386-388.
[17] FOSCOLO TRA LE LETTERE D’AMORE E L’ORTIS 705
stra anche il suo attingere a piene mani, e piuttosto scopertamente,
ai luoghi in cui Jacopo chiede perdono a Teresa della sua inevitabile
fuga, adducendo come excusatio la volontà di salvaguardare la pace
dell’amata e della sua disgraziata famiglia43. La letteratura soccorre
la vita. Effettivamente doveva essere difficile per Ugo addurre motivi
validi alla sua fuga: nel tempo di questa liaison Francesca non era
legata ad un altro uomo ed egli era in buoni rapporti con tutta la
famiglia di lei, che, probabilmente, dopo un veto pregiudiziale, non
si sarebbe opposta ad un’unione matrimoniale tra i due44. Ma il
matrimonio e, dunque, la realizzazione dell’amore, l’avventura di
un progetto di vita in due sono responsabilità che l’eroe fugge,
perché la felicità raggiunta non gli consentirebbe di muoversi nei
luoghi che gli sono più familiari, quelli dell’eroe tragico appunto:
solo tra gli uomini a vivere le più atroci sofferenze e solo destinato
ad una morte salvifica, che non è fuga dal mondo, ma sacrificio di
sé di fronte alle brutture, riconosciute come insanabili, della società.
Il matrimonio è ammesso solo, come si legge nelle ultime righe
della lettera alla Giovio45, che egli evidentemente non ama, se si
presenta come gesto salvifico, una sorta di sacrificio di sé, cui l’eroe
è disponibile per sottrarre l’amata a peggiori sciagure, come un’infermità
grave, un nubilato irrimediabilmente lungo, una vecchiaia
che ha cancellato ogni residua bellezza.
Non c’è da sorprendersi, perciò, se, alcuni anni dopo, tra il 1813
ed il 1814, nelle lettere a Lucietta Frapolli torna l’amante appassionato
della Roncioni e dell’Arese. Questo nuovo amore, nato in oc-
43 Nell’Ortis si legge: «Perdonami Teresa; io ho funestato la tua giovinezza,
e la pace della tua casa; ma fuggirò. Né io mi credeva dotato di tanta costanza.
Posso lasciarti, e non morir di dolore; e non è poco: usiamo dunque di questo
momento finché il cuore mi regge e la ragione non mi abbandona affatto. Pur
la mia mente è sepolta nel solo pensiero di amarti sempre, e di piangerti. Ma
sarà obbligo mio di non più scriverti, né di mai più rivederti se non quando
sarò certissimo di lasciarti quieta davvero» (Ortis, p. 99).
44 Cfr. «Amandovi, sarei stato ingrato con la vostra famiglia; e lusingandomi
d’amore, sarei stato ridicolo a me medesimo. Vi giuro, mia cara amica, ch’io
avrei sognata tutt’altra speranza, fuor che d’essere amato da voi; avrei temuta
ogni sventura, non mai d’amarvi disperatamente, e di vedermi obbligato a persuadervi
al maggiore e al più necessario dei sacrifizi» (Lettere d’amore, p. 369).
45 «Se l’infermità, se gli anni, se gli accidenti vi rapiranno la beltà e gli agi;
se sarete padrona di voi, se sarete disgraziata; se vi mancasse nel mondo un
marito, un amico, io volerò a voi: io vi sarò marito, padre, amico, fratello. Ma
non sarete mia moglie finché potrò comparire vile d’innanzi a me, seduttore
verso i vostri parenti, e crudele con voi» (Ivi, p. 380).
706 DANIELA DE LISO [18]
casione di un viaggio a Milano compiuto probabilmente dal nostro
autore nel 1813, ha, sin dall’inizio, le caratteristiche da lui predilette:
la donna amata è più ricca, ha dei figli e sta per sposare il generale
Fontanelli, del quale Foscolo sarà ufficiale di stanza, trovandosi così
“costretto” a vivere nella stessa casa della donna, che, dopo una
prima fase di innamoramento ed una intermedia di passione contrastata,
lo allontanerà. Le quattordici lettere alla Frapolli costituiscono,
nell’ambito dell’epistolario amoroso, un corpus interessante per
la continua commistione di sincerità passionale e letterarietà: la vicenda
amorosa con Lucietta dovette apparire, infatti, a Foscolo, per
molti aspetti analoga a quella di Jacopo e Teresa e questa intuizione,
ovviamente, doveva anche involontariamente suggerirgli continui
riferimenti alla vicenda romanzesca o, come, in un articolo del
1957, ipotizzava suggestivamente Cesare Federico Goffis, sollecitare
nell’autore l’idea di un nuovo romanzo epistolare, di cui questo compatto
carteggio avrebbe potuto costituire il nucleo fondante46. Al di
là delle ipotesi, comunque, le lettere a Lucietta restano un piccolo
capolavoro di genere, in cui armoniosamente si incontrano vita e
letteratura a dimostrare ancora una volta che anche il Foscolo più
maturo non intende fare alcuna distinzione tra l’uomo e lo scrittore
o almeno desidera che ai suoi lettori sia esplicito il nesso inscindibile
tra l’uomo ed i suoi alter ego letterari.
Sulla base del nuovo ordinamento delle lettere proposto dal
Goffis, rispetto a quello che il Gambarin aveva dato loro nell’edizione
Nazionale, nel carteggio potrebbero essere distinte tre fasi, la
prima delle quali coincide con l’esaltante scoperta dell’amore e della
sua corresponsione, momento che nasconde già la consapevolezza
dell’impossibilità dell’amore:
O bella giovine, io t’amo teneramente – questo sentimento solo, –
ma quando è solo mi conforta d’un diletto profondo indicibile, e
d’una mestizia soave; […] O amami; amami come puoi; amami quand’anche
io fossi condannato a un esilio perpetuo lungi da te; – oh,
se fossi sicuro che tu non ti dimenticheresti di me, che mi ameresti
quand’anche il mio cuore non mi battesse più dentro il petto, quand’anche
gli occhi miei non potessero più aprirsi a vederti, e ad
amarti, ad adorarti – sì, ad adorarti, – non è espressione romanzesca
per me – e ti se’ avveduta sovente ch’io ti stava vicino in una tacita
adorazione; e quanto tu mi parevi bellissima, tanto più io nascondeva
il mio amore infelice; – sì, bella donna, sì se io fossi certo che tu
46 C.F. Goffis, L’Ortis non scritto, «Nuova Antologia», XCII (1957), 1873, pp.
53-84.
[19] FOSCOLO TRA LE LETTERE D’AMORE E L’ORTIS 707
m’ameresti anche morto, oh come mi sarebbe dolce l’andare ad aspettarti
chi sa dove! Ma quando pure si perdesse ogni senso di vita in
quell’ultima ora, oh come la morte mi sarebbe dolce nella certezza
che tu serberesti il tuo cuore pieno di me47.
In quell’«io t’amo teneramente» ci sono ad un tempo «un diletto
profondo, indicibile» ed una ossimorica «mestizia soave», cioè convivono,
già ab origine, proprio come accadeva nell’Ortis, basti pensare
alla corrispondente scena del bacio48, i semi di e[ro” e qavnato”: l’amore
sembra essere, per Foscolo, tanto più intenso e smisurato quanto più
esso esplicita i caratteri del contrasto e dell’impossibilità. La sincerità
dei sentimenti del poeta è anche in quella preventiva assicurazione
«non è espressione romanzesca», laddove nelle lettere all’Arese, ad
esempio, accettava di buon grado gli appellativi vezzosi di «romanzo
», «romanzetto ambulante», evidentemente ispirati ad Antonietta
dai modi e dai discorsi da eroe drammatico dell’amante. Con la
Frapolli, che, probabilmente, mette in dubbio, secondo il gusto
civettuolo delle donne, la sincerità di così grandi ed esaltate profferte
amorose, Foscolo vuole affrancarsi da ogni possibile fraintendimento.
Ed in realtà gli echi diffusi del romanzo epistolare in questo carteggio
non sono indice di insincerità o di vacuo compiacimento retorico,
piuttosto esplicitano ancora una volta l’indissolubile connubio tra vita
e letteratura nel Foscolo amante, che non sa amare se non attraverso
i modi della letteratura. Bisogna riconoscere, che, nonostante l’evidente
enfasi retorica, queste lettere, sono forse le più intense del
Foscolo, anche nella fase finale del rapporto amoroso, quando Lucietta,
combattuta, ma in realtà già determinata a scrivere l’ultimo atto della
relazione, chiede a Foscolo di allontanarsi da lei, di smettere di amarla,
perché ella non potrà più essere sua:
– Ma ch’io non t’ami, ch’io non sia mal mio grado costretto a trascorrere
in una adorazione superstiziosa, quand’io penso a un tuo
bacio; ch’io non pianga, e fremendo, e illudendomi, e delirando;
ch’io non mi ricordi di te per amarti e sempre di più, e per sapere
insieme ch’io ti ho disperatamente perduta per sempre – nessuna di
queste cose mi potranno essere più impedite. – Nell’amore io non
47 Lettere d’amore, pp. 435-436.
48 Cfr.: «Teresa giacea sotto il gelso –ma e che posso dirti che non sia tutto
racchiuso in queste parole? Vi amo. A queste parole tutto ciò ch’io vedeva mi
sembrava un riso dell’universo: io mirava con occhi di riconoscenza il cielo, e
mi parea ch’egli si spalancasse per accoglierci! Deh! A che non venne la morte
e l’ho invocata. Sì, ho baciato Teresa» (Ortis, p. 77).
708 DANIELA DE LISO [20]
conosco che Amore, e in questa parola tutti i desiderj più forsennati
contemporaneamente alle più lunghe e dolorosissime privazioni49.
Chiedere ad un uomo innamorato di non amare più è forse l’unico
modo per legarlo indissolubilmente all’oggetto del suo amore.
L’amante, accusato più volte dalle donne che lo «avevano amato» di
libertinaggio, di infedeltà, ora vorrebbe «essere infedele almeno con
l’immaginazione», giunge a desiderare la «compassione» della donna
amata, vede lei sola, ne rievoca in sogno i baci, le membra celesti50.
Siamo nel 1814, sono passati gli anni dell’irruenza giovanile, e,
se Foscolo non è vecchio, gravano comunque su di lui il fardello di
un esilio, vissuto ormai come condizione permanente dell’anima51,
la suggestione incombente del suicidio, che, nonostante l’esempio
dei fratelli, riesce ad allontanare proprio attraverso la continua evocazione
apotropaica di esso.
Come dimostrano, dunque, le lettere d’amore, anche le ultime a
Quirina Mocenni Magiotti o a Veronica Pestalozzi, forse meno belle
dal punto di vista letterario, ma di notevole interesse documentario,
se l’amore per il Foscolo Ortis ha solo i contorni del dolore e del
sacrificio ineluttabile di sé, l’amore per l’uomo più maturo, su cui
ormai agisce anche l’esempio sterniano, è ragione di vita, più che
concausa di morte.
In una lettera a Sebastiano Trechi dell’agosto 1812, Ugo scriveva:
Quando non s’è né mercatanti, né soldati, né preti, né ambiziosi, né
gelati, quando s’ha un’anima, mio caro Trechi, […] non si può vivere
senza una donna che t’ami, che t’inondi l’anima di voluttà con un
bacio, che ti alimenti nel cuore la generosità, e la dolcezza, e che
tempri tutte le fiere passioni delle quali la natura ha voluto dotarci,
senza lasciarci verun contravveleno fuorché l’amicizia e l’amore52.
Un po’ Teresa e un po’ Antonietta è, insomma, la donna ideale,
condicio sine qua la vita non val la pena d’essere vissuta, soprattutto,
se non hai più una patria, se non hai una rendita, se di nobile hai
solo un cuore ormai stanco di vivere in un mondo che non sa
accettare la prepotente passione che ti «rugge dentro».
Daniela De Liso
(Napoli – Univ. Federico II)
49 Lettere d’amore, pp. 433-434.
50 Cfr. Ivi, pp. 459-460.
51 Cfr. V. Di Benedetto, Lo scrittoio di Ugo Foscolo, Torino, Einaudi, 1990.
52 U. Foscolo, Epistolario, vol. IV dell’Ed. Nazionale, cit., p. 101.
AGATA IRENE DE VILLI
«La cosa nuova»: una lettura di Eva ultima
The essay is based on a metatextual reading of one Bontempelli’s
most puzzling and circuitous works. Published in 1923, Eva ultima
marks a borderline between the two narrative models typical of
Bontempelli. This is proved by the heuristic tension triggered by
the coexistence of an anti-mimetic and deconstructive marvellous,
in itself ironic and intellectual, and a mimetic and ‘realistically
magic’ one, which paves the way for the fantastic tale in its wellknown
twentieth-century form.
Io ho avuto, anni sono, ho avuto dalla sua stessa bocca le confessioni
di Eva, già bianca e quasi prossima alla morte; e m’hanno servito
di fondo nello stendere questo racconto della sua ultima avventura.
Ricordo che ancora ella si maravigliava, dopo tanti anni, considerando
come sùbito le fosse scomparso ogni stupore per la stranezza
delle cose che le accadevano, pensando la piena confidenza con cui
le aveva accettate e vi si era immersa. S’era in certo modo avveduta
solo più tardi […] del maraviglioso che le era passato a portata di
mano […] pure io stesso m’accorgo che accingendomi, e poi continuando,
a scrivere, quasi sempre ho accolto ogni cosa con molto
candore: solo qua e là mi traluce il fondo misterioso di quelle avventure
[…]; come mi vi abbandono, tutto mi si rifà piano, e il mio
animo è sgombro da ogni perplessità. Vero è che sempre e dappertutto,
nell’intero corso della vita, e nei fatti suoi più quotidiani
come nei più singolari, l’uomo fondamentalmente ignora che cosa
sia strano e che cosa comune: il mirabile e l’usuale si confondono
facilmente agli occhi di chi guarda con attenzione verso il fondo
delle cose1.
Questa riflessione, con la quale Bontempelli interviene direttamente
nella narrazione, interrompendone il flusso, sembra testimoniare
a chiare lettere il carattere metatestuale di Eva ultima, un ro-
1 M. Bontempelli, Eva ultima, in Id., Opere scelte, a cura di L. Baldacci,
Milano, Mondadori, 1978, pp. 408-409.
710 AGATA IRENE DE VILLI [2]
manzo che, per quanto «enigmatico e labirintico»2, offre non poche
indicazioni di poetica, ponendosi come una sorta di «tirocinio magico
» attraverso il quale lo scrittore, pur avvalendosi ancora una
volta del filtro dissacrante dell’ironia, pone già, implicitamente, le
premesse teoriche della sua peculiare declinazione novecentista del
racconto fantastico.
Nella prima fase della narrativa bontempelliana l’ironia agisce
come principio anti-natura, disautomatizzando la percezione del lettore
attraverso continui rovesciamenti prospettici. La meraviglia, l’acquisto
conoscitivo è in genere veicolato dal personaggio maschile,
per lo più coincidente col narratore pseudoautobiografico: il mago
modernista3, cerebrale e disincantato, produce per mezzo di un estro
ingegnoso un prodigio di natura intellettuale, teso a decostruire l’apparente
compattezza del reale. Straniata ironicamente l’illusione
naturalistica di una conoscenza ‘positiva’, Bontempelli, tuttavia, non
indugia in un puro gioco nichilista, in una passione collezionistica
per il frammento: non a caso, già nel ’23, anno di pubblicazione di
Eva ultima, dichiara che «i periodi d’avanguardia corrispondono ai
periodi morti, di produzione frammentaria, di decadenza e di preparazione
»4. L’ironia, che nella fase dello sperimentalismo avanguardistico
era servita come macchina per fare il vuoto, cede allora il
passo ad una nuova forma di realismo che, affiancando al dato di
realtà l’elemento magico, preserva e amplifica lo scarto tra reale e
immaginario, nel tentativo – inverso e tuttavia complementare all’idea
di scrittura come sommo artificio – di recuperare la facoltà
mimetica, nel senso aristotelico del termine, proprio attraverso una
rappresentazione residuale. «Il realismo», scrive Bontempelli, «è stato
ed è interessante soltanto dove, senza accorgersene, tradisce se
stesso»5. La strada novecentista per giungere alla meraviglia presuppone,
difatti, uno sguardo diametralmente opposto, che non strania
il reale, esorcizzando l’inquietudine derivante dall’enigma attraverso
le risorse dell’ironia, ma si abbandona fiducioso ad esso, «obbedendo
», per usare le parole di Jacobbi, «alle sue segrete trasformazioni
2 P. Pinto, Introduzione a M. Bontempelli, Eva ultima, Roma, Lucarini Editore,
1988, p. VII.
3 Cfr. in proposito, seppure su altro piano prospettico, il recente saggio di S.
Micali, Candide eroine: la magia al femminile in Bontempelli, «Transalpina», 2008,
n. 11, pp. 103-117.
4 M. Bontempelli, L’avventura novecentista, a cura di R. Jacobbi, Firenze,
Vallecchi, 1974, p. 67.
5 Ivi, p. 56.
[3] «LA COSA NUOVA»: UNA LETTURA DI EVA ULTIMA 711
che bisognava portare alla luce»6. Dententrici di questa «intelligenza
elementare»7 sono, questa volta, le donne, eroine candide8, capaci di
assecondare il perpetuo divenire degli eventi e per questo in grado
di cogliere la magia insita nella «mobilità perpetua»9 del reale stesso.
Eva ultima costituisce, in questo orizzonte, una tappa fondamentale
dell’itinerario bontempelliano, come testimonia la problematica
tensione conoscitiva innescata dalla compresenza, nel suo composito
organismo, di un meraviglioso che potremmo definire antimimetico
e decostruttivo, prodotto dall’ingegno e filtrato dall’ironia, e di un
meraviglioso mimetico, realisticamente magico, che si rivela spontaneamente
ad uno sguardo candido. Le due modalità del fantastico
bontempelliano si scontrano, qui, in una sorta di duello figurativo,
attraverso i personaggi antitetici e tuttavia complementari di Evandro
ed Eva. Si tratta di una contesa di saperi che mette in campo in cifra
allegorica due modalità completamente diverse di rapportarsi al reale.
In essa Bontempelli esplicita la propria scelta in favore di uno sguardo
‘candido’, apportando una variazione rilevante allo schema che
caratterizza tutta la sua prima produzione narrativa, all’incirca dal
primo dopoguerra alla metà degli anni Venti: in Eva ultima, infatti,
il personaggio focalizzante non è più il mago cerebrale ed ironico,
alter ego dell’autore, bensì il personaggio candido femminile. Il
deuteragonista, Evandro, il cui nome rimanda chiaramente ad una
complementarità speculare della componente maschile (Eva + anèr/
andròs), è certamente un mago, e però la sua è una magia tutta
intellettuale e ironica, che non desta stupore, ma tende, piuttosto, a
demistificare gli ‘abbandoni’ sentimentali e conoscitivi della donna;
è la magia, traslucida e senza incanto, di un raisonneur:
Vuoi che metta ai tuoi piedi gli uragani? Che evochi una corte di
amadriadi da collocare al tuo servizio? No. […] La mia magia è troppo
irrimediabilmente intelligente per evocarti un corteo di mostri10.
6 R. Jacobbi, Introduzione a M. Bontempelli, L’avventura novecentista, cit., p. X.
7 L’espressione è dello stesso Bontempelli che nella nota esplicativa a Minnie
la candida scrive: «La Minnie del racconto può anche essere una sciocca, la
Minnie del dramma con la sua intelligenza elementare soverchia e semplifica
tutto il mondo che le sta intorno», in M. Bontempelli, Minnie la candida, in Id.,
Opere scelte, cit., p. 957.
8 Cfr. S. Micali, Candide eroine: la magia al femminile in Bontempelli, cit., pp.
103-117.
9 M. Bontempelli, L’avventura novecentista, cit., p. 89.
10 «Tu non mi turbi, ma mi isterilisci» replica Eva, «Se sei un mago, lo stile
è assurdo. Profani il soprannaturale» (Id., Eva ultima, cit., p. 390).
712 AGATA IRENE DE VILLI [4]
Evandro è «irrimediabilmente» pervaso dal disincanto modernista
e pertanto incapace di qualsiasi abbandono. Eva è, invece, l’ultima
discendente delle eroine romantiche, perfetto esemplare di donna
fatale11 che ha inscritto nel suo nome il destino della tentatrice; ma,
a voler seguire la trama nei suoi interstizi metatestuali, Eva è anche
la «prima donna», capace di quella magia che non nasce da uno
sforzo volontaristico e cerebrale, dalla tèchne, ma dal recupero di
uno sguardo primitivo, elementare, che, sottraendosi al dominio e
all’arbitrio della logica, lascia che il latente si disveli, che le irragioni
vengano alla luce. Alla scoperta della «cosa nuova» annunciata dalla
veggente, Eva perviene non attraverso l’argomentazione dialettica
ma, piuttosto, attraverso una estrema condizione di disponibilità,
che la spinge ad abbandonarsi agli eventi, lasciando che sia il caso
a regolare il suo cammino.
Quando mai mi son io rifiutata all’avventura? Sono stata sempre
disposta ad accogliere in qualunque momento l’impreveduto, ho amato
sempre la mutazione improvvisa. Era tutta così la mia vita, pronta
in ogni ora agli abbandoni più impensati12.
L’abbandono non va visto, tuttavia, come rassegnazione all’indeterminatezza
conoscitiva, né tanto meno come slancio irrazionale,
ma al contrario come recupero di una nuova forma di razionalità
critica. Potremmo dire che proprio la consapevolezza della multiforme
impermanenza del reale, della Necessità che governa gli eventi,
spalancano alla nostra eroina la possibilità di un ‘potenziale’ dominio
estetico e conoscitivo sulla realtà. Detto altrimenti, Eva accetta
con spirito dionisiaco l’imponderabile e sfida il divenire proprio
attraverso una continua metamorfosi. D’altra parte, il candore che
Bontempelli intende recuperare non è «la fede candida passiva dei
primitivi», ma «uno stupore attivo e dominatore»13. A differenza di
Evandro, Eva non è pervasa dal disincanto modernista che limita la
sua magia, per lo più, ad un puro atto decostruttivo. La mutazione,
lungi dal rappresentare per la nostra eroina una dolorosa fatalità,
esprime, al contrario, la volontà di superare la costrizione del dimorare.
Allorché Evandro le chiederà: «Non vuoi che questa casa sia
per te un porto?», Eva senza esitazione risponderà: «Vuoi dire che
11 Per una lettura dell’opera in tal senso si veda S. Micali, Bontempelli e la
dissoluzione della femme fatale, «Italica», 1996, vol. 73, n. 1, pp. 44-65.
12 M. Bontempelli, Eva ultima, cit., p. 361 (corsivi miei).
13 Id., L’avventura novecentista, cit., p. 21.
[5] «LA COSA NUOVA»: UNA LETTURA DI EVA ULTIMA 713
ho molto navigato? È vero. Ma non ho mai desiderato un porto»14.
Affrancata dall’illusione di una meta da raggiungere, Eva possiede
la capacità di smarrirsi nell’infinito divenire del reale, come un
navigante, o meglio come un naufrago, che non domina le acque,
ma vi si abbandona. Eva non decide a priori quale cammino intraprendere.
«Avventura», d’altronde, «vuol dire sforzarsi ogni giorno
di uscire dal quotidiano» e «la più grande avventura dell’uomo è il
pensiero»15. Essa non conosce mete prestabilite, ma necessita del
coraggio dei giocatori, degli eroi delle grandi scoperte, che si affidano
al caso, curiosi di tutte le deviazioni possibili. L’indovina in cui
Eva si imbatte all’inizio del suo viaggio pone, difatti, per ben tre
volte, l’accento sul coraggio: «venga chi ha cuore, e un po’ di futuro:
[…] ma ci vuole coraggio»16. Eva, come la maggior parte dei
personaggi bontempelliani, magnifici giocatori di vita, assillati dal
«demone del gioco»17, è un’eroina moderna che declina la sua istanza
conoscitiva come propensione a smarrirsi, a inoltrarsi al di là delle
rassicuranti frontiere cognitive per precipitare in «un abisso infinito
»18. «Ti porta fuori del mondo», annuncia la veggente, «se sopra la
soglia avrai dormito un giorno e una notte»19.
Sin dalle prime battute del romanzo è possibile scorgere in filigrana,
dietro l’avventura di Eva alla scoperta della propria identità,
un’avventura più ampia che riguarda l’idea stessa di conoscenza
come scoperta dell’omesso, come sapere liminare che oscilla tra
concetto e immagine, tra razionale e irrazionale, tra il lato diurno e
il lato notturno dell’esistenza20. «L’interpretazione candida della realtà
», scrive infatti Bontempelli, «sale in quella zona in cui pensiero
e immagine sono fatti della stessa sostanza.»21. Un’altra importante
indicazione in proposito ci viene offerta, ancora una volta, attraverso
le parole dell’indovina:
14 Id., Eva ultima, cit., p. 368.
15 Id., L’avventura novecentista, cit., p. 352.
16 Id., Eva ultima, cit., p. 347. L’ammonimento si ripete dopo poche battute:
«Venga, venga chi vuole, ma ci vuole coraggio»; e ancora: «Ci vuole coraggio
per venire dalla Tricomante» (Ivi, p. 350).
17 M. Bontempelli, La vita intensa, in Id., Opere scelte, cit., p. 118.
18 Id., Eva ultima, cit., p. 362.
19 Ivi, p. 351.
20 Si veda in proposito O. Pelosi, Tra donna-sole e donna-notte. L’anima junghiana
in Breton, Bontempelli e Savinio, «Gradiva», 1996, n. 14, pp. 33-49.
21 Così Bontempelli definisce il candore nella nota esplicativa a Minnie la
candida (M. Bontempelli, Minnie la candida, cit., p. 957).
714 AGATA IRENE DE VILLI [6]
– Perché non vedesti mai il mare sotto il tuo sguardo calmarsi imbiancarsi
teneramente nella modestia dell’alba. Per questo domani
dopo la cosa nuova morrai, o nascerai.
– Quale cosa nuova, indovina? – domandò Eva con ansia.
– Nuova e impossibile e vera22.
L’oracolo annuncia la scoperta de «la cosa nuova», espressione
niente affatto casuale, che sembra rimandare chiaramente ad un
pensiero narrativo, in perenne divenire, che non approda al raggiungimento
della cosa, di una realtà ultima e definitiva, ma solo ad una
metamorfosi di realtà. Conoscere, dunque, è smarrirsi per ritrovare
«la cosa nuova». Cancellando ogni meta e quindi ogni ricognizione
del reale condotta a partire dal presupposto che se ne dia, e ne sia
predicabile, un senso ultimo, l’avventura conoscitiva si fa miracolo,
disoccultando mondi che giacevano in uno stato di latenza. Eva
giungerà, pertanto, all’acquisizione solo de «la cosa nuova», alla
consapevolezza di una verità mobile, ad un sapere che può darsi
solo come ermeneutica interminabile e che nell’antica Grecia nasce
proprio sotto forma di arte dei poeti e degli oracoli, che si fanno
portavoce dei messaggi degli dei, senza capirne il senso. La nostra
indovina è, non a caso, una veggente cieca come Tiresia. La verità
può essere solo oggetto di allusione – non c’è un consequenziale
percorso narrativo che porti ad essa – e la narrazione procede, infatti,
sin dall’inizio, per repentine alternanze di apparizioni e scomparse:
al rumore festante della fiera subentra improvvisamente il
silenzio di un bosco che fa da sfondo all’apparizione inaspettata
della Tricomante col suo carro, il quale poi improvvisamente scompare,
trasformandosi in una moderna autovettura. Distruggendo
qualsiasi gerarchia di valore, Bontempelli pone sullo stesso piano
elementi descrittivo-quotidiani ed elementi fantastico-visionari,
straniando l’elemento reale, mentre l’irreale finisce per assumere lo
statuto dell’avvenimento. La stessa entrata in scena di Eva è rappresentata
come una rivelazione che ha del meraviglioso:
Allora tra i primi alberi dello sfondo, come venendo da un sentiero
coperto, si intravide un movimento dei rami, e poi agitarsi qualcosa
e avanzando prendere forma e colore, e una signora vestita di rosso
apparve, uscita dalla macchia del bosco, sull’altro lembo della radura23.
22 Id., Eva ultima, cit., p. 351 (corsivo mio).
23 Ivi, p. 349 (corsivo mio).
[7] «LA COSA NUOVA»: UNA LETTURA DI EVA ULTIMA 715
Tutte le esperienze vissute non consistono in altro che in apparizioni,
rivelazioni improvvise. «La conoscenza», come è stato acutamente
rilevato in proposito, «è azionata dal flusso iconologico»24
che conduce la nostra eroina verso qualcosa che allude sempre ad
altro. Bontempelli mette in scena una noesi dell’immagine. Il viaggio
intrapreso dalla nostra eroina è un viaggio conoscitivo attraverso
il mito che, come sottolinea Kerényi, è l’apparizione di una immagine,
un’iconofania attraverso la quale un mondo latente diventa
visibile25. In questo flusso magmatico spesso la consequenzialità
viene interrotta ed emergono situazioni o personaggi ‘immotivati’
nell’economia del racconto di primo livello, ma fondamentali nel
ribadire come il racconto, la narrazione non soggiace a nessuno
schema e non è custodita da alcuna teologia di valori e di senso. A
divenire tematica, perciò, è la forma stessa del narrare. La fabulazione
della cosa prende, per così dire, il posto della cosa.
A propiziare l’entrata dell’eroina nell’orizzonte del multiversum è
la stessa atmosfera con cui si apre il romanzo. «La festa del paese,
con fiere, giostre, baracche, bersagli, indovinamenti, balli»26 richiama
chiaramente le atmosfere carnevalesche27, dove sono annulati i
rigidi confini tra vita e morte, reale e irreale, animato e inanimato.
Lo scenario iniziale lascia già presagire metamorfosi, rovesciamenti,
eventi che non potranno che collocarsi sulla soglia, al confine tra
due mondi.
Il viaggio ha infatti inizio con l’apparizione magica di un’autovettura,
«il mezzo meno magico, più moderno, più comodo» che ci
sia, ma ben presto si trasforma in un’avventura inquietante e sinistra,
dove il bosco assume un’importanza preponderante:
Il bosco era una pineta fitta […] Il sole penetrava a stento per oblique
vie, a chiazze violacee, entro quel verde oscurissimo qua e là
disegnando reti d’ombre sottili come aghi, ma verso l’intreccio delle
cime s’addensava in bagliori sanguigni28.
24 U. Piscopo, Massimo Bontempelli. Per una modernità dalle pareti lisce, Napoli,
Edizioni scientifiche italiane, 2001, p. 185.
25 C.J. Jung e K. Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia,
trad. it. di A. Brelich, Torino, Bollati Boringhieri, 1972.
26 M. Bontempelli, Eva ultima, cit., pp. 343-344.
27 Si veda in proposito V. Giordano, Lo spirito carnevalesco, in Ead., Dalle
«Avventure» ai «Miracoli». Massimo Bontempelli fra narrativa e metanarrativa,
Leicester, Troubador Publishing, 2008, pp. 119-120.
28 M. Bontempelli, Eva ultima, cit., p. 360.
716 AGATA IRENE DE VILLI [8]
Ricordiamo che il bosco per Propp costituisce una tappa obbligata
da attraversare per uscire dal mondo consueto e raggiungere
«l’altro mondo»29, «una delle regioni più sorprendenti»30, il cui nome
non è lasciato al caso dal nostro raffinatissimo costruttore di jeux
intellectuels. «L’altopiano del Duiblar»31 costituisce, non solo, una
sorta di altopiano dell’ironia, una zona più alta delle altre dalla
quale è possibile guardare le cose con una certa distanza, evitando
una «aderenza troppo minuta con le superfici delle cose»32, ma esso
rimanda anche, in maniera esplicita, all’idea del doppio. Non è difficile
scorgere nell’altopiano del Duiblar una figura allegorica del
doppio regno dell’arte, dove non a caso, le cose «non hanno nome»33
e sono illuminate da uno sguardo che sta tra il sonno e la veglia, da
una «luce lunare» che le lascia essere, portandone in superficie il
lato oscuro. L’ipotesi è confermata dalla stessa reazione di Eva, che
viene prima colta da uno stato di smarrimento conoscitivo, che la
priva della capacità di riconoscere lo stesso Evandro, insinuandole
nella mente quello che Bontempelli definisce «il genio dell’interrogazione
»34 («Che le aveva detto la Tricomante? […] Chi era Evandro?
[…] Mi ha parlato. Che cosa mi ha detto?»35), fino alla conquista di
uno sguardo doppio. Il conoscere in Eva, in quanto inscindibile dal
sentire, è erranza, perpetuo ripresentarsi di aporie e contraddizioni;
tuttavia, proprio smarrendosi nel regno dell’errore, Eva riuscirà a
cogliere le cose nella loro intima dualità:
A un certo punto ero convinta che io ed Evandro ci conoscevamo da
tempo; ma qui appare una contraddizione, perché io possedevo due
certezze: di conoscerlo allora per la prima volta, e insieme di conoscerlo
da un pezzo; pure io allora non vedevo che fosse una contraddizione,
ricordo bene che questa cosa non mi parve per nulla
assurda36.
29 V.J. Propp, Le radici storiche dei racconti di fate, tra. it. di C. Coïson, Torino,
Boringhieri, 1972, pp. 92-93.
30 M. Bontempelli, Eva ultima, cit., p. 343.
31 «La conoscenza del paese», chiarisce l’autore, «può essere utile per intendere
meglio la verità del racconto. Per questa ragione i miei più attenti lettori
saranno coloro che conoscono l’altopiano del Duiblar, scena della mia storia,
una delle regioni più variate e sorprendenti d’Europa» (Ibidem).
32 Id., L’avventura novecentista, cit., p. 15.
33 Id., Eva ultima, cit., p. 369.
34 Id., Il neosofista e altri scritti, Milano, Mondadori, 1928, pp. 116-117.
35 Id., Eva ultima, cit., pp. 360-362, passim.
36 Ivi, pp. 361-362 (corsivo mio).
[9] «LA COSA NUOVA»: UNA LETTURA DI EVA ULTIMA 717
Il viaggio di Eva sembra richiamare il processo stesso della scrittura,
«la letterarietà» come atto di spaesamento, come allontanamento
dai meccanismi percettivi abituali in un confronto con l’ignoto,
che sottrae l’eroina all’automatismo del «riconoscimento», permettendole
finalmente di «vedere»37. La conoscenza di Evandro scaturisce
da una dialettica oppositiva tra percezioni antitetiche, attraverso
la quale Eva addiviene per contro ad una visione che trova la
sua unità proprio nella relazione tra i due termini. Allo sguardo
candido, ‘poetico’ di Eva, le due modalità antitetiche di percezione
del soggetto cessano di contrapporsi l’una all’altra, conciliandosi in
una visione figurale. In Bontempelli, d’altra parte, non c’è mai una
verità del senso. La dualità costituisce l’essenza stessa della cosa, «il
punto di partenza e il punto di arrivo»:
Il diavolo ha bisogno che l’uomo non creda alla dualità: perché dalla
dualità nasce il concetto di punto di partenza e punto di arrivo, di
mezzo e di fine, peccato e salvazione. Per qualche tempo la cosa gli
è riuscita per mezzo del materialismo e poi del suo luogotenente il
positivismo […] La nostra è dunque un’impresa contro il diavolo38.
Il viaggio di Eva ha origine, non a caso, con le profezie di una
veggente mascherata. La verità originaria, dunque, non esiste, è
anch’essa una maschera. Postulare un inizio, d’altronde, significherebbe
legittimare un assoluto. La stessa avventura di Eva può essere
sì vista come un percorso di riappropriazione dell’infanzia, ma
un’infanzia, per così dire, non pre-adamitica ma post-adamitica. Gli
artisti dovevano «tornare in qualche modo dei primitivi […]. S’intende
che dobbiamo tuffarci in un primitivismo cosciente visto che
alla incoscienza e alla tabula rasa non ci si può ridurre. Adamo non
ha un passato. Non possiamo tornare Adami. Siamo dei primitivi
con un passato»39. Eva è certamente un nome che rimanda all’origine,
all’essere primitivo, ma esso è connotato, ossimoricamente, da
un aggettivo assai rilevante nel sistema semantico dell’autore. «Ultimo
», scrive infatti Bontempelli, «è il punto della terra in cui caddero
dal cielo gli angeli cacciati, e nacque la storia. Quegli angeli
caduti furono chiamati “uomini”»40. Va ricordato, inoltre, che per
37 V. Sklovskij, L’arte come procedimento, in T. Todorov, I formalisti russi, con
prefazione di R. Jakobson, Torino, Einaudi, 1968.
38 M. Bontempelli, L’avventura novecentista, cit., p. 28.
39 Ivi, p. 188.
40 Id., L’«Ideario» di Bontempelli, inedito pubblicato in «Il caffé illustrato»,
2004, n. 19-20, p. 39.
718 AGATA IRENE DE VILLI [10]
«questo angelo caduto uomo […] con la condanna alla fatica, al
delitto, alla guerra, al dominio, alla storia»41, la «elementarità» non
è «nativa […] per l’uomo consociato essa sarà il frutto di una formazione
graduale, un faticoso raggiungimento»42. E lo stupore rappresenta
«un modo per rifarsi le ali»43, che nasce proprio dalla consapevolezza
di una caduta, dalla perdita di un principio unico capace
di comprendere il mondo in un tutto pieno di significato. All’origine,
pertanto, resta la dualità. La stessa personalità di Eva è connotata
da una serie di aggettivi che scandiscono l’intima duplicità
dell’io: «anima sempre avida e sempre stanca […] sempre corsa e
inabitata prigioniera e liberata […] non nata mai eppure non immortale
»44. Eva è latrice di quel sapere «a mezz’aria»45, demonico,
che oscilla tra «una necessità divina e diabolica»46, è la «regina» di
quel regno di mezzo che è lo spazio dell’immagine, «il regno»,
come lo definiva Paul Klee, «dei non nati e dei morti, il regno di ciò
che può e vorrebbe venire, un regno intermedio47». Per quanto la
nostra eroina appaia animata da una profonda disposizione euristica,
in questo viaggio verso l’ignoto il timore del nuovo spesso la sovrasta
ed Eva sembra risalire verso «l’assolutezza dello spavento infantile
»48 che la induce a chiudere gli occhi e «fingere il sonno»:
Questa domanda la afferrò di colpo con un’angoscia mortale. Un
sudore freddo le salì sino alla fronte, la gola le si strinse d’affanno.
Prima di potersi trattenere, si torse nel suo angolo, le uscì un breve
gemito di tra i denti serrati. Udendolo s’impaurì, si rifece inerte e
muta. […] dominandosi continuò a fingere il sonno49.
«L’apprensione d’ignoto»50 – per applicare qui la pregnante formula
di Francesco Orlando – ci fa, tuttavia, perdonare gli svenimenti
di Eva, le sue strategie d’evasione, soprattutto perché, subito dopo,
41 Id., Leopardi l’«uomo solo», in Id., Opere scelte, cit., p. 857.
42 Ivi, p. 842.
43 Ivi, p. 831.
44 Id., Eva ultima, cit., p. 351.
45 Id., L’avventura novecentista, cit., p. 189.
46 Id., La vita intensa, cit., p. 143.
47 Traggo la citazione da P. Fossati, Nota a F. Melotti, Lo spazio inquieto,
Torino, Einaudi, 1971, p. 118.
48 F. Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, Torino, Einaudi,
1994, p. 175.
49 M. Bontempelli, Eva ultima, cit., p. 361.
50 F. Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, cit., p. 175.
[11] «LA COSA NUOVA»: UNA LETTURA DI EVA ULTIMA 719
la nostra eroina decide di «non abbandonarsi a paure infantili» e di
«cessare la finzione del sonno»:
Ora dunque d’improvviso qualcosa manca nella catena. Questa mattina
la continuità s’è spaventosamente spezzata […]. In questo interno tumulto,
si scosse. Allora si comandò chiaramente di cessare la finzione del sonno
[…]. S’impose di aprire gli occhi. La sorprese una riluttanza. Oscuramente
temeva il possibile séguito di un tale atto. Domò il nuovo timore.
Come fanno i suicidi all’estremo istante, […] vinta la breve lotta aprì
gli occhi di colpo […] sciogliendosi dalla coperta che la proteggeva.
Ma d’un tratto la maravigliò il cambiamento di luce ch’era avvenuto
intorno a lei.
I pini si erano fatti più radi, più ampia la via […] ora dall’intrico
pioveva un diffuso chiarore […] filtrava sul mondo uno stupefatto
languore51.
Eva si accorge che «qualcosa manca nella catena» causalistica
degli eventi, che «la continuità s’è spaventosamente spezzata», e
tuttavia lo spavento non frena il suo desiderio di conoscenza. Eva
procede nel suo viaggio «fuori dal mondo», al di là delle abituali
frontiere percettive, per approdare in un regno dai confini mobili.
«Benvenuta signora»
«Grazie» rispose Eva. «C’è sempre tanto sole a…Come si chiama
qui?» […]
«Non ha nome, signora. È il paese più bello del mondo»
«È come fuori dal mondo, signora» aggiunse il giardiniere.
La contadina disse a Eva:
«Ci vuole coraggio, signora, per arrivare fin qua.»
Eva rabbrividì52.
Vale la pena qui notare come le parole con le quali la contadina
accoglie Eva riprendano chiaramente quelle pronunciate dalla coccinella
nella sezione Viaggi del Purosangue, dove il poeta, come Eva,
abbandonando il «mondo chiaro delle cose nitide […] dove tutte
l’acque sono liquide» e «tutte le pietre son dure al tocco»53, «rivuo[le]
l’imprevisto l’assurdo l’impossibile / […] e riviaggi[a]»54, calandosi
nuovamente nell’«intrico» delle apparenze fenomeniche, nel «groviglio
degli eventi»55 guidato solo da un misero insetto:
51 M. Bontempelli, Eva ultima, cit., pp. 362-363 (corsivi miei).
52 Ivi, p. 369.
53 Id., Il purosangue, in Id., Opere scelte, cit., p. 928.
54 Ivi, p. 929.
55 Id., Introduzione all’Apocalisse, Milano, Chimera, 1941.
720 AGATA IRENE DE VILLI [12]
[…]
ove l’intrico è più fitto.
La coccinella racconta:
«Quasi nessuno ci viene con me fin qui in mezzo
sono i luoghi più belli del mondo
ma ci vuole coraggio»56.
Occorre coraggio per smarrirsi, lo aveva già più volte sottolineato
la veggente, tuttavia è proprio smarrendosi che Eva si ritrova
nuova («Sono tutta riposata»/ «E nuova»57). Il compito dell’arte è
sottrarre la realtà all’immobilità di un’idea fissa per ricollocarla nella
«mobilità perpetua» del reale. «Se Platone bandì i poeti dalla perfetta
repubblica», scrive Bontempelli nel Neosofista, «si è perché […] è
del tutto simile all’Idea e com’essa immutabile, mentre sapeva che
il poeta, creando nuovi miti, ci avrebbe condotto il desiderio e il
genio del mutamento»58. Nuova è anche la dimensione temporale in
cui Eva si imbatte. Dal tempo noto e familiare si giunge «fuori del
tempo»59. «Accanto a voi», sostiene l’amico di Evandro, «ogni facoltà
misurativa, esaminativa, giudicativa, si abolisce. Il tempo diventa
un giocattolino e lo spazio una burla»60. Tutto appare altro agli occhi
di Eva: «È straordinario e terribile. […] Non vi pare che l’aria, la
luce, siano diversi? […] diversi dall’aria e dalla luce di tutto il resto
del mondo»61. Il reale, tuttavia, appare fuori dall’ordinario solo agli
occhi di uno sguardo non irrigidito. L’accompagnatore di Eva, infatti,
«non vede nulla di straordinario all’infuori di lei»62. Su questo
sfondo misterioso dove ogni immagine crea stupore e straniamento,
si compie quello che è l’evento più significativo, l’apparizione della
marionetta Bululù, attraverso cui Eva viene in contatto con l’altro
da sé, col suo doppio.
Eva. Qui tutti e due? Dunque tutti e due nello stesso luogo? Dove?
Per qualche tempo ho creduto di essere prigioniera.
Bululù. E poi?
Eva. Poi tu sei venuto, e non ci ho pensato più. Forse siamo prigionieri
insieme, della stessa prigione? […] Forse le nostre sorti sono
molto più vicine che tu non creda, Bululù.
56 Id., Il Purosangue, cit., p. 930.
57 Id., Eva ultima, cit., p. 373.
58 Id., Il neosofista e altri scritti, cit., pp. 116-117.
59 Id., Eva ultima, cit., p. 381.
60 Ibidem.
61 Ivi, p. 383.
62 Ibidem.
[13] «LA COSA NUOVA»: UNA LETTURA DI EVA ULTIMA 721
Bululù. Le nostre sorti? È così, se ella lo dice. E le nostre nature?
Eva. Meccanica, dicevi? Qual è, Bululù, la meccanica che ti fa fare
queste domande così sottili? Tu sei curioso della tua natura?
Bululù. Un poco, signora, lo confesso.
Eva. E della tua sorte?
Bululù. Meno. Forse è la stessa cosa. Ma sarebbe pericoloso.
Eva. Perché?
Bululù. Perché se ella e io avessimo la stessa natura, davvero avremmo
la stessa sorte63.
L’arte offre la possibilità di salvarsi dall’indeformabilità delle
abitudini, suggerendo paralleli e inversioni che violano qualsiasi
confine che pretenda di imporsi come definitivo e immutabile.
L’umano, allora, si confonde col meccanico, ed Eva, sbeffeggiata e
ridicolizzata da Evandro per la sua carica passionale, finisce per
sentirsi legata da un affetto sempre più profondo alla marionetta,
tant’è che essa stessa pare subire un processo di marionettizzazione,
che la induce a compiere gesti ripetitivi e spezzati, esprimendosi
con un linguaggio che sembra diventare anch’esso alogico, materico,
fatto di «qualche incomprensibile sillaba»64. La marionetta, invece, si
umanizza, mostrandosi come «la persona più chiara e umana e
naturale» che Eva avesse mai incontrato. Il punto culminante di
questa compenetrazione si realizza, non a caso, durante un momento
ludico, quando Eva, nel bosco, chiede a Bululù, fantoccio fatto di
legno, di nascondersi dietro un albero e di chiamare con la sola
voce il nome unico di Eva, «nella sua essenza nominale, affettiva e
speculare»65.
Eva. È curioso sentire la tua voce sola. Sembra degli alberi. Sembra
di tutte le cose della terra, che mi chiamino. Pare una voce sola, che
viva da sé, senza corpo, non che venga da una creatura umana66.
Attraverso questo doppio meccanico, Eva entra in contatto con
l’altro da sé e, come guardandosi in uno specchio, scopre quanto
anch’essa risulti essere un mero congegno agito da forze oscure e
incomprensibili – e tutta l’intera umanità, che le era passata accanto,
63 Ivi, p. 397-398.
64 Ivi, p. 399.
65 L. Fontanella, Bontempelli tra mito e metafisica: una lettura di «Eva ultima»,
in Massimo Bontempelli scrittore e intellettuale, Atti del convegno, Trento, 18-20
aprile 1991, a cura di C. Donati, Roma, Editori Riuniti, 1992, p. 106.
66 M. Bontempelli, Eva ultima, cit., p. 402.
722 AGATA IRENE DE VILLI [14]
le appare, ora, come una turba di larve meccaniche mosse da una
miriade di fili:
Ed ella prima si sentì sola d’un tratto come se dal mondo fosse deposta
e abbandonata in un altro universo ignoto, e tutto vacuo […] da
tutti i punti del pallido orizzonte, fin dalle estreme lontananze, fluide
folle di larve silenziosamente vennero rapide sino a lei: uomini, e
fanciulli, e donne; […] D’un tratto le pareva vedere l’aria scialba corsa
da una specie di obliqua pioggia rigida dal cielo fin sopra le teste
delle larve, le quali non sembravano accorgersene, e quella massa di
fili ogni tanto crollare. Come in tal modo l’uno contro l’altro i fili
s’urtavano, ella pensava che stessero per dare qualche suono: ansiosamente
lo attendeva, ma nulla sentivasi nell’infinto se non quel gelato
interminato silenzio per tutta la landa terrestre67.
Attraverso l’incontro con la marionetta la nostra eroina scopre la
verità del suo essere mortale. Eva è come travolta in una sorta di
horror vacui. La «landa terrestre» le appare come uno spazio immenso
dai confini indiscernibili, abitato da una serie di automi mossi al
comando di un vegliardo «che a cenni riordinò quelle torme di
larve, e le fece volgere, e disposte in lunghe file lentamente le avviò
»68. La marionetta si fa qui metafora della condizione umana, di
un apparente libero arbitrio dietro cui si celano le mani di un grande
marionettista. «Definire l’anima» di un essere come Bululù «è
molto difficile. Forse è impossibile»69, ma «altrettanto impossibile»,
ammette Evandro, è definire la natura degli uomini. «Qual è, allora,
la differenza?» chiede la marionetta. «Ognuno recita la sua parte»70.
Mescolando vita e artificio Bontempelli dichiara l’impossibilità di
sfuggire alla maschera che regna sovrana nella vita quanto nell’arte.
D’altra parte lo stesso autore è solo un falso depositario del racconto
di Eva. Bontempelli, come sottolinea Bouchard, istituisce la finzione
nel momento stesso in cui simula di negarla. Il presunto valore
di testimonianza del racconto viene, difatti, negato, non solo
attraverso la costruzione di un mondo arbitrario rispetto alle convenzioni
realistiche, ma anche attraverso un processo di manipolazione
dell’opera, che coinvolge nella finzione lo stesso io narrante,
destinato a ridursi anch’esso a personaggio di se stesso71. Nel theatrum
67 Ivi, pp. 403-404.
68 Ivi, p. 405.
69 Ivi, p. 400.
70 Ivi, p. 401.
71 Si veda in proposito F. Bouchard, Eva ultima, du roman à l’autobiographie
[15] «LA COSA NUOVA»: UNA LETTURA DI EVA ULTIMA 723
mundi ogni essere umano deve recitare il ruolo che gli viene imposto.
Siamo di fronte, dunque, ad una declinazione tutta terrestre
della marionetta72, che ha già perso la grazia della puppe kleistiana,
degradandosi in fantoccio. Essa assume così un significato tragico
di matrice schopenhaueriana, incarnando la miseria creaturale dell’essere
umano. Spezzati i fili che legavano l’uomo al divino e al
senso, Eva si sente «abbandonata in un universo ignoto e tutto
vacuo». Il reale resta qualcosa di enigmatico e incomprensibile. Non
a caso, subito dopo, Bululù avanza una domanda: «Perché ci tiene
tanto a conoscere e capire le cose del mondo?»73. «Eva cercava come
rispondere», ma alla fine sa solo dire che «conoscere gli uomini è
una commedia a tristo fine […] ma ci si ricade sempre»74. È il momento
più significativo di questa favola metafisica, sicché Bontempelli
decide di intervenire direttamente nella narrazione, ribadendo l’inadempienza
del viaggio estetico-conoscitivo.
Occorre osservare con modestia, e con fedeltà tenere a mente, quanto
più possiamo delle vicende di questo mondo; e non fare giudizi;
e credere che quando saremo morti, la nostra rassegnazione ci avrà
meritato di conoscere e giudicare, soltanto allora, la verità75.
La morte rappresenta il privilegio metafisico per eccellenza. Il
velo delle apparenze si lacera, permettendo all’uomo «di conoscere
e giudicare soltanto allora la verità». Al di qua della linea della
morte, «occorre osservare con modestia e non fare giudizi», poiché
«la rassegnazione» rappresenta il solo modo in cui si può tenere
aperto il senso delle cose ed è, pertanto, l’unica autentica apertura
al mistero. In Bontempelli c’è una profonda consapevolezza della
tragicità dell’esperienza storica, della caduta che ha «innestato l’uomo
nel tempo»76. La stessa scelta della marionetta, piuttosto che del
burattino, non è casuale. La marionetta, caratterizzata da un doppio
statuto, celeste e terreno, è, difatti, a differenza del burattino, soggetta
a caduta; essa costituisce, dunque, il modello di un sapere di
mezzo, di una perenne tensione dialettica tra alto e basso, tra tragifictive,
in Écritures autobiographiques, a cura di G. Isotti Rosowsky, Saint-Denis,
Presses Universitaries de Vincennes, 1997, pp. 79-94.
72 Cfr. F. Bartoli, La marionetta grottesca: un topos del Novecento, in Il mito
dell’automa, a cura di U. Artioli e F. Bartoli, Firenze, Artificio, 1991, pp. 54-61.
73 M. Bontempelli, Eva ultima, cit., p. 405.
74 Ivi, p. 407.
75 Ivi, p. 409.
76 Id., Leopardi l’«uomo solo», cit., p. 838.
724 AGATA IRENE DE VILLI [16]
co e comico. «La maggior colpa che tutti facevano alla mia vita –
pensava sconsolatamente [Eva] – è stata la frivolezza; e non sanno
che la mia peggiore disgrazia è di prendere tutto sul serio»77. Quello
di Bontempelli è un riso amaro, che sembra testimoniare la consapevolezza
di come la conoscenza non possa che darsi in residuo: e
tuttavia alla verità tragica questa «favola metafisica» si accosta con
la levità e la malinconia di un clown. Il gioco della conoscenza,
come afferma leopardianamente78 Eva, «è una commedia a tristo
fine» nella quale però «si ricade sempre». Eva, difatti, riprende il
suo viaggio. Fatta esperienza della «cosa nuova», «il passato le
appar[e] inutile»79, già inservibile. Significativamente, a proposito
del «giocare», ne Il Bianco e il Nero, Bontempelli scrive: «l’esperienza
non ha mai insegnato niente a nessuno. L’esperienza appena nasce,
subito è morta, vanisce»80. Non a caso nell’ultimo capitolo – dal
titolo, «Dissolvimento», trasparentemente metanarrativo – Eva si
lascia alle spalle le esperienza passate, immergendosi nuovamente
«con abbandono nell’attimo presente»81. «Camminava, e non si domandava
perché. Era un ritorno ma ella sapeva di non tornare
verso il passato»82. Se di ritorno può parlarsi, si tratta, dunque, di
un ritorno al viaggio, che ricomincia ancora una volta con l’apparizione
di «un carro remoto». L’avventura di Eva si pone, pertanto,
come una Invitation au voyage, ad andare oltre i confini del mondo
conosciuto per ritrovare la magia de «la cosa nuova». «La nuova
arte», d’altra parte, «vuole essere», nel dispiegamento tematico della
poetica novecentista, «un viaggio ininterrotto traverso la natura, o
la vita, o l’animo umano – ma viaggio sempre, movimento, invenzione,
e soprattutto coraggio; non contentarsi mai di quel che si è
veduto o scoperto, non stagnare mai»83.
Agata Irene De Villi
(Univ. di Bari)
77 Id., Eva ultima, cit., p. 409.
78 Cfr. G. Leopardi, Zabaldone, 16-18 settembre 1823, pp. 3448-3460; in particolare
p. 3451: «La naturalezza e la verimiglianza è maggiore assai ne’ drammi
di tristo che in quelli di lieto fine».
79 M. Bontempelli, Eva ultima, cit., p. 443.
80 Id., Il Bianco e il Nero, Napoli, Guida Editori, 1987, p. 84.
81 Id., Eva ultima, cit., p. 443.
82 Ibidem.
83 Id., L’avventura novecentista, cit., p. 352.
Meridionalia
PAOLO PROCACCIOLI
Per Tansillo giocoso. In margine all’edizione
dei capitoli
The edition of Capitoli gioiosi gives the author the chance of sketching
the history of the text, contemporarily underling its stylistic features
and comparing it with other works by Tansillo. Most of all, the essays
aims at emphasising the importance and significance of terza rima in
a double-faced genre which the Capitoli take into account both from a
satirical (Ariosto) and a burlesque (Berni) perspective. The author also
discusses the compatibility of burlesque poetry with the public role
played by Tansillo at the court of Don Pedro de Toledo.
1. Parrebbe un destino. Non so se è scritto nel cielo di Luigi
Tansillo o in quello di Tobia Toscano, ma i due nomi sembrano
proprio destinati a figurare insieme sotto il cartiglio delle iniziative
che portano alle loro conclusioni naturali le belle incompiute.
Qualche anno fa la staffetta era stata con Erasmo Percopo, che
aveva portato a buon punto ma non aveva completato l’edizione
del “canzoniere”; ora, sempre nel nome di Tansillo, questa volta il
Tansillo dei Capitoli1, il testimone è arrivato nelle mani di Toscano
da quelle di Scipione Volpicella. In quest’ultima circostanza però lo
studioso ha scoperto le carte: il suo scopo, ha dichiarato, va oltre la
chiusura di questo e degli altri cantieri del passato e mira esplicitamente
al recupero e alla riproposta degli opera omnia del poeta. Il
gioco, va detto, non era poi così velato. È una vita, una vita di
studi, che Toscano è sulle tracce di Tansillo: ne ha sondato le
scansioni della biografia; ne ha ricostruito pezzo per pezzo stagioni
e ambienti; ne ha seguito i destini delle opere; ne ha soppesato la
parola. Il progetto ora avviato, al quale ha messo mano con una
pattuglia di giovani collaboratori – nella circostanza si tratta di
Carmine Boccia – educati al gusto del testo e del documento, è
1 L. Tansillo, Capitoli giocosi e satirici, a cura di C. Boccia e T.R. Toscano,
Nola, l’arcael’arco, 2010.
Tansilliana
726 PAOLO PROCACCIOLI [2]
l’approdo naturale per lui e per la sua squadra, e anche la più
confortante delle prese d’atto per il lettore di cose cinquecentesche.
È confortante già la scelta di muovere a quel recupero partendo
dai capitoli, cioè da un’opera e da un genere che la convenzione
critica ha voluto troppo a lungo destinati alle sezioni appendicolari
delle ricostruzioni storiografiche e dei panorami di volta in volta
legittimati. Sarà senz’altro un caso, pure non è un buon segno il
fatto che il nome di Tansillo non figuri neanche una volta nella pur
ampia perlustrazione critica della satira di matrice ariostesca condotta
da Piero Floriani e che ricorra solo in una serie nelle pagine
pionieristiche di Silvia Longhi sul capitolo giocoso2. A dire che anche
i loci critici deputati al recupero del genere, loci acuti e penetranti,
hanno potuto tralasciare l’apporto del nostro autore alla
tranche cinquecentesca di quella storia3. A dire anche che ha preso
nel segno l’“eminet quod latuit”, l’impresa all’insegna della quale si
apre ora il progetto di Toscano.
Sembrerebbe cogliere nel vero chi sostenesse che il destino di tali
testi era un destino in minore già agli occhi dello stesso autore, ma
sappiamo bene che quella ‘sfortuna’ non va letta come un gioco
maligno della sorte, piuttosto andrà intesa come signum di una scelta
compiuta per tempo dalla cultura (direi, dalla civiltà) del nostro
come di ogni classicismo4, e che voleva il ‘basso’ e il comico come
momento sì previsto, ma appena tollerato. Una scelta che parrebbe
leggibile anche alla luce della disaffezione per il metro dichiarata
allorché l’autore si pose di fronte alla sua produzione lirica per
offrirne una selezione; nella circostanza, è noto, lasciò scritto: “di
queste rime mie l’intentione mia è che tutti li capitoli si squarcino”5.
Ma poi, a voler dar conto accanto alla linearità delle dichiarazioni
esplicite anche della realtà complessa e contraddittoria attestata dalla
2 Alludo, rispettivamente, a P. Floriani, Il modello ariostesco, Roma, Bulzoni,
1988, e a S. Longhi, Lusus, Padova, Antenore, 1983.
3 E anche dove, come nella Satira di Cian, si fa un qualche spazio – e lo si
fa per ragioni quasi notarili, dato l’impianto repertoriale dell’opera e della collana
– la conclusione va nel senso di un’estraneità dei versi tansilliani a quella
scrittura.
4 E tradotto a lungo in prese di posizione ad excludendum a esemplificazione
delle quali ricordo, con i curatori, la definizione dei capitoli berneschi come di
un “immenso monte di letame” data da Settembrini e ripresa e fatta propria da
Croce (è richiamata da Carmine Boccia a p. 27 della sua Introduzione).
5 La disposizione, che riguarda i capitoli lirici, si legge nella carta d’apertura
del Codice Casella e è ricordata da Toscano nella sua ‘Premessa’, a p. 14.
[3] PER TANSILLO GIOCOSO. IN MARGINE ALL’EDIZIONE DEI CAPITOLI 727
natura e dalla successione dei comportamenti, i fatti dicono che in
quella stessa stagione il confronto con il ‘basso’ era momento necessario
(e complementare, non alternativo) alla formazione del letterato,
di pressoché ogni letterato ‘alto’ (e a riprova basti il rinvio agli
esordi di un Bembo o di un Della Casa). Insomma, l’impressione è
che siamo stati troppo ligi nel prendere in parola sia il nostro poeta
che i suoi modelli e sodali, e ci siamo rassegnati a una dieta punitiva,
che alla fine ci ha penalizzato non solo dal punto di vista della
varietas, ma della stessa sostanza poetica.
Questo, mi pare, un primo importante elemento di problematizzazione
connesso all’edizione. E è una problematizzazione forte,
associata alla storia stessa dei Capitoli giocosi per come ora, per la
prima volta, viene raccontata al lettore tansilliano. Nessun dubbio
certo che sulla produzione satirica e burlesca in capitoli gravi da
sempre la scelta degli autori (a cominciare da Ariosto e Berni) di
non prendersi cura del destino di quei testi; ma dovrebbero esserci
ancor meno dubbi sul fatto che quegli stessi autori continuarono
per tutta la vita a comporre e spedire capitoli. Il caso di Tansillo,
per questo particolare aspetto, è assolutamente canonico. Ricordo
accanto al suo quello del Lasca, col quale condivise la sorte di essere
recuperato nello stesso giro d’anni (il primo dal già evocato
Volpicella nel 1870, l’altro da Carlo Verzone nel 1882). Tra le ragioni
della mancata pubblicazione dell’una e dell’altra serie si potrebbe
indicare anche il fatto che si trattava di testi compromessi in una
misura molto significativa con la realtà locale. Vi si faceva poesia
oltre che della biografia dei poeti e dei destinatari o dedicatari dei
loro versi anche della cronaca e della topografia. Una circolazione
manoscritta, per quanto ristretta, era senz’altro all’origine, e dovette
sembrare poi a lungo, esito tale da garantire la diffusione dei testi
presso i loro destinatari primi e naturali, amici e sodali di corte o
d’accademia che fossero. Ma quell’esito era anche, o almeno sembrava,
il solo in grado di consentire una loro lettura piena. La Longhi
per i burleschi ha parlato opportunamente di quella circolazione
come di una diffusione “più circoscritta ma storicamente più significativa”
6, che è notazione esatta e da sottoscrivere in toto. Ma che
non dovrebbe essere intesa come una condanna.
Dalla ricostruzione puntuale della storia dei singoli capitoli, l’insistenza
sulla quale è uno dei punti di novità e di forza di questa
edizione, risulta confermato che il Tansillo patrigno dei suoi versi
6 S. Longhi, Lusus, cit., p. 31.
728 PAOLO PROCACCIOLI [4]
non si curò di quelli neanche dopo che, a metà degli anni Quaranta,
il genere satirico nella sua versione volgare e personale aveva conquistato
la ribalta editoriale. Era accaduto con le edizioni prima di
Pietro Nelli (1546) e di Ercole Bentivoglio (1546), poi con i testi di
Gabriele Simeoni (1549) e di Giovanni Agostino Caccia (1549), per
finire col Ruscelli del Fuso (1554). Tra l’altro a questo proposito potrebbe
essere esercizio non ozioso chiedersi se sia proprio un caso
che nessun libro di satire volgari sia stato stampato a Napoli. Senza
dimenticare che dal Quattrocento il genere risultava quanto mai
negletto nel Regno. Al punto che si è potuto concludere che per
tutta quella stagione “i capitoli si contano sulla punta delle dita”7.
Tutto ciò detto, sarà chiaro alla fine che il risarcimento rappresentato
dall’edizione che abbiamo sotto gli occhi, doveroso oltre che
sacrosanto, non comporta automaticamente la trasformazione di
Tansillo in vittima. Non c’è nessun vulnus da sanare, semmai una
scelta da comprendere e comunque su cui riflettere. Quella che ha
indotto l’autore a prefigurare un destino carsico e irrelato per una
parte della sua produzione. Un destino comune che però, va anche
detto, per non pochi altri autori venne compensato – in tempo reale
o con una minima sfasatura cronologica – dall’interesse degli attivissimi
antologisti coevi.
2. Il commento a questo tipo di testi è notoriamente arduo,
intessuti come sono, per statuto, di fila che rimandano ai materiali
alti e altissimi della tradizione – qui soprattutto Ariosto e Orazio –,
come tali immediatamente riconoscibili, ma anche con rinvii continui
alle ‘occasioni’ all’origine dei vari testi. Con riferimenti minuti
e talora minutissimi, e anzi con un dippiù di allusività alla realtà
biografica anche spicciola che ora sembra frutto di un esercizio
virtuosistico di cripticità. Per cui leggere le terzine dei capitoli, come
fa scrupolosamente Boccia, alla luce del contesto che le ha prodotte,
un contesto inteso nella sua specificità propriamente politica, sociale,
amicale, topografica, cronologica, non vuol dire sacrificare la
parola all’extraletterarietà, al contrario vuol dire prenderla per quella
che è, assecondandone la natura centrifuga e esaltandola nella
sua compiutezza, a cominciare naturalmente dalla lettera. Cosa necessaria
sempre, ma d’obbligo, ora come allora e come inevitabilmente
sempre, nel caso del testo comico.
7 M. Santagata, La lirica aragonese. Studi sulla poesia napoletana del secondo
Quattrocento, Padova, Antenore, 1979, p. 261.
[5] PER TANSILLO GIOCOSO. IN MARGINE ALL’EDIZIONE DEI CAPITOLI 729
In questa chiave proprio il fatto che Tansillo continuasse a comporre
capitoli senza porsi il problema della pubblicazione vorrà dire
che la destinazione naturale di quei versi era il circuito della corte
toledana o il giro dei ‘continui’ o qualcuna delle altre sodalitates
accademiche o amicali, tutte realtà all’interno delle quali la condivisione
delle esperienze (delle aspettative, delle urgenze, delle idiosincrasie,
dei timori…) era piena. Anche quella di Tansillo è insomma
una poesia ‘in situazione’, per dirla con Floriani8. Allo stesso
modo in cui mi pare gli possa essere riferita un’altra osservazione
dello stesso critico, quella in base alla quale è stata proposta per il
Bentivoglio un’interpretazione ‘aperta’:
[…] quanto, di questa riduzione della dialettica drammatica che dà
nerbo alla satira oraziana ed ariostesca, sia dovuto alla materiale
‘autarkeia’ del Bentivoglio, cioè alla sua posizione sociale di membro
di una famiglia ricca e potente malgrado la perdita di Bologna,
e quanto invece ad una chiave di poetica che, in presenza della
nuova imponente produzione burlesca, tende all’unificazione sotto
l’etichetta del ‘comico’ di tutte le poesie di registro familiare, globalmente
opposte all’‘insieme’ della poesia ‘seria’, è difficile dire. L’uno
e l’altro motivo appare, al suo livello, valido: è vero che tematicamente
lo ‘speaker’ bentivolesco non vive la sua comunicazione come
comunicazione di un disagio profondo; è vero anche che linea satirica
e linea burlesca confluiscono fino a confondersi (al ribasso, rispetto
alla complessità dei modelli) in una linea del ‘piacevole’ denunciata
fin dal titolo della raccolta (“Satire et altre rime piacevoli”)
9.
Adesso dunque che la ditta Boccia-Toscano ci ha “messo innanzi”
il testo, sta a noi “cibarcene”. E cioè recuperare, per riannodarle, le
fila che questa poesia del ‘disimpegno’ – di un disimpegno solo apparente,
come accade con ogni poesia giocosa – intesse con i discorsi
del suo tempo, dal momento che, teste Daniele Barbaro, i “poeti
giocosi, / […] tengono nascosi / I veri sentimenti, Sott’i loro figmenti.
/ Onde poi l’uomo saggio / Segue miglior viaggio»10. Nessuna meraviglia
che nei capitoli si trovi eco di dibattiti che potevano anche
aver avuto una genesi molto lontana nel tempo e che erano destinati
8 Nel senso in cui l’espressione è usata a proposito di Ariosto, il quale “discioglie
ogni elemento di tradizione in un’elocuzione strettamente funzionale
alla definizione caratterizzata di un personaggio ‘in situazione’” (P. Floriani, Il
modello ariostesco, cit., p. 72).
9 Ivi, p. 138.
10 D. Barbaro, La predica dei sogni, Venezia, Marcolini, 1542, c. 6r.
730 PAOLO PROCACCIOLI [6]
a riprese non univoche. Dibattiti che è nostro dovere determinare nei
loro termini esatti pena una lettura viziata da una genericità sterile. Il
che comporta, all’origine, una messa a punto della cronologia dei
testi. È uno dei punti centrali del lavoro dei curatori, che (anche) per
questo aspetto si sono messi sulle orme di Scipione Volpicella riprendendone,
discutendone e integrandone conclusioni e ipotesi. Condivido
e sottoscrivo la decisione di organizzare i testi secundum
calendarium, e non, per esempio, per destinatario o per argomento o
per etichetta (‘satira’, ‘epistola’ o ‘capriccio’ che fosse); con il che,
oltre a marcare la successione delle stagioni di quella poesia, si consente
di leggerla in parallelo con la storia della Napoli toledana, col
risultato di accorgersi che può accadere che siano ora le parole dei
documenti a chiarire il poeta, ora invece i versi a commentare da
vicino la cronaca o anche la storia tout court.
Un’esemplificazione rapida: la materia del capitolo a Simone
Porzio “in laude di colloro che si tingono la barba e il capo”, il
settimo, non è poi così esclusivamente leggera e burlesca se solo si
ricorda che dagli anni Venti sia Giovan Matteo Giberti che Gian
Pietro Carafa tuonavano dai loro altissimi pulpiti contro i preti
barbuti e più di una volta avevano sollevato la reazione dei satirici.
Quella di un Anton Lelio, per esempio, e cioè di uno dei caposcuola
riconosciuti del pasquinismo (“Sapesse riformar cervelli /
reformerebbe il suo de insania pieno, / e non gli abiti altrui, barbe
e capelli”)11, o del Berni del Rifacimento, altro e non meno acuto
osservatore del costume romano e pretesco (“il padrone [id est
Giberti] / aveva con le barbe aspra quistione” [III VII 43]). A dire
che le implicazioni religiose del tema sono importanti e di lunga
tradizione. Né credo sia senza ulteriori implicazioni una tirata come
quella che riporto:
Né mi daria stupor se qualche santo
di costor, ch’a lo spirto si danno ora,
fesse al suo bianco pelo un negro manto.
Persona, che del cielo s’innamora,
si sforza diventar bella e gentile
non solamente dentro, ma di fuora;
s’ingegna, quanto può, farsi simíle
al cielo, ove ella ha posto ogni suo aviso
11 Son. “Lo episcopo de Chieti”, citato in P. Paschini, San Gaetano Thiene,
Gian Pietro Carafa e le origini dei chierici regolari Teatini, Roma, Lateranum, 1926,
p. 55.
[7] PER TANSILLO GIOCOSO. IN MARGINE ALL’EDIZIONE DEI CAPITOLI 731
e fugge ciò ch’è brutto e ciò ch’è vile.
Come non è vecchiezza in paradiso,
cosí chi in paradiso have il suo zelo
non vuol che sia vecchiezza nel suo viso.
Quando un uomo da ben si tinge il pelo
mostra che ’n terra elli disia parere
de l’età che son quei che stanno in cielo,
come anima, che in cielo ha da godere,
inanzi tempo a tanto onor s’accinge
e non può cosa mesta in sé vedere. (VII 34-51)
E mentre, sempre per restare in argomento, non darei particolare
peso a interventi testuali del tipo della variante “quel che si fe’ de
la veste di Cristo” > “quel che si fa d’un vestimento tristo” di XI 153,
attestata nell’importante codice marciano e registrata in apparato, la
cui genesi è più che comprensibile nei decenni non proprio sereni
del secondo Cinquecento, sono al contrario altamente sospette, per
la loro stessa presenza prima ancora che per i contenuti, le due
menzioni esplicite di Gian Pietro Carafa, quella di XII 99 (il testo è
datato all’incirca al 1545), dove lo si richiama come personaggio
facile alla reazione scandalizzata, e quella di XVII 270 (del ’47), in
cui “il cardinal di Chieti” è compreso per antifrasi nella lista dei
praticanti del gioco del “malcontento”. Due menzioni se non proprio
irridenti di certo non in tutto lusinghiere di quello stesso Carafa
al quale, una volta diventato papa e promulgato l’Indice romano, si
ricorderà che Tansillo avrebbe richiesto invano, con la canzone “Eletto
in ciel, possente e sommo Padre”, la cancellazione del suo nome dal
catalogo inibitorio.
3. Un indugio sulle specificità dell’edizione. La prima notazione,
rapida ma doverosa, riguarda il corpus testuale. Che registra le integrazioni
intervenute rispetto alla tradizione nota, quella fissata da
Volpicella nel 1870. Si tratta di due unità: l’attuale capitolo XXVI, che
era stato recuperato dallo stesso Volpicella nel 1872; e il capitolo
XXIV “Per la liberazione di Venosa”, tra l’altro l’unico edito da Tansillo
(nel 1551), che nonostante fosse stato riproposto nel 1757 era
rimasto sconosciuto all’editore ottocentesco. Se dunque per questo
aspetto più che di incremento si dovrà parlare di recupero e di
risistemazione di lacerti del corpus, per un altro, la ricostruzione e
l’analisi della storia editoriale dei capitoli, la Nota al testo muove su
un terreno vergine e segna un passo in avanti importante. Utile non
tanto ai fini della discussione della lezione, dal momento che il testo
non pone particolari problemi editoriali (e questo, mi pare, a confer732
PAOLO PROCACCIOLI [8]
ma ulteriore di una permanenza ridotta di quelle carte sul tavolo di
lavoro), quanto piuttosto per la definizione prima e la penetrazione
poi di tempi e scansioni della fortuna del nostro autore.
Con la descrizione accurata dei codici censiti e della serie delle
stampe Boccia e Toscano danno conto infatti del particolare svolgimento
e della localizzazione delle occasioni di lettura di quei testi,
e permettono di ricostruire in maniera affidabile, coi tempi e i modi,
anche le ragioni della loro tesaurizzazione cinque- e secentesca e
della loro più tarda proposta editoriale. Ne viene illustrato un dialogo
a distanza che, salvo un isolato episodio bolognese (1888) legato
al recupero di tre lettere e di un capitolo (è il XVIII), sembra
destinato a coinvolgere solo Napoli e Venezia. Col risultato di fare
della Venezia dei primi decenni dell’Ottocento uno dei luoghi di
più viva curiosità per la parola tansilliana, e in particolare proprio
per la sua parola giocosa. Dove poi il dettaglio che tre delle quattro
edizioni primoottocentesche sono plaquettes per nozze parrebbe indicare
che quando ancora mancava un’edizione complessiva la cifra
dell’occasionalità sembrava rimanere l’unica compatibile con quella
poesia. E dove il fatto che l’edizione di Alvisopoli del 1834, l’ultima
della pattuglia considerata, fosse condotta sulla base del codice Marciano
IX 174 (= 6283), del quale riportava gli otto capitoli completi
presenti (tralasciava infatti lo spezzone del XVIII), indicava la genesi
tutta locale delle iniziative editoriali.
I materiali illustrati nella Nota al testo dicono anche che quando
nella canzone a Paolo IV sopra richiamata il poeta difendeva i suoi
versi dall’effetto Vendemmiatore, e diceva quest’ultima operetta giovanile
composta per “scherzar fra il Liri e ’l Sarno / non già ch’il
Tebro l’ascoltasse e l’Arno”, indicava una geografia che era e sarebbe
stata poi a lungo la stessa anche per i capitoli.
I criteri in base ai quali è stata condotta la trascrizione, improntati
al rispetto della facies grafica cinquecentesca, sono illustrati nitidamente
e pienamente condivisibili, in linea con una sensibilità sempre
più diffusa che induce a una valorizzazione delle specificità
delle scritture del passato, anche per quanto riguarda il mantenimento
di esiti poi superati. Ne risulta un dettato storicamente plausibile,
non stravolto da insofferenze e appiattimenti. A voler forzare
un po’ il nuovo standard si sarebbe potuto evitare di intervenire
sulla grafia delle preposizioni articolate, che in qualche caso finiscono
per dare vita a un balletto tra trascrizione analitica e sintetica
che forse sarebbe stato più economico, e anche più rispettoso della
storia non lineare dei testi, evitare, optando per l’aderenza alle for[
9] PER TANSILLO GIOCOSO. IN MARGINE ALL’EDIZIONE DEI CAPITOLI 733
me tràdite (penso per esempio all’effetto prodotto a I 19 dalla successione
“s’a le terre et ai capi che son saggi’; o anche, a III 185, al
“furatevi a le noie et ai negotii”). Del resto l’epoca prevedeva ancora
ampiamente l’oscillazione grafica, e addirittura in pieno Seicento un
librino aureo – cui sono da sempre affezionato, e che ora finalmente
è stato recuperato, Il torto e ’l diritto del non si può del padre Bartoli
– sottolineava con garbo ma con la logica implacabile dei fatti l’inutilità
di tante antiche e nuove logomachie.
4. L’edizione naturalmente è soprattutto l’occasione per un
accostamento ulteriore alla struttura e ai temi del testo (o meglio
dei testi, dato che le ragioni metriche e retoriche che legittimerebbero
una lettura unitaria non possono né negare né annullare quelle
della storia). Per recuperare vecchie domande e, coi curatori, muoverne
delle nuove. Per tesaurizzare spunti, mettere a fuoco dettagli,
cogliere analogie o difformità. A cominciare da fatti puntuali come
lo statuto dei dedicatari. Sarà un caso, verrà allora da chiedersi, che
mentre la maggior parte dei componimenti di Ariosto e di Berni –
e richiamo di proposito i nomi dei due capofila dei sottogeneri più
rappresentativi del capitolo cinquecentesco, quello satirico e quello
burlesco – e anche di quelli degli altri autori studiati dalla Longhi
e da Floriani, sono diretti a amici e colleghi, quelli di Tansillo li
vediamo indirizzati per lo più a signori o padroni? Non indica
questo fatto, se considerato insieme al disinteresse per la pubblicazione
e al ricorso all’implicito e all’allusività, la scelta di una destinazione
che era anche una finalizzazione forte?
A caratterizzare in senso proprio quelle terzine può essere utile
l’indugio su alcuni elementi di dettaglio. Per esempio non si potrà
non rilevare che mentre nel resto della tradizione comica primocinquecentesca
(in Ariosto e in Aretino, ma anche nei burleschi) l’inserto
linguistico spagnolo è introdotto a ridicolizzare mode e comportamenti,
e in fondo a esprimere insofferenza, colla rottura
dell’unità linguistica, per il nuovo orientamento politico, in Tansillo,
e proprio perché quegli inserti sono interni a un discorso rivolto
direttamente quando non esclusivamente ai padroni, il ricorso all’una
e all’altra lingua è – sembra diventare – un tratto di legittimazione
culturale di una realtà politica bipolare. E anche una legittimazione
della propria biografia, almeno così come risulta dichiarata
dal noto passaggio del secondo capitolo (vv. 154-168) nel quale
il poeta confessa che a forza di frequentare gli spagnoli è diventato
spagnolo anche lui e non sa più quale sia la sua lingua.
734 PAOLO PROCACCIOLI [10]
Né saprei come ignorare le sollecitazioni dei commentatori a
considerare la particolare geografia, una geografia del potere e degli
affetti, che di capitolo in capitolo viene a stringere in un nodo strettissimo
gli itinerari della militanza politica e quelli della memoria
personale. Col risultato di aprire di volta in volta intorno al nostro
poeta un doppio orizzonte: che per il Tansillo soldato è quello sterminato
rappresentato dal Mediterraneo e dalle sue sponde; mentre
per il cortigiano è quello più ristretto del Regno a fare da scenario
alla mondanità e alle amicizie e ai riti connessi. Per cui a seconda
delle circostanze l’occhio si poserà ora sulle coste tunisine o della
Grecia, ora su Napoli, su Nola (coi suoi 12 riferimenti e coll’elogio
dei vv. 155 ss. del capitolo XXIV), e su Venosa (la cui “liberazione”,
ricordo, è il tema del capitolo XXIV). Senza che da questo, sia detto
chiaramente, risulti una gerarchizzazione delle tre città, che non
sono mai né in competizione né in alternativa, sì che a Tansillo non
si potrebbe attribuire nessun dilemma del tipo “Romae Tibur amem,
Tibure Romam”.
Un’ultima notazione, sull’impianto delle satire. Per questo aspetto
potrebbe essere utile mettere a frutto un altro spunto di lettura di
Floriani, che invita a guardare ai componimenti satirici anche dal
punto di vista della loro estensione. Lo studioso infatti distingue nel
capitolo cinquecentesco, e sulla sola base del numero dei versi, una
misura grande e una breve. La breve (120-150 vv.) è quella vicina al
modello bernesco, la grande (oltre i 150 vv.) è invece più ariostesca.
A voler applicare la distinzione al corpus tansilliano, nel quale i capitoli
oscillano tutti tra i 151 versi del XIV e i 442 del IX12, i risultati
sono univoci, e ribadiscono il dominio assoluto della campitura più
estesa. Quale che sia il punto di vista dal quale si parte, la centralità
(non l’unicità) del modello ariostesco, dichiarata e illustrata da Toscano
in un passaggio nitidissimo della Premessa, rimane confermata.
5. Alla storia di forme e di temi raccontata dalla critica negli anni
Ottanta del secolo scorso e più volte richiamata, storia che avrebbe
dovuto tradursi subito in un recupero testuale di quella particolare
tradizione come ovvia operazione di verifica degli assunti proposti,
ha fatto seguito un evidente disinteresse per la materia. E gli autori
12 Nel dettaglio: sono tra i 150-200 vv. i capitoli XI, XIII, XIV, XX, XXIII; tra
201-250: II, III, V, VI, VII, X, XV, XVI, XVIII; tra i 251-300: I, IV, XXI, XXV, XXVI;
301-350: XVII, XIX; 351-400: XII, XXII, XXIV; oltre 401: VIII, IX. i capitoli III e XX
sono giunti mutili.
[11] PER TANSILLO GIOCOSO. IN MARGINE ALL’EDIZIONE DEI CAPITOLI 735
e i testi chiamati in causa dalla Longhi e da Floriani sono rimasti
ancora in gran parte affidati alle cinquecentine. Quasi che, rovesciando
gerarchie e priorità, le riflessioni sul sistema e sul genere
abbiano chiuso e non aperto il problema, e quasi che il corpus testuale
sia stato un pretesto per un esercizio di lettura e non lo scopo
ultimo e vero del lavoro critico. Per questo, anche per questo, all’edizione
dei Capitoli bisogna guardare con occhio grato e compiacersi
del fatto che a aprire la serie delle pubblicazioni tansilliane e
a ricordare il poeta nel quinto centenario della morte sia proprio
questo volume. Per quanto, paradossalmente, si tratti di un volume
mai immaginato come tale dal poeta e per il quale non disponiamo
neanche di un titolo d’autore. Caso o no, sia di buon auspicio per
una visione meno convenzionale del pieno Cinquecento il fatto che
proprio le terzine giocose e satiriche aprano la strada che porterà
presto – così dice il programma editoriale – al lirico delle Rime e al
cantore delle Lagrime di san Pietro.
Insieme al corpus dei capitoli, alla ricostruzione della loro tradizione
testuale, al loro commento puntuale e aggiornato, Toscano e
Boccia danno al lettore anche nitide prospettive di analisi dei materiali
da loro editi. Lo fanno rispettivamente nella ‘Premessa’ e
nell’‘Introduzione’.
La prima mentre ripercorre le stagioni della fortuna critica dell’autore
riflette sulle ragioni di una presenza tanto defilata nei panorami
otto- e primonovecenteschi delle patrie lettere. Richiama le
urgenze ideali e ideologiche di De Sanctis; allude alle insofferenze
di Croce; ma anche, a registrare il modificarsi progressivo del punto
di vista, sottolinea le sollecitazioni di Dionisotti a muovere finalmente
verso una perlustrazione piena e non pregiudiziale degli scenari,
coll’invito conseguente a censire voci e presenze in vista di
una valutazione più consapevole e più storicamente fondata. Insieme,
rievoca i destini antichi e moderni delle carte e delle testimonianze
tansilliane. Il tutto, e è dettaglio che vale di per sé una
lezione, nella consapevolezza dei debiti contratti con chi nel tempo
si è accostato agli stessi argomenti: “è buona norma che la filologia
dei nipoti, anche quando proceda oltre, tratti con rispetto la filologia
degli antenati” (p. 14).
Boccia, che apre la sua Introduzione colla messa a fuoco dello
scenario napoletano, recupera poi i termini propri del precedente
satirico ariostesco. Richiama, e è indicazione preziosa proprio ai fini
della penetrazione del dettato tansilliano, le acquisizioni della critica
più avvertita in merito alla natura specifica delle Satire rispetto al
736 PAOLO PROCACCIOLI [12]
Furioso. In particolare in materia di destinazione del testo, che nei
ternari è circoscritta senza essere del tutto privata, mentre è allargata
e pubblica nelle ottave; non a caso testi destinati il primo a una
circolazione manoscritta e il secondo alla stampa. Ma Tansillo non
è solo satira, e accanto a Ariosto Boccia recupera la sollecitazione
bernesca. Nota anche che non è l’unico a modulare l’uno e l’altro
canto, ma è tra i non molti a farlo in contemporanea. E questo quasi
che la sua tela non potesse limitarsi alla tessitura di un solo filo, e
che, al pari di quella ‘alta’, anche la sua visione ‘bassa’ delle cose
avesse bisogno di una dialettica di registri e di prospettive e con
essi di forme e di toni. Alla quale tela, a guardarla con occhio meno
irenicamente consentaneo, si dovrà dire che erano preclusi, con ogni
spazio di critica aperta, anche ogni forma di messa in discussione
del potere e delle sue incarnazioni. Al punto che non sarebbe fuori
luogo concludere dall’attraversamento della poesia giocosa tansilliana
che la Napoli toledana pur senza essere del tutto agelasta tollerava
il riso solo nelle forme di una corrispondenza privata e occasionale.
Quella appunto testimoniata oltre che dalle scelte tematiche e lessicali
delle terzine anche dalla storia e dallo stesso destino dell’intera
serie dei Capitoli, nessuno dei quali infatti deroga dai principi del
“natural rispetto” e della “vergogna” dichiarati al principe di
Bisignano (cap. XI 89) e, si converrà, fondamento irrinunciabile di
ogni classicismo, soprattutto di quello svolto in veste comica.
Paolo Procaccioli
(Università di Viterbo)
DANILO ROMEI
Per “Satire” e “Caprici”: Tansillo, Berni (ed altri)
Luigi Tansillo’s Capitoli take Ariosto and Berni as their models. Some
influences from Aretino are also to be taken into account, as we can
infer from the program implicit in the sentence «dir ben del bene e mal
del male». However, the poet’s major choice is not to be seen in his use
of paradox or denunciation, but in the humble though dignified way he
hold talks with those in power: a sort of Horatian deminutio sui.
Vorrei iniziare con una constatazione banalissima, che però credo
non sia mai stata formulata. Il Tansillo è il solo poeta “bernesco”
meridionale del Cinquecento1. È una singolarità (come dicono gli
astronomi) e come tale non dovrebbe esistere.
Veramente non esiste neppure un “libro” del Tansillo intitolato
Capitoli. Come, del resto, non esiste un “libro” intitolato Rime o
Canzoniere. Il libro che noi leggiamo fu inventato da Scipione
Volpicella nel 18702, con un addendum del 18723. Intendo dire che –
per quanto si sa – l’autore non ha mai concepito un progetto organizzato
di capitoli ternari satirico-giocosi. La tradizione del testo
sembra anche indicare che non si sia mai dato pena di raccogliere
e ordinare quello che aveva scritto4. Siamo di fronte a componimen-
1 A dire il vero Vincenzo Di Maria dà notizia di un Capitolo in lode della torta
(in lingua) che sarebbe stato scritto da Mariano Bonincontro, poeta dialettale
panormitano. Vedi I poeti burleschi dal 1500 al 1650 ordinati e annotati con nuovi
criteri storico-filologici. Introduzione, profili critico-biografici e traduzione a fronte in
versi italiani di V. D. M., Catania, Tringale («Collana di letture siciliane»), 1978,
p. 88. Ma non se ne sa nulla di più.
2 Capitoli giocosi e satirici di Luigi Tansillo editi ed inediti, con note di S.
Volpicella, Napoli, Libreria di Dura, 1870. I precedenti editoriali sono trascurabili
dal punto di vista del nostro discorso.
3 Capitolo dell’ospite di Luigi Tansillo, «Rendiconto delle giornate dell’Accademia
Pontaniana», xx (1872), pp. 15-26.
4 L’autore ha pubblicato, vivente, il solo Capitolo per la liberazione di Venosa,
[Napoli, M. Cancer], 1551, che ci è pervenuto in un solo esemplare acefalo
posseduto dalla Biblioteca Nazionale di Napoli.
738 DANILO ROMEI [2]
ti “spicciolati”, dispersi, che non si aggregano in un ordine superiore
(e nemmeno posteriore), ma al massimo in combinazioni di due
o tre pezzi.
E infatti di solito i capitoli del Tansillo hanno un titolo e una
dedica5. Se hanno un titolo sono lettere, satire o capricci. Se non hanno
un titolo ma solo una dedica sono lettere. Si badi, per altro, che i
titoli sono in qualche misura intercambiabili. Le lettere e le satire (nell’accezione
oraziana e ariostesca in cui le concepisce il Tansillo) lo
sono per definizione. Anche satira e capriccio sono in qualche modo
intercambiabili, come avviene nel Capriccio al signor Mario Galeota…
nel quale si prova che non si debba amar donna accorta, che risulta
partito in due satire.
Basterebbe questo a dimostrare che non siamo imprigionati in
un genere letterario rigido, canonico, codificato: prevedibile se non
proprio precettivo.
Del resto è noto a tutti che la produzione satirico-giocosa del Tansillo
orbita attorno a due fuochi: la satira ariostesca e il capitolo bernesco6.
Le date sono illuminanti. Le Satire dell’Ariosto vengono pubblicate nel
1534: nel 1537 circa il Tansillo scrive la sua prima satira. I Capitoli del
Berni (e del Mauro) vengono pubblicati per la prima volta nel 1537:
nel 1540 il Tansillo esordisce con lettere e capricci.
Il primo di quei fuochi aveva un’autorizzazione classica forte:
quell’Orazio venosino tanto amato dal Tansillo. Però apparteneva
nello stesso tempo alla zona più tormentata, polemica e oscura dell’opera
ariostesca. Non per caso le Satire furono “nascoste” dall’autore
e pubblicate soltanto dopo la sua morte.
Il secondo fuoco (quello bernesco) era perturbato – come dicono
gli astronomi – dall’interferenza gravitazionale del primo. In parole
povere il Berni e i berneschi non ignoravano le Satire inedite dell’Ariosto,
le apprezzavano, le mettevano a frutto nelle loro scritture.
Il capitolo epistolare bernesco va nella direzione di una colloquialità
più affabile e quotidiana, meno amara e risentita di quella ariostesca,
ma le convergenze non si possono spiegare invocando soltanto una
comune matrice oraziana7. Tuttavia, accanto all’epistola in versi, la
5 Fanno eccezione, ovviamente, i capitoli acefali (iii e xx), che non hanno né
l’uno né l’altra.
6 Un sistema con due fuochi, occupati entrambi da una sorgente gravitazionale,
è un sistema instabile. Rischia derive imprevedibili, se non finanche il
collasso.
7 Del resto il Berni mostrava di conoscere le Satire dell’Ariosto già nel Dia[
3] PER “SATIRE” E “CAPRICI”: TANSILLO, BERNI (ED ALTRI) 739
componente più specifica del nucleo bernesco resta quella del capitolo
paradossale, che il Berni in persona aveva chiamato capriccio,
parlando familiarmente al cuoco maestro Piero Buffet:
[…] va’, leggi ad uno ad uno
i capitoli miei, ch’io vo’ morire
se gli è suggetto al mondo più digiuno.
Io non mi so scusar se non con dire
quel ch’io dissi di sopra: e’ son capricci
ch’a mio dispetto mi voglion venire,
come a te di castagne far pasticci8.
A me incombe ragionare proprio di questo nucleo. Dopo questa
tiritera cerchiamo di procedere con ordine.
Credo che il Tansillo nomini il Berni una volta sola nei suoi
scritti. Cominciamo da qui, ovvero dal capitolo xi Al prencipe di Bisignano,
dove si legge:
Se tanto io vivo ch’a imbiancar le vegna, [le chiome]
fra questo mezzo non vi spiaccia ch’io
giochi con questo stil che ’l tempo insegna,
e lassando l’usato camin mio
ne vada un poco dietro al Bernia e al Mauro,
per domandar a voi quel che disio9.
Come si vede, al Berni si affianca senz’altro Giovanni Mauro
d’Arcano. Siamo verso il 154510 e a quest’altezza il binomio non può
logo contra i poeti, pubblicato quasi certamente nel 1526. Vedi in proposito D.
Romei, Tre episodi di un dibattito minore: Giraldi, Ariosto, Berni, in Id., Berni e
berneschi del Cinquecento, Firenze, Edizioni Centro 2P, 1984, pp. 5-47; e poi in Id.,
Da Leone X a Clemente VII. Scrittori toscani nella Roma dei papati medicei (1513-1534),
Manziana, Vecchiarelli Editore («Cinquecento», Testi e Studi di Letteratura Italiana
/ Studi, 21), 2007, pp. 151-180.
8 Capitolo il laude d’Aristotele, vv. 100-106. Cito da F. Berni, Rime, a cura di
D. Romei, Milano, Mursia («G.U.M.», 63), 1985, p. 152. Si noti tuttavia che il
Berni non ha mai utilizzato capriccio nei suoi titoli.
9 Cito da Luigi Tansillo, Capitoli giocosi e satirici, a cura di C. Boccia e T.R.
Toscano, Nola, l’arcael’arco edizioni, 2010.
10 Questa è la data proposta da Erasmo Pèrcopo in L. Tansillo, Il canzoniere
edito ed inedito secondo una copia dell’autografo ed altri manoscritti e stampe con
introduzione e note di E. Pèrcopo, i, Poesie amorose, pastorali e pescatorie, personali,
famigliari e religiose, Napoli, Tipografia degli Artigianelli («Biblioteca di scrittori
meridionali», 1), 1926 [rist. anast. a cura di T.R. Toscano, Napoli, Consorzio
Editoriale Fridericiana – Liguori Editore («Fridericiana historia»), 1996], p. clv,
senza per altro addurre pezze d’appoggio alla datazione. Non ne aveva detto
740 DANILO ROMEI [4]
meravigliare: in quegli anni si disputava precisamente a chi spettasse
il primato nella poesia giocosa, se al Berni o al Mauro11, con i
toscani che levavano sugli scudi il Berni per la sua “naturalità” e i
lombardi che anteponevano il Mauro per la sua “leggiadria”.
Al contesto torneremo. Mi preme adesso citare un altro passaggio
(fondamentale per il nostro discorso) che riveste per molti aspetti
una funzione inaugurativa. Si tratta del capitolo iv, Capriccio in laude
della galera: il primo, appunto, dei capricci. Siamo nel 1540. Al suo
acre paradosso Tansillo premette (ai vv. 28-36) una puntigliosa prec
i s a z i o n e :
Non è il mio de’ capricci e de le vene
che corron sí per Roma oggi e tra preti,
di che, piú che del mar, nausia mi viene.
Vorei che i buon scrittori e i buon poeti
dicesson ben del bene e mal del male,
come appertiene agli uomini discreti.
Chi celebra il pistel, chi l’orinale,
et a suggetto spendono gli inchiostri
ch’a l’onor poco, a l’utile men vale.
Di chi parla il Tansillo? Parla del primo gruppo di berneschi che
fiorì a Roma negli anni trenta. Ad esso il Berni in persona assegnava
il titolo impegnativo di «accademia»12. Questo gruppo si conosce
con il nome tradizionale di “Vignaiuoli”. In realtà il nome nasce da
un equivoco. Nel Settecento il benemerito Francesco Saverio Quadrio,
nella sua sterminata sistemazione della poesia italiana, confuse questo
gruppo informale con un’accademia inventata dal Doni nei Mondi13.
Da allora l’equivoco si è perpetuato. A dire il vero quest’«accanulla
Scipione Volpicella nella sua edizione; tuttavia, collocando il capitolo tra
il capitolo x Al signor Bernardino Martirano (datato ante 1546) e il xii Al signor
Giulio Cesare Caracciolo (datato probabilmente al 1545), mostrava di reputarlo
ascrivibile a questa età.
11 Vedi in proposito D. Romei, Roma 1532-1537: accademia per burla e poesia
“tolta in gioco”, in Berni e berneschi, cit., pp. 49-135 (in part. le pp. 69-70); e poi
in Da Leone X a Clemente VII, cit., pp. 205-266 (in part. le pp. 226-228).
12 Lettere a Giovan Francesco Bini del 27 dicembre 1533 e del 12 aprile 1544
e a Carlo Gualteruzzi del 7 maggio 1535 in F. Berni, Poesie e prose, a cura di E.
Chiorboli, Ginevra-Firenze, Olschki («Biblioteca dell’“Archivum Romanicum”»,
i, 20), 1934, pp. 344-345, 351, 366.
13 Vedi A.F. Doni, I mondi e gli inferni, a cura di P. Pellizzari, Introduzione
di M. Guglielminetti, Torino, Giulio Einaudi Editore («I millenni»), 1994, pp.
20-22.
[5] PER “SATIRE” E “CAPRICI”: TANSILLO, BERNI (ED ALTRI) 741
demia» non aveva una sede, non aveva uno statuto, non aveva
rituali, non aveva scadenze solenni, non aveva pseudonimi. Si sa
soltanto di saltuarie riunioni conviviali in ville suburbane, che la
facevano somigliare piuttosto a una sodalitas umanistica che a un’accademia
propriamente intesa.
La poesia del Berni era rimasta solitaria per un decennio. Improvvisamente,
a Roma, all’inizio degli anni trenta, al Berni si affianca
un gruppo di emuli-imitatori che rispondono ai nomi di Francesco
Maria Molza, Giovanni Della Casa, Giovanni Mauro d’Arcano,
Giovan Francesco Bini, Agnolo Firenzuola, Mattio Franzesi, Gandolfo
Porrino, con presenze significative di non poetanti come
Annibal Caro e Carlo Gualteruzzi, per non dire dei minimi. I nomi
non sono da poco.
Il gruppo, oltre a influire sull’ultima fase della poesia del Berni,
fece da filtro alla ricezione nazionale del bernismo, divulgando le
proprie scelte. È per la selezione operata da questo gruppo se il
bernismo è fatto quasi soltanto di capitoli (con la preterizione del
sonetto e della sonettessa) ed è fatto di capitoli concepiti in un certo
modo: il capitolo di lode paradossale (con la filiazione del capitolo
di biasimo) e il capitolo epistolare (con frequenti sviluppi narrativi).
Questi personaggi, se non sono proprio dei «preti» (come dice il
Tansillo), sono comunque dei “chierici”: o vivono di rendite ecclesiastiche
o sono al servizio di alti prelati o si annidano – in ogni
caso – nelle propaggini della gerarchia cattolica e risiedono nella
capitale della cristianità. All’esterno il loro prodotto poetico più clamoroso
non poteva non apparire quella variante del paradosso che
si fondava sull’equivoco sessuale. In verità nella poesia dei cosiddetti
“Vignaiuoli” si celavano ben altri veleni, come quelli che serpeggiano
in molti versi del Mauro, sospettabile di un eretico
nicodemismo, o come quelli che traspaiono da molti versi del Berni,
che corse tutta la vita sul filo di rasoio che separa i reprobi dagli
eletti. Ma certo risultavano assai più appariscenti (anche se alquanto
più banali) le fave e i fichi, il mal francese e il legno santo, la salsiccia
e le mele, in quest’ultimo carnasciale romano, incuneato tra il selvaggio
mattatoio del sacco del 1527 e la scientifica epurazione programmata
dal concilio di Trento. Era questo che scandalizzava il
poeta pentitissimo (ma era vero?) del «giovenile errore» delle Stanze
di coltura sopra gli orti delle donne.
Tuttavia, a guardar bene, quella poesia romana, che stimolava
gli appetiti e gli sdegni del Tansillo e che gli appariva di stretta
attualità, era già in via di esaurimento, se non addirittura liquidata
742 DANILO ROMEI [6]
del tutto. A Roma, nel 1540, quando scrive il Tansillo, sono in auge
accademie assai più composte, se non proprio impettite: lo Sdegno,
la Vitruviana, la Nuova Poesia. Come si vede, è già un’altra storia.
Oltre a ciò, il gruppo romano non è il solo che si deve convocare
a riscontro dei versi del Tansillo, anche se lui non dice nulla di
esplicito. Tuttavia a un occhio esercitato non sfuggirà il v. 32 del
brano che abbiamo appena letto:
Vorei che i buon scrittori e i buon poeti
dicesson ben del bene e mal del male […].
Vi compare una citazione quasi letterale, che ritorna quasi alla
lettera al v. 31 del capitolo ix, ovvero la Satira seconda al signor Mario
Galeota della donna accorta (che si è già nominata):
S’a ragionar di ciò fussero entrati
Lucilio, Oratio, Persio, Giovenale,
e quanti ne saranno e ne son stati
che dican ben del bene e mal del male,
non avriano in due satire, ma in cento
stesa la tela d’un soggetto tale.
Ebbene, la formula del «dir ben del bene e mal del male», che
diventerà la bandiera di combattimento della satira italiana, compare
per la prima volta – che io sappia – al v. 225 del capitolo Al Re
di Francia di Pietro Aretino:
so dir bene del bene e mal del male14.
Il capitolo, datato dicembre 1539 (vv. 239-240), era appena stato
pubblicato, in quello stesso 1540, nei Capitoli del S. Pietro Aretino, di
M. Lodovico Dolce, di M. Francesco Sansovino, e di altri acutissimi ingegni,
[Venezia], per Curzio Navó e Fratelli, mdxl.
Ora, com’è noto, l’Aretino e il Berni erano nemici mortali. L’Aretino,
per giunta, aveva più volte espresso pubblico disprezzo per la
poesia bernesca. Però la pubblicazione dei suoi Capitoli nel 1540
portava con sé la stampa nello stesso volume dei berneschi veneziani,
in particolare di Lodovico Dolce e di Francesco Sansovino, che
andranno acquisiti agli atti. Ma il punto che importa di più non è
14 Cito da P. Aretino, Poesie varie, a cura di G. Aquilecchia e A. Romano,
tomo i, Roma, Salerno Editrice («Edizione nazionale delle opere di Pietro
Aretino», i), 1992, p. 157.
[7] PER “SATIRE” E “CAPRICI”: TANSILLO, BERNI (ED ALTRI) 743
tanto l’ampliamento dell’anagrafe culturale del Tansillo, quanto un
interrogativo che sorge spontaneo. Che cosa vuol dire che in
contrapposizione all’oscena e squalificata poesia dei «preti» romani
il Tansillo inasti una bandiera aretiniana, che sventolerà di nuovo in
coda all’elenco dei più accreditati satiristi latini? Vuol dire forse che
il Tansillo ripudia il bernismo per adottare una “poetica” che guarda
almeno alle dichiarazioni di principio del “flagello dei principi”?
La risposta non può essere semplice e sarà per il momento accantonata.
Voglio invece completare il quadro della cultura bernesca del
Tansillo con altri due paragrafetti.
Primo: come si sa, il Tansillo era in corrispondenza con i fiorentini.
Mi pare probabile che conoscesse i versi berneschi di Benedetto
Varchi; probabilmente conosceva qualcosa di Agnolo Bronzino15; non
so se potesse conoscere qualcosa di Anton Francesco Grazzini detto
il Lasca: doveva in ogni caso conoscere la celebre antologia giuntina
del 1548 che fu da lui curata e che fu, tra l’altro, ristampata tre volte.
Secondo: fra i poeti che coniugarono nei loro versi Ariosto e Berni
si deve accreditare almeno il bolognese-ferrarese Ercole Bentivoglio,
al quale compete – fra l’altro – il primato cronologico. La stampa
delle sue terze rime si attenderà fino al 154616, però non mi sembra
impossibile che i versi sdegnati che il Bentivoglio scrisse sull’assedio
di Firenze fossero noti a chi scrisse pochi anni dopo versi non
meno sdegnati sulla guerra di corsa nel Mediterraneo.
Infine è senza dubbio significativo che un gruppetto di autori di
satire alla bernesca (per adottare un titolo emblematico) corra le sue
modeste fortune in parallelo al Tansillo. Tuttavia non trovo riscontri
puntuali che possano provare una reciproca familiarità.
E ora vediamo di stringere il discorso.
Nessuno – ovviamente – si meraviglia se il Tansillo ostenta noncuranza
o persino vergogna (i 66) di questi suoi versi. Altro non
sono che baie e ciancie17, pazzie18 e strane fantasie senza merito e senza
costrutto:
15 Non mi pare, tuttavia, che ci siano rapporti evidenti fra i due capitoli della
galera del Bronzino e i due capitoli della galera del Tansillo.
16 Le satire et altre rime piacevoli del Signor Hercole Bentivoglio. In Vinegia, appresso
Gabriel Giolito de Ferrari, mdxlvi. Fa eccezione il capitolo Al S. Abbate
Zambeccaro, già comparso nei citt. Capitoli dell’Aretino del 1540, cc. 44v-47v.
17 «Queste baie ch’io scrivo e queste ciancie […]» (xix 274).
18 «Piú tosto una fiumana di pazzia / dal capo esser potrà che mi si scioglia,
/ che un picciol ruscellin di poesia» (i 184-186).
744 DANILO ROMEI [8]
Una assai strana e nova fantasia
io scrissi al Galeota, e non so come
m’entrò nel capo quella bizzarria.
Già non sperava d’acquistarne nome,
ché per condurre a fin questa speranza
bisogneria sudar sotto altre some.
Piú per conversation che per baldanza,
anch’io con gli altri presi la viola
e sonar volsi a questa nova usanza.
Io fei come fa quel de la Fragòla,
che sona il Conde d’Haro e canta l’Appia
per far come fan gli altri a la spagnuola.
E non cantai le fave o i torsi o l’appia,
ma mostrai con essempi e con ragione
che non si debba amar donna che sappia […].
(x 1-15)
È vero che si può rivendicare un dettato che non è destituito
d’ogni regola d’arte («so ben esser rettorico e poeta» [ix 11]), tuttavia
lo stile resta irrimediabilmente pedestre (come la musa minore di
Orazio). In conclusione sono capricci che bisogna in ogni caso sfogare,
perché non guastino gli umori:
Èmmi un desio ne l’animo venuto,
o vogliam dir capriccio, il piú sollenne
che mai si sia né letto, né saputo.
Simil capriccio in testa d’uom non venne,
abbia pur tempie anguste e capel riccio,
da che fur le parole e fur le penne.
Mi scuoto il naso e gli occhi mi stropiccio,
per veder s’io son desto o s’egli è sogno
e trovo pur alfin ch’egli è capriccio.
Trovo ch’egli è capriccio e ch’è bisogno
ch’io il ponga in carte, e non mi giova scusa
che d’usar stil pedestre io mi vergogno.
Insomma vuol la mia giocosa Musa,
fra l’altre cose strane ch’ella narra,
lodar la Gelosia che ’l mondo accusa.
Non sarà questa cosa men bizarra
che fu il lodar ch’io fei de la galera
e il maledir de’ cocchi e de le carra.
E son questi capricci di manera,
ch’a tenerli entro al cor non è gran fatto
ch’uom talor se n’ammali e se ne pèra.
(xxi 55-75)
[9] PER “SATIRE” E “CAPRICI”: TANSILLO, BERNI (ED ALTRI) 745
Il copione è scontato: nient’altro diceva il Berni o dicevano i
berneschi delle loro «filastrocche e tantafere». Al massimo si può
proclamare la novità e l’ardimento del paradosso:
L’intento mio fu dir novo pensiero,
che provandol riporta maggior laude,
quanto piú lunge se ne va dal vero.
Per la sua novità, non per la fraude,
stimai che fusse il preso tema buono,
poi ch’a la novitade il mondo applaude19.
Ma non è la componente paradossale l’aspetto dei Capitoli che
m’interessa di più. La pregnanza ideologica dei paradossi tansilliani
appare di solito modesta. Mi sembra assai più interessante il fatto
che allo stile pedestre (che è nello stesso tempo oraziano, ariostesco
e bernesco) e alla poesia dello scherzo o comunque del colloquio
familiare si deleghi una forma speciale di comunicazione con il
potere (in occasioni liete e festive, ma soprattutto in circostanze
spinose). Il dialogo del servitore con il padrone passa anche di qui.
Nessuno deve prendere in mala parte i termini che ho usato
(servitore/padrone): sono i soli che siano adeguati alla società e alla
cultura del Cinquecento. Del resto il servire (con i suoi impegni, i
suoi disagi, la sua fede, il suo premio) è uno dei temi preminenti dei
Capitoli. A me interessa come il servire si esprime.
Diciamo subito che, in una cultura molto più cerimoniosa e incline
all’iperbole di quanto non sia tollerato dalle consuetudini attuali,
l’encomio del padrone non solo rientra nella buona creanza ma è un
dovere del servitore. Del padrone si dice bene per forza. Viceversa non
si può dir male. Chi dice male del suo padrone non soltanto si rende
colpevole di una imbarazzante malcreanza, ma si macchia di un vero
e proprio tradimento, ovverosia di un’azione altamente disonorevole.
È vero che ci sono persone sciagurate che del tradimento hanno
fatto una norma di vita. Il Berni, per esempio. Ha tradito prima i
Bibbiena; poi ha tradito due volte il vescovo di Verona Giovan
Matteo Giberti; poi ha tradito il cardinale Ippolito de’ Medici; infine
ha tradito Alessandro de’ Medici, primo duca di Firenze, suo legittimo
signore, rifiutandosi di propinare il veleno per conto suo al
cardinale Giovanni Salviati. Ne è stato giustamente punito, finendo
avvelenato a sua volta. Almeno così si dice20. La cosa non è certa,
19 Capitoli x 40-45. E vedi viii 51: «questo mio sí bravo paradosso».
20 Vedi Francesco Berni. Con documenti inediti, per A. Virgili, Firenze, Successori
Le Monnier, 1881, pp. 491-507.
746 DANILO ROMEI [10]
ma verisimile. A dire il vero aveva tradito anche un amasio fanciullo
che si era ammalato di peste, scappando a gambe levate. È il solo
tradimento di cui si sia accusato. Va da sé che ogni tradimento
comportava una fuga: un’altra azione altamente disonorevole.
Ma il Tansillo era un soldato e i veri soldati tengono in ben altra
considerazione la fede, la disciplina e l’onore. E a chi poteva rinfacciargli
di servire gli spagnoli rispondeva di non avere alternative21.
Nel suo paese i soldati dipendevano dal viceré, che li comandava in
nome del re di Spagna, legittimo signore. Che altro poteva fare?
Dunque il programma della satira (dire «ben del bene e mal del
male» come fecero «Lucilio, Oratio, Persio, Giovenale» [x 29]) è per
principio dimezzato. Il Tansillo, che ovviamente non si astiene dal
dir bene, non si permette mai di dir male dei grandi (si permette di
dir male soltanto dei piccoli)22. Con una (perniciosissima) eccezione:
i «preti» in generale e in particolare Giovan Pietro Carafa, vescovo
di Chieti, che diverrà nel 1555 papa Paolo iv, nominato due volte in
modo assai poco riguardoso23. Forse gli appariva ancora piccolo (e
risibile).
A proposito. Tutti sanno che l’indice dei libri proibiti del 1559,
voluto proprio da Paolo iv, condannava in solido «Aloysij Tansilli
21 Vedi Capitoli ii 161-165: «Il viver con Spagnuoli, il gire in volta / con
Spagnuoli m’han fatto uom quasi novo / e m’hanno quasi la mia lingua tolta.
// Non pecco se da’ nostri io mi rimovo: / poiché ’l bisogno mio da lor non
aggio / è forza ch’io me ’l pigli da chi ’l trovo». E al vicerè diceva: «Signor,
send’io spagnolo d’affettione / piú che di patria voi […]» (xxiii 160-161).
22 E già questo, a metà del secolo, è in controtendenza. Infatti, se l’Ariosto
rischiava addirittura di rubare il mestiere al Pistoia e all’Aretino (vedi Satire vi
94-96), non negandosi affatto una nominale maledicentia, nel 1565 il casertano
Lodovico Paterno pubblicava una Lettera dove si discorre della Latina, et Thoscana
Satira: et s’insegnano alcuni avvertimenti necessarij intorno allo scrivere delle moderne
Satire, enunciando un prudente principio di referenza impersonale: «I nomi
delle persone, che si mordono, io per me terrei sempre a bene, che si stessero,
quanto si può, celati: il che riuscirà comodissimo, o si togliano a caso, o sotto
significative voci d’altri nomi, sì perché militiamo nella Cristiana religione, sì
eziandio per li pericoli infiniti, ne’ quali, facendosi il contrario, precipitosamente
si potrebbe incorrere. A’ morti perdoneremo pazientemente […]» (cito per comodità
da Satire di Iacopo Soldani… ed altri, Londra [ma Livorno, Masi], 1787, pp.
182-183). A partire da questa data il principio dell’“impersonalità” della satira
si afferma universalmente in Italia.
23 Prima a xii 99 («O che m’urti, o m’allordi, o ’l passo vieti, / schivar non
posso, o altro che farebbe / scandalizzar il cardinal di Chieti») e poi a xvii 270
(«E m’han giurato piú di quattro preti / che non passa mai giorno, et ora forse,
/ che non vi giochi [al gioco del malcontento] il cardinal di Chieti»).
[11] PER “SATIRE” E “CAPRICI”: TANSILLO, BERNI (ED ALTRI) 747
carmina» (c. [Aiij]r) e «Tansilli Aloysii Poemata» (c. [Hiij]r)24. Sarà
un caso? In ogni modo la canzone A papa Paolo quarto, che il Tansillo
si precipitò a comporre, proclamava la più stretta osservanza, manifestava
la più umile contrizione, prometteva la più fervida lode,
purché, sacrificato il Vendemmiatore, si salvasse il resto della sua
poesia. Ma di certo nessuno avrebbe potuto salvare i Capitoli, che
forse non erano ignoti a chi di dovere e che erano molto più pericolosi
di quei giovanili versi licenziosi.
E qui si precisa la distanza da Pietro Aretino e dal programma
che si poteva cavare dai suoi versi.
Nella sua roccaforte di Venezia il «secretario del mondo», l’«uomo
libero per grazia di Dio», il «flagello dei principi» riuscì a patteggiare
fino all’ultimo la sua (condizionata) indipendenza. (Se fosse vissuto
qualche anno di più sarebbe finito male). Quell’indipendenza
era la premessa necessaria per praticare non un astratto moralismo,
ma concrete e proficue transazioni. Il verso dell’Aretino andrebbe
così completato: «so dir bene del [mio] bene e mal del [mio] male»:
so celebrare chi mi favorisce e denigrare chi mi ignora o mi nuoce.
Non per nulla era un ammonimento al re di Francia.
L’indipendenza il Tansillo non l’ha avuta mai. Per giunta come
servitore scontava un verecondo pudore, un’onesta vergogna – come
dice lui – del dire, del chiedere, del protestare:
Qual il debito sia, qui non lo scrivo,
dirollo a bocca, s’il rossor nol vieta,
che m’ha talor della parola privo.
Sia cosa buona, o mala, o trista, o lieta,
quando de’ fatti miei parlar bisogna
io son mal orator, peggio poeta.
Chi il crederà, benché non sia menzogna,
che spesso ho per parlar la lingua mossa
e sempre m’ha tenuto la vergogna?
La carta si sòl dir che non arrossa.
Meglio è dunque ch’io scriva quel che voglio,
perché l’intento mio seguir si possa.
Poiché mal volontier la lingua scioglio,
datemi gli occhi in vece delli orecchi:
l’ufficio della lingua faccia il foglio.
24 Vedi J. Martinez De Bujanda, Index des livres interdits, avec l’assistance
de M. Richter, 11 voll., Sherbrooke/Montréal-Genève, Éditions de l’Université
de Sherbrooke / Médiaspaul – Librarie Droz (Centre d’Études de la Renaissance
de l’Université de Sherbrooke), 1984-2002, vol. Index de Rome 1557, 1559, 1564.
Les premiers index romains et l’index du Concile de Trente, 1990.
748 DANILO ROMEI [12]
Proprio questo pudore gli rimproverava amichevolmente l’Aretino
in una lettera che non ci è pervenuta. E il Tansillo, mostrando di
scusarsi di questo suo «difetto», in realtà pungeva la leggendaria
sfrontatezza e la spregiudicata autocelebrazione del corrispondente,
che in nessun modo gli si poteva attagliare:
Non è gran tempo che me ne riprese
con una lettra sua Pietro Aretino,
che questo vitio mio per fama intese.
Io gli risposi: – Pietro mio divino,
e qual uom si può togliere un difetto
datoli da natura o da distino?
Io so che nòce a me questo rispetto
via piú che ’l suo contrario a voi non giova.
Ma non ne posso far altro in effetto,
piú d’una volta già n’ho fatto prova. –
(ix 94-103)
E si capisce bene come la citazione aretiniana non potesse essere
per il Tansillo né un programma né una onorevole bandiera di
combattimento. Al contrario tornava al proposito la deminutio sui,
l’umiltà autoironica che avevano insegnato Orazio, Ariosto, Berni.
Un’umiltà, ben inteso, che non escludeva affatto la fermezza quand’era
necessario e che aveva un suo risvolto di scaltrezza.
Per comunicare con il potere al Tansillo giovava assumere, se
non proprio una maschera buffonesca come piaceva fare al Berni,
almeno vesti tutt’altro che curiali, uno stile pedestre, un’apparenza di
scherzo familiare. Giovava per la richiesta (la moglie [xviii], il cavallo
[xxiii], la liberazione di Venosa dalle servitù militari [xxiv]),
giovava per il dono (xvi, xxv), giovava per gli intrattenimenti e i
giochi di società (vi, xvii). Giovava soprattutto quando il rapporto
con il potere rischiava di esplodere in un conflitto rovinoso, quando
l’«enoscio» del padrone innescava una naturale «temenza» (xiii 15).
Era, anzitutto, una scelta di dignità, escludendo per principio le
forme più ostentate e indecenti di piaggeria. L’aveva insegnato
l’Ariosto, quando, per dar voce alla sua amarezza di cortigiano
deluso e al suo risentimento contro il cardinale Ippolito d’Este, non
aveva intonato lacrimevoli elegie, ma, «appiattando» il «capo calvo»
sotto il «cuffiotto»25 – in vesti comiche anziché curiali –, aveva affidato
le sue ragioni a un oraziano stile pedestre. E non diversamente
25 Satire i 217-219.
[13] PER “SATIRE” E “CAPRICI”: TANSILLO, BERNI (ED ALTRI) 749
aveva fatto il Berni, che, richiesto dal suo prossimo padrone di dar
saggio di acconci encomi a guisa di caparra del futuro servizio,
aveva promesso incontanente di dar fiato alle trombe del giudizio e
aveva levato alle stelle il suo nano26. È questo uno dei punti di più
flagrante contatto tra Berni e Tansillo, che, com’è noto, non si negò
a celebrare il «signor Sanseverino nano favoritissimo del signor
Principe di Bisignano» nel Capriccio in laude del giuoco del malcontento
(Capitoli xvii), debitore nondimeno della Primiera bernesca.
Era nello stesso tempo una scelta difensiva. I giullari di ogni
tempo e paese sanno bene che non ci si può adirare con chi parla
per scherzo, neppure se dice cose sgradevoli. Il gioco instaura una
specie di zona franca, in cui le regole degli ordinari portamenti
sembrano allentarsi (non certo cancellarsi) e predisporre a un riso
conciliante piuttosto che a una collera precipitosa. Al Tansillo capita
di dire cose sgradevoli, parole rispettose ma decise; ovviamente un
gentiluomo non può vestire le vesti di un qualunque pazzariello,
ma può invocare lo statuto di questa zona franca e rimpicciolendosi,
facendosi pusillo, può contare su un ascolto meno irrigidito dalle
convenzioni sociali, meno congelato dagli orgogli di casta. In un
certo senso le parole del gioco hanno il privilegio di passare sotto
gli steccati.
Naturalmente altro ci sarebbe da dire sugli ingranaggi che
addentellano i Capitoli con la poesia bernesca, ma ci possiamo fermare
qui.
Però non posso trattenermi dall’aggiungere un minimo paralipomeno.
Il Tansillo che dice «io voglio il corpo» (ix 174) non è troppo
distante dal Berni che grida «per l’amor di Dio, dacci del cardo» (ix
91), cioè del ‘cazzo’. Com’è noto il Berni era omosessuale. Ma qui le
strade si dividono.
Danilo Romei
(Università di Firenze)
26 Cfr. il Capitolo al cardinale de’ Medici (Non crediate però, signor, ch’io taccia)
e il Capitolo di Gradasso (Voi m’avete, signor, mandato a dire).
Contributi
MARWA ABDEL MONEIM ABDEL RAOUF TANTAWY
Il fascino del mondo orientale in
L’Oasi di Leda Rafanelli
Marta Tantawy analyses Leda Rafanelli’s L’oasis by focusing her
attention on the figures of outstanding men and women Rafanelli
made acquaintance with during her eastern wanderings and her
‘subversive’ period. This allows Marta to point out and compare
life in Europe and the East.
1. Fin dai tempi remoti, precisamente dagli Ottomani, prevale
un’immagine stereotipata della donna araba, che il mondo occidentale
ha scelto a scapito di altre immagini più brillanti. Nell’immaginario
occidentale, infatti, prevale una sorta di caricatura della donna araba
e musulmana, vista alternativamente come un’odalisca compiacente
dell’harem del sultano o come la povera donna velata, reclusa e
soggiogata, privata dei suoi diritti e alla quale viene impedita la
partecipazione alla vita sociale. È un po’ come guardare la fotografia
di una persona, che non sempre è fedele al suo aspetto reale. L’immagine
a cui mi riferisco è, nell’immaginario occidentale, deforme,
pallida e scura, una figura massiccia o panciuta, dai capelli neri e
ricci, priva del diritto della propria libertà. L’idea comune è quella
d’una donna completamente sottomessa alla volontà dell’uomo (o,
per meglio dire, del marito), coperta di nero, costretta a restare in
casa ed a subire una serie d’angherie. Sono pensieri e punti di vista
occidentali, che rischiano, tuttavia, di dare per scontate molte cose.
La mia ricerca nasce, perciò, dalla volontà di demistificare una
gamma di malintesi e paradossi, relativi alla donna araba, la cui
figura alimenta, spesso, il sospetto generale; e d’altro canto vorrei
gettare una luce chiarificatrice su Leda Rafanelli, una donna dotata
di una personalità sovversiva, multiforme e misteriosa, le cui scelte
di vita sono espressioni naturali del suo temperamento e del suo
modo di pensare. Amante del viaggio e dell’avventura, vive come
una nomade e, affermando d’essere nata “millenaria”, scrive:
[2] IL FASCINO DEL MONDO ORIENTALE IN L’OASI 751
Ho sangue arabo nelle vene: mio nonno materno era figlio naturale
di uno Zingaro Tunisino […] Tutti i miei personali “ricordi”, i sogni,
le aspirazioni, i desideri, erano basati, sistemati, orientati verso l’Antico
Egitto, mia Patria d’elezione1.
È una figura della quale cerco di evidenziare contraddittorietà,
intelligenza, esotismo da un lato e, dall’altro, la sua idea pratica e
teorica di donna.
A dir la verità, l’ambiente culturale in cui vivo mi ha indotto a
rilevare, essendo araba musulmana ed avendo rapporti con donne
europee, che è facile che nelle donne occidentali, privilegiate e libere,
agisca in un modo o nell’altro, sia sul piano psicologico che reale, la
suggestione della figura di donna araba ed orientale. Nel mondo
occidentale c’è chi si sente attratto dall’Oriente, dalle oasi, dalle isole,
dalle terre desertiche oppure dai monti e dalle tradizioni variamente
connaturate alle nostre terre. Ignorando, però, spesso il significato
religioso della vita e delle tradizioni in Oriente, si propaganda ancora
in Occidente l’idea che la donna sarà veramente libera solo a misura
del modello occidentale, cioè quello di una donna cresciuta nelle
società tecnologicamente avanzate, che appare libera, autodeterminata,
potente, soddisfatta di sé, piena di diritti e privilegi. Da questo modello
derivano, paradossalmente, non pochi fenomeni d’oppressione
e di sfruttamento di cui sono vittime le donne.
L’Oasi, oggetto del presente studio, è un’opera che focalizza l’attenzione
sulle figure di donne e uomini d’eccezione, rappresentando
principalmente vari aspetti significativi della vita europea e di quella
orientale ed evidenziando tutti i contrasti che esistono tra di esse.
Leggendo, per la prima volta, il romanzo mi è venuto il desiderio di
rileggerlo tutto d’un fiato per godere il fascino particolare, che non
ho solo provato durante la mia lettura, ma anche immedesimandomi
nell’animo di “Sitti”, della padrona di quest’opera preziosa.
L’analisi del romanzo mira ad analizzarne il contenuto, che accoglie
fenomeni sostanziali delle società occidentale ed orientale, smentendo
le opinioni alimentate da interpretazioni errate dei vari avvenimenti
storici, ed infine, a soffermarsi su temi, motivi e situazioni,
intessuti sul complesso intreccio tra problemi contemporanei, ricor-
1 Djiali, Memorie di una chiromante, dattiloscritto inedito, s.d., Fondo LRMonanni
– Romanzi inediti di Leda Rafanelli 12 – Archivio Famiglia Berneri –
Aurelio Chessa, Reggio Emilia, p. 2 e p. 9. Rivolgo i miei più sentiti ringraziamenti
alla signora Fiamma Chessa, curatrice dell’Archivio Famiglia Berneri –
Aurelio Chessa, che mi ha fornito diverso materiale prezioso riguardo alla vasta
e profonda opera di Leda Rafanelli.
752 MARWA ABDEL MONEIM ABDEL RAOUF TANTAWY [3]
di e fantasia, che fa della Rafanelli, nel panorama letterario del
Novecento italiano, una protagonista anomala e originale.
2. Il primo viaggio di Leda Rafanelli (nasce il 4 luglio 1880 a
Pistoia e muore nel 1971 a Milano) inizia, a quanto s’è detto per più
versi, al principio del secolo scorso ad Alessandria d’Egitto, a vent’anni,
per motivi economici. Rimasta lì per un certo periodo, s’incontra con
gruppi di anarchici esuli e perseguitati con cui stabilisce intime amicizie
e soprattutto con un libraio anarchico che diventerà poi suo
marito: Luigi Polli. Senza precisarne le motivazioni, (non esistono al
riguardo documenti o testimonianze), Leda si converte all’Islam2.
Ma quello che doveva accadere accadde, come diciamo noi arabi,
e da quel giorno Leda crede “alla fatalità”. In una delle sue composizioni
ritmiche, dedicata all’unico figlio, che per lei era un dono
di Allah, scrive:
Allah, può far trovare un tesoro faraonico in mezzo alle sabbie del
deserto […]
A me ha fatto trovare il più bel giovane uomo d’Oriente tra la
grigia, morta folla di un suk di sobborgo d’Occidente3.
La permanenza in Egitto resta, infatti, il segno radicale della
trasformazione di tutta una vita piena d’impegni politici, lotte sociali,
sacrifici e stravaganze. Tale viaggio fecondo va inteso, dunque, in
senso simbolico di desiderio, tensione di conoscenza e di ricerca.
L’attrazione di Leda verso le antiche civiltà egizie, il suo studio
della lingua araba e l’interesse crescente per le scienze occulte, la
magia, e l’astrologia la spingono verso il mondo orientale.
Se il viaggio viene concepito per più versi come una metafora
della vita, come nella Commedia di Dante Alighieri esso rappresenta
una metafora per l’esistenza umana e per la redenzione dei peccati,
per la Rafanelli costituisce la tappa fondamentale di un’esperienza
di crescita interiore e di formazione. L’anima della scrittrice anela
2 Alcune informazioni si riferiscono ad una disgrazia familiare, altre a difficoltà
economiche della famiglia, ma certo, fin dal tempo dello scavo del canale
di Suez (1859-1869), l’Egitto era una terra fertile ed ospitale per molti lavoratori
e artigiani italiani che vi sono, poi, rimasti per svolgere vari commerci. Enrico
Pea, inoltre, fonda, ad Alessandria d’Egitto in via Hammam-El-Zahab, la “Baracca
Rossa”, che diventa il rifugio per gli emigrati italiani ed amici transfughi
della vita, di tendenze socialiste e anarchiche e la rievoca insieme agli anni lì
vissuti nella sua opera Vita in Egitto (1947).
3 L. Rafanelli, La più bella pagina d’amore. Il figlio dello Sceikka, Fondo LR. –
Monanni.
[4] IL FASCINO DEL MONDO ORIENTALE IN L’OASI 753
ad una libertà individuale, superiore ad ogni tipo di legge o autorità,
trova sfogo nelle sue credenze, nelle cose, nei costumi conservati
e nei ricordi nostalgici. Perciò, si sente addolorata e sola in
mezzo a “cose estranee” quando se ne allontana come «il cammello
stanco che vorrebbe solo distendere il collo sulla sabbia per morire
in pace»4. Mi sono soffermata sul tema del viaggio per interpretare
la vicenda esistenziale della scrittrice, oltre al rimpianto d’un passato
perduto ed al richiamo inafferrabile d’un paradiso che probabilmente
ha trovato nelle proprie scelte peculiari. Come si è detto
sopra, l’Egitto viene considerato come il seme del suo primo legame
con la tendenza anarchica e del suo esotismo. Questo carattere esotico
spicca nel suo abbigliarsi all’araba (da bambina, Leda sdegna i
vestiti ricamati e cuciti in maniera comune, preferendo avvolgersi in
lembi di tela e vecchia stoffa di color giallo o rosso), nel mangiare
cibi orientali e nel giocare stranamente (basti pensare alla sua attrazione
“pericolosa” per bisce, lucertole e serpenti). Tutto un mondo
di vivere che, se da un lato è stravagante per una donna nata nell’Ottocento,
si può trovare nella prassi della quotidianità in Oriente.
L’itinerario atipico della sua vita si svincola da ogni limite o
oppressione, che rientrino in uno schema, in una cultura o in una
religione. A proposito, Pier Carlo Masini asserisce che la Rafanelli
nel suo mondo «fantasticamente si riconosce e si muoveva come in
uno specchio o in un globo di vetro»5. Del resto, ella immagina, fin
dall’età infantile, d’imbarcarsi per “mari lontani”; e, da grande, va
istintivamente verso la calma e la bellezza delle oasi dell’Est. Porta
tutti i suoi costumi arabi con sé (valori, usanze, regole, stile di
vivere), e non vi rinuncia mai fino agli ultimi anni della sua vita;
conservando, però, la propria originalità (le piace sempre essere se
stessa). Molti la chiamavano “zingarella” per il suo aspetto: a Leda
piaceva vestirsi sempre fuori moda con abiti neri comodi, molte
collane esotiche al collo, portare alle orecchie grossi cerchi d’oro. Il
mondo arabo con i suoi simboli, cioè, ha agito nell’immaginario e
nella realtà di questa donna occidentale.
3. Va, peraltro, ricordato che l’Occidente subisce l’influenza della
civiltà orientale e musulmana in diversi campi: nell’arte, nelle forme
4 Ead., Lettera a Carlo Molaschi, 22 maggio 1918, in Ead., Lettere D’Amore E
D’Amicizia, La corrispondenza di Leda Rafanelli, Carlo Molaschi, Maria Rossi (1913-
1919), a cura di M. Granata, Pisa, BFS edizioni, 2002, p. 91.
5 P.C. Masini, Introduzione a Leda Rafanelli, in Id., Una donna e Mussolini,
Milano, Rizzoli, 1975, p. 8.
754 MARWA ABDEL MONEIM ABDEL RAOUF TANTAWY [5]
architettoniche, nella coltivazione di certe piante, nella letteratura e
negli aspetti decorativi. La maggior parte degli strumenti musicali è
d’origine araba e la filosofia giunge verso i Paesi occidentali per
opera di una larga serie di traduzioni realizzate, in Spagna, del
patrimonio dei filosofi greci e degli scienziati ellenisti nell’epoca dei
califfi abbasidi. L’Oriente è, dunque, vivo tanto nella memoria che
nella scrittura della Rafanelli: in una lettera mandata all’amico Bosio
nel 1967, lo prega di leggere il suo romanzo migliore, L’Oasi, nel
quale scrive le proprie idee e «cose vere» da lei vissute, sconfessando
coloro che parlano di «noi musulmani» senza «conoscerci»6.
Nella prefazione dell’opera in analisi descrive il fascino particolare
che il Paese ed il suo popolo esercitano sull’autore Etienne
Gamalier: la loro bellezza, potenza e generosità. L’Oriente per lui,
aggiunge, «e specialmente l’Africa e l’Egitto – è la sola terra dove si
può correre in piena libertà l’avventura della vita»7. Pubblica il romanzo
con uno dei suoi vari pseudonimi durante la repressione del
regime fascista, collocando gli eventi ed i personaggi in un ambiente
arabo, in Tunisia: è un palcoscenico di buoni sentimenti e passioni,
di spazi infiniti fuori del tempo che spiccano in una vita istintiva
e spontanea dell’Africa “barbara”. Il che si contrappone politicamente
e socialmente all’Occidente moderno: la vita beduina pura ed
ospitale e la gente dall’anima segreta che si affida fedelmente al
“Maktub” (cioè, tutto è scritto dal Destino) sono in pieno contrasto
con l’Europa superiore e colonialista. Due mondi, insomma, inconciliabili:
l’uno non sarà mai comprensibile all’altro giacché l’abisso
che esiste tra di essi è incolmabile. Le lotte sociali, le propagande
interventistiche e militaristiche e lo sfruttamento delle nazioni colonialiste
non vanno d’accordo con la saggezza e la naturalezza d’un
popolo succube, nato, però, per vivere in libertà. Dietro la fioritura
di queste immagini malinconiche si può cogliere una denuncia del
colonialismo europeo che cerca d’imporre ingiustamente la cultura,
la civiltà ed il modo di vivere ai Paesi occupati:
Io credo alla devota sottomissione degli indigeni. Essi sono lieti e orgogliosi
di essere guidati, comandati e protetti da noi […] Questo aggregarsi
di territori costa sacrifici e ingenti spese militari. E il dare a questa
6 L. Rafanelli, Lettera a Gianni Bosio, 23 ottobre 1967, Genova, in Leda Rafanelli
– Carlo Carrà. Un romanzo, Arte e Politica in Un Incontro Ormai Celebre, a cura di
A. Ciampi, Venezia, Centro Internazionale della grafica di Venezia, 2005, p. 15.
7 E. Gamalier, Introduzione dell’autore, in L. Rafanelli, L’Oasi, trad. di L.
Rafanelli, Milano, Casa Editrice Monanni, 1929. D’ora in poi L’Oasi.
[6] IL FASCINO DEL MONDO ORIENTALE IN L’OASI 755
gente uno scopo, l’amore per il lavoro, delle idee razionali sull’igiene
e la morale, con l’esempio e l’istruzione, è già un’opera santa8.
È la mentalità di Henry che personifica l’uomo europeo-moderno,
e direi anche, la filosofia mistificante dei colonizzatori, che giustifica
le alte ragioni politiche e sociali allo scopo d’impadronirsi
d’altre terre lontane e farne colonie della “Madre Patria”. Anche
l’Italia, come tutti i Paesi europei, giustifica la formazione del proprio
dominio coloniale nell’Africa orientale, asserendo di aver trovato
solo alcune aree povere e scarse di risorse minerarie e naturali
nella regione settentrionale, dove si erano già sgretolati i vecchi
Stati arabi. Una politica estera più aggressiva, voluta da molti settori
della classe dirigente, guida l’Italia a puntare decisamente all’Etiopia,
alla Libia, dopo Somalia e Eritrea. In un altro romanzo intitolato
Una donna e Mussolini, la figura del capo del regime fascista
(già direttore de «L’Avanti», quotidiano socialista cui collaborava
anche la Rafanelli9), rappresenta l’Occidente in termini d’oppressione,
minacce e propagande illusorie. L’opera è considerevole in quanto
evidenzia il contrasto tra Mussolini e il personaggio di Leda che
appare come l’Africa barbara (da lei tanto ammirata e desiderata)
con la sua fonte di valori preziosi: la pace e la serenità.
Nel linguaggio, nella comunicazione, nella scrittura istintiva Leda
assapora il profumo e l’atmosfera orientale. A quanto s’è detto, è
subito da aggiungere il lavoro assiduo della scrittrice come tipografa
con cui esercitava «l’arte alchemica della trasformazione della calligrafia
alla pressione, ma con i ritmi che discendono dal suo modo di
sentire»10. Così porta nella sua produzione narrativa le calde oasi
dell’Africa d’oro, il piacere spirituale della scrittura araba, l’amore del
Dolore e del Destino anche se crudeli, in termini d’una felicità trionfante.
Del resto, il fascino dei miti egizi non la abbandona tanto nello
8 Ivi, p. 9.
9 Tra Benito Mussolini e la scrittrice ci fu una fitta corrispondenza (dal 1913
– fino al 1914) che Leda pubblicherà dopo la guerra. I rapporti amichevoli tra
i due saranno interrotti per una diversità inconciliabile d’idee: «[…] mio amico,
– ma col quale ruppi ogni rapporto quando tradì il Socialismo […] Io contro tutte
le guerre, Mussolini quello che fu, il traditore di tutti e tutto» (L. Rafanelli,
Lettera a Egregio Sidi Gianni Bosio, 28 agosto 1967, Genova, in Ead., Leda Rafanelli
– Carlo Carrà. Un Romanzo, cit., p. 14). È da osservare che Mussolini otteneva da
Leda le sue conoscenze riguardo all’Islam ed incaricò come consulente del governo
fascista per le questioni islamiche, Enrico Insabato, ex-anarchico dalla
Rafanelli conosciuto durante la sua permanenza in Egitto.
756 MARWA ABDEL MONEIM ABDEL RAOUF TANTAWY [7]
stile di vita quanto nella sua poesia: quando parla dell’avvenimento
di due eclissi, accenna al giorno in cui succede la prima, quella del
Sole, non sapendo, però, dove e quando avverrà la seconda, quella
della sua Stella. Si domanda il perché della vita, affermando:
E quando la Stella mia, Vega, potrà ritornare,
e aprire nel cuore di pietra, col raggio segreto,
il chiuso “Mastaba”, ove dorme la Mummia Speranza?11
Il termine arabo scritto con la maiuscola indica l’anticamera del
cubicolo dove viene rinchiusa la mummia del faraone nelle tombe12.
Uno dei personaggi secondari dell’Oasi si chiama Mohamed, un
vecchio cieco ed infermo, che possiede una conoscenza istintiva del
mistero della vita ed il suo pensiero è ricco d’esperienze: egli può
rispondere alla domanda che la scrittrice si pone nella poesia sopraccitata.
Con la sua calma e pazienza, va un giorno a consolare
una sua compaesana lacerata per la morte crudele del proprio figliuolo,
così ragionando:
[…] non ci sono morti terribili: la morte è una sola, ed è la pace, la
fine di ogni lotta. Terribile è la vita, sorella. Ora il piccolo Ahmed,
è in una Valle luminosa, e le sue labbra bevono il latte della conoscenza;
ora i suoi occhi vedono i fiori più belli, le forme più armoniose.
Soffre la sua povera madre, che ancora vive, non lui, che è già
morto. Lui non soffre più13.
Ho scelto questo passo perché ha il vantaggio di condensare in
poche righe la saggezza espressa da uno dei beduini, ignorante, che
conduce una misera vita allo stato naturale.
4. Tutti coloro che vanno a trovare la scrittrice negli ultimi anni
prima della sua scomparsa, la definiscono come una donna nobile,
10 A. Ciampi, I canoni estetici di riferimento, in Leda Rafanelli tra letteratura e
anarchia, a cura di F. Chessa, Biblioteca Panizzi, Archivio Famiglia Berneri –
Aurelio Chessa, Atti della giornata di studi, Reggio Emilia, 2007, p. 73.
11 L. Rafanelli, Due eclissi di sole e di stella, una poesia inedita, 15 febbraio
1961, Genova, Fondo LR – Monanni.
12 Fino ad oggi, “Mastaba” viene usata, nel mondo arabo, per indicare la
panchina costruita davanti ad alcune case, come luogo d’incontro, e ci si siede
per parlare o bere specialmente nelle serate d’estate. È interessante cogliere nei
suoi testi (prosaici e poetici) l’uso delle maiuscole quando si tratta di termini ed
oggetti quali non solo hanno valore per lei, ma piuttosto perché rappresentano il
mondo rafanelliano privato ricco di conoscenze d’istinto ed esperienze profonde.
13 L’Oasi, pp. 39-40.
[8] IL FASCINO DEL MONDO ORIENTALE IN L’OASI 757
trasparente, seduta sotto un grande pannello con i 99 nomi di
“Allah”. I suoi compagni anarchici le perdonano la religiosità peculiare
che non stona, però, con quella commistione originale fra l’attività
anarchica e la pratica della preghiera e la credenza nei precetti
coranici. La questione della sua fede islamica è del tutto personale,
lasciamo che sia lei a dirlo:
[…] sono musulmana […] E – tra qualche giorno, comincia il sacro
mese di Ramadan – e spero che Allah mi permette di fare i 30 giorni
di digiuno14.
Non beve il vino perché è proibito dalla religione musulmana, e per
quanto riguarda il velo risponde al suo amico anarchico Carlo Molaschi:
Credi che voglia prendere il velo, o pronunziare i voti di castità?
[…] Il velo – quando lo metterò – sarà una sapiente astuzia per…
fingermi più giovane […] E la mia religione è di conquista della
gioia, non di rinunzia15.
Credo più conveniente dire che il compito essenziale del mio
studio, che tocca da vicino la personalità eccentrica e bizzarra della
Rafanelli, è quello di rivelare il suo individualismo nell’abbracciare
concezioni filosofiche e religiose incompatibili16.
È vero che la filosofia anarchica sente l’influenza dell’idealismo
tedesco, in particolare della filosofia di Hegel il quale considera che
la storia del mondo «non è altro che lo sviluppo del concetto della
libertà»17, di Nietzsche ed altri, riguardo alla storia, al regno di Dio,
al concetto dell’inquietudine, della libertà assoluta, e della rinascita
dell’uomo moderno. D’altro canto, l’amore per la verità, per il
superuomo (Über-Menzch) nietzschiano, e il distacco della modernità
dalle suggestioni normative del passato, sono concetti lontani
dalla religione islamica. Non esiste il Dio di Abramo, di Mosè, di
Gesù Cristo e di Maometto: la fede si basa piuttosto sull’uomo libe-
14 Ead., Lettera a Egregio Sidi Gianni Bosio, cit., p. 13.
15 Ead., Lettera a Carlo Molaschi, 5 settembre 1915, in Ead., Lettere D’Amore E
D’Amicizia, cit., p. 56.
16 Non vorrei, in questa sede, analizzare la questione del velo attualmente
divenuto un fenomeno saliente e prosperoso di molte ricerche; sottolineo soltanto
che esso ha, infatti, varie forme che puntano su questioni di ordine principalmente
religioso, poi sociale e culturale (hijab, abaya, burqa, ecc.).
17 G.G.F. Hegel, Filosofia della storia, compilata dal Dott. E. Gans, trad. di
G.B. Passerini, Capolago, Cantone Ticino, Tipografia e Libreria Elvetica, 1840,
p. 460.
758 MARWA ABDEL MONEIM ABDEL RAOUF TANTAWY [9]
ro che può sviluppare la sua umanità in cooperazione con i suoi
simili per un mondo nuovo, fondato sull’aiuto reciproco, sulla pace
e rispetto senza il bisogno di sottomettersi alla volontà del Signore.
Leda Rafanelli, scrittrice anarchica, mette al centro delle sue concezioni
la libertà di pensiero, l’aiuto generoso degli altri, l’amore per
l’umanità, l’«allegra disponibilità» per i cambiamenti; ed infine, il
rispetto delle altre religioni ed ideologie. Inoltre, comprendere la
realtà e conoscere le cose della vita la distaccano dai problemi economici
e pratici, dalle lotte per il potere; in breve, da tutto ciò che
riguarda le cose terrene. Si è detto che il suo anarchismo è «istintivo
», e potrei aggiungere che la sua religiosità è anch’essa istintiva
«appartenevo all’Islam, per costume, discendenza e Religione»18. Ciò
non vuol dire, però, che Leda nei suoi scritti fa propaganda della
sua religione musulmana, come lo fa per l’attività anarchica e rivoluzionaria,
bensì mette in rilievo la contrapposizione tra la saggezza
dell’Islam ed il mondo occidentale tecnologico, disumanizzato e
schiavo del denaro, oltre alla rappresentazione della città di Milano
(rumore, sport, arte, abilità, contrasti, ecc.)19.
Dal punto di vista della Shari’a, le regole islamiche generali richiedono
all’uomo e alla donna d’osservare i precetti religiosi, perseguire
nobili qualità morali (la generosità, la sincerità, l’altruismo, la gentilezza),
e di contribuire al benessere dell’umanità. Il che non si contrappone
alla tendenza anarchica-individualistica della scrittrice la
quale sostiene sempre che per far avanzare l’umanità, vanno profondamente
cambiate certe idee prestabilite di cui viene confermata
l’invalidità. Leda prende subito le distanze dalle concezioni di tipo
dogmatico o terroristico in nome del suo credo libertario. Pratica
l’Islam, come credente, con rispetto e libera adesione ai precetti divini
nel percorso della propria vita. La grande Oasi, tuttavia, presenta un
palcoscenico di pratiche religiose in cui tutto il creato ringrazia nella
preghiera Allah per la grazia, la fecondità e la bellezza della Terra
che spande su di esso: le bestie riposano, i cammellieri si raccontano
tra di loro delle storie meravigliose, mentre i coloni europei lavorano
18 L. Rafanelli, Leda Rafanelli – Carlo Carrà. Un romanzo, cit., p. 64.
19 Ead., Il rabdomante, «La Libertà», 5 maggio 1914. A proposito, la Rafanelli,
col suo pseudonimo Bruna, scrive sulla «Sciarpa Nera» (n. 2, giugno 1909, p.
33): «Noi non siamo indulgenti […] Amiamo più la franca e rude parola che
rimprovera […] andremo dicendo su uomini e cose, su fatti e avvenimenti, su
teorie e pensieri, su punti polemici […] ogni parola ed ogni pensiero scritto
deve essere l’espressione di un pensiero o di un sentimento di bontà e di forza
[…] La vita è realtà e non teoria».
[10] IL FASCINO DEL MONDO ORIENTALE IN L’OASI 759
con calma in armonia con la pace calda dell’ambiente desertico. Il
concetto della libertà come uno dei fondamenti islamici la Rafanelli lo
coglie con grande sensibilità sia a livello intellettuale che sociale in
modo che il percorso della sua vita resterà a lungo scevro da forme
organizzative di «tipo coattivo e proselito».
Si è fatta una religiosità tutta peculiare come un suo perfezionamento
interiore: il suo islamismo è personale, si sa infatti che Leda
era una sufi che salvaguardava molto la sua sfera intimista e privata,
forse un poco folkloristica, ma pur sempre coerente con se stessa.
Detto questo, vorrei sottolineare che malgrado i risentimenti di
alcuni verso l’Islam, l’“Oriente islamico” come viene definito da
Luca Scarlini20, ha attirato fin dal XVIII secolo molti altri occidentali
fra pittori, professori universitari, egittologi e scrittori.
Con i suoi tentativi militanti, la Rafanelli è riuscita a conciliare le
valenze anarchiche con i precetti islamici sul piano esistenziale e
dottrinario, sognando di costituire una società fondata su due istanze
fondamentali: libertà e amore. L’Amore è la freccia che colpisce
il cuore ferito di Jeanne, trasferitasi per sempre in una delle belle
Oasi del Marocco, in seguito ad una storia amorosa dolorosamente
fallita, legata ad un servo giovanissimo messo da Dio sulla sua
strada (per usare le stesse parole della scrittrice), povero ma devoto,
che resta l’essere a lei più fedele fino alla morte. Jeanne è il personaggio
più importante dell’opera rafanelliana, una donna europea
forte e serena, che trova nell’aiuto altrui e nell’amore per vecchi e
bambini il segreto della propria felicità. Essendo fatalista anche lei,
riconosce che Allah o Dio le ha donato quel mondo pieno d’esseri
buoni e sinceri di cui fanno parte le vedove povere, i bambini abbandonati
ed i giovani malati, che sono diventati come suoi figli.
Quel popolo creato per essere libero e felice non ha bisogno del
gioco illusorio dei colonizzatori che fingono d’essergli leali amici,
ma «sono sempre i primi a rallegrarsi quando la madre patria, cioè
la loro, schiaccia e disperde un nucleo di “ribelli”»21.
Dio, ch’è “Rabb Al- alamin”, cioè l’onnipotente di tutto il Creato22,
è una dottrina che non permette all’uomo l’idea libertaria di
agire da solo grazie alle sue capacità umane, come regola di vita.
Riguardo all’aspetto originale e paradossale della personalità della
20 L. Scarlini, A Oriente, in Id., Leda Rafanelli tra letteratura e anarchia, cit.,
p. 45.
21 L’Oasi, p. 194.
22 «Egli è Dio, non v’ha altro dio che lui, Conoscitore dell’Invisibile e del
760 MARWA ABDEL MONEIM ABDEL RAOUF TANTAWY [11]
Rafanelli si può cogliere che se, da una parte, ella piega alcuni
precetti religiosi alle sue scelte personali che vanno d’accordo con la
sua interpretazione “assai elastica”, dall’altra appartiene ugualmente
a se stessa, concetto, questo, del tutto estraneo all’Islam. L’Islam
è, in una parola, il “tawid” che significa la completa sottomissione
all’unicità di Dio, e tutti i credenti devono vivere sotto il cielo della
“umma” cui appartengono divenendo tutt’uno con esso.
L’Islam non vede di buon grado le figure intermediarie fra l’uomo
e Allah e le pratiche magiche derivanti dal mondo pre-islamico. Tali
figure sono rappresentate, tuttavia, nell’opera rafanelliana con uno stile
diretto ed immediato, proprio della cultura popolare, quando, ad esempio,
la scrittrice mette in luce la lugubre profezia di una fattucchiera
che sa leggere nell’avvenire tanto sulla sabbia che nel fumo del suo
braciere, tanto nelle linee della mano che nell’iride delle conchiglie:
È un nembo, lontano ancora, ma che si avanza, fatalmente […] Lo
vedo […] Sembra l’Angelo della Morte! […] si riversa sulle terre di
Occidente, come un castigo, come una vendetta! Ma tutto il mondo
avrà la sua parte di lacrime da versare […] E anche tu, povera Gamra!23
Quella vecchia donna detta Mabruka (nome arabo che significa
benedetta) che non sbaglia mai – lo dicono tutti – compie un peccato
secondo i precetti islamici, indovinando l’avvenire perché tutto
è già scritto dall’Onnisciente.
5. Se si vuol tracciare uno schema del modello idealizzato della
donna auspicato dalla Rafanelli, si dovrebbero prima mettere in
risalto le caratteristiche della sua personalità già definita bifronte,
capricciosa e proteiforme. Per usare un suo modo d’esprimersi, ella
si dà il nome “Djali” oltre il «bel nome» che porta, perché esso
significa «di me stessa»24 ed è fra i suoi pseudonimi preferiti. Aveva,
infatti, per ogni tipologia di scritti uno pseudonimo diverso: per
le fiabe Zagara Sicula, per il «Corrierino dei piccoli» usava frequentemente
Adamo, Adem, Ida o Ida Paoli (il nome e cognome della
cognata), Nada per alcuni romanzi, Djali per prose ritmiche e novelle.
La nipote afferma che la famiglia si era abituata alla sua eccen-
Visibile, il Clemente, il Misericordioso […] il Re, il Santo, la Pace, il Fedele […]
Suoi sono i Nomi Bellissimi […] egli è il Possente» (La Sura del Bando (Medinese,
24 versetti), in Il Corano, Introduzione, Traduzione e Commento di A. Bausani,
Milano, Rizzoli, 1988, p. 418).
23 L’Oasi, p. 54.
24 Ead., Memorie di una chiromante, cit., 1 maggio 1948.
[12] IL FASCINO DEL MONDO ORIENTALE IN L’OASI 761
tricità e che neppure la parola nonna era da lei preferita, ma voleva
solo essere chiamata “Leda”25, fino alla sua scomparsa.
Si ha, quindi, l’immagine d’una donna che sapeva vivere fino
all’ultimo, anelante alla libertà individuale, superiore ad ogni legge
ed autorità; ben convinta di poter dare di più e di non dover scomparire
dalla scena. La questione femminile, che ispira tanta parte
dei suoi scritti sia a livello politico-sociale che letterario, è tenuta in
considerazione dal movimento anarchico. Anzi, nonostante gli anarchici
siano per essenza ideologica atei o al massimo agnostici, all’interno
del movimento, il suo essere musulmana è stato sempre tollerato,
perché comunque è stata una buona militante. L’attività anticoloniale
ed antimilitarista in Leda si coniuga sempre con l’impegno
instancabile nei confronti delle problematiche femminili non
solo occidentali, ma anche orientali. Partendo da un’idea di letteratura
come di luogo preferito nel quale può «far liberamente giocare
interrogativi, problemi, conflitti, tipici dell’esistenza femminile»26, la
Rafanelli si immerge pienamente in vivaci contraddizioni e lotte per
la libertà contro l’ordine prestabilito.
Secondo lei le donne hanno insito corpo e anima, sentimenti
spirituali, sensualità ed amore, devozione e maternità, potenzialità
che costituiscono le virtù femminili. L’esempio di Leda ci permette,
del resto, di disegnare una piramide a base triangolare che ha tre
lati fondamentali:
25 Marina Monanni sottolinea l’estrema generosità della nonna con lei e tutti
i nipoti e racconta dell’arte particolare con cui affascinava diversi uomini (Leda
aveva rapporti con uomini di diverse credenze religiose) come se tessesse con
una forza straordinaria una tela sottile di era l’unico fulcro. Ricorda, inoltre, che
«Leda è Djali e niente può descriverla meglio […] Il suo modo di essere donna
e femmina, estremamente affascinante, femminista ante litteram, ma soprattutto
Donna tout court» (M. Monanni, Ricordo, in L. Scarlini, Leda Rafanelli tra
letteratura e anarchia, cit., p. 15).
26 T. Pironi, Da Occidente a Oriente. La ricerca interiore di Leda Rafanelli, “Storie
di donne. Il viaggio come formazione”, Convegno organizzato dalla Facoltà di Scienze
762 MARWA ABDEL MONEIM ABDEL RAOUF TANTAWY [13]
Essendo rivoluzionaria e versatile, è sicura che con le trasformazioni
radicali di certe categorie di pensiero, si verificheranno mutamenti
che condurranno anche al superamento di alcune problematiche
femminili. La Rafanelli desidera una vita quale gioioso
godimento e dono di sé e resta sempre fedele, sognando un mondo
più giusto altrove, al suo Oriente mitico. Parlando di sé, afferma di
conoscersi profondamente come anima e corpo, cuore e pensiero e:
[…] che il destino, privandomi di una bella maschera, aveva voluto
mettere a prova la mia intelligenza e la mia forza; aveva voluto
sfidarmi nelle difficili prove della vita27
Leda, nel suo “Harem”, canta la storia delle “sorelle”, e raccogliendo
i ricordi si mette ad osservare, sempre nel suo “Impero
senza sudditi”, momenti di felicità ed infelicità, vittoria e fallimento,
bontà e malvagità: «Rievoca, prima, le Creature di Luce e di Amore,
– le Creature di Bontà e di Dolore, quelle che ha messo sull’altare,
nel suo cuore»28. Il termine harem ha suscitato le fantasie degli
occidentali, soprattutto quelli vissuti in Turchia, spingendoli a raccontare
storie sulla vita dell’harem, che rappresenta condizione e
luogo in cui venivano a trovarsi le donne arabe. La parola harem è
connessa con hara|m, cioè, uno spazio proibito e custodito con le
sue norme; e harem per l’uomo orientale significa luogo dove la sua
donna e la sua famiglia devono essere protette. È un luogo comune
credere che l’harem rappresenti una fortezza nella quale vengono
chiuse le odalische pigre, passive e a volte in contrasto tra loro per
conquistare il cuore del loro padrone. Tale spazio realmente limitato
viene definito come una “terrazza proibita” da Fatema Mernissi
nel suo libro intitolato L’Harem in Occidente29. Ho aperto, però, questa
parentesi nel tentativo di precisare che l’harem può diventare un
luogo qualsiasi confinato, ricco di calore e creatività, ma dotato
sempre di rispetto; una tradizione araba con certe degenerazioni
negative, insomma, ma degna di grande rispetto.
Leda Rafanelli gode il silenzio e la solitudine ardente del deserto,
in una giornata di digiuno, e si mette, superba com’è, a intessere
le vicende di “donne e femmine” giacché ne conosce tutti gli aspetti
della Formazione (Univ. di Firenze, Polo decentrato di Livorno, 26-27 settembre
2008), p. 5.
27 Djali, Memorie di una chiromante, cit.
28 Ead., Ricordo, in Donne e Femmine, Milano, Casa Editrice Sociale, 1922, p. 7.
29 F. Mernissi, L’Harem in Occidente, Firenze, Giunti, 2000.
[14] IL FASCINO DEL MONDO ORIENTALE IN L’OASI 763
più complicati e più reali mascherati sotto le apparenze di indifferenza
o menzogna, di semplicità o grandezza. Ella è, in Donne e
femmine, l’io-narrante, onnisciente perché appare «come la vita», e
nel momento in cui disprezza le donne mediocri, quelle “pure e
vere”, di tipo forte, dotate di un certo carattere, meritano il suo
umile “inginocchiarsi”. In quest’opera riesce a passare in rassegna
una vita intera, affabulando i suoi lettori, come aveva fatto la
Shahrazàd araba nei tempi antichi, protagonista di Mille e una Notte30,
che rappresenta tutt’altro che il modello dell’odalisca sensuale
e passiva, caro all’immaginario occidentale.
6. Per comprendere meglio il tema in oggetto, occorre comprendere
il termine odalisca: dal punto di vista religioso e filosofico, la
donna e l’uomo sono due esseri “morali”, vale a dire godono di
un’intelligenza e d’una libertà di pensiero. La donna non può fare
un esame della propria esistenza se non rapportandola a quella delle
persone con cui è in rapporti ed esaminando questi rapporti medesimi.
Non ci sono, poi, prove scientifiche che evidenzino l’inferiorità
biologica della donna rispetto all’uomo. Dunque gode del pieno diritto
di disporre liberamente dei beni di sua proprietà e dei ruoli in
armonia con la sua natura femminile e della sua dignità umana,
nella vita personale come in quella sociale. Non va considerata un
oggetto di piacere ad uso e consumo dell’uomo: entrambi devono
compiere lo stesso cammino di conoscenza, di impegni, contribuendo
al benessere generale. Leda, oltre ad essere attivista e fatalista, non
può rinunciare alla sua pietà di donna ribelle contro il collettivo
macello di creature ignare, non delle donne, non rinuncia alla vita
sociale, alla protezione delle madri e dei bambini, alla campagna per
30 Le mille e una notte (titolo originale in arabo è Alf laila wa
laila) è un’opera vastissima – potrei dire – la più celebre e la più tradotta della
tradizione letteraria nel mondo arabo. Shahrazàd sta nel suo regno a raccontare,
con tanta sapienza ed alta intelligenza, storie della vita, piene di sentimenti,
amori e gelosie, violenza e salvezza. Ella riesce ad opporre alla logica
maschile della forza la magia della parola, e mediante il dialogo e l’ascolto
vince il regime cieco e tirannico del re Shahriyàr. Questi, di giorno in giorno,
rimanda l’esecuzione, incantato dalla bellezza della donna e dalla lucidità e
bravura con cui tesse ogni notte trame di racconti avvincenti. In realtà Shahrazàd
è una donna attiva, abile ed astuta, artefice della propria salvezza e di quella
delle altre donne, capace di suscitare amore nel sultano e di conservare vivo
in lui questo amore (Le Mille e Una notte, a cura di F. Gabrieli, Torino, Einaudi,
2006).
764 MARWA ABDEL MONEIM ABDEL RAOUF TANTAWY [15]
l’aumento delle nascite, al lavoro extradomestico ed al voto, andando,
in tal modo, anche oltre le rivendicazioni dell’emancipazione
femminile del suo tempo. Affrancandosi dal suo essere spesso oggetto
di abuso, la donna (come la presenta la Rafanelli nei suoi
scritti) ha bisogno di salvaguardare la propria autonomia, avere il
diritto all’amore e alla maternità. La complessità dell’anima di Leda
sta proprio in quel tentativo costante di risolvere il contrasto insanabile
«presente nella (sua) coscienza femminile, tra la parte di sé più
profonda, naturale, istintuale (l’eros, i sentimenti) e quella nazionale,
cosciente, emancipata, che vive in prima persona l’impegno politico
e sociale»31. Si può affermare che l’attualità dell’opera rafanelliana
risiede tutta nella rappresentazione di una femminilità, che giunge
al suo compimento attraverso una visione originaria della donna
araba. Ogni personaggio di Leda ha un valore emblematico: grazie
alla contrapposizione di due civiltà (o di razze, parola ripetuta decine
di volte), le due eroine, la tunisina Gamra e la Signora Jeanne,
la francese, rappresentano la dicotomia donna/femmina all’interno
delle loro rispettive società32. Se la scrittrice, nel percorso della sua
complessa esistenza, così difficile da catalogare nel quadro della letteratura
novecentesca, costituisce il modello della donna tenace, fuori
dagli schemi e ricca di contraddizioni, le immagini di donna che
appaiono nelle sue opere hanno diverse sembianze: la dolce ed obbediente,
la gelosa ed infedele, l’indipendente e passionale.
La tunisina è una giovane beduina che rinuncia alla sua vita in
tribù e alla sua fede, illudendosi di trovare la felicità con l’amante
europeo in una sottomissione totale all’interno delle mura domestiche
(una capanna modesta nell’oasi). Il significato del nome della
ragazza in arabo è, infatti, espressivo: esso indica una brace, e Gamra
difende, con ardore, il suo amore fino all’ultimo, ché non si sente
mai colpevole, consapevole del diritto d’amare e d’essere amata dal
suo padrone. Vive profondamente l’esperienza amore-passione, diventando
man mano una madama, come la chiamano le altre berbere,
e si sente allegra dentro di sé ed orgogliosa del proprio amore
ardente per il suo signore. Non si sente più la docile schiava che
dovrebbe essere felice «solo se il piede dello sposo si appoggia sul
suo petto», essendo tuttavia convinta d’essere «la sposa unica, la
31 T. Pironi, Da Occidente a Oriente, cit., p. 7.
32 Cfr. C. Guidoni, Leda Rafanelli: Donna e femmina, in Les femmes – écrivains
en Italie (1870-1920): Ordres et liberté, Chroniques Italiennes, Paris, Université de la
Sorbonne Nouvelle, 1994.
[16] IL FASCINO DEL MONDO ORIENTALE IN L’OASI 765
sola amata, la compagna di vita del suo sposo!»33. La protagonista
prova i sentimenti naturalmente femminili (la gelosia, l’amore, e più
tardi la maternità), non pensando alla sua indipendenza, anche se il
desiderio di libertà la colpisce, di tanto in tanto, come una «dolorosa
sete». È lontana da impegni sociali e, priva di contraddizioni,
non s’accorge d’aver violato con la sua scelta la legge sia della vita
che della religione (nemmeno la sfiora un istante di pentimento per
tutta la sua storia angosciosa).
Analizzando la sua personalità, direi che la giovane donna, affascinata
da una libertà apparentemente assoluta, quella delle donne
d’oltremare, sfugge al suo destino avendo fede nell’uomo delle terre
lontane, in quella figura gentile e nobile che non fa lavorare la
sua donna come una “bestia”, né la batte lasciandola libera d’andare
sola per la strada e di parlare con chi incontra perché la ama e
rispetta. Tutto ciò lo ripete tante volte a se stessa ed alle donne
indigene come se «recitasse una lezione mandata a memoria»34, diventando
schiava del suo amore ed accettando di giocare il ruolo di
«femme animale» senza chiedersi mai il perché.
L’autrice, nel cogliere tutta la naturalità e fecondità del personaggio,
aderisce a certi valori della cultura araba in modo da
concretare alternative alla vita politico-sociale del mondo e del pensiero
occidentali. Gli avvenimenti drammatici, aggiungerei, sia a
livello privato che storico (la morte dei genitori, il rapporto interrotto
con Giuseppe Monanni, la guerra mondiale, il colonialismo, la
repressione del Regime) giocano un ruolo essenziale nel rifiuto di
un presente inaccettabile e nella ricerca di un rifugio altrove.
7. L’altra eroina de L’Oasi è la signora francese: Jeanne è simbolo
della donna eccezionale nel modo di vita; in lei è facile cogliere i
caratteri peculiari della personalità della scrittrice. D’estrazione borghese,
dal padre eredita il carattere sicuro; è colta e superba della
sua intelligenza al pari d’un uomo, anche se consapevole della sua
modesta bellezza. Veste il burnus indigeno compagno, agendo come
se fosse un uomo con la forza virile innata dentro di sé. Si sente,
però, donna nel vero senso della parola:
[…] sono stata donna, elegante, raffinata, gentile […] appassionata e
ardente, fidente nel mio destino, se pure un istinto segreto mi ren-
33 L’Oasi, p. 127.
34 Ivi, p. 150.
766 MARWA ABDEL MONEIM ABDEL RAOUF TANTAWY [17]
deva quasi consapevole che la mia fede doveva essere messa a dura
prova di fronte alla crudele realtà della vita35.
Nonostante la sua indipendenza, si è costruita una vita nuova,
abbandonando i valori occidentali per quelli dell’Oriente e dell’Islam,
perché ama un egiziano, in cui ritrova la fede, la patria e la famiglia.
In amore non si avverte mai la diversità di razza e, essendo
innanzitutto donna/femmina, Jeanne non vede contraddizioni nelle
sue scelte, perché la sua femminilità «passa al di sopra di ogni altra
realtà»36.
La Rafanelli, che lotta per tutta la vita per la sua libertà e per
quella delle altre donne, difende la solidarietà femminile tra le due
donne, che, rimaste sole dopo la scomparsa tragica dei loro uomini,
decidono di allevare un piccolo orfanello. Il destino, peraltro, diventa
generoso mandando loro quella creatura innocente che le spinge
a cominciare un’altra vita, in un avvenire che non sarà più oscuro.
La tunisina e la francese appartengono ormai a quella gente incapace
di discutere teorie astratte o temi letterari o di analizzare idee e
sentimenti, ma che gode la propria mentalità serena e libera che
«dona troppe cose belle»; di fronte a tanta bellezza gli stranieri non
fanno altro che prendere e sfruttare come «rapaci». Ma non si può
vivere per sempre da stranieri, anzi ci si deve adattare allo stile di
vita perché, se si cerca di dominare o sottomettere coloro che sono
nati in una terra, essi preparano le loro «vendette».
La scrittrice, non a caso, appare molto severa nei confronti delle
signore borghesi, soprattutto quelle che sono più femmine che donne.
Ella grida all’uguaglianza ed alla libertà per le donne proletarie,
il cui lavoro faticoso viene sprecato nella vita lussuosa e brillante di
quelle marionette eleganti. Sono i pensieri di una donna sovversiva
che si ribella in modo che «sappia conquistare il benessere al quale
gli dà diritto la legge naturale della vita»37. Modello della donnacivetta
è, nel romanzo, la francese Annetta: simboleggia la donna
desiderosa d’avventure e denaro, la cui volontà sta soltanto nel
soddisfare la propria bellezza e le sue passioni. È la moglie ipocritamente
onesta per eccellenza, gode la sua libertà tradendo il marito,
colonnello francese e ricco mercante, durante i suoi viaggi. Sen-
35 Ivi, p. 62.
36 L’Oasi, p. 101.
37 Ead., Ad una signora borghese, Lettera aperta, Firenze, s.d., Libreria Rafanelli
– Polli E C. Firenze, p. 6.
[18] IL FASCINO DEL MONDO ORIENTALE IN L’OASI 767
tendosi padrona di ciò che vuole, prova un gran disprezzo per
quella bruna beduina, una donna sudicia e cupida. Usufruendo di
tutte le sue malizie e menzogne, e sotto apparenze falsamente subdole,
cerca di conquistare il padrone della ragazza araba, un suo
indigeno: «[…] la bruna Beduina era limpida, chiara, sincera, buona
come la luce solare, – e la bionda e pallida francese era oscura e
insidiosa come la notte stessa»38.
Il confronto tra le due donne di differente estrazione non avviene
solo sul piano della bellezza, ma soprattutto della passione di
ognuna di loro. Tutte e due sanno che cosa fare, ma diversamente:
se la straniera è consapevole del potere delle sue parole lusinghiere
per tendere una trappola ai due amanti, l’indigena beduina è perfettamente
consapevole della menzogna della commedia, (lo straniero
che non tiene mai fede al suo amore per lei, ma piuttosto ai propri
desideri ed ambizioni), di cui fa parte diventando «un animale
mimetico» per eccellenza senza accorgersene. Annetta prova la gelosia
per un amore sbagliato, Gamra è gelosa perché è convinta che
l’amore sia tutta la sua vita. Grazie ad esso quest’ultima non sarà
più oggetto di lusso o di piacere, mai più una concubina, tale da
essere abbandonata con disonore, giacché il suo Sidi è tanto forte
che «saprà vincere anche il cattivo destino». Il carattere selvaggio la
spinge a difendere il suo bene anche fra calde lacrime ed amare
gelosie ché si sente superiore alle altre indigene, le quali provano
diversamente gli stessi suoi sentimenti. La beduina, con la propria
scelta, appare tutt’altro che superiore: rappresenta una figura pallida
e marginale in confronto a Jeanne, perché accetta d’essere solo
una femmina e dentro di sé è convinta della sua inferiorità rispetto
alle altre donne d’oltre mare. Quanto s’è detto concerne un’arte
particolare, che la scrittrice definisce “istintiva” e potrebbe essere
proficua non solo per le donne musulmane, ma anche per tutto il
genere femminile:
Prima di tutto la convinzione, profonda e sentita, della superiorità
maschile, il bisogno di obbedire all’uomo, di amarlo […] Il desiderio
di dargli gioia […] e, infine di apprezzare la felicità che solo un
Amante può dare. Inoltre non chiedere mai niente oltre l’Amore […]
di dare sempre senza misura […] Un uomo è sempre superiore ad
una Donna, anche se la donna è saggia e intelligente come lo ero
io39.
38 L’Oasi, p. 218.
39 Ead., Leda Rafanelli – Carlo Carrà. Un romanzo, cit., p. 130.
768 MARWA ABDEL MONEIM ABDEL RAOUF TANTAWY [19]
8. Come ho già avuto modo di osservare, il segreto della felicità
per lei non consiste nella bellezza femminile (si sa che Leda era
magra e bruna e modesta di “plasticità” simile ad una “stilizzata
statuetta egizia”), né nel desiderio di lusso o nel denaro, ma piuttosto
nel provare la soddisfazione della conquista mediante la forza e
la volontà. Tutti noi aneliamo al raggiungimento della felicità, molti
percorrono inconsapevolmente il cammino della loro esistenza.
Quando si comprende dove sia la felicità, è ormai troppo tardi,
perché essa è nel cuore dell’uomo, è proprio il suo essere e non sta,
come credono in molti, nelle ombre, cioè nelle cose temporanee.
Distinguere fra il bene e il male, il peccato e la virtù, il giusto e lo
sbagliato può condurre allo scopo principale. Perciò, i sufi chiamano
Dio l’Amato e lo vedono in tutti gli esseri dell’universo: essi
vivono in uno stato di perfetta serenità con le proprie anime, avendo
trovato ormai la pace, scopo ultimo della vita.
Anche Leda seguiva una sua stella per essere guidata verso l’Isola
Felice, in cerca di bagliori di luce per trovare la via della felicità
prima del suo tramonto definitivo. Quasi antitetica appare la figura
d’una delle sue eroine, che va contro corrente come una piuma in
balìa del vento, galleggiando dietro la felicità che in realtà non
possiede, finché non perderà le forze per sempre.
Un altro tema che si può essenzialmente collegare alla felicità è
quello dell’amicizia, unico mezzo per fuggire dalla noia e dal cerchio
chiuso d’una vita. In diverse occasioni la Rafanelli parla delle
sue amicizie sia nella sua corrispondenza che nei racconti e romanzi:
l’amicizia esprime, per lei, bei momenti in cui si stringe un legame
di sangue fra fratelli o padri, Sahib (in arabo: amico) o Qalbi (in
arabo: cuor mio), compagni d’idee e d’affinità intellettuali. È un
rapporto che va al di sopra dell’affetto e dell’amore (che può essere
in certi casi nemico della pace del cuore come dice Leda). Si dice
che tra uomo e donna non possa esistere l’amicizia, ma per Leda
non è stato così, poiché «non tutti gli uomini sono come te né le
Donne come me. Anzi, nessuno lo è all’infuori di noi»40. I rapporti
amichevoli che instaurava con i compagni di vita la conducevano a
costruire sempre un vero e proprio nucleo familiare. La casa ammobiliata
all’uso orientale, in viale Monza a Milano, ospitava i suoi
sahib nella piccola stanza di “harem”, per trascorrervi serate più
40 Ead., Lettera di L. Rafanelli a Carlo Molaschi, 25 marzo 1918, in Lettere
D’Amore E D’Amicizia, cit., p. 83.
[20] IL FASCINO DEL MONDO ORIENTALE IN L’OASI 769
possibilmente lontane dalle lotte, dai momenti dolorosi, in cerca di
pace e di serenità.
Il valore della vera amicizia si basa sulla verità e non sull’ipocrisia
e dissimulazione. Ciò avviene nel momento in cui Henry, lo
straniero “infedele” «si sentiva quasi diminuito di fronte a sé stesso
[…] che non si sarebbe mai potuto assimilare a gli indigeni»41. Malgrado
sia più civile, più moderno e più pratico, questo artista francese
è incapace di descrivere come quegli uomini nomadi siano
umili come “mendicanti” ed al tempo stesso fieri come “principi”,
né di capire la diversità di idee ed opinioni che lo separa sostanzialmente
da loro. E non solo, il suo pensiero compara, in una notte
insonne sotto il cielo sereno, l’atteggiamento d’una beduina con il
marito fisicamente indebolito, con la reazione della moglie francese
nei confronti del suo uomo stanco. Egli va col pensiero alla libertà
«immorale» che gode la donna europea e le permette d’attendere
con pazienza e consolazione la guarigione del marito malato, prendendosi,
però, un amante «non stanco» sotto il tetto coniugale. La
sposa orientale non appagata dall’amore del coniuge, lo sfugge invece
di restargli accanto ingannandolo. Henry scopre d’essere molto
lontano dall’anima degli arabi, e, caduta l’illusione del primo entusiasmo,
si pente di tutto.
Due istinti sono fondamentali nella natura di donna o femmina
che sia: la maternità e la sensualità. Questi sentimenti istintivi sono
da Leda evocati per più versi nei termini di diritto ed uguaglianza
fra uomo e donna. Le protagoniste dei suoi scritti, come s’è già
visto, s’interrogano sulle loro passioni ed i loro sentimenti dal momento
che tutte, anche le meno belle, hanno diritto all’amore felice
e all’espressione dei propri desideri. Il concetto della maternità, del
resto, viene inteso dalla scrittrice «come dono d’amore»: è da ricordare
la vicenda della povera berbera che vuole legare a sé il suo
uomo europeo tanto amato avendo da lui un bambino. Tale dono
diventa tragicamente una catena da spezzare: non più la gioia serena
di sentirsi madre, ma il malessere fisico e spirituale fa di Gamra
«la femmina sfiorita per la maternità», la cui giovinezza fresca e
sorridente sparirà per sempre. L’angelo della morte, come le diceva
sempre la vecchia fattucchiera, ha travolto non solo le terre dei
“rumi”, ma anche tanti altri innocenti ne sono colpiti. Le altre donne
beduine sono, invece, felici d’avere bambini legali dai loro padroni.
La maternità, che si configura come doloroso sentimento di
41 L’Oasi, p. 205.
770 MARWA ABDEL MONEIM ABDEL RAOUF TANTAWY [21]
tristezza e disperazione per questa piccola ragazza, viene positivamente
interpretato in diversi scritti rafanelliani come vita serena e
sicura, una missione semplice ma immensa, pure con tutte le difficoltà
che possono presentarsi. Lasciamo che sia lei a descriverlo nel
suo racconto intitolato Una mamma:
Ella assomigliò, in quell’istante, alla Madonna di un artista celebre,
una Madonna umana, viva, splendente nella sua aureola di maternità
[…] finì la sua vita non come una vecchia stanca, ma come una
sacra donatrice di vita42.
Leda, inoltre, si occupa della poligamia del mondo arabo beduino,
criticandola aspramente ed osservando come le due spose, creature
deboli, d’un fellah si sacrifichino molto nei viaggi per il suo servizio,
invece d’essere da lui protette. Con l’Islam la pratica di avere
molte mogli, già presente nella società, fu regolata facendo assumere
agli uomini delle responsabilità nei confronti delle loro mogli.
L’uomo deve originariamente capire che il matrimonio è un contratto
sacro così come la famiglia. Se le donne oggi non hanno più
bisogno di un “protettore” che le faccia apprezzare in società, sono
colte, lavorano, possono mantenersi, regolare la loro vita produttiva,
il Corano sancisce esplicitamente l’obbligo di equità e giustizia
verso le spose affermando: «e se temete di non essere giusti con
loro, una sola»43. La poligamia islamica si giustifica dunque con
l’esigenza di giustizia sociale e col bisogno di non essere preda
delle proprie passioni. L’idea della famiglia va intesa come unità
coniugale all’interno della quale i legami tra i due coniugi, genitori
e figli svolgono un ruolo fondamentale. Modello della collaborazione
fra due donne è rappresentato da Nigma, la moglie invecchiata
del nomade pastore e Warda, la giovane sposa forte, che vivono
insieme in un intimo accordo e s’aiutano nel campo del loro padrone.
È questo, come afferma il dottor François Marcel, il dovere della
donna araba, non contaminata dall’emancipazione in uso nel mondo
occidentale del tempo.
9. Il dottor François Marcel viene considerato il più interessante
fra i personaggi maschili dell’Oasi: la sua eccezionalità non consiste
soltanto nell’essersi convertito ad un’altra religione, ma piuttosto
nel cambiamento totale del suo aspetto fisico e spirituale. È venuto
42 Ead., Una mamma, in Donne e femmine, cit., pp. 39-40.
43 La Sura delle donne (Medinese, versetto: 3), in Il Corano, cit., p. 54.
[22] IL FASCINO DEL MONDO ORIENTALE IN L’OASI 771
in Africa al seguito di una spedizione scientifica e governativa per
ordine dello Stato e non ritornerà più in patria. Lavora il suo orto
come un povero fellah indigeno, e, dopo aver speso tutta la sua
ricchezza per i bisognosi, sposa una berbera avendone due figli. Il
suo aspetto di Pascià non cela la simpatia che ispira agli arabi i
quali l’hanno soprannominato “Sidi – el- kerim”, cioè il signore
generoso, dote peculiare e cara che risale al Generoso, uno dei più
bei nomi di Allah. Egli rappresenta la saggezza popolare sicché
sembra al suo connazionale un indigeno intransigente e ribelle contro
la protezione francese:
Ho amato l’Oriente non attraverso il sorriso e le carezze di una
donna, ma conoscendolo palmo a palmo, ammirandone la bellezza
naturale, le impronte secolari del genio umano, imparandone la favella,
adottandone i costumi, osservando la sua Religione che è Legge
di saggezza virile e di libera carità44.
Da ciò si può capire che la convivenza con quella gente soddisfatta
del proprio destino e pacificata con se stessa, lo conduce alla
scoperta di ricchezze più preziose, alla comprensione più libera della
vita ed alla visione di una civiltà più umana. Parla della sua razza
come di una maledizione, sulla quale si abbattono insaziate sete di
guadagno ed inquietudine illusoria di conoscenza; e contempla la
semplicità e la serenità d’un popolo disarmato, ugualmente dignitoso
della fede, che lascia fare a Dio. Riassume la saggezza araba in
poche ma grandi parole, affermando che il veleno della dominazione
e dello scetticismo occidentali non può corrompere la tranquillità
del loro “el- hamdullillah e insciallah”.
Il concetto della donna del dottor François Marcel è, inoltre, eccezionale
rispetto a quello occidentale: la moglie è una brava e
buona donna che deve essere rispettata e che deve amare il suo
uomo e servirlo con devota obbedienza. Come ricompensa, egli le
procura il cibo, l’ospitalità e la soddisfazione della sua sensualità.
Trova una cosa normale sposarne più d’una, ma gli basta una sola
compagna di vita, il che fa capire quanto sia forte l’influenza che
esercita quella vita, da lui definita bella e seducente, sulla sua persona.
Non è per lui, quindi, questione d’esotismo o di sogni di
lontani orizzonti, egli è riuscito a vedere «l’anima dietro le parole»,
dipingendo un quadro in cui s’oppongono chiaramente due modelli
di vita, di donne ed uomini.
44 L’Oasi, p. 185.
772 MARWA ABDEL MONEIM ABDEL RAOUF TANTAWY [23]
La Rafanelli descrive un tipo d’uomo semplice che conduce una
vita non contaminata dalla tecnologia moderna, come se vivesse
fuori del tempo senza ansia del futuro perché ciò che vale per lui
è la sua realtà presente. La diversità fra le due civiltà viene rappresentata
in diverse occasioni ed è rappresentata mediante il sentimento
di straniamento e distacco che prova Henry durante lo scoppio
del primo conflitto mondiale, trovando la reazione dei suoi
connazionali uguale a quella del popolo sottomesso. Nessuno può
essere d’accordo con i principi e valori apparentemente nobili che
egli propaganda riguardo al colonialismo delle Nazioni civili: «che
si agonizzino tra di loro i bravi soldati e lascino tranquilli i paesi
che non chiedono altro che di essere lasciati in pace!»45. È l’unico
che giustifica, con l’ipocrisia dei propagandisti letterati, la prospettiva
paternalistica del protettorato, lo sfruttamento della ricchezza
delle colonie, l’asservimento degli indigeni, pur nutrendo un certo
interesse e simpatia per quella gente ed un sentimento d’amore
per una ragazza beduina. Tutto sarà, però, vano: «sono come la
goccia d’olio agitata in un bicchiere d’acqua […] avete voglia di
agitarla, di mescolarla! resta la goccia d’olio nell’acqua!»46. L’uomo
europeo non può vivere in armonia con quell’ambiente, data la
sua smania di sapere tutto, la mancanza di fede e la tensione verso
il futuro.
La dura denuncia, che si può cogliere nei discorsi fra queste
coppie di personaggi opposte, non va d’accordo con certe idee principalmente
anarchiche che la Rafanelli abbracciava come la proiezione
verso l’avvenire, la fede nel progresso e nella ragione dell’essere
umano libero, l’importanza della modernità con lo sviluppo
scientifico e tecnologico. Risulta evidente, del resto, che la scrittrice
non poteva contemporaneamente rinunciare né alla sua militanza in
favore della liberazione dei popoli oppressi, occupandosi essenzialmente
della solidarietà verso quella gente, tanto da farne, anche
attraverso i suoi scritti, la primaria essenza della propria vita, né
alla sua profonda passione per l’Oriente. Le sue convinzioni pacifiste
la tengono a distanza dalla propaganda per l’interventismo (definiva
esecrato l’“armiamoci e partite”) e dall’intento di monopolizzare
potere e cultura. Vive un’esistenza “irregolare e caotica” andando
per la sua strada contro corrente, assicurando pur tuttavia di
trovarsi bene anche se il Destino la tiene lontana, insomma, dai suoi
45 Ivi, p. 268.
46 Ivi, p. 190.
[24] IL FASCINO DEL MONDO ORIENTALE IN L’OASI 773
cari (Terra, Mare, Deserto)47. La sua è, dunque, una vita complicata
e difficile, ricca di ricordi, avvenimenti e sconvolgimenti, noti soprattutto
«per quanto di romanzesco ed affascinate essi rappresentano
»48. Abbraccia l’anarchismo individualista, ma a modo suo, e,
fedele alle sue idee politiche e convinzioni religiose, Leda attende
alle sue molteplici attività ed impegni (è da ricordare il suo assiduo
e faticoso lavoro di pubblicista49 e tipografa), animata dall’ideale di
libertà che illuminava il suo cammino. La sua vita specialmente nella
maturità è stata dolorosa e difficile, ma è stata sempre pronta ad
affrontarla con grande forza d’animo. Queste sue caratteristiche
evocano la figura di quei figli del deserto che vivono fieri e nobili
i loro giorni; ciò che conta per loro è la realtà d’oggi ché di domani
non sono sicuri: è nelle mani di Dio.
La natura inquieta, associata ad una buona memoria, le permette,
nella sua produzione letteraria, di intrecciare momenti salienti
della storia d’Italia ed avvenimenti significativi della sua vicenda
personale. La scrittrice rimane volutamente estranea ai fatti narrati,
ai personaggi direttamente conosciuti ed incontrati nella sua vita, in
modo che i suoi scritti siano considerati soprattutto per i contenuti
storici e letterari. A tal riguardo Alessandra Pierotti pone in rilievo
il valore storico che assume la sua vita, rilevandone l’«autentica
testimonianza storica»50.
10. Fra realtà ed immaginazione, Leda assume le sembianze del
serpente simbolico di Nietzsche, strisciando sulla terra, e distesa al
sole, per accennare «le insidie degli abissi che chi guarda in alto
non scorge»51. Gli oggetti che raccoglie nella sua stanza privata continuano
ad avere un valore fino alla sua scomparsa: trova aderente
ai suoi desideri uno scarabeo in terracotta visto in una libreria.
L’oggetto, che viene percepito come esterno, può essere considerato
47 L. Rafanelli, Lettera di L. Rafanelli a Sidi Aurelio Chessa, Genova, 21 settembre
1965, in Lettere D’Amore E D’Amicizia, cit., p. 11.
48 M. Granata, Lettere D’Amore E D’Amicizia, cit., p. 25.
49 Con il suo compagno di vita, per un certo periodo, Giuseppe Monanni,
Leda dirigeva una delle case editrici più importanti del primo Novecento e la
più importante iniziativa editoriale degli anarchici dell’epoca, che diffondeva
ampiamente opere e scritti di grandi scrittori ed intellettuali stranieri ed italiani.
50 A. Pierotti, Le pagine di Leda Rafanelli, in Leda Rafanelli tra letteratura e
anarchia, cit., p. 36.
51 L. Rafanelli, Lettera di L. Rafanelli a Carlo Molaschi, 25 marzo 1918, in
Ead., Lettere D’Amore E D’Amicizia, cit., p. 83.
774 MARWA ABDEL MONEIM ABDEL RAOUF TANTAWY [25]
come un’entità effettivamente separata da noi, ma può essere considerato
anche come qualcosa che interagisce “affettivamente” con
l’individuo.
Secondo gli Egizi, a mo’ d’esempio, lo scarabeo viene identificato
con la divinità che dona la vita, cioè il Sole, poiché nel compiere
il tragitto per depositare il proprio seme, compie esattamente lo
stesso percorso del Sole: muore ad Ovest, per poi ricomparire il
giorno seguente ad Est.
Ho aperto questa parentesi per porre in rilievo che l’immagine è
di per sé un linguaggio indeterminato, evocativo, e dotato di segni
che assumono valore simbolico in relazione al significato che attribuiamo
a ciò che osserviamo o al valore pragmatico degli scopi
della comunicazione. A questo riguardo, vale la pena soffermarsi
sulla scena in cui l’autrice descrive vivamente gli oggetti preziosi
che la vecchia fattucchiera prepara per leggere ciò ch’è scritto nel
destino della ragazza beduina:
Mabruka tornò ad allungare il braccio verso le gulle; ne prese una
che era piena di sabbia. Non però della sabbia insipida e grigiastra
del litorale, ma una sabbia fine, dorata, preziosa: sabbia che veniva
certo dalla sacra terra dei Faraoni […] sembrava versasse dell’oro52.
Gli elementi di sabbia, fuoco e fumo, che appaiono qui, fanno
parte dell’immaginario che rappresenta l’arte antica con cui si pretende
d’intuire ed interpretare il destino grazie ad una virtù particolare
ed una forza ignota agli altri uomini comuni. L’insieme del
clima, del comportamento e dell’abito dell’indovina (galabiàh nera e
lunga, braciere, benzoino, conchiglie) dipingono, invece, il quadro
di una realtà vissuta, la vita quotidiana e la somma delle esperienze
di quell’individuo.
Già da quanto emerso, appare evidente che le immagini da cui
Leda è colpita le si fermano nel cervello e con la sua inconscia
fantasia, cioè la capacità di creazione, cerca un mondo da contrapporre
come alternativa a quello moderno dell’imperialismo, del
potere, delle macchine.
Le sue attività molteplici non si limitano, però, a scrivere articoli
dai toni fortemente polemici sul piano delle lotte sociali, ma anche
si appuntano sulle differenze di classe, con la speranza viva di
redenzione umana e riscossa sociale. Leda attacca, con la propria
consapevolezza e sensibilità umana, i ricchi ed i grattacieli, le ville,
52 L’Oasi, p. 52.
[26] IL FASCINO DEL MONDO ORIENTALE IN L’OASI 775
i palazzi costruiti solo per loro; mentre i poveri vivono senza tetto
soffrendo la schiavitù e l’ingiustizia, in un periodo storicamente
disorientato e di disagio. Il suo pensiero anarchico non significa,
peraltro, odio o ribellione, condanna o sdegno: essendo anarchica
dovrebbe essere “superiore”, come sostiene, per natura. Ciò ch’è
giusto, bello e morale, oppure civile, umano ed indispensabile nelle
società attuali, lo vede, insieme ai ribelli e rivoluzionari, come ingiustizia,
menzogna e schiavitù. Scrive, ben convinta del suo orientamento
diverso dal nichilismo:
Più vicina all’animo umano e più sincera è la concezione opposta,
quando l’individuo aspira al bene, alla pace e alla bontà e sente tutte
le forze contrarie opporsi alla sua ascesa verso la perfezione53.
Leda non era il tipo di donna che lottava per l’uguaglianza fra
uomo e donna né per ottenere, per le donne, gli stessi posti da
sempre riservati all’uomo. È contro-corrente e contro il dogma (a lei
piace dirlo) perché trova ingiusti certi tribunali e leggi, oscure le
celle delle prigioni, ed immani le fatiche e le sofferenze degli operai
e proletari. La festa del primo maggio viene da lei criticata come
ritualizzazione dell’evento ed afferma, in uno dei suoi opuscoli
antimilitaristi, che ci sarà una festa per il proletariato quando verrà
liberato dallo sfruttamento del capitalismo e dall’oppressione del
dogma54.
Il mondo si presenta, secondo le sue idee particolari, sotto due
aspetti: uno viene visto dalla classe ricca borghese, l’altro lo vede a
rovescio la classe povera ed umile. La visione del mondo è, in
effetti, qualcosa che resta sempre soggettiva: per me, come per gli
altri, vedere il mondo serve a capire quel poco che è possibile capire;
per la Rafanelli, invece, la cosa è diversa. Il fascino di questa
scrittrice rivoluzionaria non deriva tanto dalle sue capacità intellettuali,
quanto dal suo interesse ed impegno verso le cose semplici e
piccole d’una realtà complessa e dai contatti diretti ed attivi col
mondo esterno. Tutto nella vita è carico di significati: il che chiarisce
lo stile diretto ed efficace con forti toni ad effetto dei suoi scritti.
Negli ultimi anni si guadagnava da vivere dipingendo calligrafie
islamiche, facendo l’insegnante di lingua araba e scrivendo alcuni
articoli per la rivista anarchica «Umanità Nova». Negli ambienti
53 Per un’informazione più dettagliata si veda Ead., Noi, Nulla, «Nichilismo»,
5-20 aprile 1920, in FLR.
54 Ead., Primo maggio, Firenze, Rafanelli-Polli e C., s.d.
776 MARWA ABDEL MONEIM ABDEL RAOUF TANTAWY [27]
sovversivi e in quelli della sinistra milanese, la Rafanelli veniva
considerata fra gli ingegni, “un personaggio” che ha il merito d’essere
stimato per le sue idee e per l’impegno nei diversi campi della
società presente.
Scompare lentamente pronunciando qualche parola incomprensibile
per la nipote che le stava vicina («sarà stata un’invocazione ad
Allah? Probabilmente sì»55), dopo aver indossato una “gellabja” gialla
che Leda conservava fra altri oggetti cari nella sua stanza privata o
per meglio dire nel proprio harem. In un giorno vicino alla sua
morte la Rafanelli ha pensato d’essere un personaggio immortale e,
direi, lo è, alla fine d’un lungo percorso creato da se stessa, insistendo
nell’essere sempre protagonista delle sue scelte. Aveva scoperto
con una profonda soddisfazione che nella sua vita libera ciò che
valeva non erano più i dolori e le delusioni o le fatiche e le malattie,
ma piuttosto la buona amicizia fatta con i compagni di strada, dai
più umili ai più illustri, che erano i soli a darle la luce ed il calore
nella vita. Essere buoni, giusti e pazienti, tenere la testa a posto
sono gli ingredienti per la saggezza d’una donna in gamba che fra
ribelli, refrattari ed individualisti è rimasta semplicemente “Lei”.
Marwa Abdel Moneim Abdel Raouf Tantawy
(Università “Ain Shams” – Egitto)
55 M. Monanni, Post-fazione, Leda Rafanelli – Carlo Carrà. Un romanzo, cit., p.
24.
GIULIA CACCIATORE
Nel laboratorio di Bufalino
The essay aims at reconstructing the genealogy of Bufalino’s works
by tracing in his second novel, Argo il cieco (published in 1984), the
nucleus from which Qui pro quo, Tommaso e il fotografo cieco and the
unpublished Guazzabuglio originated. The physician-patient
relationship on which Argo is based allows the author to maintain
that La coscienza di Zeno is the “ideal model” of Bufalino’s novel.
Bufalino1 donò al Fondo Manoscritti di Autori Moderni e Contemporanei
dell’Università di Pavia, nel 1989, i materiali preparatori
di Diceria dell’untore (1981), Museo d’ombre (1982), Argo il cieco ovvero
i sogni della memoria (1984), e la raccolta di racconti L’uomo invaso
(1986). Sebbene gli autografi, manoscritti e dattiloscritti, siano grosso
modo completi, ovvero contengano tutti i testi realmente pubblicati,
in una lettera del 25 ottobre 1988 indirizzata a Maria Corti,
l’autore precisa di non aver accluso alle stesure di Diceria e Argo
tutta la documentazione in suo possesso: «ho recuperato il materiale
da un caos di vecchie carte, sono dunque assenti porzioni di testo
e precedenti stesure chissà dove smarrite»2.
Del secondo romanzo Argo il cieco, oggetto privilegiato del mio
studio, sono presenti al Fondo Manoscritti tre cartelle: la prima ri-
1 Le citazioni dei romanzi di Bufalino provengono dal volume G. Bufalino,
Opere 1981.1988, a cura di M. Corti e F. Caputo, Milano, Bompiani, 20012. Per
ciascuna opera sarà riportata l’abbreviazione seguita dal numero di pagina:
Diceria dell’untore (DU); Argo il cieco (AC); mentre la sigla degli autografi ACS
sta per Argo il Cieco Scartafaccio come indicato dal catalogatore.
Per le opere di Svevo, Senilità (S) e La coscienza di Zeno (CZ), il testo di
riferimento è I. Svevo, Romanzi, a cura di B. Maier, Milano, Dall’Oglio, 1969; il
romanzo incompiuto Il vegliardo (V), invece, è citato da I. Svevo, Romanzi e
«Continuazioni», a cura di M. Lavagetto, Milano, Mondadori, 2004.
2 La lettera è riportata integralmente da Francesca Caputo in appendice al
volume Gesualdo Bufalino e la scrittura felice, a cura di A. Sichera, Ragusa, EdiArgo,
2006.
778 GIULIA CACCIATORE [2]
porta sul frontespizio la dicitura autografa «ARGO IL CIECO/Fiaba/
Guazzabuglio/Capitoli già fatti 1-2-3-4-19/Roba inutile/ (N.B:
Fiaba nera/primo titolo di/Argo il cieco)» ed è costituita da circa
250 fogli, tutti sciolti, sia dattiloscritti che manoscritti, testimonianti
una stesura “magmatica” nonché intermedia rispetto alla lezione a
stampa. La seconda è composta da circa 140 carte, perlopiù bifoli3,
corrispondenti ad una fase già avanzata del romanzo mentre l’ultima,
la terza, consta di due fascicoli entrambi in fotocopia (l’originale
del primo è conservato presso la Fondazione Bufalino di Comiso),
dattiloscritti e rilegati che raccolgono rispettivamente i capitoli da I
a VIII bis il primo, da IX a XVIII ter il secondo. Mancano dunque
i primitivi materiali dell’opera.
La trama di Argo, com’è noto, è costruita sui ricordi inventati di
Gesualdo che ricorre alla scrittura per guarire la sua nevrosi; egli
compone dunque un “memoriale” rivolgendosi al suo interlocutore
immaginario, il lettore. Dalla “prima” stesura magmatica, si ricava
che l’idea iniziale del romanzo non si basava sulla dialettica narratore/
lettore bensì prevedeva, quale destinatario delle proprie memorie,
un medico, chiamato ironicamente «Herr Doktor». Diverso
era anche il nome del protagonista: Serafino.
Questi due elementi rimandano inevitabilmente ad un racconto
apparso lo stesso anno di Argo, il 1984, e confluito dopo due pubblicazioni
precedenti4 nella raccolta L’uomo invaso con il titolo Dossier
Lo Cicero. Il protagonista, Serafino Lo Cicero, è in cura presso la
clinica “Robert Walser” diretta dal dottor Fritz Bernasconi per rimuovere
gli impulsi suicidi cui è soggetto, dovuti ad evidenti disturbi
psichici. Il dottor Bernasconi presenta ad un congresso il “romanzo”
scritto a scopo terapeutico da Lo Cicero durante il periodo
3 Lo scrittore usava la carta copiativa per ottenere due copie pulite sulle
quali lavorare: sulla prima apponeva le correzioni mentre lasciava intonsa la
seconda. Se le modifiche riguardavano, invece, porzioni di testo più estese,
Bufalino riscriveva il frammento corretto per poi ritagliarlo e incollarlo con lo
scotch sul foglio dattiloscritto o manoscritto.
4 La prima sulla rivista letteraria «Acquario» con il titolo Relazione del dottor
Fritz Bernasconi accompagnata dall’“avvertenza”, probabilmente di mano dello
stesso autore poiché l’articolo non è firmato, «Si pubblica qui il primo capitolo
del romanzo ancora incompiuto di Gesualdo Bufalino, Il Guazzabuglio»; la seconda
il 6 gennaio 1985 sul quotidiano «La Sicilia» intitolato Nel guazzabuglio di
Bufalino, con un sottotitolo più articolato, tuttavia riconducibile allo stesso autore,
«Il primo e finora unico capitolo di un romanzo incompiuto di Gesualdo
Bufalino, Il guazzabuglio. Nessuno e nemmeno l’autore, sa se lo scrittore in un
improvviso ritorno d’ispirazione darà un seguito a queste pagine».
[3] NEL LABORATORIO DI BUFALINO 779
di degenza affinché il pubblico di «esperti e medici dell’anima»5 ne
analizzi il caso clinico. L’omonimia con il personaggio del Dossier e
la tematica del confronto malato/dottore non sono occasionali ma
pervadono la “prima” stesura di Argo il cieco e si sviluppano, propagandosi,
all’interno di capitoli chiave come quelli della fuga di
Maria Venera, dell’innamoramento di Serafino per quest’ultima oltre
che per Cecilia e, infine, anche in quello conclusivo.
Nel terzo capitolo, fondamentale nell’economia del romanzo
poiché dà inizio all’azione, Serafino aiuta il nonno di Maria Venera
a ricondurre a casa la ragazza fuggita con l’avvocato Virgadaula:
Allora non potei che cominciare a carezzarle i capelli, piano, come si
fa con l’anziana micia di casa, e poi tutto il viso, secondo che lo
indovinavo al buio e riconoscevo a memoria la fronte, larga, bianca,
su d’una coppia d’occhi callidi e misteriosi, con un’aria, nel guardare,
di cocciutaggine e sazietà. Come di chi abbia un pensiero solo e
non voglia dividerlo con nessuno; poi quel naso così perfidamente
affilato, le labbra che sembravano fare all’amore fra loro… Me ne
veniva, devo dirlo? una languidezza, un rimescolìo… Serafino, ma
che succede?6.
Il giovane s’innamora di Maria Venera ma anche di Cecilia, una
bellissima calabrese compagna del ricco barone Sasà Trubia; indeciso
fra le due, Serafino cerca conforto in Amalia, sua confidente e
amante occasionale, che gli consiglia di sposarsi:
Serafino, qui dobbiamo spiegarci. Io ti vedo dimagrire come una
sarda. E so che non è colpa mia, di queste pochezze che facciamo.
Diceva buonanima mia chi fa l’amore s’ingrassa, chi lo vede fare si
scassa. E aveva ragione, queste cose mettono sangue. Ma tu, la tua
quartara è da un’altra parte che perde. Tu hai la mente sparpagliata,
il cuore farfarello, a questo punto ti conviene sposarti7.
Infine, come il Serafino del Dossier, anche il Serafino di Argo
scrive il suo libro di memorie felici nella clinica “Robert Walser”, da
quanto si evince in un fascicolo8 contenente quello che doveva essere
il finale del libro:
5 G. Bufalino, Dossier Lo Cicero, in Id. Opere 1981.1988, cit., p. 543.
6 Il passo si trova in ACS, 281 n.d.c.; 18 n.d.a.
7 ACS, 323 n.d.c., 18 n.d.a. Il nome Serafino verrà cambiato in quello definitivo
di Gesualdo proprio in un rifacimento di questo brano, esattamente a p. 44
n.d.a.
8 Il fascicolo è costituito da un insieme di bifoli classificati ACS, 76-82 non
780 GIULIA CACCIATORE [4]
Supino qui, stanotte, a sessant’anni e passa, ragionevole età per
morire, non altrettanto per scrivere, in una matrimoniale del Robert
Walser [poi corretto in Hotel Sole] dove aspetto l’alba, sommando,
come monete d’avaro, parole, con una penna esausta sul rovescio
d’una pianta di città9.
In un rifacimento dello stesso capitolo, inoltre, il protagonista
racconta di essere scampato alla morte perché avvertito da un messaggio
anonimo che gli preannunciava che sarebbe stato investito:
Non so chi […] aveva aggiunto di frodo a conclusione di tutto una
sin troppo esplicita coda di nota obituaria con tanto di testimonianze
di vigile al Largo di Santa Susanna e contro deduzioni dell’AR,
Assicurazioni Romane, essendo che la polizza escludeva dal beneficio
le vittime del decesso artificiosamente voluto.
Cassato dalla lezione a stampa, questo episodio è confluito nell’edizione
definitiva del Dossier in cui, appunto, Serafino troverà la
morte proprio perché investito al Largo di Santa Susanna10.
Il rapporto fra il dottore ed il paziente, inoltre, è presente sia in
questa stesura di Argo che in quella pubblicata sull’Antologia del Campiello11
nel 1981 con il titolo Di un’estate felice (corrispondente, salvo
coincidenti con la numerazione dello scrittore. Tuttavia è interessante notare che
la prima di queste numerazioni d’autore fosse 19 e richiama quindi i «capitoli
già fatti» [1-2-3-4-19] indicati sul frontespizio della cartella ARGO IL CIECO/
Fiaba/Guazzabuglio.
9 Questo passo, come tutto il contenuto del capitolo, confluirà senza grandi
cambiamenti nella lezione a stampa.
10 Nella stesura originaria del Dossier, proprietà del Fondo Manoscritti di
Pavia, Lo Cicero non muore ma abbandona la clinica Robert Walser; mentre in
quella posseduta dalla Fondazione Bufalino, completa e definitiva, salvo poche
varianti, il dottor Bernasconi annuncia la morte di Serafino.
Il legame tra il racconto e Argo è confermato anche dallo stato delle carte:
quelle del primo, infatti, si presentano molto ingiallite rispetto alle altre che
costituiscono i lavori preparatori de L’uomo invaso in cui il Dossier è accluso e,
sul verso, riportano tre poesie dattiloscritte de L’amaro miele: Malincuore, il giorno
del santo; “Intermittence” in via Rosolino Pilo; Risorgimento. Le stesse poesie e lo
stesso progressivo ingiallimento della carta ritroviamo anche per alcune carte di
Argo che, a ben vedere, sono proprio quelle in cui il protagonista risponde al
nome di Serafino.
11 Subito dopo aver vinto il Campiello con Diceria dell’untore, Bufalino pubblicò
questo come altri frammenti inediti (Umoresca del non dormire poi in Cere
perse del 1985 nella sezione Svaghi; un passo da La passione del personaggio;
qualche poesia da L’amaro miele e, infine, qualche traduzione di Baudelaire) in
una sezione chiamata Miscellanea dai vecchi cassetti. L’Antologia raccoglie, inoltre,
[5] NEL LABORATORIO DI BUFALINO 781
alcune varianti, ai primi due capitoli di Argo) in cui il racconto del
protagonista è intervallato dal dialogo con il suo medico:
Alt, che ne dici signor specialista? A te preme che io racconti di tenerezze
e contentezze lontane, no? T’importa poco il genere e il modo, purché la
cosa, medicina o placebo, funzioni. […] Herr Doktor, va bene così? Artefatto
e fatuo abbastanza?.
Questa dialettica, dunque, si rivela centrale nell’elaborazione di
Argo soprattutto perché s’inseriva nei capitoli cosiddetti “bis” aventi
la funzione di sorreggere l’impalcatura romanzesca poiché in essi
l’io narrante interrompeva i ricordi della sua giovinezza modicana
per tornare al «nero presente», quello della cura psicoanalitica12, e
rivolgersi al suo dottore.
Il primo sviluppo di Argo, i due capitoli che ne anticipano la
pubblicazione (Di un’estate felice) e parte del Dossier, erano dunque
amalgamati in un’unica complessa materia cui Bufalino aggiungeva
progressivamente sostanza fino a farne una miscela di vari generi:
ora falso memoriale ora pseudo autobiografia ora una sorta di giallo
in cui il paziente avrebbe dovuto indagare chi tramava per ucciderlo,
per poi scoprire che l’assassino era il paziente stesso; tutto ciò
tenuto insieme da una “babele” di citazioni sia nascoste nel testo
che dichiarate apertamente (si pensi all’evidente suggestione sveviana
del rapporto medico/paziente).
Nel novembre 1982, però, Bufalino decide di suddividere questo
“nucleo romanzesco” in due parti, come risulta dal seguente appunto:
«Copia di lavoro (novembre 1982)/ Dividere Guazzabuglio da
Fiaba/ Utilizzare per entrambi vecchio Guazzabuglio/ Decisione
nov. ’82»13. L’indicazione autografa è fondamentale innanzi tutto
gli scritti dei finalisti del Premio tra cui Tonino Guerra e Anna Banti. Cfr.,
Antologia del Campiello, a cura dell’Associazione degli industriali della provincia
di Venezia, 1981, pp. 61-68.
La minuta del testo è conservata presso la Fondazione Bufalino di Comiso
mentre è in fotocopia, e priva di correzioni, al Fondo Manoscritti di Pavia. Il
titolo, come si ricava dall’originale, doveva essere Di un’estate felice, nel ’51 che
rimanda inevitabilmente sia all’incipit di Argo che a questo suo frammento: «Fui
giovane e felice un’estate, nel cinquantuno. Né prima, né dopo: quell’estate».
12 A conferma che il metodo fosse quello psicoanalitico, in ACS 114 si legge:
«Dopotutto – oh le interminabili sedute, lo stretto lettino, le domande, le risposte!
– dopotutto la tua diagnosi era stata: perdita d’aggressione, sindrome servile
».
13 L’appunto, in un foglio sciolto catalogato ACS 282, consente a Francesca
Caputo di datare l’opera: «L’avvio dell’elaborazione, stando a una indicazione
782 GIULIA CACCIATORE [6]
per chiarire che la datazione di Argo non risale, come sinora sostenuto,
al 1982, poiché a questa data parte dell’opera esisteva già nel
Guazzabuglio e, in secondo luogo, perché consente di individuare il
“nucleo” generatore degli altri romanzi via via pubblicati: il “vecchio”
Guazzabuglio (che identificheremo con Guazzabuglio A), infatti,
dà vita ad un altro Guazzabuglio, il “nuovo”, (che chiameremo Guazzabuglio
B) rimasto inedito ma dal quale discendono a loro volta sia
il terzultimo che l’ultimo romanzo di Bufalino, Qui pro quo (1991) e
Tommaso e il fotografo cieco ovvero Il Patatràc (1996)14. È necessario,
quindi, tentare una revisione cronologica del Guazzabuglio A e, con
esso, di Argo il cieco.
In una cartella conservata dalla Fondazione Bufalino, contenente
la stesura del Guazzabuglio B, si trova un documento15, un foglio
protocollo sciolto sul quale è incollato un dattiloscritto con correzioni
autografe, riportante una data, 12 gennaio, una numerazione, 3
bis16, il titolo Dell’autore sul libro che sta scrivendo. Presunzioni e Pensieri
e un’annotazione sul margine superiore «Dal quaderno del ’70
intitolato e interrotto subito dopo una settimana». Dal raffronto fra
quanto contenuto in questo dattiloscritto e la versione a stampa di
Argo si può constatare la quasi totale assenza di cambiamenti; inoltre,
la numerazione 3 bis implica l’esistenza di capitoli precedenti:
da ciò s’intuisce che Bufalino doveva aver progettato nel ’70 un
autografa […] dovrebbe risalire al novembre ’82». Cfr., Note ai testi, in G. Bufalino,
Opere 1981.1988, cit., p. 1354. Come abbiamo visto nell’indicazione autografa
apposta sulla cartella contenente questo materiale, Fiaba nera è il primo
titolo di Argo il cieco.
14 Bufalino era solito riutilizzare, oltre ai nomi di alcuni personaggi, anche i
titoli come nel caso de Le menzogne della notte per il quale pensò a Qui pro quo
adottato invece per l’opera successiva, così come lo stesso Guazzabuglio, che
doveva dapprima essere usato per Argo e poi adoperato per un capitolo de Le
menzogne (Il racconto del soldato ovvero Il guazzabuglio) e, infine, come vedremo,
per l’inedito (Guazzabuglio B); è proprio questa malleabilità dei titoli e dei personaggi
a rendere maggiormente difficoltosa una ricostruzione dei rapporti fra
i testi.
15 La presenza di questo foglio protocollo all’interno della cartella contenente
il giallo inedito il Guazzabuglio (B), non ne implica necessariamente l’appartenenza
poiché lo stesso Bufalino, come abbiamo visto, specifica nella lettera a
Maria Corti di non aver donato al Fondo tutta la documentazione esistente delle
stesure di Diceria e di Argo.
16 Il «3 bis» dovrebbe indicare un capitolo, non un numero di pagina giacché
il titolo del documento rimanda a quello della lezione a stampa di Argo (Primo
dubbio dell’autore sul libro che sta scrivendo) anch’esso rispondente alla sezione III
Bis.
[7] NEL LABORATORIO DI BUFALINO 783
romanzo su un’idea ben precisa, interrotto, come indicato nell’annotazione,
dopo una settimana. L’incipit («Alt, sto sbagliando tutto»)17,
inoltre, rimanda non solo a quello di Di un’estate felice precedentemente
analizzato, ma, addirittura, a due appunti autografi, da me
individuati, in due stesure preparatorie del primo romanzo di Bufalino,
Diceria dell’untore. Il primo è rintracciabile nella stesura classificata
D, da considerare intermedia poiché si situa fra quella G
risalente, secondo la datazione autografa apposta alla fine del romanzo,
al Dicembre 1971, e quella catalogata E sul cui frontespizio
Bufalino scrive «Ultima redazione (estate ’77)»18. In D, sul verso di
pagina 3 (n.d.a.), si rinviene un ampio brano di mano dell’autore:
Alt, sto sbagliando tutto. Ego scriptor, senza paragone più ipocrita
di te, mio dissomigliante e caino lettore. Mio inesistente doppio, a
cui sussurro dal fondo di uno specchio. O da un camino spento. Sto
sbagliando e non me ne importa, questa sera del sessantaquattro, in
una stanza d’albergo del “Central Corona”, mentre aspetto una prostituta./
Io sono un’abile ciarlatano.
In E19, infatti, Bufalino richiama quanto scritto in D: «(Intercalare
altro brano?) Alt, sto sbagliando tutto. (?)».
Non è privo di fondatezza, dunque, supporre che il Guazzabuglio
A, di cui Argo il cieco è parte integrante, sia stato abbozzato nei
primi anni ’70, elaborato lungo tutto questo decennio e poi ripreso
nell’81 per la pubblicazione di Di un’estate felice e, infine, suddiviso
nel novembre 1982. Argo e il Dossier saranno pubblicati mentre il
Guazzabuglio B rimarrà inedito e assolverà alla funzione di libro
“canovaccio” da cui Bufalino trarrà materiale e ispirazione per i
successivi romanzi.
17 Per ovvi motivi legati ai diritti d’autore e nel rispetto della volontà manifestata
dallo scrittore di lasciare inedita l’opera, non saranno citati, come in
questo caso e salvo pochi frammenti, passi estratti da il Guazzabuglio B.
18 Nelle Note ai testi relative a Diceria, Caputo inverte la stesura G e quella E
poiché considera la prima, la G, quale «ultima stesura» (senza tuttavia riportare
la datazione autografa «Dicembre 1971») e la seconda, la E, come «stesura completa
» adducendo a suffragio di quanto asserito la dicitura autografa «Terzultima
redazione», anziché «Ultima redazione» (non credo siano possibili fraintendimenti
poiché l’annotazione «Ultima» è scritta da Bufalino con la lettera maiuscola e,
inoltre, il testimone è ben conservato e non sussistono macchie o sbavature
d’inchiostro che possano pregiudicarne una chiara lettura). Cfr. Note ai testi, in
G. Bufalino, Opere 1981.1988, cit., pp. 1326-1331.
19 Il passo si trova anch’esso, come il precedente, a p. 3 n.d.a., stavolta sul
recto.
784 GIULIA CACCIATORE [8]
Il motivo tematico centrale, la dialettica medico/paziente, è presente
anche in Diceria la cui stesura, risalente com’è noto ai primi
anni ’50, viene sottoposta ad una continua revisione dal ’70 in poi.
Il rapporto conflittuale fra l’io narrante ed il medico della Rocca, il
Gran Magro, vi riveste un’importanza strategica poiché scandisce
anche il ritmo dello svolgimento narrativo: dalla complicità dei due
nei primi giorni di degenza del protagonista al sanatorio, all’ostilità
causata dall’amore di entrambi per la ballerina Marta, alla riappacificazione
finale dopo la morte di lei. Diverso però è l’approccio di
Bufalino con la materia romanzesca, che con Argo segna una nuova
fase non più caratterizzata dalla parabola della “scrittura necessaria”
di Diceria, volta ad esorcizzare l’esperienza drammatica della
malattia tramite il potere consolatorio della parola20, ma contraddistinta
dalla “scrittura ludica”, incentrata sul valore duplice della
letteratura di trucco e di frode.
Dopo averne ricostruito la cronologia, vediamo cosa ha comportato
la suddivisione del Guazzabuglio A.
Nella «locandina» (così Bufalino intesta il riassunto della trama)
di Guazzabuglio A è condensato il contenuto sia di Argo che del
Dossier Lo Cicero:
Uno scrittore malato di nervi racconta al medico, per terapia, una
stagione della sua giovinezza. E la immagina, la inventa felice. Però
più procede nel racconto, più ogni memoria gli si stravolge in favola,
in fanfaluca. Falso e vero s’intrecciano, salute e malattia giocano
a scambiarsi le parti, una tentazione di morte volontaria affiora sotto
la penna21.
Il richiamo ad Argo è ovvio, ma anche all’originaria stesura del
Dossier, la cui trama non prevedeva, come abbiamo visto, la morte
20 Carlo De Matteis parla di «“apprendistato di morte” giacché la morte è in
sostanza il nodo centrale dei romanzi di Bufalino» che si esorcizza solo attraverso
la scrittura «che guarisce, al di là della salute fisica, l’autore della Diceria, che salva
dalla disperazione del ricordo il narratore di Argo, che realizza, oltre la morte, il
progetto di libertà dei quattro condannati de Le menzogne, che, infine, cura
terapeuticamente, nell’ideazione di un cerebrale divertissement, l’autore-narratore di
Qui pro quo» in Id., L’invenzione romanzesca di Bufalino, «Lettera dall’Italia», Istituto
della Enciclopedia Italiana, a. VI, n. 24, ottobre/dicembre 1991, pp. 8-9.
21 L’appartenenza di questa locandina al Guazzabuglio A è confermata dal
fatto che, dopo la suddivisione del novembre ’82, Bufalino esegue uno «Spoglio
del Guazzabuglio», come si legge in un foglio sciolto manoscritto contenuto
nella cartella di Argo, nel quale egli rimanda all’«Ipotesi di Digest», titolo, appunto,
di questa locandina.
[9] NEL LABORATORIO DI BUFALINO 785
di Lo Cicero. Un riscontro sulla provenienza di B da A si ottiene
paragonando la medesima locandina a quanto dichiarato dall’autore
in un’intervista, concessa a Salvatore Signorelli per il quotidiano
«Il Mattino» del 24 gennaio 1985, in merito proprio al primo capitolo
(il Dossier appunto) del Guazzabuglio B:
In realtà ho scritto solo il primo capitolo. Si tratta di un’idea che
ancora non ho sviluppato. Non so se ne avrò il tempo, la voglia e la
salute. L’idea si riallaccia a questa di «Argo». Il titolo sarebbe «Il
guazzabuglio»: racconta ancora di uno scrittore: recatosi in cura presso
una clinica svizzera, poi scappato via e, sembra, morto suicida, dopo
aver lasciato frammenti di un romanzo. Allora il medico curante,
uno specialista, presenta questi frammenti ad una assemblea di colleghi.
Il resto non l’ho ancora scritto. Chissà se lo farò mai? Per ora
è solo un’ipotesi. Non so proprio che cosa ne verrà fuori…22.
Il Guazzabuglio B, dunque, si riallaccia all’idea di Argo non solo
perché protagonista è ancora una volta uno scrittore ma anche, come
abbiamo visto, per lo sviluppo narrativo della dialettica dottore/
paziente già sperimentata proprio nella prima elaborazione di Argo.
Nel 1996, alcuni anni dopo, Bufalino invece afferma:
Poco dopo Diceria dell’untore scrissi di getto un romanzo sperimentale,
Il guazzabuglio, che però considero una miniera da cui trarre
pagine per altri libri23.
Apparentemente discordanti fra loro, le due dichiarazioni (quella
del 1985 e del 1996) sono entrambe esatte e veritiere poiché, a ben
guardare, l’equivocità risiede nei titoli: Bufalino, infatti, con «romanzo
sperimentale» e Guazzabuglio, indica sicuramente il primo
22 S. Signorelli, La controfigura della memoria, «Il Mattino» (Napoli), 24 gennaio
1985. Il titolo dell’inedito è Il guazzabuglio ma, per ovvi motivi di chiarezza,
ho preferito omettere l’articolo ed indicare l’opera come Guazzabuglio B e distinguerla
così da Guazzabuglio A.
23 La dichiarazione è riportata nella Nota ai testi, in G. Bufalino, Opere
1988.1996, a cura di F. Caputo, Milano, Bompiani, 2007, p. 1425; non sono specificati
però l’autore ed il titolo dell’articolo. L’unica informazione fornita è la
testata giornalistica e la data: «Il Gazzettino», 7 gennaio 1996.
Nello specifico, l’autore dichiara che Argo il cieco «è un romanzo di strutture
e di segni, un romanzo semiologico» e, in questa prospettiva, si potrebbe considerare
l’opera “sperimentale”, in quanto forse persegue lo sviluppo e lo svolgimento
del romanzo coevo. Cfr., G. Bufalino, Cur? Cui? Quis? Quomodo?
Quid? Atti del wordshow-seminario sulle maniere e le ragioni dello scrivere, Taormina,
Associazione Culturale Agorà, 1989, p. 60.
786 GIULIA CACCIATORE [10]
(Guazzabuglio A) ma, implicitamente, si riferisce anche al secondo,
B, inedito che ha mantenuto il nome del primo perché da esso
deriva intrattenendovi evidenti legami.
Il Dossier, dunque, diventa “cornice” del Guazzabuglio B la cui
parentela è avvalorata a sua volta non solo dal nome del protagonista,
Serafino Lo Cicero, ma anche dallo svolgimento dell’intreccio che
il Dossier stesso anticipa: su consiglio del Dottor Bernasconi il paziente
scrive un giallo il cui sviluppo è elaborato nell’inedito24: Lo Cicero
e l’amico Paolo Iaccarino tentano, a proprio rischio, di recuperare una
pellicola che li scagionerebbe dall’accusa per l’assassinio di una ragazzina
avvenuto durante una festa scabrosa con politici e uomini
dell’alta borghesia romana. La storia si trova in Tommaso e il fotografo
cieco ovvero Il Patatràc, l’ultimo romanzo di Bufalino il quale attinse
sicuramente al Guazzabuglio B giacché, confrontandone il dattiloscritto
con la lezione a stampa di Tommaso, è possibile individuare nell’inedito
porzioni di testo evidenziate in penna rossa con due linee verticali
sul margine del foglio ed effettivamente confluite nel libro invece
pubblicato. Con lo stesso procedimento, Bufalino ricava dall’inedito
parte di alcuni dialoghi che confluiranno anche in Qui pro quo25. La
24 L’inedito Guazzabuglio (B) è costituito da un dattiloscritto incompleto con
correzioni di mano dell’autore di 97 fogli conservati in una cartella con dicitura
autografa «Guazzabuglio».
25 Ad oggi l’unica ipotesi riguardo i rapporti fra l’inedito e le altre opere è
stata delineata da Giuseppe Traina in una nota (a p. 118) contenuta nel saggio
L’uomo invaso (ed altre considerazioni), in Simile a un colombo viaggiatore, a cura di
N. Zago, Comiso, Edizioni Salarchi Immagini, 1988, pp. 103-124.
Secondo Traina il Guazzabuglio inedito «doveva essere un romanzo giallo, la
cui stesura precedette certamente la pubblicazione dell’Uomo invaso ma anche di
Argo il cieco: come si ricava dal dattiloscritto conservato presso la biblioteca
Bufalino di Comiso, Bufalino utilizzò stralci, temi, idee e personaggi di questo
lungo racconto per la stesura di Argo il cieco, Qui pro quo e Tommaso il fotografo
cieco; […] da questo grande “semenzaio” deriva anche Dossier Lo Cicero». Traina
sostiene dunque che il dattiloscritto il Guazzabuglio B, ovvero il poliziesco di Lo
Cicero, sia servito a Bufalino quale spunto per la stesura di Argo il cieco, Qui pro
quo, Tommaso e il racconto/cornice Dossier Lo Cicero confluito, appunto, ne L’uomo
invaso. Aggiunge poi che «la provenienza [del Dossier Lo Cicero] dal “Guazzabuglio”
spiega anche perché questo racconto rechi tracce anche del finale di
Tommaso e il fotografo cieco (la morte di Lo Cicero pedone per investimento
stradale) e di Qui pro quo [mi venne di suggerirgli (ma in forma più di celia e
di ricreazione che d’altro) di scrivere, lui scrittore tanto interiore, un poliziesco
d’azione]». L’argomentazione di Traina prende le mosse dall’analisi sia del
dattiloscritto che del materiale contenuto nella cartella del Guazzabuglio B ma,
probabilmente, non dalla documentazione riguardante le stesure di Argo il cieco,
che proverrebbe proprio da questo inedito di cui non fornisce però, a differenza
[11] NEL LABORATORIO DI BUFALINO 787
struttura a incastro, una cornice entro la quale si inserisce e sviluppa
il racconto del protagonista, è costante nella narrativa bufaliniana da
Tommaso a Argo il cieco a Le menzogne della notte (1988).
È evidente dunque come Bufalino continuasse a lavorare al Guazzabuglio
B parallelamente alle opere che invece andava via via pubblicando,
in parte derivanti da questo incompiuto, nel quale, come
è possibile constatare dai materiali contenuti nella cartella ad esso
relativa, raccoglieva idee e appunti sparsi da poter riutilizzare, talvolta
rimanipolati, in altre sedi.
Riportare alla luce il Guazzabuglio A, retrodatarlo di un decennio,
e con esso Argo il cieco, aiuta a comprendere ancor meglio la poliedricità
di Bufalino che, durante la stesura e la successiva revisione
di Diceria, attendeva anche a questo romanzo e, com’è noto, si cimentava
altresì con la poesia, la saggistica, la traduzione accumulando
con estrema proficuità un corpus di scritti del tutto eccezionale
«testimonianti una vocazione letteraria di antica data»26.
Ancor prima dell’esordio clamoroso, l’autore aveva dunque progettato
quello che doveva essere un romanzo “nuovo”, sperimentale,
costruito sulla mescolanza di generi letterari amalgamata a vecchi
e nuovi espedienti narrativi, un romanzo che contenesse in sé
tutte le premesse di quelle tematiche in seguito sviluppate. Questo
dei gialli Tommaso e Qui pro quo, indicazioni o citazioni esemplificative in merito.
Questa ipotesi ha senz’altro il vantaggio di offrire una prima indicazione
per approcciarsi ad una “genealogia” delle opere, sebbene non contempli l’esistenza
del Guazzabuglio A.
Francesca Caputo invece, partendo proprio dalle affermazioni di Traina,
rintraccia la corrispondenza onomastica con il personaggio dell’inedito «Paolo
Iaccarino che, conservandone nome e tratti caratteriali, diventerà il collega-filosofo
di Argo il cieco» (La Caputo è incappata in una svista poiché, nel citato
romanzo, il «collega-filosofo» risponde al nome di Pietro e non di Paolo: «Era
il mio amico più amico, dei due colleghi che ho detto, il già quarantenne poeta
e filosofo Pietro Iaccarino») (AC, 255). Le identità onomastiche, tuttavia, non mi
sembrano ragioni così forti da consentire una possibile ricostruzione dei rapporti
fra i testi, essendo anch’esse espedienti cari allo scrittore siciliano: in Calende
greche, infatti, torna Pietro Iaccarino (AC), in Tommaso è nominato Licausi (AC),
in Argo c’è il Gran Magro (DU), e solo per fare qualche esempio, la stessa
Caputo cita Mundula, Minchia, Cesare, Ines, Rosa per lo stesso Tommaso. Cfr.,
Note ai testi, in G. Bufalino, Opere 1988.1994, cit., p. 1426.
26 C. De Matteis, in L’invenzione romanzesca di Bufalino, cit., p. 8, colloca la
narrativa bufaliniana, analizzandone i tratti salienti, e soffermandosi in particolar
modo su quelli linguistici, in quella feconda «“linea siciliana” la cui specificità
letteraria, al di là della tematica isolana, consiste nella tensione sperimentale e
nell’accentuata espressività linguistica dei testi che contribuiscono a costituirla».
788 GIULIA CACCIATORE [12]
“groviglio”, come lo stesso titolo Guazzabuglio evoca, si snoderà,
infine, in tutte le opere che, sebbene pubblicate, si rivelano ancora
oggi, per molti aspetti, del tutto inesplorate.
Io mi considero uno scrittore anomalo […] mi accingo alla pubblicazione
con l’eterno rimorso di consegnare un’incompiuta alle stampe.
Nel senso che considero l’opera alla quale sto lavorando come una
specie di opus perpetuum, il cui sigillo dovrebbe essere posto dalla
morte dello scrittore.
Stabilito questo, per me non c’è mai un’edizione definitiva ne varietur,
e io soffro questa ambivalenza fra parola e silenzio, questa oscillazione
fra logorrea e omertà, questo negarmi e offrirmi insieme: ciò
che io chiamavo, in una mia lontanissima poesia27, “gogne guardinghe
del cuore”. Ebbene, le mie opere, prima di pubblicarle, le considero
sempre semplici prove, prime stesure, che mi vengono poi
strappate dalle mani dalla vita, continuando a vivere come creature
imperfette. […] Per me l’opera è sempre aperta e cammina in progresso,
verso un futuro naturalmente segnato dalle stelle, che è la
fine della mia scrittura, coincidente con la fine della mia vita28.
1) Ascendenze sveviane in Argo il cieco
Il rapporto medico/paziente emerso dalla “prima” stesura di
Argo il cieco e, di conseguenza, nel Guazzabuglio A, suggerisce inevitabilmente
una lettura in chiave sveviana giacché molti sono i rimandi
alla narrativa di Svevo e tante le criptocitazioni bufaliniane.
«Io prescrivo, tu scrivi» è, infatti, l’imperativo con il quale il medico
esorta il paziente in Di un’estate felice a scrivere e suona come l’incitamento
dello stesso Dottor S. a Zeno: «Scriva! Scriva! Vedrà come
arriverà a vedersi tutto intero»29. Nonostante il personaggio del
medico sia stato poi cambiato in quello del «connivente» e «succube»
lettore, l’ascendenza sveviana continua ad essere centrale influenzando
sia le tematiche della scrittura come terapia, del ricorso alla
memoria, della menzogna a danno del lettore/dottore sia la caratterizzazione
e il sistema dei personaggi. Se per il primo aspetto,
quello tematico, Bufalino trae ispirazione dai romanzi La coscienza di
Zeno e l’incompiuto Il vegliardo, per il secondo, per delineare il profilo
dei personaggi, trova un fecondo modello in Senilità.
Com’è noto, la narrativa sveviana descrive la parabola di un’esistenza
soffermandosi dapprima sulla vicenda fallimentare del giovane
27 La poesia è Suasoria, in G. Bufalino, L’amaro miele, Torino, Einaudi, 19963.
28 Id., Cur?, cit., pp. 146-148.
29 CZ, 602.
[13] NEL LABORATORIO DI BUFALINO 789
Alfonso Nitti, poi sulla svogliata emancipazione sentimentale di Emilio
Brentani per approdare alla cura psicoanalitica dell’adulto Zeno Cosini
e poi concludersi, infine, con la vecchiaia dello stesso Zeno coincidente
con un bilancio esistenziale, un consuntivo, del tempo passato.
La stessa evoluzione del personaggio si ritrova anche in Argo,
sebbene “intermittente”, in cui Gesualdo è “fratello” di Emilio nei
capitoli dedicati al ricordo dell’«estate felice del ’51» mentre assomiglia
ai “due” Zeno in quelli bis legati al presente.
Al di là delle evidenti differenze stilistiche, il dato più macroscopico
è l’inattendibilità del narratore «un narratore che alterna verità
e reticenza, che coincide solo parzialmente con quanto vorrebbe far
dire alle sue parole e, anche, con quanto le sue parole dicono alle
sue spalle e contro le sue censure»30.
Tuttavia Bufalino dedicò allo scrittore triestino un solo contributo31,
il ritratto di Zeno Cosini nel Dizionario dei personaggi di romanzo del
1982, che, compilato come un repertorio dei personaggi più importanti
della storia della letteratura, l’autore definì il libro dei libri, registro di
un romanzo ideale e infinito, voce delle migliaia di personalità di carta
che occupano il nostro immaginario letterario. Nell’Introduzione, innanzi
tutto, egli rammenta la caratteristica del compilatore di crestomazie
«individuo nocivo, da fidarsene poco»32 che, mentre seleziona, esercita
la propria tirannia sul testo nonché sulla sua ricezione. Fatta questa
premessa, Bufalino passa ad illustrare le varie “fasi evolutive” del
personaggio, facendo riferimento, fra gli altri, proprio a Zeno Cosini.
Ecco dunque la descrizione del protagonista de La coscienza:
I personaggi dell’Ulysses, parola di Svevo, camminano “col teschio
scoperchiato”. Diversamente lui, Zeno Cosini, uomo cosa, uomo di
troppo, quanto più sembra frugarsi e svelarsi, tanto più si nasconde
dietro preziose malefedi e schermi d’umore, coltivando – in guerra
col medico che potrebbe, magari, guarirla – la sua nevrosi come un
privato vizio da camera. Eroe rovesciato di un’esistenza d’atti man-
30 M. Lavagetto, La cicatrice di Montaigne. Sulla bugia in letteratura, Torino,
Einaudi, 2002, p. 221.
31 L’assenza nel repertorio bufaliniano di contributi in merito all’opera sveviana
non va letta come indice di scarso interesse ma, al contrario, come un’omissione
volta a confondere le possibili interpretazioni dei suoi libri, essendo quello
delle criptocitazioni uno dei tanti giochi che egli amava sottoporre al lettore.
32 G. Bufalino, Dizionario dei personaggi di romanzo, Milano, Il Saggiatore,
1982, p. 1. È interessante che quest’opera sia stata composta negli anni ’70, cioè
proprio nello stesso periodo in cui Bufalino elaborava, come abbiamo visto,
anche Argo il cieco.
790 GIULIA CACCIATORE [14]
cati e disguidi, al quale rimane un sogno soltanto, di giudizio e
salvezza universale: la terra che galleggi, esplosa e vacante d’uomini,
nel silenzio degli spazi purificati33.
La nevrosi, infatti, porta Zeno da un lato a mentire, dall’altro a
praticare la scrittura come vizio solitario e come antidoto contro il
proprio malessere, pertanto, il movente che spinge alla scrittura sia
Zeno che Gesualdo è la malattia. Ma qual è la patologia che affligge
i due personaggi? Definirla sembra quasi impossibile. È un disagio
mentale, talvolta descritto in chiave ironica, scaturito da un irreversibile
sentimento della sconfitta personale, dal senso di frustrazione per le
occasioni perdute cui si aggiunge un progressivo disgregamento fisico
e mentale causato dall’invecchiamento: la “degenerazione”. La senilità
diventa, per entrambi, non solo una condizione propria dell’età
ma un malessere che agisce anche sulla mente ed è vissuta, quindi,
come un castigo al quale i due personaggi non intendono arrendersi.
Emblematico, per fare un esempio, è il dolore all’anca che coglie Zeno
nei casi, e solo in quelli, di particolare tensione psicologica.
Zeno è certamente un «malato immaginario», come sostiene
Augusta, sa che nessuno è in grado di guarirlo, prova sfiducia e
diffidenza nella scienza medica ma persevera tenacemente nella ricerca
di una cura rivolgendosi sospettosamente a più specialisti
sebbene ritenga fallimentari, a priori, i loro rimedi; Gesualdo si descrive35
come «metastasi da capo a piedi», non solo per il propagarsi
del tumore ma per lo sconfinamento del male nella mente e ricerca
anch’egli rimedio nella scrittura.
Nella primitiva stesura di Argo anche Serafino rivelava: «La gamba
è di nuovo pesante, la trascino come morta, un ghiaccio. Verrà
comodo alibi al Largo di Santa Susanna…». La zoppia altro non è
che una manifestazione fisica di un disagio psicologico; ecco perché
il paziente comincia a sentire dei benefici dopo le cure psicoanalitiche:
«Pareva un gioco salvifico, per un po’ ha funzionato, ripeto. Cessarono
le emicranie, la paura della folla, la paura di stare solo: ricominciavo
a muovere la gamba»35.
33 Ivi, p. 419.
34 «Una sessantina d’anni, una settantina di chili, la vecchiezza dietro la
porta; biancheria che odora di creolina […] polso lento, senile […] dentro l’orecchio
un fruscìo di pioggia che non cessa mai […] puntini senza numero mi
ballano davanti nel buio. […] E soprattutto, giorno e notte, quel dolore, quella
volpe qui, dove premo la mano» (AC, 398).
35 ACS, 110 e 115.
[15] NEL LABORATORIO DI BUFALINO 791
Corpo e mente costituiscono per entrambi un meccanismo, un
ingranaggio che il tempo sottopone ad usura:
Perché dunque ieri, in filobus, quel sentimento di sinistra letizia
quando il pungiglione all’ipocondrio destro mi disse che nel gregge
delle mie fibre qualcuna disobbediva? E perché un disappunto, e
quasi rancore, ogni volta che davanti a me un congegno qualunque
funziona? (AC, 315).
Il rancore per un congegno funzionante è dovuto al rifiuto dell’inerzia,
a un meccanismo che procede autonomamente, insensibile
alla volontà dell’uomo che, invece, vorrebbe dominarlo, esserne
padrone. L’inerzia appartiene anche alla salute in quanto non richiede
alcun intervento per essere corretta ma procede in un flusso
lineare (a tal proposito, si pensi alla falsa invidia provata da Zeno
nei confronti della “sana” Augusta che, invece di occuparsi della
propria salute, si dedica alla casa, ai figli) e se i due protagonisti
riuscissero ad ottenerla, se guarissero, si vedrebbero costretti ad
abbandonare definitivamente la cura, a posare la penna ed è proprio
questo motivo che li spinge a cercare, a invocare quasi, la
malattia.
I passi scelti da Bufalino per il suo Dizionario sono estratti dai
capitoli Il fumo e La moglie e l’amante: entrambi appaiono d’obbligo
per chiunque voglia accostarsi alla lettura de La coscienza di Zeno,
ma perché proporre il viaggio di nozze di Zeno e Augusta invece,
per fare un esempio, delle più note vicissitudini legate al corteggiamento
delle sorelle Malfenti? Bufalino privilegia qui il sentimento
della morte affiorato per la prima volta in superficie nelle memorie
di Zeno: «Mi colse allora un’altra piccola malattia da cui non dovevo
più guarire. Una cosa da niente: la paura d’invecchiare e sopra
tutto la paura di morire»36. La paura della morte avvicina Zeno e
Gesualdo alla scrittura che, sola, può fermare il tempo e cristallizzarlo
consentendo ai due di vivere dopo la morte. Questo potere di
rivivere, dunque, è appannaggio solo dell’atto scrittorio, non è un
beneficio appartenente alla natura umana:
Scorrere in un tempo fermo, tuttavia, è possibile mai? E, viceversa,
ricchi solo di parole, armati solo di parole, come sospendere il tempo?
Scrivendolo, forse? Parole mi servivano, dunque: magari più
aggettivi che sostantivi (AC, 306).
36 CZ, 729.
792 GIULIA CACCIATORE [16]
È quello che Bufalino ha chiamato «il miracolo del Bis, il bellissimo
Riessere»37 parodiando il celebre “Essere o non essere” shakespeariano.
La morte è dunque lo spettro da esorcizzare, la malattia
non è che un’anticipazione, anzi, la nascita stessa, addirittura, implica
irrimediabilmente la morte, preannuncia l’inevitabile degenerazione38.
Zeno, il vegliardo, prende in giro la mania di suo padre di tenere
sempre nel taschino un taccuino sul quale annotare i progetti
futuri mentre egli sceglie di tornare alla scrittura perché consente di
registrare quel presente altrimenti destinato a diventare passato e la
sua abitudine di annotare date, eventi, ricorrenze altro non è che la
volontà di agire sul tempo per fermarlo e così si spiega il secondo
passo introdotto da Bufalino nel Dizionario: «Eppoi il tempo, per
me, non è quella cosa impensabile che non s’arresta mai. Da me,
solo da me, ritorna»39.
Come lui Gesualdo dichiara espressamente di voler costruire una
«storiella balocco», una fiaba con la quale distrarsi dalla malattia
ingannando il presente perché, ci dice, è inutile guardare lontano e
cercare il futuro quando non resta che poco tempo.
Svevo crea un ponte con La coscienza proprio attraverso la decisione
di Zeno di tornare alle sue carte40: il vegliardo si rende conto che
il proprio passato esiste solo in quelle memorie, in quelle pagine, ed
egli stesso esiste solo perché testimoniato nella scrittura. Nel passaggio
dall’età adulta alla vecchiaia, Gesualdo è più simile a Zeno:
Ed è proprio vero ch’io più intensamente rivolgo il mio pensiero al
passato come per correggerlo – anzi un evidente tentativo di falsarlo
– piuttosto che all’avvenire su cui il pensiero non sa come adagiarsi
non vedendone chiaro il piano che non è ancora formato (V, 1102).
37 DU, 81.
38 Si pensi alla riflessione di Zeno sull’infanzia nel Preambolo: «E intanto,
inconscio, vai investigando il tuo piccolo organismo alla ricerca del piacere e le
tue scoperte deliziose ti avvieranno al dolore e alla malattia cui sarai spinto
anche da coloro che non lo vorrebbero. Come fare? È impossibile tutelare la
culla» (CZ, 601).
Bufalino parafrasa in Calende greche (organizzato in sezioni corrispondenti
alle età dell’uomo: Nascita, Infanzia e Pubertà, Giovinezza, Maturità, Vecchiaia e
Morte corrispondenti a sezioni suddivise in capitoli): «Guardatelo: già insegna ai
polmoni le meraviglie del respiro, li espande, li contrae, torna ad espanderli;
inaugura gloriosamente l’aria e le sue misture nutrienti…/ È nato. Ha cominciato
a vivere, ha cominciato a morire» (G. Bufalino, Calende Greche, in Id., Opere
1988.1996, cit., p. 10).
39 CZ, 607.
40 Cfr. G. Contini, Il quarto romanzo di Svevo, Torino, Einaudi, 1980.
[17] NEL LABORATORIO DI BUFALINO 793
Come nota Gabriella Contini, Zeno ormai vecchio non guarda al
futuro perché significherebbe volgere lo sguardo verso la morte e
alla fine definitiva della scrittura. Ci troviamo inevitabilmente a
parlare della scrittura e del significato di «recupero del tempo»,
nell’accezione intesa da Debenedetti, implicato all’atto dello scrivere
poiché scrittura e memoria si muovono sullo stesso piano, il passato
rinasce nel momento in cui viene riesumato sulla carta e può quindi
rivivere nei segni lasciati su di essa.
Gesualdo è solo in una camera d’albergo, e solo è il vecchio
Zeno nel suo studio, la morte è dietro l’angolo e la giovinezza è
oramai lontana
Il tempo fa le sue devastazioni con ordine sicuro e crudele, poi
s’allontana in una processione sempre ordinata di giorni, di mesi, di
anni, ma quando è lontano tanto da sottrarsi alla nostra vista scompone
i suoi ranghi. Ogni ora cerca il suo posto in qualche giorno ed
ogni giorno in qualche altro anno (V, 1224-1125).
Zeno continua introducendo il tema della memoria:
È così che nel ricordo qualche anno sembra tutto soleggiato come
una sola estate e qualche altro è tutto pervaso dal brivido del freddo.
E freddo e privo di ogni luce è l’anno in cui non si ricorda
proprio niente al suo vero posto: Trecentosessantacinque giorni da
ventiquattr’ore ciascuno morti e spariti. Una vera ecatombe (Ibidem).
Anche Gesualdo è afflitto dalla stessa metaforica cecità, dall’impossibilità
di “vedere” il passato, Argo è ormai cieco. Non ricordando
più nulla, Gesualdo inventa l’estate a Modica nel ’51 che non ha
vissuto e di cui è stato forse parzialmente partecipe, ma quel tempo
non gli appartiene:
Fui dunque giovane e felice, quell’estate del cinquantuno. Giovane e
felice. Giovane e…Macché, non è vero, mi sono vantato. […] Ma che
dovrei fare? Aspettare un’estate felice per scrivere d’un estate felice?
(AC, 349).
Zeno non sarà mai così esplicitamente “sincero”, preferisce caricare
il racconto di significati sottesi alla parola pronunciata, scopre
le sue carte solo a metà sebbene ripercorra anche lui il passato per
inseguire la gioventù:
Non solo il dottore ma anch’io avrei desiderato di essere visitato
ancora da quelle care immagini della mia gioventù, autentiche o
meno, ma che io non avevo avuto motivo di costruire. Visto che
794 GIULIA CACCIATORE [18]
accanto al dottore non venivano più, tentai di evocarle lontano da
lui. Da solo ero esposto al pericolo di dimenticarle, ma già io non
miravo mica a una cura! Io volevo ancora rose del Maggio in Dicembre.
Le avevo già avute; perché non riaverle? (CZ, 934).
Il personaggio vuole il piacere del ricordo, anche se non autentico,
così come Gesualdo inventa un’estate felice in un giorno di
ottobre: «rose di Maggio in Dicembre» appunto.
La memoria è un autoinganno per entrambi, una «depauperazione
del fatto ricordato»41, come la definisce Debenedetti, ovvero il progressivo
ricoprire il passato con l’immaginazione: nel momento in
cui si ricorda inevitabilmente si mente, non è possibile riportare alla
luce un evento accompagnato dalla nitidezza di ciò che realmente
fu. Sia Zeno che Gesualdo sanno perfettamente in cosa consista
ricordare: inventare, immaginare. «Una confessione in iscritto è sempre
menzognera!»42 dichiara Zeno al suo medico nel momento in
cui decide di sottrarsi alla cura e Gesualdo gli fa eco rivolgendosi al
lettore/terapeuta: «Né smetto un attimo, frattanto, con colori grassi
e magri, gabellando le bugie per ricordi, scambiando i ricordi per
sogni, di raccontarmi» (AC, 314). Mentendo, i personaggi perdono
dietro di sé anche la quantità di verità che il ricordo ancora possiede
e il passato viene così interamente coperto dall’invenzione. Alla
vecchiaia non resta che l’attaccamento al ricordo, al bagliore dei
giorni mai stati e al definitivo congedo dall’erotismo della giovinezza.
Nei suoi sogni erotici, Gesualdo riesuma le fattezze delle donne
amate e possedute, le rivede giovani e fresche come dee o ninfe
dell’amore che, da lontano, lo chiamano sorridenti avanzando sulle
acque, mentre Zeno, prima di abbandonare definitivamente le pratiche
amorose, «prende un’amante», Felicita, con la quale divide,
dietro compenso, gli ultimi riflessi di gioventù. Se la sessualità vien
meno, non così il desiderio che invece stenta a spegnersi e resiste
nella loro mente43.
41 G. Debenedetti, Il romanzo del novecento, Milano, Garzanti, 1998, p. 554.
42 CZ, 928.
43 Valga per Gesualdo quanto appena detto per Zeno in riferimento alla
penultima parte del quarto romanzo, Il mio ozio, nella quale egli crede di rivedere
in una fanciulla sconosciuta una sua presunta, e inattuata, conquista del
passato. Zeno prova per lei un forte slancio sessuale sottolineato da Svevo con
la descrizione della ragazza per “porzioni” di corpo, richiamando così la “malattia”
giovanile del suo personaggio di voler possedere le donne “a pezzi” e
non interamente: «Fui sincero come in confessione: La donna a me non piaceva
[19] NEL LABORATORIO DI BUFALINO 795
Questo discorso ci porta inevitabilmente fuori dalla cornice dei
capitoli bis, ai quali abbiamo finora fatto riferimento parlando di
Argo il cieco, per condurci nella materia del ricordo: la figura di
Gesualdo giovane.
Se l’indecisione di Gesualdo, come nota Nunzio Zago44, fra Maria
Venera, Cecilia e Isolina fa pensare al corteggiamento delle sorelle
Malfenti ad opera di Zeno, la caratterizzazione di queste figure
femminili evoca piuttosto l’avvenente Angiolina di Senilità di cui
Maria Venera e Cecilia sembrano incarnare uno sdoppiamento.
Le relazioni amorose, in Argo, sono imperniate sull’inganno ordito
dai personaggi femminili, in particolar modo da Maria Venera
che fugge con Liborio Galfo per nascondere la maternità dovuta,
invece, al cugino Sasà Trubia. Le esperienze sentimentali e passionali
della ragazza però, non suscitano in Gesualdo alcuna reazione negativa
se non una testarda cecità dinanzi alla quale neanche i tentativi
dell’amico Iaccarino, come Stefano Balli per Emilio, riusciranno
a dissuaderlo dalla convinzione di essere ricambiato dalla donna.
Il protagonista anzi mantiene salda, contro ogni evidenza, l’idea
angelica cui il nome rimanda:
[…] il mio più recente carme in lode di Venera. A MARIA VENERA
era il titolo in cima, in grandi lettere a stampatello. E io, per impulsivo
atto di fede, dove il lenzuolo del foglio serbava ancora uno spazio
bianco, un A MARIA VERGINE aggiunsi, cubitale altrettanto (AC, 278).
Il nome Maria richiama la castità e la purezza della Madonna,
mentre il secondo, Venera, evoca ovviamente Venere, dea della
bellezza, dell’amore e della fertilità, cui il personaggio bufaliniano,
per le sue capacità di seduzione, allude. Assistiamo ad una falsificazione
dell’immagine della donna così come Emilio aveva creato
mentalmente l’identità fittizia di Ange innamorandosi di quella proiezione.
Entrambi capiranno solo nell’epilogo la vera indole delle
rispettive amate ma, mentre Emilio idealizzerà l’immagine di Ange
sublimandola con quella della sorella scomparsa Amalia, il “mito”
di Maria Venera cadrà in seguito ad una nuova fuga, con un regista,
nella speranza di ottenere notorietà45.
intera ma…a pezzi! Di tutte amavo i piedini se ben calzati, di molte il collo esile
oppure anche poderoso e il seno se lieve, lieve» (CZ, 609).
44 N. Zago, Per rileggere Argo il cieco, in Gesualdo Bufalino e la scrittura felice,
cit., p., 17.
45 La fuga di Angiolina con un uomo facoltoso e quella di Maria Venera con
796 GIULIA CACCIATORE [20]
Veniamo ora a Cecilia. La donna vende la propria compagnia a
Don Nitto, il mafioso della zona, e all’ignaro Gesualdo che, come si
scoprirà solo nel finale, è stato in realtà vittima di un inganno ordito
proprio da Don Nitto che la paga per sedurlo ed estorcergli un
favore.
Cecilia e Maria Venera sono l’una l’opposto dell’altra: la prima è
elegante e raffinata, la seconda, invece, è sempre vestita di nero
come Angiolina che Svevo, per sottolinearne la doppiezza, camuffa
sotto vesti scure e dimesse quando si reca dai fantomatici Deluigi,
appariscente ed elegante negli incontri con Emilio. Cecilia è solare,
è incarnazione della sessualità, dell’amore erotico, come Angiolina
per Emilio, la sua figura è associata all’estate, al mare e Gesualdo la
paragona ad una dea, all’isola Ferdinandea emersa dalle acque, simbolo
di fecondità. La descrizione fisica della donna non prende le
mosse dal viso bensì, altro espediente sveviano, dai suoi «piedi elegantemente
calzati»:
[…] accanto alle mie [scarpe] di povera pelle due altre, femminili, di
chagrin bianco, che sembravano due piccole colombe. Di lì, salendo
su su e adagio con gli occhi, ecco le belle caviglie di eterea seta, e
una gonna di satin nero, e una camicetta d’organza bianca, e una
mano nuda lungo il fianco e, d’un colpo, tutt’insieme, l’alto seno e
la melliflua gola […] (AC, 316).
Era vestita modestamente, ma ciò non le giovava perché ogni modestia
sul suo corpo s’annullava. Solo gli stivaletti erano di lusso e
ricordavano un po’ la carta bianchissima che Velasquez metteva sotto
ai piedi dei suoi modelli. Anche Velasquez, per staccare Carmen
dall’ambiente, l’avrebbe poggiata sul nero di lacca (CZ, 830)46.
Cecilia è descritta come un’apparizione: la raffinatezza nel vestire,
la giovinezza al suo apice, il timbro “violetto” della voce, attraggono
Gesualdo che si lascia trascinare dalla donna in quella “calda
il regista francese si inscrivono nello stesso motivo di aspirazione sociale determinata
dalla volontà di affermarsi in un ambiente altrimenti inaccessibile.
46 Per quanto concerne, invece, la descrizione delle calzature di Angiolina,
Svevo ne introduce la prima descrizione soltanto nel X capitolo dedicato al
primo rapporto sessuale fra la donna ed Emilio; ed è proprio la vista delle
scarpe ad accendere il desiderio dell’uomo: «Una sera, accanto al Giardino
Pubblico, la vide camminare dinanzi a sé. La riconobbe al noto passo. Ella
teneva sollevate le gonne per preservarle dalla fanghiglia, e, alla luce di un
gramo fanale, egli vide rilucere le scarpe nere di Angiolina. Ne fu subito turbato
» (S, 5277).
[21] NEL LABORATORIO DI BUFALINO 797
vita” a lui fino ad allora sconosciuta così come Angiolina coinvolge
Emilio in una relazione dominata dalla passione.
Nel finale Gesualdo e Emilio, disillusi, riprendono la loro quotidianità
ormai liberi dall’inganno ma anche dall’amore e, per consolarsi
del rifiuto subito, costruiranno un meccanismo mentale di
auto-difesa attraverso il quale si riterranno artefici dello stesso raggiro
di cui sono stati vittima: «Finora, me ne venivo convincendo,
non avevo realmente amato, ma soltanto voluto amare. E, per giunta,
scegliendo solo immagini falsificate» (AC, 378).
Ancora una volta Bufalino sembra parafrasare Svevo, stavolta
nell’epilogo della vicenda del giovane Gesualdo: «D’ora in poi avrei
sempre preferito una quieta infelicità a una felicità minacciata» (AC,
381), che, come Brentani «traversava la vita cauto, lasciando da
parte tutti i pericoli ma anche il godimento, la felicità»47, torna alla
sua serenità nel ricordo dei giorni che gli regalarono, nella sua vita
di giovane vecchio, una stagione di spensierata gioventù. L’avventura,
«ginnastica igienica»48, termina situandosi nel passato e andando
a costituirsi come ricordo.
Il giovane Gesualdo si rivela, infine, spettatore e non protagonista
dell’estate modicana raccontata poiché inetto all’azione e il suo
atteggiamento di inconcludenza lo riporterà in quella tana in cui la
passività si configura come l’unico “moto” di cui egli è capace.
Nonostante lo scrittore voglia rievocare un’estate di passioni e spensieratezza,
a vincerla sulla fantasia del racconto è lo stato d’inerzia,
la condizione passiva di Gesualdo.
Torniamo, prima di concludere, ai capitoli bis. Ho parlato della
scrittura come mezzo per cristallizzare i ricordi contraffatti dei due
narratori Zeno e Gesualdo: ciò che in definitiva viene narrato sono
dunque delle invenzioni, delle visioni scaturite dalla trasfigurazione
del passato; i due protagonisti infatti, mentono e nel farlo inventano
storie. Nell’ultimo capitolo della Coscienza, Psico-analisi, Zeno, ritenendosi
guarito, decide di abbandonare la terapia col Dottor S. e,
per la prima volta, torna sulle sue carte con il patto implicito di
sincerità; in questo slancio euforico egli dichiara: «È così che a forza
di correr dietro a quelle immagini, io le raggiunsi. Ora so di averle
inventate. Ma inventare è una creazione, non già una menzogna»49.
47 S, 433.
48 Qui è Bufalino che parla, non Svevo; la criptocitazione è evidente. Cfr.
AC, 264.
49 CZ, 929.
798 GIULIA CACCIATORE [22]
L’invenzione, dunque, è l’arte di creare con le parole una realtà
parallela poiché la «confessione in iscritto è sempre menzognera»,
appartiene all’esperienza artistica di colui che scrive e non alla sua
vita e anche Gesualdo vede nella menzogna una creazione artistica:
[…] un’impostura, insomma, una bagattella comica, che faccia velo
fra me e quella tentazione antica che sai; e mi svogli l’animo
dall’arcinero, dall’arcizero, dall’arciniente […] O chiamala Sceneggiata,
chiamala come vuoi, purché sappia farmi vece di vita. L’arte
arto, che ne pensi? Un arto artificiale […] perché questo a me serve:
un surrogato di vita durante il giorno e un surrogato di sonno,
quando non posso prendere sonno, la notte (AC, 263).
La menzogna, chiamata truffa, falsificazione, invenzione creativa,
è la protagonista dei ricordi e, di conseguenza, della narrazione
giacché la parola è l’unica via d’uscita dalla malattia, è un’arma con
la quale affrontare le difficoltà del presente: Zeno inganna il dottore,
Gesualdo il lettore/terapeuta, entrambi rimangono però invischiati
nell’autoinganno. Zeno anziano, che non ricorda quasi nulla del
passato, va a rileggersi le proprie annotazioni così come Gesualdo
arricchisce il racconto con delle immagini fittizie. La menzogna investe
gli stessi personaggi che la pronunciano fino a dissolverli in
un fioco bagliore. La scrittura è, per entrambi, un’invenzione che
può essere interrotta e ripresa poiché il processo della creazione
rende lo scrittore padrone di letteraturizzare il mondo, di vivere in
una realtà che ammette varianti all’infinito.
Ecco perché nel Dizionario Bufalino parla di Zeno Cosini come
colui che «possiede insieme una doppia natura di larva e di dio»:
Zeno è emblema di inettitudine ma anche manifestazione “vivente”
del potere immenso che la scrittura e la letteratura esercitano sulla
realtà.
Anche se la scrittura non riuscirà a guarire Gesualdo e Zeno,
entrambi nutrono la fede nel suo potere trasfigurante della realtà
orrida e dolorosa, poiché dà loro la possibilità di essere qualcun
altro.
Gesualdo, infine, dichiara di amare la vita, nonostante la difficoltà
ad affrontare il suo presente “malato”, e con essa la scritturapanacèa
in grado di rileggere se stessa regalandogli l’illusione di
un’eterna giovinezza:
Ed ora che cosa sono io? Non colui che visse ma colui che descrissi.
Oh! L’unica parte importante della vita è il raccoglimento. Quando
tutti lo comprenderanno con la chiarezza ch’io ho tutti scriveranno.
[23] NEL LABORATORIO DI BUFALINO 799
La vita sarà letteraturizzata. Metà dell’umanità sarà dedicata a leggere
e a studiare quello che l’altra metà avrà annotato. E il raccoglimento
occuperà il massimo tempo che così sarà sottratto alla vita
orrida vera. E se una parte dell’umanità si ribellerà e rifiuterà di
leggere le elucubrazioni dell’altra, tanto meglio. Ognuno leggerà se
stesso. E la propria vita risulterà più chiara o più oscura ma si
ripeterà si correggerà si cristallizzerà. Almeno non resterà quale è
priva di rilievo, sepolta non appena nata, con quei giorni che vanno
via e s’accumulano uno eguale all’altro a formare gli anni, i decennî,
la vita tanto vuota, capace soltanto di figurare quale un numero di
una tabella statistica del movimento demografico. Io voglio scrivere
ancora (V, 1116, 1117).
Da questa analisi, che potrebbe essere ulteriormente ampliata,
emerge chiaramente quanto la narrativa sveviana incida su alcuni
temi bufaliniani influenzandone lo sviluppo. Svevo dunque va annoverato
fra quelle letture predilette, come Proust, cui Bufalino s’ispira
trasponendole nei suoi romanzi e la cui suggestione, a oggi mai
approfondita, si rivela, infine, profondamente radicata.
Vorrei chiudere con le parole di Saccone riferite a Zeno, ma che
sembrano suggellare, nella loro pertinenza, quella poetica con la
quale rinsaldare il legame fra Bufalino e Svevo che ho tentato di
dimostrare:
[…] più in profondo sembra – e non meraviglia, soprattutto chi
pensi allo statuto ambiguo del ricordo – che agisca qui il sospetto
della cristallizzazione [della scrittura], della morte delle interpretazioni.
E si affermi, in un gesto di scongiuro verso il circolo che si
chiude, il gesto dell’arte, che apre chiudendo, che chiude per aprire:
l’augurio di una scrittura che corregga infinitamente se stessa50.
Giulia Cacciatore
(L’Aquila)
50 E. Saccone, Commento a «Zeno», Bologna, Il Mulino, 1973, p. 41.
Recensioni
«Collettanee» in morte di Serafino
Aquilano, edizione a cura di Alessio
Bologna, Lucca, Istituto Abruzzese
di Storia Musicale – Libreria Musicale
Italiana, 2009, pp. XI + 532, tavv.
4.
Il 10 agosto del 1500 moriva di
febbre «tertiana», a Roma, dov’era
al servizio di Cesare Borgia, Serafino
Ciminelli alias Aquilano, rimatore
capace di coprire l’interezza dei generi
lirici della produzione cortigiana,
sino a divenirne «compendio»
(Contini). Della sua perdurante fama
post-mortem, oltre a 54 edizioni delle
rime fino al 1568 e a un influsso
che giunge a lambire Wyatt e Cervantes,
testimoni precoci sono le Collettanee
allestite nel 1504 da Giovanni
Filoteo Achillini, mai più edite (ad
eccezione di singoli microtesti), anche
per le difficoltà implicate dall’ibridismo
linguistico dei suoi ben
333 componimenti, in volgare italiano
e in latino (ma talora anche in
greco e castigliano), con rispettiva
prevalenza di sonetti e distici elegiaci.
Giunge ora l’edizione curata da
Alessio Bologna, che si fonda sulla
riproduzione di un esemplare della
princeps conservato presso la Biblioteca
Nazionale di Firenze e appartenuto
agli esponenti della famiglia
Ricciardi, Tommaso e Pietro, giureconsulto
Cinque-seicentesco, al quale
sono ascrivibili alcune postille vergate
sull’esemplare.
La densa Introduzione del curatore
(pp. 5-64) si sofferma anzitutto sulla
girovaga biografia di Serafino, dall’Aquila,
dov’era nato nel 1466, presso
le principali corti italiane: a Napoli
presso Antonio de Guevara, a
Roma al seguito di Ascanio Sforza,
nuovamente a Napoli da Ferrandino
per tre anni in cui frequenta l’Accademia
pontaniana; a Urbino da Elisabetta
Gonzaga-Montefeltro, a Mantova
da Isabella d’Este; a Milano da
Beatrice d’Este, e poi in vari spostamenti
lungo tutta la penisola, fino
al fatidico agosto romano. Oggetto
di culto Serafino era anche a Bologna,
nel cenacolo bentivolesco che
vedeva tra i suoi massimi rappresentanti
l’Achillini, coetaneo del
poeta, autore in proprio e appassionato
di antiquaria e musica. Tutti
elementi che vengono opportunamente
ricollegati all’iniziativa delle
Collettanee, non solo a giustificarne
la localizzazione bolognese (presso
lo stampatore Caligola Bazalieri,
RECENSIONI 801
presente anche con un suo sonetto),
ma anche per meglio comprendere
il culto achilliniano per un poetamusico
come Serafino nonché per la
«vena collezionistica» (p. 16) che
informa la raccolta, capace di aggregare
174 autori di varia provenienza,
riservando al curatore il ruolo di
complessivo organizzatore testuale,
attraverso le rime di risposta ad altri
componimenti. Il genere prescelto,
della raccolta obituaria, conosceva
precedenti umanistici (tra cui
funge da modello quella approntata
nella stessa Bologna, nel 1498, per
la morte di fra Mariano Della Barba
da Genazzano); ma inedita è la presenza
massiccia di testi volgari e
l’utilizzo della stampa, che dimostra
la destinazione a un pubblico nuovo,
pur senza rinnegare la tradizione,
richiamata dalla collocazione iniziale
dei testi latini. Una funzione
strategica assume anche la dedica a
Elisabetta Gonzaga, figlia del marchese
di Mantova, e, dopo il matrimonio
con Guidubaldo Montefeltro,
animatrice della corte urbinate, dove
accoglie personaggi come Bembo,
Castiglione e lo stesso Aquilano (l’incontro
con il quale è narrato nella
Vita del Calmeta che apre le Collettanee):
essa serve a sostenere le ambizioni
achilliniane, ma la stessa duchessa
doveva aver cara «la possibilità
di riassumere post mortem il patrocinio
dell’Aquilano, che le avrebbe
conferito, visto il grande credito
popolare del poeta abruzzese, un
nuovo titolo di magnanimità» (p.
22).
Se il livello di testi e autori appare
assai disomogeneo (da cui il giudizio
poco benevolo espresso a suo
tempo dal D’Ancona), la raccolta si
configura come documento rappresentativo
del panorama letterario
coevo, utile a fotografarne la vera essenza
media e diffusa. La mappatura
degli autori proposta da Bologna
mostra uno spaccato storico-culturale
assai interessante: pur nella loro
eterogeneità, a prevalere come aree
di provenienza sono quelle chiave
dell’attività poetica centro-settentrionale,
la feltresco-romagnola e la lombarda,
segnatamente quella emiliana
e anzi bolognese, con rare presenze
centro-meridionali e straniere. Passandone
in rassegna i nomi, alcuni
paiono oggi famosi (Bibbiena, Calmeta,
Molza, Tebaldeo, Angelo
Colocci, Niccolò da Correggio, ecc.),
ma la più parte minori o minimi; molti
intellettuali, alcuni uomini d’arme,
oltre a chierici e artisti: di tutti, il volume
propone in appendice un’utile
scheda biobibliografica. Uno spazio
a sé meritano nell’Introduzione alcuni
di essi, come Domenico Foschi
detto Fosco da Rimini, la cui voce è
apparentemente dissonante rispetto
al pressoché indiscriminato coro di
elogi rivolto all’Aquilano. Tra i sei
componimenti a sua firma presenti
nelle Collettanee vi è infatti un sonetto
che sembra intaccare l’assetto
celebrativo nel criticare il poeta
ascrivendogli anzi, testualmente,
ignoranza e vicio. Ma Bologna intuisce
il legame con il sonetto immediatamente
precedente del Bibbiena,
che «illustra l’eredità di Serafino in
modo burlesco» attribuendo agli epigoni
i suoi stessi vizi e virtù: il testo
di Fosco s’inserirebbe intenzionalmente
in questa scia «e perde così il
suo possibile carattere aggressivo»
(p. 34). Realmente polemici furono
semmai quei poeti, aggiunge lo stu802
RECENSIONI
dioso, come i veneti Augurelli o
Prestinari, che non parteciparono
affatto alle Collettanee, facendo così
intuire l’esistenza di una linea di
poesia alternativa a quella qui celebrata:
un petrarchismo più rigoroso
che, oltre ai ‘napoletani’ Cariteo e
Sannazaro, vedeva già l’astro nascente
di Bembo. Uno spazio è dedicato
alla sparuta presenza straniera:
sei autori di cui si ricostruisce la
biografia, rilevandone il prevalente
utilizzo del «genere metrico più semplice
e tradizionale, il distico elegiaco
», e del latino, «lingua internazionale
dell’epoca» (p. 45). A far eccezione
è il castigliano Iacobo Velazques,
presente con componimenti
nella sua lingua e con strutture metriche
più elaborate. La circostanza,
sommata alla preminenza spagnola
tra gli stranieri delle Collettanee (tre
sui sei), trova spiegazione nella vasta
fama che l’Aquilano aveva conseguito
nel contesto del Siglo de
Oro, ma anche nel radicamento culturale
spagnolo a Bologna dove operava
l’Achillini. Tra gli altri autori,
l’Introduzione si sofferma sul firmatario
dell’ultimo testo, il Theatro dil
Novo Paradiso, poemetto in terzine
già studiato da Davide De Camilli
(Studi paralleli, Milano, Marzorati,
1980, pp. 9-42): un «Christofero Melantheo
fiorentino» sinora resistente
ad ogni tentativo di identificazione.
L’indagine di Bologna parte dall’escussione
delle risonanze dello
pseudonimo prescelto, Melanteo, che
sembrerebbe sulle prime inviare all’Odissea,
in cui il nome è assegnato
al pastore alleato dei Proci ucciso
da Ulisse al ritorno a Itaca. Ma conta
qui semmai la sua etimologia di
‘fiore nero’, decisiva per l’identificazione
con un frate Cristoforo de Florentia,
attivo a Bologna, con allusione
allo stemma (il giglio) dell’ordine
religioso di appartenenza, i Servi
di Maria, virato al ‘nero’ in virtù
dell’evento luttuoso qui celebrato.
Un’analisi è riservata anche ai giochi
verbali cui è sottoposto il nome
di Serafino in vari testi. Bologna mostra
come essi rimandino a una tradizione
agiografica che lo associava
a quello di San Francesco e ovviamente
all’omonima categoria di angeli
uniti a Dio da una devozione
‘ardente’ (etimologicamente, data la
derivazione dall’ebraico saraf ‘ardere,
bruciare’), da cui l’allusione frequente
alla «natura celestiale» del
poeta. Questi e altri giochi onomastici
(come le paronomasie Sera fine/
serà fine/Serafino di Ercole Pio e Giovanni
Cristofori, rinvianti «a un concetto
di finitezza, relativo alla vita e
al dolore», p. 53) mostrano che «il
nome, le varie denominazioni e definizioni
del poeta» risentono qui
«della tradizione cristiana e più in
generale biblica», ma «anche di quella
classica» (p. 58), con duplicità tipica
dell’epoca.
L’analisi dei 134 testi in volgare
italiano ci offre l’occasione per alcune
osservazioni. Se i loro nuclei
tematici o motivi ricorrenti (l’appello
al viator/pellegrino dal sepolcro
del poeta, l’allocuzione alla Morte, i
richiami al pantheon classico, le personificazioni
dei luoghi di nascita e
di morte, il non omnis morietur) sono
ripetuti per lo più con impercettibili
variazioni, sul piano stilistico evidenti
appaiono le suggestioni dantesche
e petrarchesche, provate, suggerisce
il curatore, dalla preminenza
di forme metriche come il sonetRECENSIONI
803
to e dalla collocazione in rilievo dei
ternari nell’explicit dell’opera. L’impressione
è confermata dal riecheggiamento
continuo dei due modelli,
spesso virati, si chioserà, secondo
schemi tipici del petrarchismo del
tardo ’400, come mostra la locuzione
artificiosa della sestina del Paolini
(cccxix, v. 31): «Fior, fiere, antri,
hydri, onde, angui, aspe, aspi e vento
» (o «…aspe, alpi e vento»? come
legge D’Ancona, Studi sulla letteratura
italiana dei primi secoli, Milano,
Treves, 1891, p. 157), che amplifica
sì Petrarca, RVF, cccv, v. 3 («Fior,
frondi, erbe, ombre, antri, onde, aure
soavi»), ma è da confrontarsi con
analoghe filiere, espressione di un
«horror vacui tardogotico» (P.V. Mengaldo,
La lingua del Boiardo lirico,
Firenze, Olschki, 1963, p. 233), della
poesia padana coeva, come ad esempio,
il v. 14 del son. 241 di Panfilo
Sasso: «monti, fiumi, aspi, tigri, pietre
e mare» (in M. Malinverni, Note
per un bestiario lirico tra Quattro e Cinquecento,
«Italique», 2, 1999, pp. 7-
31: 11). Di particolare rilievo appaiono
i cinque componimenti terminali,
gli unici composti in terzine
incantenate, «la cui concentrazione
è da ritenersi intenzionale, ovvero
rispondente alla precisa volontà dell’Achillini
di nobilitare il volgare
attraverso l’impiego» (p. 426) di un
metro connotato in senso dantesco
e petrarchesco (dei Trionfi s’intende).
Ma in un più determinato genere,
quello dei Viaggi fantastici e ‘Trionfi’
di poeti, per dirla col titolo di un ancor
prezioso saggio di Francesco Flamini
(in Nozze Cian/Sappa-Flandinet,
Bergamo, Istituto Italiano d’Arti Grafiche,
1894, pp. 281-99), s’inseriscono
gli ultimi due, di Bartolomeo Nebbio
e del Melanteo, che descrivono
la ‘visione’ di un paradiso/Parnaso
che ospita Serafino assieme ad altri
poeti volgari, antichi e soprattutto
moderni, in più di un caso ancora
viventi, anzi, si noterà, coincidenti
con autori delle Collettanee (in Nebbio:
Dante, Petrarca, Luigi Pulci, il
«ferrarese» – il Tebaldeo? – e quei
Marco Cavallo e Panfilo Sasso che
ricompariranno nelle analoghe rassegne
dei canti xlii e xlvi del Furioso;
in Melanteo: Borso mantovano,
cioè Gatto da Borso, Giuliano de’ Medici,
Niccolò da Correggio, Giambattista
da Osimo, un Alceo da Firenze,
il Calvicio, Sannazaro, Sasso,
Bernardo Accolti, il Tebaldeo e il
Calmeta). Ma si tratta anche, in un
certo senso, di una sorta di mise en
abyme dell’intera operazione compiuta
dall’Achillini (autore del Viridario
e del Fedele, comprendenti anch’essi
elenchi di poeti volgari), che usa la
celebrazione di Serafino per coagulare
un ‘canone militante’ con la rassegna
dei poeti inclusi nella raccolta.
Tra i motivi di interesse del volume
v’è anche quello di recuperare
all’attenzione degli specialisti figure
minori, talora attestandone prove
meno note. Si segnalerà ad esempio
la riemersione di un’inedita testimonianza
di un tipico «letterato di corte
», dato sinora come attivo tra
Ferrara e Mantova nei due decenni
successivi: Lelio Manfredi, noto quale
traduttore della Cárcel de Amor di
Diego de San Pedro (1514), e del
Tirant lo Blanch di Joanot Martorell
e (forse) Martí Joan de Galba (1514-
’19, ma in stampa nel 1538), oltre
che autore di opere come un Poemetto
e due commedie in volgare, il
Paraclitus e la Philadelphia, databili
804 RECENSIONI
tutti al secondo decennio del ’500,
ed editi solo modernamente (i primi
due da Carmelo Zilli in Manfrediana,
un poema e una commedia inediti
del primo Cinquecento italiano,
Biblioteca di Filologia Romanza,
Bari, Adriatica, 1991, la terza da chi
scrive nella stessa collana, nel 2003).
Suo è un distico delle Collettanee
(xciv), che sviluppa il motivo dell’immortalità
poetica serafinesca,
riassunto nell’incipit «Defunctum
quisquis Seraphinum credit oberrat»
(motivo ricorrente in tutta la silloge,
con espressioni vicinissime a quelle
manfrediane nei testi volgari di Candia,
ccxlviii, e soprattutto Zanessi,
cclxii: «Mente chi dice “Seraphino
è morto”»). Segnalo altresì che, quasi
a marcare l’importanza della partecipazione
alle Collettanee nell’esperienza
futura di Lelio, il distico delle
Collettanee sarà riecheggiato nella
terzina dedicata all’Aquilano del suo
Poemetto (vv. 43-45), all’interno di
una visione/rassegna di poeti appartenente
al genere suddetto (di cui
costituirebbe anzi per Flamini uno
degli esempi più rappresentativi):
«Ecco qua l’Acquilano Serafino, /
del vulgo in tanta opinïon transcorso,
/ che quasi in terra lo estimò
divino» (ed. Zilli, p. 122). Un giudizio
meno lusinghiero di quello del
distico, se si condivide l’opinione del
Flamini, secondo cui Manfredi non
spenderebbe qui vere parole di lode,
«anzi s’esprime in modo, da far sospettare
che sul conto di Serafino
non la pensasse come i più» (op. cit.,
p. 290); ma l’aggettivo divino, pur
ascritto all’opinione del vulgo, sembra
richiamare un concetto espresso
in un verso del distico («Nam rebus
divis non nocet atra lues»).
Utile può rivelarsi l’edizione anche
sotto il profilo storico-linguistico,
per la possibilità di disporre di
un regesto rappresentativo della lirica
di koinè padana, ancor florida
in quel primo squarcio di ’500, e il
cui lascito confluirà in certe successive
teorie di lingua ‘cortigiana’ (di
cui sarà tardo epigono nel 1536 proprio
l’Achillini con le sue Annotationi
della volgar lingua), in particolare per
la valutazione, all’interno del mescidato
impasto linguistico, dell’elemento
locale o ‘dialettale’: ingrediente
«intenzionale» (cfr. M. Vitale, Il
dialetto ingrediente intenzionale della
poesia non toscana del secondo Quattrocento,
«Rivista italiana di dialettologia
», X [1986], p. 10), o più che
altro inerziale? (M. Tavoni, Storia
della lingua italiana. Il Quattrocento,
Bologna, il Mulino, 1992, pp. 85-91).
Al fondo locale sono riconducibili
fenomeni come la mancata anafonesi
di o di qualonque (Foschi, cxcvi),
longo (Bicardi, ccvii), assompto (Poggi/
o, cclxix), noncio (da Petra Rubbio,
cccv), defonto (Nebbio,
cccxxviii) (assente è invece tra gli
autori settentrionali quella relativa
ad e, che compare nei pochi testi dei
centro-meridionali: benegno, Cristofori,
ccxcvi, sospento, Astemio, cccxi,
strenger, Flavio, cci); i vari esiti con
assibilazione di masone ‘magione’ (Zanessi,
cclxiii), sintilla (Torelli, cccvii),
diserne (Gozzadini, cccxxvii), zelosìa
(Poggi/o, cclxii), zeloso (Andalò,
cclxiii); l’epentesi di parangon (Paltroni,
ccxxiii, Valtellina, cccxii; riscontrabile
in Boiardo, Serafino, Tebaldeo,
Visconti: cfr. Vitale, op. cit., p.
14); l’articolo davanti a s implicata
di il spirito (ivi), il stile (Ercole, cclxi),
il strepito (Andalò, cclxxiii), un stil
RECENSIONI 805
(Sasso, ccxvii), e, nella preposizione
articolata, col stame (Argele,
cccxiv); nella morfologia verbale,
all’indic. pres. il passaggio m > n
nella 1a pers. plur. di piangian (Montecalvo,
cclxxv), alla 2a pers. plur.
le forme in -i di cognosceti, spargeti
(Foschi, cxcv), havreti, sapeti (Valtellina,
cciv), pensati (Sasso, ccxix)
(Mengaldo, op. cit., p. 119); con chiusura
metafonetica in piangite (da
Mare, cciii), e nel condiz. fariste (Postumo,
ccxcix); al perfetto la forma
forte poti ‘potei’ (Ercole Pio, cxcvii,
cxcviii; cfr. G. Contini, Un manoscritto
ferrarese quattrocentesco di scritture
popolareggianti, «Archivum Romanicum
», XXII [1938], pp. 283-319: 316),
e, da habui, have ‘ebbe’ (Formaglini,
cclxxxv) (Mengaldo, op. cit., pp.
127-28). Più caratterizzanti, ma anche
più isolati, fenomeni prettamente
dialettali come ciunque ‘chiunque’
(Filosseno, ccxxxvii; da mettere in
relazione con l’incertezza grafica
delle scriptae del nord nella resa delle
affricate palatali, e con grafie di tipo
opposto come chiascuno ‘ciascuno’?),
l’apertura di u in o di orge ‘urge’
(Achillini, ccxcviii; in rima con gorge
‘fiume’), la sonorizzazione della palatale
di giascuna (Correggio, cxci);
la -n > -m di ognium (Corimbo, ccxli;
ricorrente nell’area emiliano-veneta:
Mengaldo, op. cit., p. 98), il dileguo
dell’alveodentale in parone (Sasso,
ccxi); la palatalizzazione di -ll- di
cavagli (Postumo, ccxcix; correlabile
all’ipercorrezione settentrionale di gli
per iod interno: Mengaldo, op. cit.,
p. 90 n. 4, che cita bagli ‘balli’); la
forma enclitica el del pronome all’accus.
di senza el (Valtellina, cciv; frequente
nel Boiardo: Mengaldo, op.
cit., p. 110), la forma declinata dell’indefinito
di qualchi dì (Tebaldeo,
ccxiii; cfr. D. Trolli, La lingua delle
Lettere di Niccolò da Correggio, Napoli,
Loffredo, 1997, p. 122). Per aciunque
(Montecalvo, cclxxvii) non escluderei
l’errore per adunque. Singolare
appare la cifra linguistica della terza
rima del novarese Nebbio, con forme
quasi ‘polifilesche’ come clade,
collutto, la rima spirtu : myrtu, e voci
come affando ‘affanno’ (attestato, con
falsa restituzione di d reattiva al passaggio
-nd- > -nn-, in testi semmai
dell’Italia centro-meridionale), del resto
in rima con scando ‘scanno’, e,
sempre in rima, fuce ‘foce, fiume’ (attestato
in Jacopone, 51, 45, ed. Ageno,
ma anche relitto mediolatino), e
buffai ‘bufali’, in cui potrebbe configurarsi
il passaggio settentrionale da
-lli a -i (passando per un buffalli, forma
attestata ad esempio in Niccolò
de’ Rossi, 295, 7). Trascurando le
opzioni individuali, l’impressione è
tuttavia che l’elemento locale si configuri
nel complesso comunque come
minoritario, anche nelle serie sopracitate,
rispetto a una maggioranza
di forme legittimate da usi di lingua
poetica o di aperta ascendenza
toscaneggiante: impressione che andrebbe
ovviamente verificata e precisata
attraverso uno spoglio più
esaustivo.
Anche queste ultime osservazioni
confermano dunque come il volume
curato da Alessio Bologna valga
ad arricchire la conoscenza di un
periodo ricco di fermenti e ancora
in gran parte da esplorare, grazie
alla riscoperta e all’illustrazione rigorosa
di un testimone prezioso
come le «Collettanee» in morte di Serafino
Aquilano.
Leonardo Terrusi
806 RECENSIONI
Nicolò Franco, Epistolario (1540-
1548) Ms. Vat. Lat. 5642, a cura di
Domenica Falardo, Forum Italicum
Publishing, Stony Brook, NY, 2007,
pp. 7-654.
Sospinto senza riserve nella schiera
di poligrafi e ‘avventurieri della
penna’ che hanno attraversato la
scena letteraria cinquecentesca, Nicolò
Franco (1515-1570) ha sofferto
a lungo del giudizio riduttivo della
critica nonostante l’ampia produzione
letteraria, in parte dispersa, e in
parte a stampa anche per il clima
repressivo imposto dalla Controriforma.
Sicuramente un destino di
emarginazione che si è protratto nel
tempo e di cui è responsabile una
storiografia letteraria attenta piuttosto
alle grandi linee e alle grandi
questioni e poco incline a considerare
autori ritenuti a torto periferici
o marginali, sicuramente fuori dai
percorsi comunemente battuti e più
spesso in conflitto con norme o regole
riconosciute e accettate. Indubbiamente
Nicolò Franco, autore prolifico
in latino e in volgare, fu personalità
controversa, il suo spirito
corrosivo e polemico che non risparmiava
personaggi di rango, anche
nell’ambito della Curia, gli procurò
noie di ogni genere, fino alla morte
a Roma per impiccagione nel 1570.
La sua vita, turbolenta e inquieta,
fu segnata da fughe, attraversamenti,
ritorni, un’inquietudine che segnò
anche profondamente i suoi rapporti
e le sue amicizie intellettuali, mi
riferisco alla clamorosa rottura con
l’Aretino, altro personaggio singolare
e spregiudicato, che diede vita a
una polemica tinta di toni violenti
nei due volumi delle Rime contro Pietro
Aretino e Priapea, poi finiti all’Indice
nel ’59. Certo una personalità
singolare, a tratti controversa, interprete
discusso di un’epoca di crisi e
di profonde contraddizioni, sulla
quale si è avviato solo nel secolo
scorso un lavoro più attento di scavo
e di recupero (mi riferisco ai contributi
di De Michele, Badaloni, R.
L. Bruni, Martelli, Toscano, Boccia,
e a parte il caso di Enrico Sicardi
che fu il primo nel 1895 a segnalare
agli studiosi l’importanza di questo
codice).
L’epistolario del Franco, un ingente
corpus di 847 epistole, è trasmesso
dal codice cartaceo Vat. Lat. 5642,
un copialettere autografo, unico testimone,
e già ben noto agli studiosi
che a tratti, e in tempi diversi, se ne
sono avvalsi per una più completa
ricostruzione della vita e della formazione
intellettuale dell’autore.
Interessante l’aspetto grafico di questo
codice dove le «numerose cancellature,
le correzioni currenti calamo»,
le parole scritte in interlinea, gli appunti
presenti a margine» quasi una
sorta di pro memoria, per eventuali
correzioni o integrazioni, e ancora
«le carte di dimensioni variabili e,
in qualche caso, interfogliate», la
presenza di carte bianche o contenenti
solo l’intestazione di missive
poi non trascritte «conferiscono al
testo il carattere di una minuta, di
una redazione provvisoria e illuminano
sulle varie fasi del processo
elaborativo e sulla prassi compositiva
dell’autore» (p. 8). Si tratta sicuramente
di un corpus di particolare
rilevanza ai fini di una più corretta
ed esaustiva ricostruzione del
percorso umano e intellettuale del
Franco, che getta poi nuova luce, per
RECENSIONI 807
le caratteristiche stesse del ‘genere’,
su aspetti diversi dell’intricato universo
cinquecentesco. Tra i numerosi
interlocutori («il Franco è mittente
di 554 e destinatario di 293 lettere
»), figurano «letterati, prelati, uomini
di potere e loro segretari,
mecenati, principi, il fratello Vincenzo,
figure femminili delle quali è
taciuto il nome, tipografi e librai». E
non mancano lettere indirizzate a
destinatari fittizi, o, secondo una formula
già consolidata, a personaggi
illustri del passato.
I temi trattati sono numerosi e
vari: «Confessioni e progetti di carattere
letterario, notizie relative alle
opere che non ci sono pervenute,
scambi di idee con amici, pareri su
testi sui quali è chiamato ad esprimersi,
riflessioni sulle convenzioni
sociali e su disagi e problemi relativi
alla vita quotidiana, critica e ironia
contro vizi e privilegi, echi dei
tempestosi avvenimenti dell’epoca,
denuncia dei mali della Chiesa …
dichiarazioni d’amore e di dissenso
», oltre, s’intende, agli scontri con
l’Aretino e ai consueti attacchi «contro
vecchi e ormai logori schemi e
termini di giudizio», dove toni e livelli
di scrittura «si intrecciano e si
sovrappongono» a seconda della
tipologia degli interlocutori confermando
il sicuro possesso da parte
del Franco della tipologia epistolare
cinquecentesca.
A confermare il carattere singolare
di questo codice la presenza, «in
coda ad alcune missive» di componimenti
in versi: «diciotto sonetti –
pubblicati in minima parte nelle Rime
antiaretiniane e tre madrigali».
La complessa strutturazione del ms.
(di cui la Falardo fornisce un’accurata
e minuta descrizione) ricorda
per certi aspetti, e fatte salve le dovute
differenze di ‘genere’, la singolare
fisionomia di un altro testo
coevo, di pertinenza lessicografica,
mi riferisco al Vocabulario del napoletano
Fabricio Luna, un altro nome
non estraneo all’intricata trama di
amicizie e scontri che segnò il primo
soggiorno a Napoli del Franco.
Dell’ampio epistolario che copre
quasi un ventennio (dal 1540 al 1559)
la Falardo procura l’edizione delle
prime 351 lettere (quelle relative agli
anni 1540-1548), corrispondenti grosso
modo agli anni del soggiorno a
Casal Monferrato «prima tappa di
un viaggio che, secondo i suoi progetti,
avrebbe dovuto avere come
meta la Francia» (p. 17), e al biennio
mantovano dove il Franco fu ospite
della famiglia Arrivabene. A Casal
Monferrato, come sappiamo, era approdato
dopo la breve parentesi
napoletana e il successivo e turbolento
approdo nella città lagunare
dove «sconosciuto e assai mal in arnese
» fu ospitato dapprima da Benedetto
Agnello, ambasciatore dei
Gonzaga, entrando presto in rapporti
con l’Aretino. Il Franco partì da
Venezia nel 1540, e la Falardo ricostruisce
bene con l’ausilio di fonti
attentamente documentate e discusse
alla luce di queste lettere, le vicende
che dall’iniziale sodalizio portarono
alla clamorosa rottura. Certo
l’Aretino «abile e influente operatore
culturale, profondamente legato
al mondo delle tipografie» costituiva
per i giovani intellettuali desiderosi
di ben integrarsi nella città
lagunare, un punto di riferimento sicuro.
L’amicizia, agevolata da una
singolare affinità tra i due tempera808
RECENSIONI
menti «non poteva durare a lungo»
e si trasformò presto in aperta ostilità
proprio in occasione della pubblicazione
nel 1539 delle Pistole
vulgari, una raccolta di lettere, in tre
libri, con la quale il Franco, a un
anno appena dalla pubblicazione del
primo libro delle Lettere dell’Aretino,
sembrò aprire un confronto con il
suo maestro misurandosi con lui
proprio sul terreno della satira per
dar vita a uno scontro acceso che
degenerò presto in aperta ostilità
fino a rasentare l’ingiuria, se non addirittura
l’aggressione fisica. L’Aretino
«probabilmente non tollerava il
fatto che il beneventano, a cui aveva
offerto ospitalità, gli facesse concorrenza
in un genere – che succedeva,
rinnovandola, all’epistola tardo-
umanistica – del quale si considerava
l’iniziatore» (p. 13). È anche
verosimile, come osserva la Falardo
che il Franco «oltre a risentire di una
certa rivalità letteraria fosse rimasto
deluso dal comportamento del maestro,
nel quale aveva visto, come
molti altri letterati, il fautore di una
battaglia morale affrontata con serietà
e impegno» (p. 13). Il Franco,
si diceva, partì da Venezia nel 1540
lasciando dietro di sé l’eco vivissima
di questi scontri, e a Casal Monferrato,
dove visse fino al 1546, poté
godere della protezione del governatore
Sigismondo Fanzino e del
favore dei letterati locali. Certo un
periodo «di relativa stabilità» considerati
il temperamento di Franco, i
continui spostamenti e la precarietà
che caratterizza l’ultimo tormentato
ventennio della sua esistenza; un
periodo su cui fa ben luce questo
carteggio: sono gli in anni in cui il
Franco, conquistato ormai un proprio
spazio nella società letteraria del
tempo, si mostra «meno preoccupato
della propria immagine di intellettuale
» svelando una spontaneità
e un’immediatezza estranea alle Pistole.
Anche il successivo trasferimento
a Mantova, dove visse per
circa due anni, fino al 1548 (e dove
approdò prima della partenza per
Basilea) fu «probabilmente» risultato
di una condanna subìta a Casale
Monferrato «per aver reagito con
un’aggressione a un’offesa»; e le lettere
scritte in questi anni ci confermano
l’inclinazione vera dello scrittore:
è proprio di questi anni il Cartello
di M. Nicolò Franco per li Cortigiani
alle gentildonne di Mantoa, segnalato
dalla Falardo: «un testo singolare
» in cui Nicolò affrontava «con
intento parodistico e dissacratorio»
il tema diffuso in quell’età delle
complesse regole che disciplinavano
il duello e le questioni d’onore,
regole poi riproposte nel Duello,
«uno scritto di probabile carattere
satirico lasciato in forma manoscritta
» (p. 29). Sulla scorta di queste
lettere la Falardo ridisegna le fasi
più delicate del percorso umano,
esistenziale e letterario del Franco
individuando il filo sottile che lega
queste lettere ad altri scritti, ai
Dialogi e soprattutto alle Rime. Le
lettere informano anche sulla genesi
di alcune sue opere; è il caso della
lettera a Bartolomeo Grosso, scritta
da Casale Monferrato il 6 agosto
1545, e ricordata dalla Falardo, che
contiene chiari indizi sulle fasi di
elaborazione di una raccolta di sessanta
sonetti, pubblicati a Mantova
in volume nel 1547 (Dialogi maritimi
di M. Gioan Iacopo Bottazzo et alcune
rime maritime di M. Nicolò Franco, et
RECENSIONI 809
d’altri diversi spiriti dell’Accademia de
gli Argonauti). Tra i numerosi corrispondenti,
in genere principi o intellettuali
più o meno in vista della
società letteraria del tempo, figurano
personaggi diversi: Ludovico Domenichi,
Bernardino Moccia, Annibale
Brancazzo, Giovanni Iacopo Bottazzo,
Antonio Ravino, Giovanni Ronchegallo,
Francesco Alunno, il fratello
Vincenzo, Cesare Fregoso, Antonio
Castriota, Giuseppe Cantelmo,
Sigismondo Fanzino, Leonardo Arrivabene,
Isabella di Capua, e ancora i
conterranei Giovanni Antonio Mansella,
Vincenzo Cautano, per citarne
solo alcuni; interessante la fitta corrispondenza
intrecciata dall’ottobre del
1541 al giugno del 1543 con Alfonso
d’Avalos, marchese del Vasto, governatore
dello Stato di Milano e cultore
di poesia.
L’edizione di questo epistolario,
che si segnala per la cura filologica
e la sobrietà dell’indagine critica,
costituisce indubbiamente un punto
fermo per gli studiosi dell’opera del
Franco: un lavoro attento di trascrizione
e di edizione condotto con
criteri in massima parte conservativi
e di cui la Falardo dà conto in
una circostanziata Nota al testo. Certo
un terreno arduo, ricco di insidie
– considerata la complessa fisionomia
del codice – sul quale la curatrice
si muove con prudenza dimostrando
una buona padronanza in
tema di ecdotica dei carteggi, sostenuta
anche da una frequentazione
non occasionale dell’opera del Franco,
mi riferisco a una serie di interessanti
‘incursioni’ sulle Rime, pubblicate
in sedi e occasioni diverse, a
riprova quanto meno di una continuità
di interessi e di ricerca1.
Il volume è corredato da un’aggiornata
bibliografia critica e dagli
indispensabili indici (Indice delle epistole;
Indice dei corrispondenti; Indice
dei nomi citati nelle epistole).
Milena Montanile
Claudia Carella, “Umana cosa
picciol tempo dura”. Leopardi, Saffo
e il mondo greco, Roma, Universitaria,
2010, pp. 352.
L’idea di uno studio dei rapporti
tra Leopardi e il modello classico,
pensata e realizzata da una giovane,
ma promettente studiosa, Claudia
Carella, mira a ricostruire il rapporto
di Leopardi con gli antichi,
oltre che in ambito poetico, entro
margini di competenza filosofica. La
studiosa si muove sulle orme dello
Zibaldone, per dimostrare la profondità
del classicismo leopardiano,
mentre una delle punte cardine della
riflessione del mondo greco degrada
L’ultimo canto di Saffo. L’incontro
di Leopardi con la grecità avvenne
verso il 1813-1814, anno dell’apprendimento
del sacro, in parti-
1 Cfr. D. Falardo, Rime di Nicolò
Franco, in Le forme della poesia, VIII
Congresso dell’ADI (Siena 22-25 settembre
2004), a cura di R. Castellana e
A. Baldini, Università degli Studi di
Siena 2006, pp. 151-159; Per l’edizione
delle Rime di Nicolò Franco: recenti
acquisizioni, in La letteratura italiana a
congresso. Bilanci e prospettive del decennale
(1996-2006), a cura di R. Cavalluzzi,
W. De Nunzio, G. Distaso, P.
Guaragnella, Lecce, Pensa MultiMedia,
2008, pp. 317-323.
810 RECENSIONI
colare della lingua, entro una consistenza
di poetica classica e romantica.
Un paragrafo è dedicato al Saggio
sopra gli errori degli antichi, del
1815. L’ambiente in cui visse i primi
anni di formazione furono quelli di
Recanati. Il suo insegnante fu quello
che influenzò nelle forme gesuitiche
la sua prima formazione. Nel
1812 Leopardi aderì sempre di più
alle idee illuministe e razionaliste.
L’opposizione alla cultura antica è
espressa nel Saggio sopra gli errori popolari
degli antichi. Intorno al 1815
maturò la “conversione letteraria”.
Molte furono le traduzioni di questo
periodo, dall’Odissea all’Eneide.
Ma la vera conversione avvenne tra
il 1817 e il 1819, e fu caratterizzata
da esperienze di vita. La più riuscita
delle traduzioni fu quella della
Batracomiomachia, in cui si ispirò a
Mosco. Negli anni compresi tra il
1814 e il 1818, si accinse a comporre
il Discorso intorno alla poesia romantica
e tra le prime forme pagane dello
Zibaldone la più citata fu quella di
Mosco. Elemento importante, ma
trascurato dalla critica, fu il rapporto
con Esiodo, all’interno della traduzione
della titanica materia. La
polemica del Leopardi era rivolta ai
puristi milanesi, mentre la sua attenzione
fu presto volta alla traduzione
della Titanomachia di Esiodo.
Leopardi tradusse solo la parte bellica
e cosmica dell’opera di Esiodo.
La crisi del 1817 fu resa possibile
dall’incontro col Giordani e con l’Alfieri,
oltre che dall’amore per Gertrude
Cassi. Pietro Giordani fu animato
da idee antirestauratrici e anticlericali,
e avvicinò maggiormente
Leopardi al classicismo, venato di
sensismo. Il rapporto antichi-moderni
è esposto nello Zibaldone tra il
1820 e il 1821. Gli autori a lui cari
furono Omero, Pindaro, Anacreonte,
Luciano, Lucrezio, Cicerone, Virgilio,
Orazio. Gli antichi erano come
fanciulli, ma mancavano di naturalezza
e di semplicità, mentre la poesia
moderna si fondava sul contatto
tra poesia e filosofia. Anche nella
canzone Ad Angelo Mai l’elemento
portante è l’opposizione antichi-moderni,
mediata dal rinvenimento del
De repubblica ciceroniano. La canzone
A un vincitore nel pallone del 1821
affronta temi civili e morali. Il modello
della grecizzazione entrò in
crisi nell’Ultimo canto di Saffo, mentre
si intensificò nello Zibaldone. La
lingua latina fu superiore alla greca,
ma il più illustre degli epici fu, senza
ombra di dubbio, Omero, accomunato
agli altri, come Dante, Petrarca,
Ariosto, sotto la categoria
degli antichi. Il tema della compassione
e della misericordia, presente
in Omero, data intorno agli anni 21-
22. Nell’opera Lepardi analizza i
rapporti con la lingua omerica. Leopardi
riprese ad affrontare la questione
omerica nel 1828: tra i poeti
greci più amati spicca Anacreonte.
Il teatro, perché si allontana dalla
natura, non è vera poesia. L’evocazione
della poesia greca è presente
in opere come Alla fiamma, L’ultimo
canto di Saffo, L’Inno ai Patriarchi.
All’interno dell’intelaiatura tematica
di A Silvia, la Carella individua le
fonti omeriche. I Canti si aprono con
una citazione della canzone All’Italia
e si concludono con due citazioni
di Simonide. La sensazione di
dolore è, sempre, in Saffo connessa
a quella della giovinezza, mentre il
mito alimenta la poesia dell’innocenRECENSIONI
811
za e della leggerezza. Il testo si conclude
con una finissima analisi
dell’Ultimo canto di Saffo, del notturno,
in cui l’aggettivo “placida”, di
ascendenza quintilianea, crea un’atmosfera
di infinita serenità, che fa
da sfondo all’inquietudine della protagonista.
Una bellissima e appropriata
citazione conclude il pregevole
lavoro della Carella:”Il linguaggio
di Saffo è divino, perché sente
che la vita di ogni essere è arcana e
sacra”. In questo contesto di purificazione
e di sacralizzazione, le figure
muliebri leopardiane sembrano
incarnare la poesia del divino,
coinvolgendo il Leopardi in un afflato
quasi mistico, che lo rende ancora
oggi poeta molto attuale e imitato,
nonostante il suo rapporto con
l’Antichità. Il volume di Claudia
Carella ha l’indubbio merito di avere
indagato un problema critico di
cui molto si è discusso, ma poco si
è analizzato. L’entusiasmo della giovane
studiosa, che si è cimentata in
un argomento tanto arduo, non solo
denota una familiarità straordinaria
con la cultura classica, quanto anche
una sensibilità particolare nell’approccio
all’interpretazione critica
dei Canti e dello Zibaldone.
Valeria Giannantonio
La parola e il luogo, a cura di Antonio
Di Grado, Palermo, Kalòs, 2010,
pp. 94.
Il titolo di questo volumetto antologico,
La parola e il luogo, prende
spunto da quello di una rubrica
eponima pubblicata qualche tempo
fa sul periodico «Kalòs», nella quale
venivano ospitati periodicamente
saggi incentrati sui luoghi degli scrittori
siciliani e sulle modalità con le
quali essi avevano saputo trasfigurarli.
Dopo essere apparsi negli anni
in modo discontinuo, questi articoli
sulle ambientazioni di Verga, Pirandello
e Borgese, di Francesco Lanza,
Brancati e Quasimodo, di Vittorini,
Sciascia e Bufalino sono stati ripescati
da Antonio Di Grado ed assemblati
in un «piccolo e prezioso
atlante» (p. 11), al quale sono poi
stati aggiunti tre saggi inediti sulla
Sicilia di De Roberto, Lucio Piccolo
e Sebastiano Addamo.
Da questa sorta di mappa letteraria
emerge un ritratto della regione
siciliana quanto mai variegato, che
spazia dalla Catania di tradizione
borghese e democratica, per la quale
De Roberto nutriva un sentimento
di attrazione e repulsione, alla
Palermo aristocratica di Tomasi di
Lampedusa, dalla provincia messinese
affrescata da Lucio Piccolo e
Vincenzo Consolo al centro assolato
delle miniere e del latifondo descritto
da Francesco Lanza, fino alla Sicilia
amara della mafia e della morte
analizzata da Sciascia. Accanto a
queste rappresentazioni più o meno
realistiche si pongono poi quelle
delle altre «cento Sicilie» inventate
dagli scrittori nel tentativo di difendere
la loro terra da una realtà «tralignata
e mortificante». Si tratta delle
celebri Ràbbato e Roccaverdina,
di Calinni, Regalpetra e Trezza, toponimi
di località fantastiche, immaginate
dai letterati come «schermo
alla nostalgia o riparo allo scherno»
(p. 10). Il paese dei Malavoglia, «ostrica
abbarbicata a una statica dimora
812 RECENSIONI
isolana» dove ripararsi dai «marosi
della modernizzazione» (p. 21), presenta,
ad esempio, caratteri del tutto
estranei ai borghi marinari di
quegli anni, che vengono desunti
semmai dalle memorie autoriali relative
alle comunità rurali dell’interno.
In questo modo, la geografia reale
si fonde con gli spazi simbolici o
visionari creati dagli scrittori per rappresentare
e universalizzare l’ambiente
insulare, che viene «promosso a
macrocosmo» (p. 13) e adottato come
chiave di lettura della condizione
umana. Come aveva già intuito
Borgese nel ’33, nella sua Introduzione
al volume Sicilia del Touring Club,
la Sicilia è infatti un’«isola non abbastanza
isola», la quale, nonostante il
suo isolamento, costituisce un elemento
«direttivo» della «cultura nazionale
», «essenziale» per la «costruzione
del nuovo mondo e del nuovo
io» (p. 15) della società italiana.
In ambito letterario, il rapporto fra
l’uomo e l’ambiente serve insomma
ad analizzare sotto una prospettiva
differente il classico rovello sulle dissonanze
e le convergenze fra io e
mondo. Scrittori come De Roberto –
che dal ’27 tiene una rubrica sulle
bellezze architettoniche di Catania
sul «Giornale dell’Isola» –, come
Borgese – autore di una lucida introduzione
al volume siciliano del
TCI – o come Bufalino, convinto che
la Sicilia, «prima di essere un’anagrafe
geografica», sia essenzialmente
«una condizione morale» (p. 91),
hanno preceduto le tendenze di ricerca
della critica ufficiale, che solo
di recente ha accettato «l’appartenenza
dell’opera letteraria allo spazio
» (p. 9). Attraverso i testi è possibile
decriptare l’idea di mondo
racchiusa in un determinato paesaggio
e riconfigurare lo spazio assemblando
dati della realtà oggettiva e
suggestioni intime, dando luogo a
rappresentazioni inedite, utili a definire
«l’umano consorzio» (p. 9) che
anima i luoghi.
Gli scrittori, insomma, non si limitano
ad una esatta rappresentazione
della realtà, ma vanno alla ricerca
dei suoi aspetti metaforici per
rintracciare nel paesaggio le caratteristiche
della società che li vive; per
scoprire, come Bufalino, che la condizione
dell’isola influenza e determina
la «fierezza magnanima» e il
«furor malinconico» (p. 91) dei suoi
abitanti; o per comprendere, come
aveva fatto Borgese, che la «psiche
individuale» dei siciliani si basa sul
«complesso di inferiorità e lo spirito
di grandezza» già intessuti a loro
volta «nel destino storico e naturale
» della loro terra (Sicilia, p. 10).
Nella Premessa alla prima edizione
della sua Isola di carta. Incanti e inganni
di un mito (Siracusa-Palermo,
Lombardi, 1996) del 1984, Antonio Di
Grado si era già soffermato sul mito
letterario della Sicilia, definendo questa
terra come un luogo privilegiato
per porsi interrogativi sui «destini
collettivi e su miti e ideologie di largo
consumo», come un «rancoroso
rifugio atto ad alimentare il risentimento
dell’isolato e a proteggerlo»
nel contempo dagli «spaesanti traumi
della modernità» (p. 9).
Queste due immagini contraddittorie
della Sicilia emergono anche
dalle rappresentazioni che ne hanno
dato i suoi scrittori, i quali, di
volta in volta, l’hanno dipinta, come
ha fatto Quasimodo, come un locus
amoenus esclusivo e conchiuso, doRECENSIONI
813
tato di una doppia forza «centrifuga
e centripeta», dove «si è chiusi dal
mare» eppure «si evade» per poi
farvi ritorno infinite volte «con l’animo
» (p. 48); o come una «terra promessa
», che, per dirla con Borgese,
«scapiglia […] la fantasia solo se
vista da lontano» (p. 38), poiché, se
osservata da vicino, essa «chiude la
bocca e il cuore», e dunque, per
amarla, occorre limitarsi, come suggerisce
Francesco Lanza, a cantarla
«sulle bianche carte, nei libri e nei
film» (p. 41). I letterati siciliani sono
insomma lacerati, come Gesualdo
Bufalino, fra l’orgoglio di appartenere
ad una terra amena e generosa
ed il senso di riprovazione per le
sue storture e per il deperimento
provocato dalla brama di possesso
dell’uomo, pronto a distruggere il
paesaggio pur di convertire «un
carrubeto infruttifero in un seminato
venale» o ad appiccare incendi
per «estorcere alla Regione danari
per rimboschire» (p. 89).
Tuttavia, pur essendo una «terra
difficile», la Sicilia non ha «eguali al
mondo» (p. 92) a dire dell’autore
delle Menzogne della notte, che ha
legato indissolubilmente la sua opera
a questo luogo contraddittorio, in
bilico fra il senso di «autosufficienza
felice» per via del suo isolamento e
la «solitudine amara» dovuta alla
sua «segregazione» (p. 91). Riflettendo
sui macrotemi del radicamento,
dell’esilio e del desiderio di fuga e
interrogandosi sull’identità di quest’
«isola non abbastanza isola» – come
l’aveva definita Borgese nel ’33 –,
e su quella dei suoi abitanti, gli scrittori
finiscono con l’attribuire alla
propria terra uno spessore simbolico,
e, trasformando i luoghi in un
elemento chiave per interpretare ed
esprimere il rovello esistenziale novecentesco,
essi confermano che il paesaggio
è davvero, come aveva ipotizzato
Giorgio Caproni nel ’56 su
«La Fiera letteraria», il «più lucido
geroglifico della nostra desolata anima
contemporanea».
Ambra Meda
Stefano Carrai, Il caso clinico di
Zeno e altri studi di filologia e critica
sveviana, Pisa, Pacini, 2010, pp. 136.
Se è vero che la Coscienza di Zeno
deve la propria origine ad un «attimo
di forte travolgente ispirazione»1
dell’autore, è altrettanto vero, ovviamente,
che l’urgenza della scrittura
non poteva prescindere, per Svevo,
dal confronto continuo e insistito con
gli umori culturali del proprio tempo.
È alla ricerca delle possibili matrici
letterarie e filosofiche del terzo
romanzo sveviano che Stefano Carrai
dedica Il caso clinico di Zeno, primo
dei saggi che compongono un
volume nato, in parte, per rendere
esplicito al lettore il filo che lega
ricerche distribuite nell’arco di un
trentennio e, di fatto, per inserire
ulteriori e preziosi elementi nel quadro
estesissimo della critica sveviana.
Sei degli otto capitoli del libro
sono, infatti, stati pubblicati in passato,
ma vengono qui riattraversati,
organizzati diversamente e inseriti
all’interno di un ragionamento più
complesso. I restanti due lavori ri-
1 I. Svevo, Profilo autobiografico, in
Id., Racconti, Milano, Mondadori, 2004,
pp. 811-812.
814 RECENSIONI
sultano del tutto inediti ed aggiungono,
per questo, nuovi tasselli al
quadro delle indagini sulla produzione
letteraria di Svevo. Della Coscienza
lo studioso pone subito in
risalto il carattere di antiromanzo,
di testo dall’impianto complesso che
mette in scena «la disgregazione del
vissuto e della psicologia del personaggio
» (p. 11). A partire da questo
dato, egli prova ad individuare le
fonti letterarie di tale prospettiva e
ricostruisce, innanzitutto, la rete di
rimandi che i critici contemporanei
di Svevo tracciano tra le pagine dell’autore
triestino e quelle dei più
forti modelli letterari dell’epoca. Dopo
aver citato, pur mantenendone
le distanze, la lettura di Benjamin
Crémieux, che considerava Svevo
quasi un «secondo Proust» (p. 13)
per la sua sottile capacità di percorrere
i sentieri della memoria, Carrai
si sofferma sulla possibilità di stabilire
delle connessioni tra la scrittura
sveviana e quella di Musil, Kafka,
Joseph Roth e Schnitzler. Il richiamo
a queste letture non può affiorare
nel romanzo di Zeno sotto forma
di influenze dirette, ma emerge,
nella proposta di Carrai, almeno per
la presenza di «costanti insite nello
spirito del tempo» (p. 14). Più avanti,
l’attenzione è rivolta all’attrazione
che sull’autore possono aver esercitato
Rilke, Jean Paul e Joyce, scrittore,
quest’ultimo, che Svevo, com’è
noto, conosceva personalmente. Non
avendo riscontrato alcun rapporto
imitativo tra la scrittura sveviana e
quella dei testi presi in esame, lo
studioso può giustamente affermare
che «tanto l’ideazione della Coscienza
quanto la sua dispositio vanno
considerate come il frutto dell’originalità
e della creatività del suo autore
» (p. 17).
Piuttosto, maggiormente fecondo
risulta il confronto con la produzione
freudiana. Carrai non manca di
ricordare che Svevo è stato traduttore
di Über den Traum e ritiene che
il contatto con le teorie psicanalitiche
abbia procurato una «somiglianza
stringente» (p. 19) tra il modo in
cui Freud descrive le vicende dei
propri pazienti e quello in cui si racconta
la vita del protagonista della
Coscienza. Il romanzo diventa, insomma,
la storia del caso clinico di
Zeno. La sua struttura rovescia quella
dei testi di riferimento, che si
concludono con la guarigione del
paziente, e rivela, dunque, rispetto
ad essi una chiara «intenzione antifrastica
» (p. 22). In quest’ottica, diventa
allora pienamente condivisibile
l’idea che il modello della
scrittura psicanalitica abbia suggerito
a Svevo una «decostruzione in
chiave freudiana della trama tradizionale
del romanzo» (p. 23).
Alle pagine della Coscienza Carrai
dedica anche il secondo dei segmenti
che compongono il volume, che si
intitola, significativamente, Come
nacque la Coscienza di Zeno. Questa
volta l’intenzione è quella di indagare,
dopo aver fissato i precisi termini
cronologici entro i quali Svevo
lavora al proprio romanzo, la logica
sottesa al montaggio del testo. Ritenendo
che esso funzioni come la ricostruzione
di «cinque lunghe sedute
di autoanalisi (o se si vuole di
autocoscienza) incorniciate da un
doppio prologo e da una conclusione
» (p. 30), il critico sottolinea la presenza
di una frattura tra i capitoli
centrali e lo sfondo costituito da PreRECENSIONI
815
fazione, Preambolo e Psico-analisi. Tuttavia,
egli dissente da chi ha ritenuto
la Coscienza frutto dell’assemblaggio
di materiali preesistenti e procede
evidenziando tutte le tracce a
favore di un progetto unitario della
scrittura. Così, all’interno di una narrazione
aggregata per blocchi tematici,
ad essere posti in risalto sono
soprattutto i segnali di coesione:
temi ricorrenti, rinvii da un capitolo
all’altro, immagini che ritornano. In
quest’ottica, anche il dottor S. non
appare un personaggio di sfondo,
ma un «elemento di rilievo nella
grana finissima del testo» (p. 47),
una presenza velata e insieme incombente
su tutta la vicenda narrata.
Sulla sua identità Carrai si interroga
nel terzo capitolo, allontanando
definitivamente le proposte
interpretative che leggevano nel
nome abbreviato l’indizio della fisionomia
di Freud o di quella dello
stesso Svevo e ricordando che l’abitudine
di indicare il nome di un medico
con la sola iniziale è caratteristica
della narrativa ottocentesca incentrata
«sulla figura dello scienziato
temerario» (p. 51).
A partire dal quarto saggio, Svevo
scrittore distratto: da Una vita alla
Coscienza, da Corto viaggio sentimentale
a Il vegliardo, Carrai amplia
la prospettiva di indagine e introduce
nell’ottica del proprio ragionamento
gli altri testi della produzione
sveviana. Attraverso il filtro
della distrazione, considerata quasi
una categoria comportamentale nell’indole
dell’autore, l’argomentazione
procede analizzando tutte le antinomie,
le contraddizioni, le suture
imperfette presenti nei romanzi come
nei racconti e negli scritti teatrali.
Lungi dal ritenere le incongruenze
rilevate nei testi il risultato di operazioni
consapevoli di demistificazione
della scrittura, Carrai considera
ciascun elemento un segnale preciso
della maniera in cui Svevo lavora.
Ad emergere è l’idea di una
gestazione dei testi lunga, stratificata,
nella quale le più scarne redazioni
iniziali acquistano spessore per
l’introduzione nella psicologia dei
personaggi di dettagli più precisi. Da
questo punto di vista, risulta di particolare
interesse l’analisi della pagina
di Corto viaggio sentimentale in
cui Svevo dà la definizione, cruciale
nell’intero sistema della sua narrativa,
di «poeta travestito»2. Gli interventi
compiuti sulla prima stesura
del testo tendono a mettere in luce
la «finezza d’ingegno […] del protagonista
» (p. 73), che appare, inizialmente,
tratteggiata in maniera meno
esplicita. La scrittura sveviana si mostra,
allora, «tumultuosa, tesa al continuo
superamento di se stessa per
lo strenuo rifacimento da parte di
uno scrittore incontentabile» (p. 78).
Passando dalla produzione strettamente
narrativa ai testi di altro
genere, nel quinto capitolo Carrai
discute il caso del Profilo autobiografico,
ricostruendo le posizioni della
critica più recente che ne ha messo
in dubbio l’autenticità. Il testo, decisivo
per l’interpretazione della fisionomia
privata ed intellettuale di
Svevo, appare invece allo studioso
di sicura attribuzione. Malgrado
l’ipotesi di una manipolazione successiva
alla morte dell’autore, esso
resta una «fonte insostituibile» (p.
2 I. Svevo, Corto viaggio sentimentale,
in Id., Racconti, cit., p. 549.
816 RECENSIONI
88) per sondare i percorsi della sua
biografia e della sua narrativa. Alcune
riflessioni non marginali sono
riservate, nei due saggi che seguono,
ai carteggi con Crémieux e Marie
Anne Comnène, per i quali si avanzano
nuove ipotesi di datazione, e
ad alcune lettere scritte da Svevo a
Giovanni Comisso. In questo caso,
la questione relativa all’assenza di
data viene felicemente risolta grazie
alla perizia filologica dello studioso,
che permette di risalire al giorno
esatto della sua stesura.
Il lavoro posto a chiusura del volume,
inedito come quello che attraversa
le pagine del Profilo, segue un
percorso poco indagato, ma non per
questo secondario nella definizione
delle prospettive di Svevo. Si tratta
del ruolo che assumono, nel suo orizzonte
culturale, alcuni autori della
tradizione letteraria italiana. In particolare,
accanto a qualche breve
cenno sulla presenza di Dante, Boccaccio,
Machiavelli e Guicciardini
nelle pagine di Una vita, Carrai si
ferma a considerare quale sia stato
il ruolo svolto da Petrarca nell’articolazione
della narrativa sveviana.
Le conclusioni a cui egli approda
permettono di ritenere che il poeta
sia uno dei grandi riferimenti dell’autore.
Petrarca non affiora, di fatti,
dalla pagina di Svevo solo per il
canonico rimando al suo amore per
Laura, come pure accade in Terzetto
spezzato, ma diventa il centro di un
dibattito sull’autenticità delle sue
lettere in Una vita. Richiamare la
questione, affrontata anche dal Foscolo
esule in Inghilterra e presentata a
Svevo, secondo Carrai, da Attilio
Hortis, diventa il segno di una conoscenza
«completa e complessa» (p.
123) della sua intera esperienza intellettuale
e dichiara, più in generale,
la natura multiforme della scrittura
sveviana.
Stefania Capuozzo
L’oeuvre ou la vie. Mots d’Antonia Pozzi.
L’opera e la vita. Parole di Antonia
Pozzi, a cura di Laura Oliva e Ettore
Labbate, Bern, Berlin, Bruxelles
Frankfurt am Main-New York,
Oxford, Wien, 2010, pp. 214.
La restituzione di una parte di liriche
della raccola Parole di Antonia
Pozzi, ad opera di Laura Oliva ed
Ettore Labbate, per i tipi di Peter
Lang, con la traduzione francese di
Ettore Labbate, riporta alla luce la
cifra esistenziale di una poetessa, per
la quale il viaggio, l’erranza, scandiscono
i momenti di un cammino
verso un senso ineluttabile di dolore.
Nata a Milano il 13 febbraio 1912,
da una famiglia benestante, che per
parte materna discende da Tommaso
Grossi, trascorse la sua estate a
Pasturo. Il punto cruciale della biografia
della Pozzi è l’incontro con il
suo professore di latino e greco,
Antonio Cervi. L’amicizia con Vittorio
Sereni, Rino Formaggio e Giulio
Preti fu fondamentale per la sua
formazione poetica. Si laureò con
una tesi su Flaubert nel 1935. L’estate
del 1938 con la promulgazione
delle leggi razziali, lascia precipitare,
come anche per Saba, il dramma
esistenziale della poetessa, che, a soli
26 anni concluse la propria vita il 2
dicembre 1938. La consapevolezza
della fine è un elemento di fondo
caratterizzante un itinerario umano
e poetico, di natura autobiografica.
RECENSIONI 817
L’edizione del 1964, ad opera di Vittorio
Sereni, riconferma un’adesione,
come sottolinea la Oliva, alla
vita, nella quale è sempre presente
la crisi delle certezze, conseguente
al fallimento del positivismo. È d’altronde,
come sottolinea la Oliva, la
stessa visione malinconica del D’annunzio
notturno, che non solo nella
fase terminale della propria esistenza,
ma anche nell’arco di tutta la vita
alternò al culto della bellezza, il senso
incombente della morte e l’ossessione
dello scorrere del tempo. Però,
al contrario del D’Annunzio malinconico,
assai bene messo in luce da
Gianni Oliva, nel suo D’Annunzio e
la malinconia, la parabola verso la
morte della Pozzi si impregna di un
desiderio di pace, come redenzione
dal dolore. Il senso di estraneità alla
realtà umana e naturale proietta l’esistenza
della Pozzi, nel sogno, unica
dimensione di vita, che ripropone il
motivo assai moderno dell’onirismo,
del nomade senza approdo di terra,
comune con lo Sbarbaro di Mediterranee.
Tra i giorni del pianto e i giorni
della pace, l’invocazione al Signore
della lirica Preghiera, e agli elementi
primigeni della natura, dai quali la
poetessa cerca di trarre alimento di
vita, esemplifica, al tempo stesso, la
desertificazione della coscienza. Il
binomio classico leopardiano amoremorte
appare riproposto dalla Pozzi
nelle movenze macabre di una vita
che entra nella bara. La sottolineatura
nella lirica Fine della “fine notturna”
diluisce nel senso incombente della
morte lo scorrere del tempo e della
vita, restituendo così un’immagine
visiva di un travaglio esistenziale,
tanto isolato nel contesto storico-politico
del proprio tempo, quanto riflesso
nella solitudine dello spegnimento
della vita. Il merito di Laura
Oliva ed Ettore Labbate è quello indubbio
della pubblicazione di alcune
poesie di Parole della Pozzi, con un
ampio e documentato commento iniziale.
La pubblicazione di Poesie della
Pozzi si pone a suggello di un
connubio ormai datato tra l’Università
di Caen in Normandia e l’Università
D’Annunzio di Chieti.
Valeria Giannantonio
Rosamaria Loretelli, L’invenzione
del romanzo. Dall’oralità alla lettura silenziosa,
Roma-Bari, Laterza, 2010,
pp. 262.
Molto è stato detto e scritto sul
romanzo moderno e sulle sue scaturigini
e anche oggi che le nuove potenzialità
espressive offerte dall’ipermedialità
minacciano di mettere in
discussione il suo statuto egemonico
in ambito letterario, il dibattito critico
sul genere narrativo per eccellenza
appare lungi dall’essersi esaurito.
Anzi, forse è proprio la consapevolezza
di vivere una vorticosa rivoluzione
tecnologica paragonabile,
per l’impatto esercitato sulle modalità
di scrittura e lettura dei libri, a
quella di Gutenberg, che ci spinge
da un lato ad interrogarci sulla necessità
per la narrativa di rinnovare
le proprie forme, e dall’altro a riconsiderare
il romanzo nei termini di
un approdo, nient’affatto definitivo,
di quel flusso in perenne mutamento
che è la comunicazione letteraria.
Del resto, come ha osservato a suo
tempo Marshall McLuhan, la storia
del pensiero umano è anche la sto818
RECENSIONI
ria delle forme e dei mezzi che, in
diverse epoche e in diverse culture,
menti e corpi in situazione hanno elaborato
per raccontarsi e per trasmettere
informazioni. Di ciò si mostra
ben consapevole Rosamaria Loretelli,
che in questo suo meditato saggio
stila un’avvincente storia del libro e
della lettura connessa all’evoluzione
delle forme narrative, rintracciando i
mutamenti più significativi intervenuti
nelle pratiche di elaborazione e
di fruizione del récit a partire dall’antichità
classica sino al Settecento,
periodo su cui la sua indagine si
sofferma con particolare cura.
Nel lungo processo che vede il
progressivo affrancarsi, in letteratura,
della parola scritta dall’oralità, il
secolo dei Lumi costituisce un momento
peculiare in cui, osserva l’autrice
nel primo capitolo, “l’incremento
delle trasformazioni quantitative
supera la soglia di non ritorno che
dà origine al salto di qualità” (p. 6).
I cambiamenti avvenuti nella forma
materiale dei testi e nelle modalità
di ricezione, iniziati con l’introduzione
della stampa a caratteri mobili,
ma diffusisi su larga scala solo
nel diciottesimo secolo, determinarono
la nascita di un nuovo tipo di
narrativa che per catturare l’interesse
e suscitare emozione nei suoi
destinatari non privilegiava più il
contesto esterno. Il romanzo moderno,
sostiene la Loretelli, si pone infatti
nella storia della letteratura
come una vera e propria invenzione
programmatica, come una precisa
risposta fornita dagli scrittori del
Settecento alle esigenze di un pubblico
che acquisiva sempre più dimestichezza
con la lettura silenziosa,
privata ed intimista. Si tratta di
una situazione comunicativa del tutto
inedita, in cui il lettore è per la
prima volta “solo di fronte alla pagina
stampata, che scorre con gli
occhi a una velocità sintonizzata con
l’andamento del suo pensiero e delle
sue emozioni” (p. 60). Mentre nel
Seicento la lettura costituiva ancora
una pratica essenzialmente orale e
collettiva, legata alla presenza umana
e allo scambio verbale, dalla seconda
metà del diciottesimo secolo
in poi sarà la sola pagina scritta a
farsi carico di tutto il portato emotivo
e di significato la cui trasmissione
veniva in precedenza delegata al
contesto di enunciazione. Il romanzo
moderno prende forma “da un
continuo andirivieni tra proposte
‘narratologiche’ e prassi narrative”
(p. 146), entrambe stimolate dai nuovi
standard della comunicazione letteraria:
prima ancora di ospitare nel
suo universo ambienti sociali e caratteri
umani in precedenza assenti
o non rappresentati, esso soddisfa
“un’esigenza cognitiva che si stava
determinando a seguito del radicarsi
dell’alfabetizzazione in un numero
sempre maggiore di persone, a
seguito della standardizzazione delle
lingue e a seguito dei perfezionamenti
tecnologici” (p. 146). L’indagine
a tutto campo della Loretelli,
che si avvale dell’analisi di un numero
considerevole di fonti, restituisce
un’immagine della lettura come
prassi storicamente determinata,
come gesto nient’affatto immutabile
che nel corso delle epoche si è compiuto
secondo modalità differenti e
che ha perseguito obiettivi sempre
nuovi: “lungi dall’essere una capacità
già predisposta negli individui
nei modi in cui l’acquisiamo oggi
RECENSIONI 819
durante l’infanzia”, puntualizza l’autrice
nel secondo capitolo, “questa
pratica è andata cambiando anche
proprio in quegli aspetti che a noi
parrebbero più vicini alla natura, sia
fisica che psichica” (p. 27). Si tratta
di uno dei punti cardine della riflessione
sul legame tra la diffusione
di nuove tecnologie della parola
e l’evolversi dell’atteggiamento cognitivo
del pensiero umano di cui,
nel quarto capitolo, la Loretelli discute
in relazione al radicale rimodellamento,
nella narrativa del diciottesimo
secolo, delle categorie della
temporalità e della causalità. Attraverso
un’accurata analisi delle
opere teoriche e creative di quegli
autori che, influenzati in misura diversa
dalle idee sulla comunicazione
esposte da David Hume nella Ricerca
sull’intelletto umano (1748), contribuirono
a mettere a punto una
nuova estetica del racconto, la Loretelli
dimostra come gli scrittori del
Settecento fossero ben consci del
fatto che l’impossibilità di adeguare
i modelli narrativi del passato alle
nuove condizioni di fruizione del
testo derivava principalmente dall’esistenza
di una più accentuata
sfasatura temporale tra l’esperienza
dei personaggi del racconto e l’esperienza
del lettore, la quale a sua
volta ostacolava l’induzione nei destinatari
di tensioni ed emozioni, per
così dire, forti. I grandi romanzieri
come Henry Fielding e Samuel Richardson,
ricorda la Loretelli, avanzarono
diverse proposte per ovviare
a tale problema, e tuttavia occorse
un lasso di tempo piuttosto lungo
prima che il romanzo giungesse
ad una soluzione soddisfacente.
L’autrice ripercorre accuratamente
tutti i passaggi che segnarono questo
processo: di notevole interesse
sono le sue osservazioni relative all’uso
nelle prime edizioni dei romanzi
settecenteschi di un ricco apparato
grafico in funzione significante ed
emotiva, un aspetto della storia del
romanzo verso il quale la critica ha
mostrato fino ad ora scarso interesse,
se si esclude il caso del Tristram
Shandy (1760-67) di Sterne. Trattini,
asterischi, ornamenti floreali, spazi
bianchi e pagine abbrunite non costituiscono,
a parere della Loretelli,
elementi esterni e del tutto accidentali,
bensì il tentativo “di segnalare
discontinuità temporali – interruzioni,
pause, reticenze, silenzi – collegate
con la tensione emotiva e l’ansia
dei personaggi” (p. 155). Con l’inserimento
di uno spartito in Clarissa
(1748), Richardson, ad esempio, mira
a “riprodurre l’atmosfera musicale,
non rappresentandola simbolicamente
o ricreandone l’effetto con altri
mezzi, […] ma facendo scivolare
delle note musicali pari pari tra le
parole del testo stampato”, rivelando
quindi il desiderio “di risarcire
la narrazione della perdita del suono
e del contatto tra chi legge e chi
ascolta” (p. 149).
Lo sperimentalismo grafico dei
primi romanzi, tuttavia, si rivelò presto
inadeguato a rallentare il flusso
del racconto e a riprodurre sulla pagina
stampata quella “durata” indispensabile
a far protendere con inquietudine
il lettore verso lo scioglimento
dell’intreccio narrativo. La
Loretelli attribuisce al romanzo gotico,
ed in particolare a The Mysteries
of Udolpho (1794) e The Italian (1797)
di Ann Radcliffe, il merito di aver
battuto fino in fondo il sentiero che,
820 RECENSIONI
in Inghilterra, Aphra Behn a fine Seicento
e Henry Fielding, Samuel Richardson
e Tobias Smollett intorno
alla metà del Settecento, aprirono nel
campo della manipolazione narrativa
del tempo: se il romanzo alessandrino
e quello barocco ritardavano
il ritmo del racconto per mezzo dell’inserimento
cospicuo di digressioni
e di episodi a sé stanti, il romanzo
gotico gestisce la suspense senza
mai stornare l’attenzione del lettore
dal filo narrativo principale. In tal
modo, conclude l’autrice, il racconto
induce “il desiderio di conoscere il
futuro testuale, e per non soddisfarlo
troppo presto […] dilata le maglie
del racconto, metabolizzando le descrizioni,
scomponendo i fatti e intersecando
tra loro attese diverse” (p.
170). Il decisivo passaggio dall’organizzazione
paratattica del racconto,
fatta di giustapposizioni di eventi e
storie, a quella ipotattica, mirante
invece a stabilire connessioni logiche
tra gli episodi principali della trama,
fu inoltre utile ad attivare in maniera
efficace la memoria dei destinatari
i quali, non disponendo più degli
ausili mnestici garantiti da una situazione
comunicativa orale, necessitavano
di nuove forme di ripasso per
rammentare i particolari indispensabili
ai fini della comprensione del
racconto. La Loretelli ipotizza quindi
una connessione tra l’affermarsi del
realismo narrativo e le mutate esigenze
di memorizzazione dettate dai
tempi della lettura interiorizzata: “il
romanzo introduce ambientazioni accurate,
atteggiamenti, dilemmi, indecisioni,
previsioni, pensieri, che forniscono
molto alle sedi della memoria
e fanno ricordare la storia perché
la collegano a un maggior numero
di esperienze già in memoria” (p.
177). Diversamente dalla narrativa
antica e, in misura minore, da quella
del sedicesimo e del diciassettesimo
secolo, il romanzo moderno, mentre
progredisce nella trama, “induce anche
il recupero mnestico di tutta una
serie di informazioni pregresse, mediante
il riferimento a indici di
archiviazione” (p. 180) che rimandano
ad avvenimenti narrati in precedenza.
Dall’indagine della Loretelli
emerge con forza l’idea che le vistose
innovazioni formali introdotte nella
narrativa del Settecento furono in
sostanza il frutto della continua attenzione
che i romanzieri rivolsero
alla lettura in quanto pratica e agli
effetti che essa esercitava sulla mente
dei lettori e fu in base ad una simile
prospettiva che essi misero a
punto un nuovo tipo di unità, che
l’autrice chiama “coesione narrativa”
(p. 183), intesa non come caratteristica
oggettiva del testo, ma come esito
del rapporto tra testo e lettore. Tale
convenzione si rivelò una risposta ai
problemi sollevati dalla nuova situazione
comunicativa talmente efficace
da imporsi a lungo come unico modo
valido per raccontare una storia lunga.
E tuttavia, osserva l’autrice in
chiusura di saggio, essa costituisce
una “forma simbolica di una esperienza
del tempo storicamente
(antropologicamente) determinata”
(p. 195), che ci rende consapevoli di
come “le tecnologie della parola”, oltre
che “immagazzinare ciò che abbiamo
conosciuto per altra via”, contribuiscono
anche “a modellarlo, in
un modo spesso inaccessibile alla coscienza”
(p. 196).
Stefano Manferlotti
RECENSIONI 821
Ludovico Fulci, Ethos e mythos.
Poesia e impegno civile nel Novecento
italiano, Roma, Edizioni Libreria
Croce, 2010, pp. 206.
Sorprende il tema, ed è comprensibile,
dopo quanto se ne disse tra
Vittorini, Alicata e Togliatti, agli inizi
della Repubblica, ed anche dopo, in
diversi contesti da vari schieramenti,
politici più che letterari, che l’intellettuale,
sia scrittore sia cronista,
deve sempre e in ogni caso essere
schierato politicamente: senza pensare
che, dovendo il desso stare aggiogato
alla balia di un’unica e sola
campana, c’è il rischio che ne rintocchi
anche lui di riflesso e si metta
a dire che il bene è sempre da
quella parte lì, perché dall’altra la
natura ha stabilmente allocato il rovescio,
il nero e il male e il brutto.
Molto meglio lo diceva Breton, in
un suo scritto del ’52, Come in un
bosco, pigliando attrito dall’epoca,
secondo lui, «d’inumanesimo, così
forte che quasi tutti gli scrittori tengono
molto all’onore d’impegnarsi,
e cioè optano, in spregio di tutto
quanto potrebbe qualificarli spiritualmente
(la libera testimonianza,
nell’assoluto rispetto del senso delle
parole) per uno dei due campi a
confronto, il quale medita soltanto
lo sterminio dell’altro…».
In questo volume il Fulci dimostra
che intellettuale è il poeta. Vi si
legge, per es., che l’impegno civile, a
cui “porta” la poesia, è innanzitutto
nella “serietà e affidabilità nei confronti
del pubblico” (p. 12). E ciò mi
pare significhi fuori di dubbio che
questo in primo luogo l’intellettuale
deve intellegere: quale sia il bene
pubblico e da che parte politica esso,
nel presente, venga coltivato realmente.
Ma proprio in quanto l’intellettuale
è qui rappresentato dal poeta,
il discorso di Fulci si solleva a
dire che “ogni poesia dovrebbe contenere
se stessa” (p. 13). Ed ecco qui
una bella trovata: la poesia deve stare
in sé, deve farsi del suo sé. Non
perché essa non abbia nulla a che
fare col mondo, e questo resti fuori
d’essa, confinato nelle zone basse; è
pressappoco ciò che di sé poeta dice
il Magrelli a p. 22 (“bruciare sulla
carta lentamente/ e nella carta restare/
in altra nuova forma suscitato”)
o a p. 23 il Pagliarani (“ma se
ha forza incisiva sulla nostra/ corteccia
questa pioggia nel parco/ da
scavare una memoria – compresente/
il pieno d’assedio cittadino in
tutto il quadrilatero –”). Ma sembra
che lo dica più aperto il Saba a p.
18, Terza fuga (a due voci): “Ascolta,
Eco gentile, ascolta il vero/ che viene
dietro/ che viene in fondo ad
ogni mio pensiero/ più tetro”.
Qui le due voci sono interpretabili
appunto come l’una del mondo e
l’altra, che ne è l’eco, della poesia.
Ma si può anche intendere, come
intende Fulci, secondo cui Saba suggerirebbe
“che la poesia sia l’eco di
se stessa”. Gli è che nel suo in-sé la
poesia è fatta di mondo, l’intero
mondo che si ritrova in interiore
homine1 se ne compone e riveste, se
ne munisce ed arma, e così armata
e munita, se ne fa strumento per
cambiarlo dal suo interno. Ma non
il pensiero del mondo essa dice, o il
1 Cfr. F. Fortini, Diario linguistico, a
p. 34: “Non conoscerò che me stesso/
ma tutti in me stesso. La mia prigione/
vede più della tua libertà”.
822 RECENSIONI
suo chiacchiericcio molesto, com’è
spesse volte quello della politica;
anche quando il poeta si ribella “all’ovvio,
alle sconcertanti banalità e
ai pregiudizi”, anche quando “deve
in certi momenti fare scandalo, suscitare
scalpore” (p. 14), oggetto del
suo dire è ciò che vi si nasconde
dietro o al fondo, l’alètheia, quod prius
latebat, ed ora non più, benché serbi
tracce del suo precedente nascondimento,
magari in un timore, nell’esser
restia a mostrarsi, come in latino
la veritas, parola così palesemente
legata a vereor, “io temo”, da generare,
solo per qualche intralcio fonologico,
il durissimo silenzio che vi
oppongono gli etimologi2. Ma se
alètheia fosse interpretabile come
“divina follia”3, essa si farebbe più
vicina alla natura della poesia, che
va oltre, dice Fulci, nel senso, noi
aggiungiamo, che essa torna alla
ragione naturale, che è quella dei
folli e la stessa di Dio quando creò
il mondo abbandonandosi al suo
estro libero che gli vagava fuori di
mente4. “Interrompere un silenzio e
iniziare una poesia”, dice infatti
Fulci (p. 17), e noi siamo invitati a
vedere, invece della congiunzione,
una copula, sicché iniziare una poesia
equivalga a rompere un silenzio.
Dal silenzio, appunto, gravido di
oscuri fermenti e lampi e urti incoativi,
erompe la creazione senza sapere
il che il come e il dove. Perché
nasca la poesia, bisogna far silenzio
dentro, come il credente s’immagina
lo abbia fatto Dio in sé nel momento
del fiat.
Ma quel silenzio si spiega, più
terrenamente, con il fatto che “il
problema [della creazione poetica] è
tutto nel rapporto dello scrittore con
la lingua” (p. 26), così discendendo
d’un grado la scala della degnità.
Salvo poi a risalirla a p. 28, dove
richiama il “Taci” de La pioggia nel
pineto dannunziana, ove il silenzio
non è delle parole umane ma quello
più vasto ed assoluto appunto che
precede la creazione e al quale l’incipit
montaliano de I limoni, (“Ascoltami”)
non riesce a inerpicarsi. Tutto
ciò porta a intendere sì il solito
valore del verbo nel processo creativo,
ma con l’importante aggiunta
che questo verbo torni a stanziarsi
2 In realtà gli etimologi sembrano
restii a prendere in considerazione
questa parola. I dizionari etimologici
delle lingue neolatine si limitano a rimandare
a veritas quale etimo della
parola moderna, senza mai andare oltre;
di quelli latini e quelli greci, solo
lo Chantraine si sofferma bastantemente
su alètheia nell’ambito del verbo
lanthàno, mentre gli altri, compreso
il Pokorny, ignorano addirittura le due
parole, come se temessero di compromettersi.
Ciò è bene arieggiato nella
poesia “La verità” di Piera Mattei a p.
33.
3 Pare che da qualcuno s’ipotizzi all’origine
anche il gr. ajvlh, il vagare,
come in ajlavomai, io vago, e in ajluvw/
ajluvssw, (“bin außer mir”, “son fuori
di me”, annota J. Pokorny, Indogermanisches
Etymologisches Wörterbuch,
Bern 1959, p. 27, ma senza alcun riferimento
ad alètheia), l’uscir fuori di sé
e qei`o”, divino, onde l’insieme verrebbe
ad essere “divina follia”, difficilmente
condivisibile.
4 Di ciò è un’eco, a p. 38, la poesia
di G. Giudici, Preliminare di accordo:
“La verità non coincide con la saggezza
(la ragione civile)/ Stanno contro il
disordine alcune regole del gioco/…
la verità ti divora”.
RECENSIONI 823
nel silenzio originario, al di là di
ogni blatero poetese ed ogni stantio
chiacchiericcio della retorica tradizionale,
fattasi con gli anni strumento
di politiche capziose e propagande
plagiarie. In un tempo di antilirismo,
si capisce come sotto l’accusa di
Fulci non sia tanto il “lirichese”,
quanto la lirica, gettando così nel
mondezzaio tutta la millenaria tradizione
della lirica mondiale, con
tutti i suoi grandiosi nomi, i cui altissimi
esiti non è riuscito né riesce
né riuscirà a maculare di un fiato il
critico più acribico e criticone che
sia vissuto, viva o possa vivere nel
futuro.
Ovviamente, in un libro che porta
questo titolo, è chiaro che a Fulci
interessi il senso civico, e per lui il
senso civico si può manifestare, non
attraverso la lirica, ma solo attraverso
la poesia civile, che “è scritta per
suscitare disappunto, sgomento, talvolta
perfino rabbia” (p. 39). Ebbene,
le tre poesie che cita come esempi
di poesia civile (I morti amici di
U. Saba, Bagnoli non è sotto il Vesuvio
di G. Fiordelisi, I sogni del furbo
di C. Francavilla) sono poesia lirica
pura e schietta, dato che nel suo
commento egli è obbligato a estrarne
un sovrassenso che non è esplicito
nel testo referenziale, ma giace in
fondo all’animo del poeta, e di là,
attraverso una serie infinita di risorse
tecniche (ne sono esempi, indicati
dallo stesso Fulci, il “tu” di Saba
al posto dell’io; “l’incipit leopardiano
e magno-greco” di Fiordelisi; il
“tono medio-basso” di Francavilla)
si travasa di soppiatto nell’animo del
lettore, mutandolo insieme alle infinite
operazioni che compie occultamente
la poesia. Ora tutto ciò è appunto
la caratteristica della poesia
lirica, in primo luogo, e poi di tutta
la poesia, che a lungo andare se ne
è contagiata, tant’è che solo a questa
condizione un testo si specifica
come poesia, distinguendosi dalla
scienza, dalla filosofia, dalla cronaca
e dalle causeries du lundi, che hanno
solo parole a fior di labbra e nessun
sottofondo, nessuna occulta operazione
di poesia, e se l’hanno per
rara eccezione, allora cambiano di
statuto e diventano poesia.
Si vedrà poi (p. 59) che il Fulci
non condivide questo modo operativo
della poesia, che tutt’al più può
essere un semplice stratagemma,
adoperato dal poeta per aggirare i
recensori pedanti, direttamente “invocando
nel gioco che propone la
complicità dei lettori” (p. 45).
Ed eccoci alla censura. Così com’è
allargata in Fulci la nozione di poesia
civile, similmente è allargato il
concetto di censura, che copre “tutto
quello che impedisce al poeta la
libera espressione della sua arte” (p.
45). Fulci dà anche qualche piccola
dritta per aggirarla, con ironia, finte
incertezze, reticenze. Ma un’osservazione
interessante la fa sulla censura
ideologica, la quale è messa in
relazione col vizio che hanno gli intellettuali
– tranne la classe medica
– di schierarsi con una parte politica,
mentre sarebbe auspicabile che
un giornalista, per esempio, mantenesse
un tal grado di indipendenza
intellettuale da potersi permettere
talvolta di scrivere anche per un
giornale della parte avversa (p. 49).
Un’altra osservazione a p. 53, presa
in prestito da Beppe Manfredi, secondo
cui Rondismo ed Ermetismo
furono modi per sfuggire ad un as824
RECENSIONI
servimento culturale al potere, poteva
essere occasione per segnalare
come la censura, benché in se stessa
non sia in nessun caso auspicabile,
curiosamente a volte generi grandi
stagioni culturali e letterarie, che
sotto regimi liberali magari non sarebbero
mai nate. Ma Fulci ha preferito
giustamente rilevare le pecche
del fascismo che, volendo “l’omologazione
dei giudizi e la rinuncia alla
critica”, non permise agli italiani di
partecipare alla costruzione di una
“casa comune” (p. 56). In una pagina
di “approfondimento” anzi dice
che è censorio “perché cattedratico,
professorale, proprio l’atteggiamento
ermetico, che promette l’accesso
alla poesia solo per coloro che sappiano
[…] andare oltre quel che viene
palesemente detto”(p. 59). Così
dicendo egli dimentica di aver detto,
sulla scorta di Saba, che “la poesia
è l’eco di se stessa”(p. 24). Qualunque
cosa ciò voglia dire, stabilisce
comunque un’alterità fra referenza
e ciò che se ne suscita e penetra
clandestinamente in chi legge, che
non deve necessariamente essere
una persona d’alto livello intellettuale,
visto che il processo – organico
non solo all’ermetismo ma alla poesia
d’ogni luogo e tempo, come ad
ogni tipo d’arte – è di natura estetica,
vale a dire che si avvale
dell’àisthesis e si svolge per lo più
inconsciamente. Se non la si pensa
così, resta in campo la definizione
del poeta di p. 17, come colui che
“si studia innanzitutto di fare arrivare
agli altri la sua voce nella quale
il suo messaggio prende forma”
(Un banditore? Un erbivendolo?). E
restano altresì inosservate le interpretazioni
talvolta pregevoli che
compie Fulci di certe poesie riportate
nel suo libro (per es., di Bellezza,
p. 65; Ripellino, p. 67; Pasolini, p.
68) ove s’ingegna di estrarre dai testi
ciò che non vi è detto o non vi
appare esplicitamente in atto (solo
certe osservazioni ad Ungaretti, Quasimodo
e Accrocca, a pp. 108-9, e
quelle a Raboni e Damiani a p. 112
risultano un po’ difficili da comprendere).
A p. 119 dice che “Il poeta a
volte ha il torto di far poetico quel
che per sua natura non è”, ove di
nuovo nega ciò che lui stesso dimostra
a mezzo di quelle interpretazioni,
e cioè che non è un torto ma un
compito proprio del poeta quello di
render poetico ciò che poetico non
è, e poeticizzare qualcosa vuol dire
appunto farne strumento e mezzo
onde la poesia se ne serva per compiere
operazioni, che son cose altre
e diverse da quelle poeticizzate.
L’analisi di Fulci non si limita alla
poesia civile stricto sensu, ma si allarga
all’intera problematica, ne discute
questioni anche scarsamente
attese nella tradizione critica. Ciò gli
consente di portare a luce poeti che
la critica ignora, e che invece danno
visibilità e respiro di poesia a condizioni,
processi, circostanze della
vita su cui solitamente la poesia non
si sofferma.
E questo non è un merito da poco.
Domenico Alvino