Saggi
MARIO AVERSANO
Su Pietro da Eboli e Dante
The use of «semiosi obbligata» (i.e. Author’s theory/method) as a
critical method allows us to maintain that Dante knew the Liber ad
honorem Augusti (1195-1196) by Pietro from Eboli from his early
youth, and that he derived from it materials and ideas for images,
themes, characters’ profiles (especially Costanza di Altavilla and
Guglielmo II), as well as stylistic and linguistic features.
I
Pietro da Eboli e la «Vita nova»
Uno dei debiti più antichi della cultura italiana è verso Pietro da
Eboli, chierico e magister della Scuola medica salernitana, noto specialmente
come autore del Liber ad honorem Augusti (1195-1196),
poema dedicato a Enrico VI di Svevia1. I risultati di una ricerca
condotta – com’è la presente – in obbedienza alla “semiosi obbligata”
(la teoria-metodo a cui chi scrive ricorre da decenni per ogni
lavoro critico-filologico2) autorizzano a un’affermazione che al pri-
1 Questo il titolo ormai acclarato: nel quale, però, non c’è segno vivo della
materia di cui tratta, come invece era in quello della prima edizione moderna
che si conosca, a cura di S. Engel (Basilea 1746): Carmen de Motibus siculis.
Pietro da Eboli è anche autore del De Balneis Puteolanis, poemetto sulle qualità
terapeutiche delle acque di Pozzuoli (che ha vieppiù confortato la tesi della
formazione e dell’appartenenza di Pietro alla Scuola di Salerno, messe talvolta
in dubbio). Nella dedica si fa anche menzione di un De miris Federici gestis,
perduto: «Suscipe, sol mundi, tibi quem praesento libellum; / de tribus ad
dominum tertius iste venit./ Primus habet patrios civili marte triumphos; /
mira Federici gesta secundus habet…».
2 Cfr. almeno M. Aversano, Caron dimonio e l’Angelo nocchiero. Per un principio
di filologia dantesca, Roma, il Calamaio, 1996. Per le citazioni dal testo della
Commedia operiamo con indipendenza, tenute presenti la Dantesca e le edizioni
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mo gusto può lasciare increduli, ma che troverebbe forse grazioso
loco in quanti avessero la pazienza di ascoltare fino all’ultimo rintocco
le campane dimostrative, per deboli che esse appaiano in
principio. Affermiamo che più d’un tratto della Divina Commedia
non sarebbe com’è, se Dante non avesse incontrato, o “cercato” (If
I, 84)3, anche il volume dell’intellettuale ebolitano, e deciso di profittarne.
Non si vuol dire che nel contatto siano implicati il generale
del poema sacro (la struttura, il disegno dell’Oltretomba, la concezione
politica e l’ideologia, il sistema dei valori, il criterio selettivo dei
personaggi e le preferenze nella loro iscrizione al ruolo esemplificativo
e pedagogico, e così poi dottrina, princìpi, programmi, aspettative);
ma ci sembra cosa dovuta chiamare in ballo quanto meno la
sfera “tecnica” della poesia: forme e qualità dell’immaginario, tratteggi
psico-fisici dei personaggi, impianti iconografici e, quel che
più importa, invenzioni-soluzioni di lingua e di stile. Va aggiunto
che – come sempre accade le volte in cui la fenomenologia dell’intertestualità
appare dispiegata a largo raggio – dalla ricostruzione
di questo “dialogo” non ci guadagna unicamente la critica dantesca:
i vantaggi piovono non solo su chi riceve, l’imitatore, ma anche su
chi dà, l’imitato. Anche in questa vicenda capita, cioè, che i due
autori si mandino lumi scambievoli: Pietro è utile nella prassi
annotatoria della Commedia – vedremo – per l’intelligenza di tematiche
centrali oltre che di singole voci, e in certi casi anche per
l’ectodica restitutiva della lezione testuale; ma Dante a sua volta
può aiutare per l’esatta interpretazione-traduzione del Liber di Pietro.
È bene che di questo debito-credito di cultura e d’arte si dia
preliminarmente un diretto e concreto cenno (anche per un abbozzo-
griglia delle riprove che bisognerà effettuare), con delle domande.
Non è Pietro da Eboli che, per esempio, ha posto a condizione
del “buon governo” – e con una risolutezza che balza evidente non
solo dai versi del poema in onore dell’Augusto Enrico, ma anche da
del Petrocchi, e confrontatele con le più recenti. Così per il testo delle altre
opere di Dante.
3 Questo canone di poetica – la “ricerca” (If I, 84) degli auctores per il giudizio
etico-ideologico, per la sistemazione nel quadro dell’Oltretomba e per le
inserzioni “poetiche” – risulta osservato per la Commedia senza eccezioni. Cfr.
M. Aversano, Dante cristiano, Roma, il Calamaio, 1994, pp. 5 segg. e passim. Cfr.
anche – per un precedente nella poesia in volgare – M. Aversano, Alle origini
del teatro italiano: personaggi, luoghi e scene in “Donna de Paradiso” di Iacopone da
Todi, «Critica Letteraria», XXIX (2001), n. 111, pp. 211-214.
[3] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE 421
gran parte dell’apparato didascalico-figurativo che lo illustra (certamente
da Pietro ideato e diretto, se non anche manualmente eseguito)
– la piena laicità, purché connessa con la Sapienza da un lato, e
con le Virtù cardinali e teologali dall’altro? Proprio questo sarà
giocoforza riconoscere a Dante, come poi al Lorenzetti della “Sala
della Pace”4. E chi batte con altrettale passione e coerenza, prima di
Dante e di Lorenzetti5, sull’indispensabilità del buon Consiglio e di
buoni Consiglieri, senza i quali non ci sarebbero né giustizia, né
verità, né concordia, né pace tra gli uomini? Inoltre: non è Pietro a
sostenere, prima di altri e con idea non sfiorata da dubbi, il diritto
alla felicità terrena, e – come Dante nella Monarchia – l’inammissibilità
“politica” (perché non piace a Dio) del numero pari? Chi predica
con più fermezza – non senza allegare, come poi farà il Dante della
Commedia e della Monarchia, l’autorità dei testi sacri – che per il
bonum commune il Reggitore deve essere unus et solus? E chi, di
conseguenza, che l’Impero è di origine divina, e che il potere spirituale
(Papato) non deve confondersi con quello temporale, perché
diversamente la Chiesa di Roma «cade nel fango e sé brutta e la
soma» (Pg XVI, 129)? È l’infangarsi medesimo di un arcivescovo
che, nel Liber, confuse la spada col pastorale, e così, dimenticata la
religione, sporcò (polluit) le sue mani: «At miser Antistes succingitur
ense,/ polluit oblita religione manus» (vv. 387-388). Il più “centrale”
Consigliere dantesco, Marco Lombardo, tale iattura constata e depreca
– si badi bene e si tenga la coincidenza nel debito conto – con
l’invocazione del Barbarossa, il padre di Enrico (entrambi protagonisti
del Liber), e della “sicurezza” che regnava in Italia prima che
egli avesse briga6.
Ma l’inchiesta sull’opera di Pietro può risultare feconda anche
per la resa di un capitolo chiave: l’idea e la rappresentazione storico-
poetica dell’Italia meridionale. Più volte affrontato dagli studiosi,
4 Cfr. M. Aversano, Dante e il suo ritratto nel “Buon governo” di A. Lorenzetti,
negli Atti del LXXVI Convegno Internazionale della Società Dante Alighieri
(Siena 2003), Roma, 2005.
5 Da ricordare che l’ubicazione dell’affresco del “Buon Governo” è nella Sala
del Consiglio del Palazzo pubblico di Siena, dove si riunivano i Nove responsabili
del Governo della città.
6 Il tema della securitas è ben diffuso nella trattatistica medievale, ma trova
in Dante e in Ambrogio Lorenzetti i suoi più convinti interpreti. Cfr., ad es., Pg
XVI, 118-120: «Or può sicuramente ivi passarsi/ per qualunque lasciasse, per
vergogna,/ di ragionar coi buoni, o d’appressarsi». E alla Securitas il Lorenzetti
dedica una assai bella immagine, con relativa didascalia.
422 MARIO AVERSANO [4]
non perciò questo argomento può dirsi a tutt’oggi esaurito. E ciò
può essere dipeso dal mancato apprezzamento del Liber ad honorem
Augusti, e di chi lo scrisse.
Una prima valutazione, all’occhio, porta a sospettare che l’acqua
del poeta di Eboli irrighi quasi ogni opera dantesca, a cominciare
dalla Vita nova7; e conviene che da questo libello – problemi dei
ritorni dell’autore sul testo giovanile8 e della suddivisione interna
dei capitoli a parte9 – l’indagine prenda avvio, meglio se dal capitolo
finale (il XLII, secondo l’edizione barbiana tuttora accolta10), che
reca conclusivamente una frase latina: «E poi piaccia a colui che è
sire de la cortesia, che la mia anima se ne possa gire a vedere la
gloria de la sua donna, cioè di quella benedetta Beatrice, la quale
gloriosamente mira ne la faccia di colui, qui est per omnia secula
benedictus».
Il «qui est per omnia secula benedictus» sembra, generalmente
parlando, riportabile alla pura interdiscorsività liturgica, ha cioè
sapore di frase comune; di qui, probabilmente, il disinteresse della
critica alla sua occorrenza. Molta attenzione, invece, questo modo di
mettere punto a una fatica compositiva può reclamare quando se ne
riconosca la marca – forte, ma non ultima, si vedrà – che riceve
grazie allo “spaccio” che ne ha fatto san Paolo. Basti andare a Rom
IX, 5: «qui est super omnia Deus benedictus in secula»; ma si veda
anche 2 Cor XI, 31: «Deus et pater Domini nostri Iesu Christi, qui est
benedictus in secula, scit quod non mentior».
Bisognerà dar peso all’ultimo impiego11 per una ragione di prospettiva:
le parole rivolte ai Corinti valgono un solenne giuramento
7 Per l’opzione nova (invece che il tradizionale nuova), cfr. M. Aversano, La
Vita nova come prologo della “Commedia”, in A. Sughi, La “Vita nuova” di Dante,
a cura di A. Masi, Roma-Milano, 2003, pp. 19 segg.
8 Cfr. Cv I, I, 16: «E se la presente, la quale è Convivio nominata, e vo’ che
sia, più virilmente si trattasse che ne la Vita Nuova, non intendo però a quella
in parte alcuna derogare, ma maggiormente giovare per questa quella; veggendo
sì come ragionevolmente quella fervida e passionata, questa temperata e virile
esser conviene» (a c. di F. Chiappelli e E. Fenzi, Torino, Utet, 1986).
9 M. Aversano, La Vita nova come prologo della “Commedia”, cit., passim.
10 Ivi, pp. 20 ss., per una diversa paragrafazione.
11 E ne richiederebbe di più il primo della Lettera ai Romani, per la sua
sostanza contenutistica (e massime teologica): a considerare che, come chiosava
già A. Martini (ed. Prato, 1850), esso debella quattro eresie, dei Manichei, dei
Valentiniani, di Nestorio, e di Ario.
[5] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE 423
“su Dio”, di fede come affermazione di verità (non mentior); e in
quanto tali acquisiscono un che di tipologico, e come una potenzialità
a far canone nella memoria dei destinatari.
Di qui la domanda che sorge spontanea: che significato riveste la
loro inserzione in un prodotto – la Vita nova – che può dirsi, volendo,
anche “religioso”, ma che ha pur sempre una specificità letteraria,
a cominciare dal genere e dalla poetica che sottende12? E perché
esse cadono in un luogo di tanto privilegio qual è per comune
avviso l’explicit di un’opera? Certo è pensabile che Dante abbia scomodato
il Vas d’elezione per conferire un crisma di “verità” giurata
alla propria istoria con Beatrice. Una sorta di suggel che ogni omo
sganni (If XIX, 21), per intenderci, a confessare i termini “veraci” di
una giovanile erranza, dopo il rinsavimento (si ricordi che qualcosa
del genere è anche nel Convivio13): con proposito di temporanea
rinuncia a “dire” della Gentilissima e speranza di poterlo fare in
seguito nel modo più degno (che è preannunzio, si sa, della Commedia),
e di rivederla in cielo14. Una promessa, allora, che è di impegno
laudativo ma anche di “fedeltà”15, nel senso, come sarà chiarito nel
Purgatorio, di mai più “togliersi a lei e darsi altrui”16.
Ma per il tema ricerca-confessione della “verità”, che è dei centrali
nella Commedia, non si può parlare di decollo già nella Vita
nova. Più convincerebbe l’ipotesi della ripresa volontaria di un topos,
e cioè che la nominazione del Figlio di Dio a termine di un lavoro
letterario, cominciata chissà quando, abbia nell’età di mezzo fatto
tendenza e acquisito un po’ valore di consuetudine; e che pertanto
nell’“agiografo” di Beatrice l’appello finale a Colui che è benedetto
nei secoli non avvenga per spinta sorgiva e irriflessa, ma, con tutta
l’implicanza autobiografica che si voglia, come riporto culturale.
12 Anche se, ad onor del vero, si potrebbe dire, ove non risultasse ancora
detto, che lo schema del prosimetro potrebbe avere ascendenza nella Bibbia: si
pensi ai non pochi “Cantici” che riprendono il racconto in prosa (cfr., ad es.,
quello di Debora a Iud V, 1, che Dante utilizza per il canto V del Purgatorio).
13 Cfr. Cv I, III, 3.
14 Sempre nel capitolo finale della Vita nova: «vidi cose che mi fecero proporre
di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente
trattare di lei […] io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto di
alcuna».
15 Cfr., infra, quanto si dirà in proposito.
16 Cfr. Pg XXX, 124-126: «Sì tosto come in su la soglia fui/ di mia seconda
etade e mutai vita,/ questi si tolse a me e diessi altrui». E si potrà integrare con
Pg XXVII, 42-43, dov’è la professione di “tenuta” di quell’amore senza mai
alcuna dimenticanza: «udendo il nome/ che ne la mente sempre mi rampolla».
424 MARIO AVERSANO [6]
Questo ammesso, non perciò potremo derogare a un obbligo che
ne consegue: quello dell’individuazione dei dettanti, uno al minimo.
Ed è qui che fa capolino Pietro da Eboli. Il suo Liber ad honorem
Augusti, fatica palesemente letteraria (e dunque d’intenzione né sacra,
né sacrata), si giova delle stesse parole di san Paolo, e le spende
nell’uguale funzione di sigillo che hanno nel libro dantesco. Esse
compaiono nel tratto finale dell’ultima Particula, la 54 (147)17, e compiono,
insieme a un triplice amen, la dedica ad Enrico VI: «Ego
magister Petrus de Ebulo, servus imperatoris et fidelis, hunc librum
ad honorem Augusti composui. fac mecum, Domine, signum in
bonum, ut videant Tancredini et confundantur18 in aliquo beneficio
michi provideat Dominus meus et Deus meus, qui est et erit benedictus
in secula. Amen, amen, amen»19.
Non siamo qui legittimati, evidentemente (e non lo saremo per
tutto quanto riguarderà la Vita nova), a giurare sull’effettività del
rapporto Dante-Pietro, anche per la piega di formula che, ridiciamolo,
la proposizione relativa di san Paolo poteva aver preso nel tempo;
ma la coincidenza rende poi proclivi a non restare contenti al
quia, e a vederci più chiaro. Si è motivati a dei controlli a largo
raggio, per l’intera produzione dantesca, e non senza aver censito
tutto il censibile, per interdiscorsivo che possa essere (e quasi certamente
lo è), in ordine al libello giovanile.
Chi ritorni a compulsare la Vita nova, questa volta daccapo, potrà
facilmente prendere atto che il servus e il fidelis autoreferenziali
di Pietro corrispondono ai “servo” e ai “fedele” sparsi per il libello
dantesco; ma di ciò al momento non è il caso di far verbo, perché
queste parole in volgare sono correnti nel dizionario “poetico” delle
Origini di cui è noto il processo dalle radici (incerte) alle fronde
(sicure) della lirica occitanica20. Con qualche attenzione ci si dispor-
17 Seguo la numerazione dell’ed. di G.B. Siragusa (Roma, Istituto Storico
Italiano per il Medioevo, 1906). Miei tutti i corsivi dati, e le traduzioni.
18 Tale “confusione” è da Ps LXXXVI, 16: «Fac mecum signum in bonum ut
videant qui me odio habent et confundantur». Pietro non teme di assimilarsi a
un personaggio biblico di gran rilievo, Davide: è un’audacia che può aver costituito
per Dante un esempio da seguire.
19 Trascrivo com’è nella cit. edizione del Siragusa.
20 Ma si tenga conto che nel prosimetro gli impieghi dei due vocaboli non
attengono esclusivamente alla “servitù” e alla “fedeltà d’amore”, quali sono a
Vn XII, 14 e XXXIII, 4, e specie a Vn III, 10-12 («A tutti li fedeli d’amore»), che
– è noto – insieme a Vn XXIV, 4 («Beatrice si mosterrà dopo la imaginazione del
suo fedele») ha stimolato a fantasie d’una appartenza di Dante a una non bene
[7] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE 425
rà, invece, al prefigurarsi di una nuova consonanza, che riguarda
un tema divenuto anch’esso topico nell’età di mezzo: quello degli
eventi apocalittici che alla scomparsa d’un soggetto d’eccezione investono
il cielo e la terra. È un filone scaturito, si sa, dai Vangeli che
narrano gli sconvolgimenti della natura prodottisi alla morte di Gesù
Cristo. Sentiamo, cominciando da Matteo: «A sexta autem hora tenebrae
factae sunt super universam terram usque ad horam nonam
[…] et terra mota est, et petrae scissae sunt. Et monumenta aperta
sunt: et multa corpora Sanctorum, qui dormierant, surrexerunt»
(XXVII, 45 e 51-52).
Così poi, più succintamente, Marco: «Et facta hora sexta, tenebrae
factae sunt per totam terram usque in horam nonam» (XV, 33). Ma
prima, a XIII, 24-25, quantunque su differente motivo: «Sed in illis
diebus post tribulationem illam sol contenebrabitur, et luna non
dabit splendorem suum. Et stellae coeli erunt cecidentes, et virtutes,
quae in celis sunt, movebuntur».
Infine Luca (dacché Giovanni in proposito non dà notizie): «Erat
autem fere hora sexta, et tenebrae factae sunt in universam terram
usque in horam nonam. Et obscuratus est sol» (XXIII, 44-45)21.
Ora tutti ricordano che nella Vita nova cose analoghe avvengono,
ma non alla dipartita reale della gentilissima, sì a quella che di lei il
poeta “immagina” in sogno. Ci si porti alla canzone Donna pietosa,
che è nel XXIII capitolo:
Poi vidi cose dubitose molte,
nel vano imaginare ov’io entrai;
ed esser mi parea non so in qual loco,
identificata setta dei “Fedeli d’amore”. In un caso, riguardando la ragione e il
consiglio (Vn II, 9: «lo fedele consiglio de la ragione»), c’è contiguità col significato
etico-politico reperibile in Pietro, e poi nella Commedia, proprio a proposito
di un Consigliere “siciliano” (Pier della Vigna); lo stesso Pietro batte sulla ratio
e sul consilium davvero tanto nel suo poema.
21 L’eco di questi passi, è anche noto, viene raccolta, ma per altra tematica,
da san Giovanni ad Apoc. VI, 12-13, nella descrizione di quanto accade all’apertura
del sesto sigillo: «et ecce terraemotus magnus factus est, et sol factus est
niger tamquam saccus cilicinus; et luna tota facta est sicut sanguis. Et stellae de
coelo ceciderunt super terram». Cfr. anche Apoc. IX, 1: «et vidi stellam de coelo
cecidisse in terram […] et obscuratus est sol, et aer de fumo putet»; e Apoc. VIII,
12 e 13 (per il vae che, mostreremo, Dante ha ricalcato in lingua volgare): «et
percussa est tertia pars solis, et tertia pars lunae, et tertia pars stellarum, ita ut
obscuretur tertia pars eorum, et diei non luceret pars tertia, et noctis similiter.
Et vidi, et audivi vocem unius aquilae volantis per medium coeli, dicentis voce
magna: vae, vae, vae habitantibus in terra…».
426 MARIO AVERSANO [8]
e veder donne andar per via disciolte,
qual lagrimando, e qual traendo guai,
che di tristizia saettavan foco.
Poi mi parve vedere a poco a poco
turbar lo sole ed apparir la stella,
e pianger elli ed ella;
cader li augelli volando per l’are,
e la terra tremare,
ed omo vidi scolorito e fioco,
dicendomi: – che fai? non sai novella?
Morta è la donna tua ch’era sì bella.
È utile sentire, ai fini di un accertamento completo, anche il pendant
della prosa, sempre dallo stesso capitolo: «e vedere mi parea donne
andare scapigliate piangendo per via, maravigliosamente triste; e
pareami vedere lo sole oscurare, sì che le stelle si mostravano di colore
ch’elle mi facean giudicare che piangessero; e pareami che li uccelli
volando per l’aria cadessero morti, e che fossero grandissimi tremuoti».
La ragione dell’arte, ma anche – è da credere – quella della
prudenza (unita agli scrupoli dell’ortodossia) inducono il poeta a
evitare l’assimilazione di Beatrice a Cristo in modo diretto ed esplicito.
Di qui la trasposizione degli eventi nella fantasia dell’incubo
insorto per una dolorosa infermitade, e nel suo “errare”; e di qui
anche le “variazioni”, rese in tal modo ricevibili, rispetto al modello
sacro. Che è con evidenza lo stesso da cui è scaturito l’immaginario
di Pietro da Eboli, e – cosa non irrilevante – in un’opera d’intenzione
laica, franca da ogni condiscendenza ecclesiale.
Si vada al passaggio con cui termina la seconda Particula e a
quello che dà principio alla terza, l’uno e l’altro impegnati a cantare
la morte di Gugliemo II. Questo il primo:
Post miseros morbos, post regis triste necesse,
nocte sub oscura, sole latente, pluit.
Postquam dimisit rex, res pulcherrima, mundum,
inglomerant sese proelia, preda, fames,
furta, lues, pestes, lites, periuria, cedes,
infelix regnum diripuere sibi.
Sol hominum moritur, superi patiuntur eclipsim,
anglica Sicilidem luna flet orba diem.
Solis ad occasum commotus eclipticat orbis,
Di flent, astra dolent, flet mare, plorat humus.
(vv. 46 segg.)
E questo il secondo, di prosecuzione:
[9] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE 427
Hactenus urbs felix, populo dotata trilingui,
corde ruit, fluitat pectore, mente cadit:
ore, manu, lacrimis clamant, clamoribus instant
cum pueris iuvenes, cum iuniore senes;
[…]
cum viduis caste plorant, cum virgine nupte.
Quid moror in lacrimis? Nil nisi questus erat!
[…]
Per loca, per vicos, per celsa palacia plorant.
Desiccat lacrimas nona peracta dies.
(vv. 56 segg.)
Di una cosa va fatto pronto rilievo: senza dire della diversa
manipolazione dell’intertesto biblico quanto ai soggetti (Beatrice in
Dante, Guglielmo in Pietro, nell’identità dell’assimilazione a Cristo),
noteremo che né l’uno né l’altro narrante si tengono fermi alle poste
evangeliche. Essi da un lato ne ripropongono la zona “centro” (l’oscurarsi
del sole e il terremoto, essenzialmente), ma dall’altra tessono
in completa autonomia per le cose di “periferia”. Ed è dall’analisi
parallela dei loro elementi tematico-linguistici che è possibile cogliere
tra l’Ebolitano e l’Alighieri concordanze e contiguità aventi un
timbro del cui peso lasciamo il parere, per debita cautela, a chi
legge.
Va guardata, dunque, la gestione che del Libro di Dio fanno
Pietro e Dante nel rappresentare l’uno la morte di Beatrice (presagita),
l’altro quella di Guglielmo II. È bene darne, per comodità e
chiarezza di esposizione e di verifica, un quadro sintetico. Questo il
comportamento del poeta di Beatrice: 1) ricalca ad verbum, rispettivamente
sull’obscuratus est sol di Luca e sull’et terra mota est di Matteo,
il suo lo sole oscurare (in versi: turbar lo sole), e lo e la terra tremare
(prosa: grandissimi tremuoti); 2) lascia perdere la luna e il “moto”
delle virtutes in cielo, forse anche perché, s’è visto, non riguarda
direttamente il capitolo della Crocifissione; 3) accoglie le stelle (apparir
la stella; prosa: «le stelle si mostravano»); 4) ma non le fa cadere,
come vogliono, extravagantes, prima Marco («et stellae coeli erunt
cecidentes) e poi il Giovanni dei Novissimi; 5) in casus pone invece,
e di proprio, gli uccelli: cader li augelli (prosa: «e pareami che li
uccelli volando per l’aria cadessero morti»); 6) delle stelle aggiunge
il pianto: «elle mi facea giudicare che piangessero» (in poesia, coinvolgendo
il sole: e pianger elli ed ella).
Come s’è regolato invece Pietro da Eboli, un secolo prima? Anch’egli
impernia la rappresentazione di tutto quanto accade alla
428 MARIO AVERSANO [10]
morte di Guglielmo II sull’oscurarsi del sole e sul terremoto, ma
non tralascia né le tenebrae evangeliche (nocte) – che anzi le replica
(eclipticat orbis) – né l’ora del giorno (solis ad occasum). E di suo
mette la pioggia: «nocte sub oscura, sole latente, pluit […]. Solis ad
occasum commotus eclipticat orbis».
Tirando le somme, viene a galla un dato molto significativo: a
parte le omissioni quanto ai facta, che poco dicono in questo ambito
d’indagine, la novità grossa dello scenario dantesco è costituita dal
“pianto”, che nelle pagine bibliche manca del tutto: alla morte di
Gesù non vanno in lacrime né la natura, né gli esseri animati22. E a
piangere per Beatrice non sono unicamente le stelle. Lo spoglio del
capitolo vitanoviano porta a riscontrarne le tracce in più parti, a
cominciare – per limitarsi alla prosa – dall’“ambiente” del sogno,
occupato da visi di donne che piangono: «e ne lo incominciamento
de lo errare che fece la mia fantasia, apparvero a me certi visi di
donne scapigliate […] Così cominciando ad errare la mia fantasia
[…] vedere mi parea donne andare scapigliate piangendo per via,
meravigliosamente triste».
Senza dire della donna giovane e gentile che, al «doloroso singulto
di pianto» dell’infermo, «con grande paura cominciò a piangere».
Ma il piangere del poeta nel “farnetico” si ritrova prima e dopo;
e, come dire, con una spettacolarità che meraviglia. Eccone la sequenza
principale (ma ce n’è tant’altro): «…cominciai a piangere fra
me stesso di tanta miseria. Onde, sospirando forte, dicea fra me
medesimo: ‘Di necessitade convene che la gentilissima Beatrice alcuna
volta si muoia’. Allora cominciai a piangere molto pietosamente;
e non solamente piangea ne la imaginazione, ma piangea
con li occhi, bagnandoli di vere lacrime […] e sì forte era la mia
imaginazione, che piangendo cominciai a dire con verace voce: ‘Oi
anima bellissima, come è beato colui che ti vede’».
Certo non è indispensabile chiedersi chi abbia suggerito e avallato
tante lacrime; e ricordare che la medesima ostinazione tematica si
trova già in Pietro, sempre per la morte di Guglielmo il formosus (v.
35): e verrebbe di chiamarlo il “Gentilissimo”. Tanto si può vedere
anche dai verbi dei passaggi or ora riportati: flet … flent … dolent
…flet …plorat…lacrimis clamant… plorant… quaestus… plorant. C’è
finanche un punto in cui sembra che in lacrime si sciolga Pietro
stesso: «quid moror in lacrimis?». Non superfluo parrebbe, invece,
22 Neppure nel riferimento giovanneo a Maria: è silenzio di lacrime anche
nel corrispettivo dantesco, che parla solo di “cambio alla croce” (Pg XXXIII, 6).
[11] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE 429
indagare sull’ascendenza del pianto delle stelle, perché – ripetiamolo
– non se ne riscontra alcuna traccia nei Vangeli, e neanche
nell’Apocalisse. E qui è lecito (ma non d’obbligo) pensare a Pietro da
Eboli, che su Guglielmo morto fa converso per la pietà non solamente
«il cielo e il sole»23, ma tutte le creature; tra le quali, dopo gli
dei, vengono proprio le stelle: di flent, astra dolent…
Il discorso sul rapporto con la Vita nova si fa più legittimo quando,
dal prosieguo dell’inchiesta, vediamo affiorare anche altre
movenze uguali-simili, e con la garanzia – che un po’ dice – della
conformità tematica. Il primo collegamento degno di rilievo è nella
considerazione della “necessità” della morte, che nell’uno e nell’altro
poeta appare disposta dal cielo, ascritta al volere divino. Quella
di Guglielmo è un «triste necesse»; e parimenti quella di Beatrice è
data per “necessaria”, negli stessi termini dell’ineluttabilità: «Onde,
sospirando forte, dicea fra me medesimo: ‘Di necessitade convene che
la gentilissima Beatrice alcuna volta si muoia’». La studiatezza di
tale “convenire” si evince anche dal suo ritorno nella relativa canzone:
«per che l’anima mia fu sì smarrita,/ che sospirando dicea nel
pensero:/ ‘Ben converrà che la mia donna muora’» (vv. 32-34).
Una constatazione un poco ‘in chiave’ si può fare subito dopo:
Dante, nell’allegare in altro luogo l’oscurarsi del sole alla morte di
Cristo, ricorre a un vocabolo, “eclissi”, che manca nei Vangeli24.
Così a Pd XXVII, 36-37: «e tale eclissi credo che ’n ciel fue/quando
patì la supprema possanza». L’eclisse è invece bene attestato in
Pietro, che – sempre per la morte di Guglielmo – ne cava, s’è veduto,
anche il verbo, “eclipticare”: «Sol hominum moritur, superi
patiuntur eclipsim/ […] Solis ad occasum commotus eclipticat orbis».
Ma c’è dell’altro: a proposito della possanza, che nella Commedia
ha una parabola circoscritta al Paradiso, e breve, dacché ricorre solo
quattro volte. L’impiego appena visto con supprema è l’ultimo, e
definisce la seconda Persona quando fu crocifissa; così anche il penultimo,
a Pd XXIII, 37: «la possanza/ ch’aprì le strade tra ’l cielo e
la terra». Un canto prima, a Pd XXII, 57, la possanza – terzo impiego
– riguarda la rosa e le parole che Dante pellegrino rivolge a san
Benedetto: «L’affetto che dimostri […] / così ha dilatata mia fidanza/
come ’l sol fa la rosa quando aperta/ tanto divien quant’ella ha
23 Così T. Tasso nella Gerusalemme liberata, per la morte di Clorinda: «e in lei
converso/ sembra per la pietate il cielo e il sole» (XII, 139-140).
24 Esso è perciò impegnativo, considerate le dispute che del fenomeno si
trovano nella Patristica, a Dante certo non ignote.
430 MARIO AVERSANO [12]
di possanza». E qui l’orecchio ci fa attenti alla rima con fidanza. A
guardarla in sé, parrebbe tirato oltre il buon senso ogni filo che la
volesse annodare con la fides di cui tanto parla – come si vedrà – il
nostro Pietro. Ma ad agevolare l’ipotesi del contatto sopravviene
una coincidenza. La detta parabola ha inizio a Par. III, 120, ed ivi
possanza sta ad indicare proprio la serie di regnanti cantata nel poema
di Pietro: Federico II, col padre Enrico e con l’avo Federico Barbarossa.
La gran Costanza, tutti ricordano, «del secondo vento di
Soave/ generò il terzo, e l’ultima possanza». Inoltre: a riguardo della
rosa, la possanza collude col politico già nella Bibbia, e in movenze
che rievocano l’ombra di Pietro da Eboli. Un excelsus rex, Simone, è
un Sole: quasi sol refulgens, come il Gugliemo di Pietro (Sol hominum),
e come poi Enrico VI (v. 653: «Romanorum protege solem»). Ed
anche i dati degli “aloni” combaciano, in quanto sia l’uno che l’altro
accolgono le note della gloria, della cura della propria gente, dell’estensione
dei domìni: «Qui praevaluit amplificare civitatem, qui
adeptus est gloriam in conversatione genus […]; et quasi sol refulgens,
sic e ille effulsit in templo Dei. Quasi arcus refulgens inter nebulas
gloriae, et quasi flos rosarum in diebus vernis […] et consummatione
fulgens in ara, amplificare oblationen excelsi regis» (Eccli L, 5 ss.)
Senza contare che, peraltro, l’Ebolitano ha tenuto a mente questo
luogo sapienziale anche per l’“unzione” di Enrico VI (Particula X),
potrà essere individuato un ennesimo punto d’incontro: piccolo, ma
che nell’insieme può fare la sua parte. Carlo Martello nell’ottavo del
Paradiso – un canto che gioverà interrogare perché è non meno invischiato
con la “sicilianità”: a favore dell’ipotizzato rapporto intertestuale
Dante-Pietro – pronunzia, per comunicare il titolo regale avuto
in terra, lo stesso verbo, “fulgere”, che tanto spicca nella sequenza
scritturale (refulgens-effulsit-fulgens); e ciò – ne vedremo subito il
movente – insieme a corona: «Fulgeami già in fronte la corona …» (Pd
VIII, 64).
Si sarà fatto caso che nella Commedia la possanza è sempre espressiva
della maggiore sovranità, quale è quella che in riferimento a
Cristo è variata col sostantivale possente, e legata all’“incoronazione”:
«Rispuose: «Io era nuovo in questo stato,/quando ci vidi venire un
possente,/con segno di vittoria coronato» (If IV, 52-54). È il tronco
stesso da cui dirama la «nimica podesta» di If VI, 96: hapax anch’esso
riferito a Cristo. La stessa cosa è data di vedere in Pietro, il quale
intitola la Particula XLI all’Imperator che «occupat triumphans
regiam»; e ai vv. 1307-1308 congiunge in modo esplicito la potentia
con la “regalità sacra” quale s’è trasmessa da Carlo Magno in poi:
[13] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE 431
«Cesar ut accepit sceptrum regale potenter,/multiplicat Carolis nomen
et omen avis». E si veda poi la potestas di v. 326, che può dirsi il
corrispondente della podesta dantesca: «Plena potestatis fastidit ymago
triumphos».
A metter fuori dubbio, del resto, che nel Liber la potentia designi
la più alta dignità regia vale la replica – con passaggio all’aggettivo,
potens, che è uguale al possente dantesco – nella Particula LII, intitolata
alla Sapientia del sommo Padre. Pietro induce anche il “trono”
di Salomone, e così fornisce un più chiaro attestato che, come poi
Dante, considera l’Imperium di origine divina. Ai vv. 1658-1659 si
legge: «Nam meus Henricus materna sede sedebit,/in qua rex Salomon
sedit in orbe potens». Perciò, quando Pietro ai vv. 564 ss. dà
lo schizzo della folla che grida a Costanza «quem tociens fausto
iactabas ore potentem,/dic, ubi bella gerit, qui sine crine iacet…?»,
sarà meglio tradurre il potentem non con generici qualificativi di
valentìa, ma con richiamo al titolo di “legittimo imperatore”; prova
ne potrà essere, infine, la presenza laterale del fausto, che significherà
“da regina”25. Proprio Dante, infatti, consiglia di porre il faustus
in relazione col titolo imperiale, dacché mediante lo stesso vocabolo,
e al superlativo, egli qualifica due volte un altro “Cesare”, il suo
Enrico VII, nella clausola delle Epistole VI e VII: «faustissimi cursus
Henrici Cesaris ad Ytaliam anno primo». Ma anche per tutto questo
è invocabile, naturalmente, l’interdiscorsività.
Di qui, intanto, potremmo andare alle altre titolazioni “imperiali”
dell’opera dantesca, a cominciare da quelle del canto I dell’Inferno
(cfr. almeno il v. 121: «chè quello imperador che là su regna»),
che fa da proemio a tutta l’opera. Ma è tempo di concludere i rilievi
sul tema vitanoviano in parola. E rimandando di qualche pagina
quello che concerne l’impiego del termine “costanza” (splendido
apax riservato proprio e solo alla Vita nova), che richiama la qualifica
di Costanza imperadrice, ci limitiamo a porre in fila – dando il
corsivo al latino di Pietro – il séguito degli incroci che è possibile
evidenziare dal confronto coi passi della morte di Beatrice. La
omologia del quadro che ne risulta – già di per sé sintomatica per
il quantum statistico – può a questo punto essere ritenuta non causale:
misere-miseria
triste-tristizia
25 Né può avere il significato, di “favorevole, propizio”, perché Costanza
viene a confrontarsi con un suo nemico.
432 MARIO AVERSANO [14]
pulcherrima-bellissima
patiuntur-soffersi
corde ruit-lo cuore, ove era tanto amore; nel mio cuore…non hai
valore; piansemi Amor nel core, ove dimora; / perché l’anima mia
fu sì smarrita; smagati
fluitat pectore – errare, dubitose molte
clamant…clamoribus…questus – traendo guai
per loca, per vicos – per via
desiccat lacrimas nona peracta dies – consumato ogni duolo
II
Pietro da Eboli e le altre opere dantesche
1. Guglielmo II, prototipo del giusto rege
Abbiamo risolto di proporre innanzi agli altri – in limine alla
ricognizione delle concordanze che potranno essere individuate fra
il testo del Liber e quello della Commedia – due riscontri piuttosto
singolari. Il primo concerne l’intertestualità che è indiziabile nella
cerniera tra i canti V e VI dell’Inferno, e cioè nello «e caddi come
corpo morto cade» (If V, 141), cui segue: «Al tornar de la mente» (If
VI, 1). Dalla loro addizione si evince che a “cadere” è stata la mente,
la quale “torna” dopo che se n’era partita. Così poste le cose, in tale
scavalco parrebbe di avvertire un che del mente cadit di Pietro, cioè
del passo già citato a proposito della morte di Beatrice nella Vita
nova: con qualche conforto che può venire dall’isomorfismo incentrato
sul tema del dolore-pietà. Ma è cosa davvero tenue, ammettiamolo.
Il secondo riscontro invece – sempre a trarre dai luoghi citati per
l’intertesto della Vita nova – è più proponibile, e riguarda la parte
che nella Commedia è concessa a Guglielmo II, il padre (o, secondo
altri, il nipote) della gran Costanza, prima anima con cui Dante personaggio
dialoga in Paradiso26. Dante autore non solo colloca il
26 Al modo che Manfredi – in corrispondenza di canto, il terzo della cantica
seconda – è il primo penitente stabile che s’incontra in Purgatorio. Casella infatti
– canto secondo – fugge con gli altri, e non sappiamo dove, mentre in Inferno
bisogna arrivare al sesto cerchio e al canto decimo per trovare un “siciliano”,
Federico II: e questo, sommato a quel che emergerà dal presente studio, prova
che a ragione si afferma – come è stato fatto, quantunque in tornata celebrativa
– che nessuna delle «case regnanti tra il secolo XII e il secolo XIII ha tanto
rilievo nell’opera di Dante come quella degli Svevi» (B. Lucrezi, Gli Svevi nella
[15] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE 433
sovrano del Regno meridionale tra gli Spiriti giusti, nel cielo di
Giove, ma ne sottolinea il merito al punto da mostrarcelo nell’arco
formante il ciglio dell’Aquila, l’uccel divino (cfr. il Romana … aves, e
i tanti altri riferimenti all’Aquila imperiale del Liber) che della Giustizia
è l’emblema. Guglielmo figura, si pensi, accanto: 1) a Traiano
e a Costantino, i massimi imperatori dopo il buon Augusto; 2) a quell’Ezechia
con la menzione del quale comincia il poema sacro27; 3) a
Rifeo, il più giusto (iustissimus) dei Troiani per sentenza di Virgilio;
4) a Davide, che dell’aquila forma la pupilla. Tale disposizione comporta
che Guglielmo assurga al rango di uno dei sei mortali più
giusti mai vissuti. Questi i versi:
E quel che vedi ne l’arco declivo,
Guglielmo fu, cui quella terra plora
che piagne Carlo e Federigo vivo:
ora conosce come s’innamora
lo ciel del giusto rege, e al sembiante
del suo fulgore il fa vedere ancora.
(Pd XX, 61-66)
Non si vuole affermare che – dovendoci pur essere una ragione
per cui è qui apertamente indotto il tema della giustizia pubblica
(fondamentale nella Commedia) saldato a quello dell’“innamoramento
del cielo” per Guglielmo: privilegio che non tocca agli altri cinque
personaggi eletti – ci sia un’imbeccata di Pietro da Eboli, il quale
afferma, l’abbiamo sentito, che insieme al Sole anche gli Dei piangono
(e sono lacrime d’amore appunto) la sua morte: Di flent. Né può
dirsi probante la circostanza che Pietro leghi il numero 6, dato per
magico, al “suo” Enrico VI, facendo di lui l’eroe della giustizia,
della pietà e della pace “augustea”. Ma non ci sembra ininfluente
rilevare che l’«esser giusto e pio» (Pd XIX, 13) dell’Aquila formata
dagli Spiriti giusti ha il gemello nel «preiustum … pium» che caratterizza
i mores di Federico II già nel ventre della madre (v. 1622
della Particula LI). E bisogna pur chiedersi: chi ha autorizzato Dante
a porre Guglielmo nel cielo del Sole, e a lasciarci di lui un flash
tanto lusinghiero (che lo sbalza a “tipo” del giusto rege)? Pietro da
poesia di Dante, in Dante e la cultura sveva, Atti del Convegno di Studi, Melfi 1969,
Firenze 1970, p. 129). Cfr. anche P. Renucci, Dante e gli Svevi, in Dante e l’Italia
meridionale, in Atti del II Congresso nazionale di studi danteschi, Firenze 1966, p.
131, e passim.
27 Cfr., infra, quanto emerge sul valore “politico” del lemma buon.
434 MARIO AVERSANO [16]
Eboli dedica all’ultimo dei Normanni ben tre Particulae, quelle iniziali
del suo poema (con riflesso acuto, si vedrà, sulle successive), e
tutte per esaltarne l’opera grande e bella, e le virtù “divine”, tali –
s’è visto – che tutti piangono in lui il perduto «Sole degli uomini».
E qui è il momento di dire che non va più consentito a chi fa
critica storica e letteraria un parlare men che dignitoso a riguardo
di queste lodi (quali pioveranno anche sul successore Enrico VI), o
giudizi che le riducano a un esercizio di retorica encomiastica: quando
non si arriva addirittura a classificarle, come è pure accaduto, tra
i documenti della più stomachevole piaggeria28. Tutti vedevano e
sentivano, e Pietro più degli altri, che dopo la morte di Guglielmo
II la vita del Regno non era più la stessa, e che s’era appannata la
“felicità” di cui esso aveva goduto per lungo tempo. Felicità, va
precisato, nel senso “tecnico” che il termine riveste in Pietro, e che
concorda con quelli presenti nella Commedia per la Fiorenza antica di
Cacciaguida: «Fiorenza […] / si stava in pace, sobria e pudica./ […]
In così riposato, in così bello/ viver di cittadini…» (Pd XV, 99 ss.). La
giustizia, che Dante vede incarnata in Guglielmo, è per lui come per
Pietro il presupposto irrinunziabile della “pace”.
2. La pax romana in Pietro e in Dante
La giustizia e la pace: ecco il binomio che più accomuna Dante
e Pietro. La Commedia – bisogna dirlo, anzi gridarlo come non s’è
mai fatto – vuol essere definito il poema della Pace: allo stesso modo
che lo è il Liber di Pietro. Basti a prova leggere la Particula XLIV,
intitolata ai presagia di una nuova età dell’oro (v. 1407). Vi si parla
di reformatio orbis et imperii (v. 1412) ad opera di Enrico VI e Federico
II: né più né meno di come prevede Dante, e specie nelle Epistole
che ardono di entusiasmo per la venuta in Italia di Arrigo VII. Le
corrispondenze di temi e di lessico non sono poche: Dante può aver
letto Pietro e deciso di assumerlo quale modello autorevole contro
i successori non “eroici” degli Svevi. Perciò non è vero che l’Epistola
VII sia unica nella sua arditezza quanto alla caratterizzazione
sacrale dell’Imperatore29; più ancora ardite sono le parole di Pietro.
Qualche esempio di coincidenze-affinità: «iubar solis» (v. 1409)=cum
28 Cfr. soprattutto T. Toeche, Keiser Heinric VI, Lipsia, 1867, p. 448.
29 Così A. Jacomuzzi, Epistole in Dante. Opere minori, Torino, Utet, 1986, p.
350.
[17] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE 435
primum jubar ille vibraverit» (Ep V, 3); «nova temporis etas» (v.
1407)= «dies nova» (Ep V, 1); «venit Titan» (v. 1419)=«Titan exoriens
pacificus» (Ep V, 4); e pacificus come l’Arrigo di Dante è anche
quello di Pietro: «urbem pacifico milite Cesar adit» (v. 1256). In Dante
c’è attesa e gioia: «gaudium expectatum» (Ep V, 3); «Titan praeoptatus»
(Ep VII, 5); e così già in Pietro: «spectata dies» (v. 1239); «spectati
muneris» (v. 1510). Con quest’ultimo incrocio siamo alla Particula
XLVIII, intitolata Pax tempore Augusti; e in essa Pietro afferma le
cose che leggiamo in Dante, e con gli stessi riferimenti culturali,
all’età di Saturno, quando Giustizia non era ancora fuggita dal consorzio
umano. Così allo «Iam redit aurati Saturnia temporis etas» di
Pietro fanno eco i Saturnia regna di Ep VII, 6, insieme a quelli di Pg
XXII, 70, e di Mon I, XI, 1. D’obbligo allora una domanda: è tutto da
ricondurre al Virgilio della quarta egloga?
Enrico VI e Federico II sono gli eredi di Ottaviano Augusto: il
dantesco baiulo che segue Cesare. Ed è Cesare che prende il regno
mortale: «per voler di Roma il tolle» (Pd VI, 57), Ora ci si dovrà
chiedere: è appena un caso che tale verso di Dante riecheggi un
tratto del distico leggibile nel codice di Berna contenente il Liber di
Pietro? Esso è ivi scritto tre volte, in caratteri che risalgono tutti a
un tempo non posteriore a quello in cui visse Dante: «Cesar regna
capit». Ma a farci sospettare anche qui una frequentazione del Liber
diretta, e non da copia (peraltro non ne abbiamo) – a parte quanto
s’è fin qui raccolto – potrebbe bastare un’altra coincidenza sulle
stesse righe tematiche. Per Dante il buon Augusto (buono=pacificus)
«pose il mondo in tanta pace/ che fu serrato a Iano il suo delubro»
(Pd VI, 80-81). E Pietro non si limita a intitolare la Particula XLVIII
«Pax tempore Augusti», ma nella Carta 48 (141), che ne illustra il
contenuto (vv. 1504-1537), pone queste parole: «Tanta pax est tempore
Augusti quod in uno fonte bibunt omnia animalia». La coincidenza
di tanta pace con tanta pax, come si vede, è perfetta, come anche il
riferimento al tempo di Augusto. A questo tempus recante pace è
riportabile il tempo di pacificazione dantesco, nel testé citato riferimento
a Cesare: «Poi presso al tempo che tutto ’l ciel volle/ redur lo
mondo a suo modo sereno,/ Cesare per voler di Roma il tolle». Non
c’è dubbio che a suo modo sereno voglia dire “in una pace simile a
quella che regna in cielo” (cfr. «l’etterna pace» di Pd XXXIII, 8). Ma
le coincidenze intertestuali di norma sono a catena. Così presto
giunge all’occhio che anche questa “serenità” ha il precedente nella
suddetta Particula, e che il sereno dantesco ha lo stesso significato
del serenus di Pietro (v. 1511), di “senza guerre”, nella pace che
436 MARIO AVERSANO [18]
regna in Paradiso: «Mane serena dies venit» Che non altro significato
debba toccare al vocabolo si evince anche dalla Particula XXXIX.
Qui Pietro narra che una delegazione proveniente da Palermo porta
il saluto all’Augusto svevo, assicurandolo di trovarsi fra gente pacifica,
che ha «animos …mentesque serenas» (v. 1235).
Così, del resto, Dante anche ad Ep V, 2-3: «et auspicia gentium
blanda serenitate confortat». Questa luminosa serenità è, si capisce, il
contrario delle nubi e delle tenebre. Sempre nello stesso luogo (v.
1239) Enrico è il Sole a cui i legati dicono all’unisono: «Tu regni
tenebras armata luce fugabis».
Similmente poi, a v. 1305: «tenebrarum nube fugata» (v. 1305).
Ecco il corrispettivo dantesco: a Ep V, 2 il nuovo giorno che nasce
con Arrigo VII «tenebras diuturnae calamitatis attenuat». Allora il
simile di Pg XXVII, 112, «le tenebre fuggian da tutti i lati», potrà
significare, in trasparente allegoria, non solo la liberazione dal peccato
all’alba del novo giorno, ma lo stare di nuovo in pace con Dio,
come gli spiriti salvi: «a Dio pacificati» (Pg V, 56).
L’Enrico di Pietro, dunque, odia chi semina discordie: «qui lites
diligit, odit» (v. 1435); e lo stesso può dirsi dell’Arrigo di Dante. Ma
entrambi, poi, sono inclini alla pietà e alla clemenza. Così del primo:
«Cesaris oceanum superat clementia magnum […] vivit in
Augusto pietas et gratia crescens» (vv. 1439 e 1443). E Dante, a Ep
V, 4: «clementissimus Enricus»; e a Ep VIII, 5: «ad Auguste clementiam
sine ulla esitatione recurro».
Il peggio che possa capitare a una comunità è indicato da entrambi
nella mancanza di amore tra la gente (Pg VI, 115: «Vieni a
veder la gente quanto s’ama!»), e nella discordia tra i cittadini, che
prima o poi sbocca nel “sangue” (If VI, 64-65: «‘Dopo lunga tencione/
verranno al sangue…’»). Allora: per intendere nel modo più corretto
e imparziale il poema de rebus siculis bisogna muovere dall’indicazione
che Pietro stesso fornisce nella dedica del De Balneis: «Primus
habet patrios civili marte triumphos…». Siamo invitati a leggerlo
come racconto della “guerra civile” (che effettivamente si scatenò
dopo la morte di Guglielmo il Buono: “buono”, perciò, nel senso
dantesco di “costruttore di pace”, come fu il buon Augusto). Essa
comportò – e Pietro lo recita subito – la fine di quella felicità-prosperità
e sicurezza pubblica che la politica di Gugliemo aveva creato
e mantenuto favorendo la pacifica convivenza fra genti di tre
lingue (latina, greca, araba) e di più razze. Questo si legge fin dal
principio nella Particula III: «Hactenus urbs felix, populo dotata
trilingui,/ corde ruit, fluitat pectore, mente cadit./[…] Hactenus ibat
[19] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE 437
ovans solus per opaca viator; /hactenus insidiis nec locus ullus
erat» (vv. 56 ss.).
E la Particula IV comincia con l’accusa del trapasso – che Pietro
presenta in modo davvero brusco: dato sintomatico – dalla sepoltura
di Guglielmo alla guerra civile: «Post lacrimas, post esequias,
post triste sepulchrum/scismatis oritur semen in urbe ducum» (vv.
84-85).
È sul segmento scismatis oritur semen che l’occhio deve appuntarsi.
C’è da credere che Dante lo abbia “captato” all’istante, grazie
anche alla sua magistrale brevitas (la “contezza” della Commedia): tre
parole per una cosa tanto grave! Una sua eco è potuta pervenire in
quella zona dell’Inferno che svolge la tematica della discordia, e
toccare If XXVIII, 35: «seminator di scandalo e di scisma».
Chi scrive30 ha già risposto a quanto Maria Corti ebbe a sostenere
a proposito di questo verso: «Dante sembra divertirsi nel canto
XXVIII allorché mette in bocca a Maometto quanto nel Libro al par.
199 Gabriele spiega a Maometto a proposito di coloro qui verba
seminant ut mittant discordias. Non certo casuale l’evento e la ripresa
della metafora del seminare…».
La verità a noi sembra questa: né il Libro della Scala, né altre fonti
– la Bibbia e i Padri, che recano il “seminare”, e poi (ma da esso
disgiunti) il sectarum scandala, la scissura, lo scismaticos … scandala31 –
hanno influenzato Dante più di Pietro; perché – anche a non contare
che c’è la stessa tematica, quella delle discordie civili, direttamente
vissuta dai due autori – gli altri passi allegati non possono vantare
la giunzione del “dividere” e del “seminare” che si trova nello
scismatis semen del luogo sopra citato.
Di questa ipotizzata dipendenza di Dante dal Liber è producibile
anche la prova che in questi casi è la più stringente: la coincidenza
d’ordine non solo tematico, ma anche lessicale. Essa è offerta proprio
dalla Particula che descrive le “reazioni” alla morte di re
Guglielmo. Si guardi al passo in cui è attestato il pianto della terra
di Sicilia: plorat humus. Questa briciola linguistica ci permette
l’acquisizione di un dato obiettivo, costituito dal fatto che la Commedia,
sempre a proposito di Guglielmo e della Sicilia, parla innegabilmente
la stessa lingua: «Guglielmo fu, cui quella terra plora» (Pd XX,
62). Dunque: terra plora=plorat humus. E qui è giusto chiedersi se a
riguardo si possa onestamente invocare la casualità.
30 Cfr. Aversano, Caron dimonio e l’Angelo nocchiero, cit., pp. 81-82.
31 Ibidem.
438 MARIO AVERSANO [20]
3. Sulla felicità terrena
Piangere è di chi ha perduto la felicità: «Hactenus urbs felix». S’è
già detto del senso che in Pietro hanno i termini “felice”-”felicità”.
L’altrettale si trova in Dante, e con ogni probabilità per suggerimento
del poeta-ideologo di Eboli. Bisogna andare per la verifica a tutto
quello che Dante ragiona nella Monarchia circa i duo ultima, i due
fini che l’uomo è chiamato a raggiungere, la “felicità” appunto, in
terra prima che in cielo: «beatitudinem scilicet huius vitae […] et
beatitudinem vitae ecternae» (Mn III, XV, 7 ss.).
La beatitudo è con evidenza sinonimo della felicitas; a riguardo si
può citare il noto passo della Lettera a Cangrande sui fini della Commedia:
«removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere
ad statum felicitatis» (Ep XIII, 15). Ma più ancora è probativo Cv IV,
IV, 1: «Lo fondamento radicale de la imperiale maiestade, secondo
lo vero, è la necessità de la umana civilitade, che a uno fine è
ordinata, cioè a vita felice». E si veda anche l’«humanum genus …
felix» di Mn I, XVI, 2. Felicità raggiungibile, dunque, “in questa
vita”. Su tali affermazioni, come è noto, i sostenitori dell’Umanesimo
di Dante (dal Foster al Gilson, per fare dei nomi) hanno fatto leva
per individuarlo nella sua teoria della felicità terrena: teoria coraggiosa,
dacché gli assertori della preminenza del Papato (Sole) sull’Impero
(Luna), con la scorta di alcuni Padri e Dottori magni –
Agostino su tutti, ma anche Tommaso – negano che la felicità possa
essere conseguita dai viventi ad opera di formazioni politiche. Teoria
coraggiosa, quella di Dante, ma non proprio originale. Infatti,
l’abbiamo visto, è Pietro da Eboli a propagandare per prima, e con
una sicurezza che impedisce ogni tentativo di farne disputa, il diritto
alla felicità terrena: conseguibile attraverso il “ben fare” di chi
governa i popoli, ma anche dei Consiglieri che gli stanno a lato.
Dante – sostenni in una lontana lectura del canto XVII del Purgatorio32
– «trovava nella Bibbia il galateo per il principe e per la corte»:
nel quale è previsto l’indispensabilità del Consiglio. L’Artaserse del
Libro di Ester – il grande Assuero di Pg XVII, 28 – «interrogavit
sapientes, qui ex more regio semper ei aderant, et illorum faciebat
cuncta consilio, scientium leges ac iura maiorum» (Esth I, 12-13).
Colpisce il cuncta: nulla il grande sovrano fa senza il Consiglio dei
Sapienti! Queste parole echeggiano in un passo del Convivio, riferite
32 Tenuta in Roma, alla «Casa di Dante», il 3 febbraio 1985; poi in M. Aversano,
La quinta ruota, Torino, Tirrenia Stampatori, 1988, pp. 11-38.
[21] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE 439
proprio ai “miseri” successori degli Svevi: «Oh miseri che al presente
reggete! e oh miserrimi che retti siete! che nulla filosofica autoritade
si congiunge con li vostri reggimenti né per propio studio né per
consiglio […] – e dico a voi, Carlo e Federigo regi, e a voi altri
principi e tiranni –; e guardate chi a lato vi siede per consiglio» (Cv IV,
VI, 20). Dante eleva la sapienza (che richiede lo studio: oggi diremmo
la “cultura”) a stella polare per la rotta politica. E alla Sapienza
– ora ciò si comprende meglio – Pietro risolve di dare nel Liber
tanto spazio di versi quanto pochi o nessuno prima e dopo, eleggendola
a presenza eminente nell’intero terzo libro (con non minore
evidenziazione nelle miniature e nelle loro scritte): che comincia con
il titolo Sapientiam invocat poeta, e termina con Sapientia convicians
Fortune.
E qui di nuovo è Pietro che può spianarci il significato di un
luogo della Commedia, quello in cui Dante invoca una non ancora
individuata diva, la quale fa gloriosi gli ingegni e longevi i regni:
O diva Pegasea che li ’ngegni
fai gloriosi e rendili longevi,
ed essi teco le cittadi e i regni,
illustrami di te…
(Pd XVIII, 82)
Alcuni elementi che dovrebbero spingere a identificarla con
Minerva, figura della Sapienza, sono già nel mio Dante daccapo33.
Ora, a lume della Particula XLVII – nella quale il poeta, licenziando
Calliope, Pean, Clio e Apollo, si rivolge alla Sapienza divina –
quella tesi viene a fortificarsi, essendo ben prospettabile che sia
stato questo Pietro “sapienziale” a suggerire a Dante un’ennesima
invocazione, diretta adesso a un’ispiratrice di più alto tribo, più che
le Muse di If II, 7, e Calliopè di Pg I, 9: invocazione che cade in uno
dei canti della Giustizia; sicché ne viene calamitato il tema del
Consiglio, con le sue parole canoniche (in Dante come in Pietro):
’ngegni, gloriosi, città, regni. Questo gloriosi andrà affiancato, con
evidenza, al «glorioso offizio» a cui il cancelliere Pier della Vigna
portò sempre fede. Allora il «glorioso porto» che un altro grande
cancelliere, Brunetto Latini, pronostica al suo alunno (al quale ha
“insegnato” come l’uom s’etterna: e “insegnare” nella Commedia ha
solo e sempre accezione politica) non potrà non essere quello di
33 Cfr. M. Aversano, Dante daccapo, Atripalda, WM Group srl, 2000, p. 32.
440 MARIO AVERSANO [22]
una sapientia impegnata nel servizio a un Reggitore di popoli. Dante
con la sua opera, d’impegno insieme civile e culturale-spirituale,
aspira ad essere chiamato nei Consigli più alti, non esclusi quelli
che nel Liber sono detti “cesarei”: al modo – è da credere – di
Pietro stesso, che non senza ragione nella Carta 46 (139) si fa ritrarre
a lato di Corrado Cancellarius che lo introduce all’aula di Enrico.
Pietro dona all’imperatore il suo Liber, chiedendogli un beneficium.
Esso – invocato, s’è visto, con la lingua del Profeta (Ps LXXXVI, 16)
– mal potrebbe riguardare cose materiali (si pensa generalmente,
ma a torto, che la richiesta, e il riscontro di Enrico, riguardino un
mulino, il molendinum de Albiscenda). Quel che Pietro si attendeva
era un ufficio degno del magister che egli era, e di un fidelis (cultore
della fidelitas egli si mostra in tutto il Liber): ufficio di Consigliere.
Questa interpretazione recherebbe di riflesso un altro indizio a favore
dell’autenticità della Lettera a Cangrande, con la quale l’autore
è innanzitutto volto a dedicare allo Scaligero il suo Paradiso. In
tale dedica, allora, potrà vedersi ugualmente sottintesa la medesima
richiesta “curiale” di Pietro: si sa quanto il ghibellin fuggiasco
tenesse a farsi Consigliere di corti aventi potenza di incidere sul
governo di Firenze e d’Italia.
Tornando infine sulla corda della gloria, andremo al Libro di Ester
per vedere se il termine non stia già lì, rapportato al Consiglio; e
puntualmente lo si incontra che occupa tutta una sequenza di tematica
consiliare. Assuero lamenta che i cattivi Consiglieri – le dantesche
molte genti che la lupa fè già viver grame (If I, 51) – non sanno reggere
tale gloria, e sono capaci di voltarla contro chi gliela ha concessa. Il
colpo è vibrato contro il pessimo Aman, che anche in Dante è il
prototipo del mal Consiglio (come il giusto Mardoceo lo è del buono):
«Multi bonitate principum, et honore, qui in eos collatus est, abusi
sunt in superbiam. Et non solum subiectos regibus nituntur opprimere,
sed datam sibi gloriam non ferentes, in ipsos, qui dederunt, moliuntur
insidias» (Esth XVI, 2-3). Oggi, a conclusione, le carte ci invogliano a
congetturare che sia stato anche Pietro da Eboli a condurre Dante a
questi luoghi della Scrittura; luoghi che, per la loro “autorità”, soli
potevano essere rammentati ai prìncipi e agli uomini di potere quando
declinavano o asservivano il Consiglio. E si vede bene che nel
Liber Enrico VI si comporta al modo del biblico e dantesco Assuero:
«Cesar cesareum vocat ad se more senatum» (v. 1053). È il more regio
del Libro di Ester; del quale Pietro ha tenuto in mente anche lo
scientium leges ac iura, tramutandolo – a merito di Corrado di Querfurt
– in «iuris servator et equi». Ne parleremo tra poco.
[23] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE 441
4. Costanza donna “costante”
A vedere “lo stato dell’arte”, lascia perplessi il fatto che né la
dantistica – anche quella espressamente impegnata a trattare dell’Italia
meridionale, della Sicilia e della cultura sveva in Dante34 – né
gli studiosi intrigati a vario titolo col Liber di Pietro da Eboli abbiano
mai ipotizzato elementi di contatto intertestuale con la Commedia.
Procediamo sulla scia di quanto è venuto fin qui a giorno.
Conviene riandare al terzo del Paradiso, uno dei canti più letti
nelle scuole. Tra le anime che mancarono ai voti si trova “relegata”
– ne abbiamo appena fatto cenno – la gran Costanza d’Altavilla,
moglie di Enrico VI, che, si ricordi, a Pg III, 113 è già presentata “in
tondo”, come imperadrice (e non come semplice regina del Regno),
per bocca del nipote Manfredi. Ora la domanda, opportuna se non
indispensabile (ma che generalmente non ci si pone), è questa: che
cosa o chi ha indotto l’autore della terza Cantica a darla per “grande”,
nonché a designarla come l’anima più luminosa del primo
cielo? Gioverebbe una diversa decodifica, per l’intendimento del
vero messaggio dantesco, nell’affrontare le terzine, ben quattro, in
cui Piccarda ce la “mostra”35:
«E quest’altro splendor che ti si mostra
da la mia destra parte e che s’accende
di tutto il lume de la spera nostra,
ciò ch’io dico di me, di sé intende;
sorella fu, e così le fu tolta
di capo l’ombra de le sacre bende.
Ma poi che pur al mondo fu rivolta
contra suo grado e contra buona usanza,
non fu dal vel del cor già mai disciolta.
Quest’è la luce de la gran Costanza
che del secondo vento di Soave
generò il terzo e l’ultima possanza».
(Pd III, 109)
Ed anche del séguito che ci offre una lezione di Beatrice: «e poi
potesti da Piccarda udire/che l’affezion del vel Costanza tenne …»
(Pd IV, 97-98).
34 Cfr. Dante e la cultura sveva, cit.
35 Ma non sarà che Costanza stessa si mostra al poeta perché egli ne predichi
in terra la raggiunta salvezza, un po’ come ha fatto Manfredi (Pg. III, 142)?
442 MARIO AVERSANO [24]
Il primo dato che salta agli occhi – e che i commenti colgono, ma
non chiariscono – è la diversità-privilegio di condizione, nella gerarchia
della letizia celeste, che il poeta riserva a Costanza, atteggiandola
in effetti come la Domina del cielo della Luna: la diremmo la donna
che qui regge, ricorrendo a una battuta di If X, 80, dove così Dante
chiama Proserpina-Ecate, “regina”-guardiana degli Eretici nel sesto
cerchio infernale36. Viene in mente la donna del ciel (Pd XXXII, 29),
Maria. Ma sappiamo che la Vergine madre è la più grande delle donne
(Pd XXXIII, 13), e che occupa nella candida rosa in cui si mostrano
i Beati il seggio più alto. Dirimpetto a lei – ci si faccia attenti – è il
maggiore dei nati da femmina (Matth XI, 11): Giovanni Battista, il
«gran Giovanni» di Pd XXXII, 31. Maria e Giovanni, dunque, sono
per Dante – che sempre si tiene al Libro di Dio – i due poli della
grandezza umana.
Per tali presupposti etico-teologici, di conseguenza, nessuno potrà
esimersi dall’interrogativo che ipso facto rampolla nella mente:
poteva l’autore della Commedia chiamare “grande” Costanza d’Altavilla
solo in ragione del titolo di imperatrice, o della stima nutrita
per Guglielmo II, per Federico I e II e per Manfredi (le sole attestate
nella sua opera), o per avere di lei ben “sentito”? L’obbligo di
scartare definitivamente queste ipotesi – oltre che dal buon senso –
ci viene dall’elemento statistico, che di regola nell’ermeneusi
dantesca concede l’ultima parola. Ed esso è “scioccante”: risulta che
a nessuna donna nel poema sacro è attribuita la “grandezza”, tranne
che a Maria Vergine e a Costanza d’Altavilla; e che l’attributo
“grande” è rarissimo a trovarsi anche per il genere maschile. Ma
torniamo ai versi. La forza di quel tutto che accompagna il lume di
cui Costanza si accende è inequivocabile, e lascia credere che richia-
36 Cfr. M. Aversano, Un nuovo Dante. Il realismo teologico dell’“Inferno”, Istituto
di Scienze religiose, Atripalda, il Calamaio 1992, p. 142, dove si dice che
Proserpina non “regge” tutto l’Inferno, ma solo il sesto cerchio. E qui si può
andare oltre il dubbio che dietro questo nesso “regale” posto all’insegna della
“luna” debba essere riconosciuto l’appellativo di Luna che Pietro riserva dapprima
alla madre di Costanza, in quanto vedova che succede a Guglielmo, il Sole
siciliano («anglica Sicelidem luna flet orba diem»: v. 53), e poi a Costanza stessa:
«sollicitans solem regia luna suum». Potrebbe entrarci anche il fatto che proprio
in questo cerchio è castigato per eresia Federico II, da lei “generato”. Cfr. anche
l’indiretto nome di Luna, sempre in coppia col Sole (Phebus) – i due occhi del
cielo di cui parla Dante a Pg XX, 130 – che si ricava dai vv. 706-707, dove sono
elencati gli ornamenti di cui si fregia Costanza: «Forma teres Phebi pendet ab
aure dies./ Pectoris im medio coeunt se cornua lunae». Cfr., ultra, i “corni”
danteschi di Pd VIII, 61 ss., e la nota 59.
[25] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE 443
mi quanto s’è già riscontrato del fulgore speciale che ha il padre di
lei, Guglielmo, nel cielo dei Giusti: fulgore anch’esso da riportare,
è probabile, al fulgere biblico di cui s’è detto nel paragrafo precedente.
Il sottosegno dell’affezione tracciato da Beatrice poco dopo,
inoltre, dà conferma che sussistono delle gradualità all’interno dello
stesso cielo, in rapporto al maggiore o minor “piegarsi” della
voglia alla forza esterna, alla violenza di uomini «a mal più che a
bene usi». Questo, infatti, è chiarito in modo definitivo a Pd IV, 77
segg.: «che volontà, se non vuol, non s’ammorza/ […]. Per che,
s’ella si piega assai o poco,/ segue la forza; e così queste fero/
possendo rifuggir nel santo loco».
Conclusione: il poeta fa di Costanza l’anima più luminosa perché
a differenza della stessa Piccarda non ebbe mai alcun cedimento
nella “fedeltà” interiore (a quella esterna, invece, venne meno), e
seppe ogni volta – cohacta che fosse – rimaner ferma, resistere nella
sua vocazione: per dirla con due vocaboli che Pietro coniuga con la
“fedeltà” (la religio fidei con cui s’intitola la Particula XX), ai vv. 603
e 613. Ora attenti: la parola fides trascorre tutto il Liber, fino a porsi
come distintivo irrinunciabile del buon comportamento. Si pensi al
fatto che il personaggio antagonista di Costanza e degli Svevi,
Tancredi di Lecce, dipinto come un monstrum fisico, tale è anche
nell’animo suo: corrotto al punto che egli giunge a ritenere lecita –
Machiavelli ante litteram37 – ogni azione, e la fides ben trasgredibile,
quando è in gioco il potere: «Nec te, si qua fides, nec te periura
tardent: /gloria regnandi cuncta licere facit» (vv. 156-157).
Scetticismo pragmatico, questo, quale è riaffermato nella Particula
XXIX, a v. 862: «Tam sibi quam mundo credit abesse fidem».
Del tutto “fedele” nel cuore allo Sposo, invece, Costanza, anche
se con manco di voto; fedele al grado che evidentemente non seppe
raggiungere alcuna anima del primo cielo: dovrà pur contare il fatto
che essa è additata come colei che «non fu dal vel del cor già mai
disciolta». Il verso, che ha l’accento ritmico più squillante (e uno dei
più forti che s’incontrino nella Commedia) nel già mai, dove si scarica
l’intero peso tonico della terzina – e si pensa a come principia il più
37 Cfr. anche il v. 1243: «Quis rex, quis princeps, quis dux tua iussa recusat?».
Sono un po’ gli stessi interrogativi retorici che si leggono nel capitolo finale del
Principe: «quali populi gli negherebbano la obedientia? quale invidia se gli opporrebbe?
quale Italiano gli negherebbe l’ossequio?» (XXVI, 7). Fa impressione,
si capisce, il cenno all’“italianità”: ma è difficile che Machiavelli sia incappato
nel Liber ad honorem Augusti.
444 MARIO AVERSANO [26]
noto “pezzo” del siciliano Rinaldo d’Aquino: «Già mai no mi conforto
» – altro non può voler dire che Costanza, in virtù del significato
del proprio nome, non peccò in alcun momento della sua vita di
“incostanza”, di “mancanza” all’intimo proposito monacale. Né può
essere un caso che Dante riadoperi il già mai per un altro Cancellarius
della corte siciliana, Pier della Vigna, per la stessa ragione di fedeltà
sempre mantenuta: «già mai non ruppi fede/ al mio signor…» (If
XIII, 74-75). Altro motivo, allora, per cui non è allegabile – a spiegare
la troppa “preferenza” che Dante mostra per la regina di Sicilia
divenuta imperatrice, e di una lode così alta – la sola “simpatia”
politica, che pure fu grande: l’autore della Commedia non è intellettuale
che si pronunzi con tanta risolutezza senza aver prima cercato,
raccolto e vagliato ogni notizia utile per un imparziale giudizio
etico-politico sulle persone. E qui sta il punto, cruciale: a dargli le
più esaltanti informazioni e garanzie su Costanza altri non c’era e
non c’è – a quel che storicamente ne sappiamo – che provveda più
e meglio di Pietro da Eboli, il quale col suo Liber gli rivela quanto
nessun altro, ma in primo luogo la corrispondenza fra il nome Costanza
e la “costanza” che caratterizzò in ogni frangente l’erede illustre
dei Normanni38:
Illa tamen constans, ut erat de nomine Constans39,
et quia famosi Cesaris uxor erat,
hostes alloquitur audacter ab ore fenestre.
(vv. 583-585)
Una costanza, evidentemente, “destinata”, della marca che fu
propria – secondo Pietro – di un imperatore, Costantino. È quel che
si trova già nella prima Particula, ai vv. 19-20; essi preparano in tal
modo ad ascoltare di lei meraviglie di un comportamento fermo e
risoluto e, per dirla con Dante, “baldo e lieto”: «Nascitur in lucem
de ventre beata beato,/de Constantini nomine nomen habens». Siamo
incoraggiati a trascinare qui l’unico impiego che del lemma
“costanza” (nella forma constanzia) si ha in Dante, che riconduce
alla Vita nova, e precisamente a XXXIX, 2, dove è molto significativo
che faccia coppia con ragione (ne verremo appurando il perché), e
nel rapporto del poeta con Beatrice:
38 Si veda, per un esempio, Pd XII, 79-81: «Oh padre suo veramente Felice!/
O madre sua veramente Giovanna,/ se interpretata, val come si dice!». Anche
per Dante, si sa, come per tutto il Medioevo, nomina sunt consequentia rerum.
39 Diamo il maiuscolo a Constans, perché si evidenzi il nesso tra nome e cosa.
[27] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE 445
«lo mio cuore cominciò dolorosamente a pentere de lo desiderio
a cui sì vilmente s’avea lasciato possedere alquanti die contra la
constanzia de la ragione; e discacciato cotale malvagio desiderio, sì si
volsero tutti li miei pensamenti a la loro gentilissima Beatrice».
Non si può negare, vediamo bene, che tale costanza “razionale”
ha il peso di un imperativo che implica il concetto etico della
“fedeltà”, anche se, nella fattispecie, l’accezione è “amorosa”, riguardando
il patto che stringe a Beatrice il suo “fedele d’amore”.
Per ciò stesso non conviene disbrigare come dubbia, al modo che
ancora si fa, la portata semantica dell’aggettivo “costante” nell’opera
dantesca. Esso non può non derivare dal sostantivo di provenienza,
e non prendere spicco ugualmente in forza del numero
davvero minimo degli impieghi: solo due in tutto Dante, di cui
uno, quello di Rime CII, 13 («io che son costante più che petra/in
ubbidirti»), fa trasparire con chiarezza il valore di “fedele”40. L’altro,
di Pd XI, 70, che tutti rammentano, tocca i rapporti di Madonna
Povertà con Cristo, e propriamente la sua fedeltà al vincolo
matrimoniale: «Né valse esser costante, né feroce41,/ sì che, dove
Maria rimase giuso,/ ella con Cristo salse42 in su la croce». Così,
per questa via, a chi fa ricerca intertestuale arride il beneficio di
intravedere una bella e, ch’io sappia, mai notata corrispondenza –
e sarà una delle volte sopradette in cui la fonte di Pietro illumina
per un migliore intendimento della pagina dantesca – tra la ferocia-
costanza all’ideale della povertà mantenuta da Francesco, e l’impeto
con cui Domenico – detto, non sfugga, l’amoroso drudo: dunque
marito anch’egli, della fede cristiana (Pd XII, 55-56) – “aiutò”
l’orto cattolico. Ciò in quel contesto dove, con altro esplicito richiamo
del principio nomen-omen, è affermata un’appartenenza
“totale”, e dunque una altrettanta totale “fedeltà”, del campione di
Calaroga a Cristo:
quinci si mosse spirito a nomarlo
del possessivo di cui era tutto.
Domenico fu detto; e io ne parlo
40 Così A. Mariani, in E.D., s.v. “costante”: «Io sono fermo come una roccia,
incrollabile nella mia fedeltà alle tue leggi, disposto ad ubbidirti comunque».
41 Levo la virgola tradizionale, che toglie nerbo: «feroce/ sì che…»
42 Il salse è da preferire al pianse petrocchiano: non solo per quanto è detto
in M. Aversano, Dante daccapo (cit. p. 20), ma anche per dare ragione della
costanza-ferocia, che il “salire” rende meglio del “piangere”.
446 MARIO AVERSANO [28]
sì come de l’agricola che Cristo
elesse a l’orto suo per aiutarlo.
(Pd XII, 68-72)
Ora a sostegno della tesi che la “costanza” dantesca abbia l’ascendente
in quella di Pietro da Eboli giocano parecchi e diversi elementi,
di cui il primo è che egli, quando apre la scena a Costanza, batte
ogni volta sulla fides, la fedeltà che impone di non trasgredire un
patto giurato-consacrato: costi pure, ciò, la vita o l’esilio. Anche solo
a sbirciare nelle righe del Liber, l’impressione è che uno spoglio
radicale porterebbe a risultati incredibili per il numero delle repliche.
Qui è sufficiente uno sguardo alla sola Particula che accoglie
l’equazione Constantia=costanza, dove fides è già al secondo verso:
«Ospes in ignota dimicat orbe fides» (in qualità di ospite la fedeltà
lotta in una terra sconosciuta).
Seguono: 1) v. 593: «Ad mentem revocate fidem»; 2) vv. 603-604:
«Est igitur virtus quandoque resistere verbis/ et dare pro fidei
pondere menbra neci»; 3) vv. 611-613: «Gens pure fidei mediis exquirit
in armis/ velle meum […] multo licet hoste cohacta; 4) vv. 589-590:
«Gens magne fidei, rationis summa probate,/ que sim, que fuerim,
nostis, et inde queror».
La mia posposizione di quest’ultimo passo agli altri, quanto alla
serie, è strumentale a un’evidenziazione: dal suo interno ognuno
può così dedurre (facendosi guidare dai corsivi dati alle parole) il
nesso della costanza con la fedeltà, ed anche con la “costanza della
ragione” che abbiamo incontrato nel Dante della Vita nova, non
contraddetto da quello della Commedia e delle Rime. Il tema è peraltro
visibile nelle parole con cui l’Augusta afferma di sé che all’oggi,
nel ben fare, non è cambiata, è rimasta quale fu: «que sim, que
fuerim, nostis». Ed anche da questa specifica professione di tetragonìa
all’“incostanza” l’autore della Commedia può avere attinto, sia per il
valore in prospero che per quello in malo. A esemplificare un poco,
per il primo basti Pd XII, 121-123 (estensivo degli altri passi
“domenicani” or ora citati), che concerne la fedeltà alla regola dell’Ordine:
«‘Ben dico, chi cercasse foglio a foglio/nostro volume,
ancor troverìa carta/u’ leggerebbe: ‘i mi son quel ch’io soglio’».
Per il secondo, invece, andrà citato If XIV, 51: «gridò: ‘Qual fui
vivo, tal son morto’». Fedeltà di Capaneo, in questo caso, a una
religio blasfema: Dio, che della religio fidei è garante, c’entra comunque.
Va sottolineato, inoltre, che la ratio forma uno dei temi lunghi
[29] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE 447
del Liber proprio in quanto opposta agli impulsi dei sensi, e imparentata
con la “costanza”. Si salti, per un altro esempio, alla quinta
Particula, ai vv. 113-115, dove emerge anche il rapporto – sul quale
converrà tra breve riflettere – col “Consiglio” e con la “Pace”, oltre
che col “Vero”:
Sic ait: «Alme pater, lux regni, gloria cleri,
utile consilium, pastor et urbis honor,/
pacis iter, rationis amor, constantia veri43,
respice consiliis regna relicta tuis».
Il grande filone della “costanza” intesa come “fedeltà” caratterizza
anche le allocuzioni dei capi della parte sveva, con un fervido
apice ai vv. 802-803, dove Corrado (il cancellarius più prestigioso del
Liber, che farà da modello per il personaggio di Pier della Vigna)
così arringa i cittadini di Capua: «Vos, precor, ospitibus non temerate
fidem./ Augusto servate fidem». E giunge infine a toccare, nel solco
di quella del poeta stesso (abbiamo visto come egli nella dedica del
Liber ad Enrico VI si proclami servus Imperatoris et fidelis), anche la
sua patria, Eboli. Essa è indicata da Costanza, a riguardo, come
terra che dà esempio degno di premio e di sequela (vv. 615-618):
«Huius ad exemplum, cives, concurrite gentis,
que sit in Ebolea, discite, gente fides.
Ebole, ni peream, memore tibi lance rependam,
pectoris affectus, que meruere boni».
Il corsivo che qui si dà a fides, e insieme ad affectus, risponde –
si sarà capito – all’obiettivo di mostrare, e ci sembra con diritto,
come Pietro abbia potuto trasmettere a Dante il vocabolo medesimo,
affezion, con cui Beatrice nel passo già visto chiarisce il più alto
merito dell’imperadrice, dopo le parole di Piccarda. Siamo invogliati
così a unire l’«affezion del vel» e il precedente «vel del cor». I due
sintagmi vanno glossati – è tempo di dirlo – con memoria della
“ferocia” che la Povertà sposa di Francesco ebbe nella fedeltà al
primo marito, Cristo: «‘Né valse esser costante, né feroce…’».
Avere “ferocia” è quel che noi diremmo “avere un coraggio”
(denominale di “cuore”), e che Pietro rende con pectus, non senza
che insorga il dubbio d’una implicanza autobiografica, dacché il
riferimento è a tutti gli Ebolitani: «pectoris affectus». C’entra insom-
43 A v. 98 ratio è unito con magister: «rationis uterque magister».
448 MARIO AVERSANO [30]
ma, è palese, il ferox latino accepito in bono, che indica ostinatezza
nell’operare, fierezza, sprezzo dei pericoli e animo indomito44.
Conseguentemente, allora, la Costanza del Liber, in forza del
proprio nome, mai si piega a minacce, né a ingiuste pretese, alieno
come ha il cuore da ogni viltà: e così riemerge il profilo della Povertà
di Dante, sicura anche alla voce di colui, Cesare, che fé paura a
tutto il mondo (Pd XI, 67-69); e quello di Francesco a cui non gravò
le ciglia viltà di cuor (Pd XI, 88) dinanzi a Papa Innocenzo, e al
Sultano d’Egitto. Come prova esegetica immediata può servire l’audacter
di v. 585, che riassume il contegno con cui la regina affronta
i rivoltòsi di Salerno. È un tema di complemento, che vuol essere
colto in nuce, a ben vedere, in quella virtus con cui Pietro connota la
figlia di Beatrice di Reteste già dal tempo della nascita: «Virtutem
virtus…peperit» (vv. 17-18).
Il senso di questa virtus, riallacciabile certamente alla catena di
significati che il termine riceve dagli usi antichi, è chiarito e determinato
ai vv. 603-604, che conviene riallegare: «Est igitur virtus (…)
dare pro fidei pondere menbra neci». Pietro indica esattamente il
coraggio portato al limite estremo, all’offerta della vita. E qui è bene
avvisare che molto c’entrerebbe la stessa fides-fedeltà che, s’è accennato,
Dante molto sottolinea – con il già mai e con ben tre impieghi
di fede: caso limite nell’Inferno – quando costruisce l’episodio di Pier
della Vigna (dunque per un altro personaggio invischiato con la
Sicilia e con gli Svevi): nel cui suicidio si coglie lo stesso principio,
quantunque mal praticato, della fedeltà fino alla morte.
A concludere sul tema Costanza-costante gioverà mettere in risalto
che una volta Pietro da Eboli affronta il punctum dolens del
parto tardivo di Costanza, da cui, come è noto, mossero le denigrazioni
di parte avversa, prima fra tutte quella (desunta da Gioacchino
da Fiore) che si fosse avverata la profezia della nascita dell’Anticristo,
Federico II, da una anziana smonacata45. Ebbene, di quel ritardo
Pietro parla come di un fatto prospero, riconducendolo all’ordine
fatale stabilito per Costanza, e la definisce, in virtù del nome, «constantior
arbor». È come se Costanza non avesse mai dubitato di
poter dare al mondo un figlio, destinato a continuare le idealità del
ricostituito Impero. Ecco il passo (vv. 1363-1368):
Venit ab Experia nativi palma triumphi/ pernova, felicis signa
44 È il ferox, si può dire, che Pietro distingue dal ferus a v. 828, e dalla
“ferocia” della ricca Iconia nel resistere al Barbarossa (v. 1595)
45 Per la storia, Costanza partorì a quarant’anni; ma c’è chi dice a trenta.
[31] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE 449
parentis habens./ Duxerat in gemitum presentis secula vite,/ quod
fuerat fructus palma morata suos./ Serior ad fructus tanto constantior
arbor/ natificat tandem sicut oliva parens.
Del resto non è il solo Pietro a toccare la corda etimologica della
costanza dell’ultima erede dei Normanni. Lo fa, ma a scopo di lagnanza
e denigrazione, anche il Falcando, per il quale meglio sarebbe
stato per il Regno se non ne avesse avuta alcuna46.
Mario Aversano
(Salerno)
46 Cfr. la sua Epistola ad Petrum Panormitanae ecclesiae thesaurarium, in Fonti
Ist. Stor. Ital. XXII, Roma, 1897, a cura di G.B. Siragusa, 174.
NOEMI CORCIONE
L’autobiografia in Vittorio Imbriani.
Svelamento ed occultamento del sé
The author tries to demonstrate that in Foscolo’s novels the autobiographical
form emphasizes ironically the new way consider love
relationships. This is achieved through a deconstruction of the eighteenth
century sentimental novel. The essay sheds new light on
Foscolo’s psychological and sentimental world and shows how, in
spite of his autobiographical tone, Foscolo tends to disguise himself
and his feelings.
1. Nella scrittura narrativa di Vittorio Imbriani, come spesso anche
in quella critica, poetica e giornalistica, le vicende biografiche e quelle
intellettuali appaiono strettamente legate tra di loro1, imperniate intorno
alla virtuosistica figura di uno scrittore anticonformista e
dirompente, difficile e fecondo che solo l’intuizione esegetica continiana
ha riproposto ad una nuova scoperta al di là di quella caratterizzazione
di autore bizzarro che troppo spesso il Croce volle attribuirgli2.
1 Benito Iezzi parla, addirittura, della «sostanza eminentemente autobiografica
d’ogni pur vago scritto imbrianesco», in Idem, Codicillo (rispettoso ma non
serio) in R. Zagaria, Vittorio Imbriani e la donna, Pomigliano d’Arco, Lions Club,
1986, p. 33.
2 Presentando il profilo di Vittorio Imbriani nella raccolta antologica Letteratura
dell’Italia unita, Gianfranco Contini scrive: «Gli storici della letteratura hanno
imbalsamato l’Imbriani sotto la comoda etichetta di “spirito bizzarro”, e lo
stesso Croce, cautamente riesumandolo, intitolò una ristampa dei suoi scritti
Studî letterarî e bizzarrie satiriche. E certo l’Imbriani fece di tutto per meritarsi la
qualifica», aggiungendo «bisognerà rivalutare la sua posizione culturale», in
Idem, Letteratura dell’Italia unita. 1861-1968, Firenze, Sansoni, 2000, p. 223. Il
titolo che il Croce scelse per la raccolta di interventi dello scrittore napoletano
(«Ecco raccolti alcuni dei tanti scritti di Vittorio Imbriani, che rimangono sparsi
in opuscoli tirati a pochi esemplari, o in riviste e giornali divenuti quasi tutti
rarissimi», B. Croce, Prefazione in V. Imbriani, Studi letterari e bizzarrie satiriche,
a cura di B. Croce, Bari, Gius. Laterza & Figli, 1907, p. V) vuole riassumere «le
varie forme dell’attività letteraria dell’Imbriani. Accanto, dunque, ai lavori di
[2] L’AUTOBIOGRAFIA IN VITTORIO IMBRIANI 451
Se la biografia di Imbriani delinea un percorso di vita inquieto,
vagante, instabile, dal primo allontanamento dal nucleo familiare
all’età di nove anni al seguito del padre Paolo Emilio costretto all’esilio
prima a Genova poi a Ginevra, a Nizza e infine a Torino a
causa del ritorno al governo dei Borbone, fino ai soggiorni di studio
in Francia, Svizzera e Germania, agli spostamenti al seguito delle
campagne militari del 1859 e del 18663 e alle vicissitudini che lo
condurranno a Firenze, Roma, Napoli, anche le opere che più direttamente
vedranno un intrecciarsi di motivi relati alla sfera privata
dell’autore risentono di un andamento frastagliato, sfuggente,
moltiplicativo.
I temi intorno ai quali sono imperniati i romanzi qui analizzati,
Merope IV. Sogni e fantasie di Quattr’Asterischi4 e Dio ne scampi dagli
Orsenigo5, dunque, sebbene sottoposti ad un vigile controllo da
parte di Imbriani, risultano attorniati da una serie di racconti paralleli,
digressioni, intermezzi che disorientano il lettore, facendogli
perdere quella direzione narrativa, quel motivo centrale che,
estetica e di alta critica, e alle indagini di storia e di erudizione, vi si troveranno
curiosità letterarie, novelle, ghiribizzi, e versi bizzarri», in Idem, Prefazione, in V.
Imbriani, Studi letterari e bizzarrie satiriche, cit., pp. V-VI. Anche Antonio Palermo,
a proposito dell’attività accademica del Nostro, si rifà ad un tratto ormai
divenuto costitutivo nella critica imbrianesca: «[…] finché aveva potuto, Imbriani
aveva insegnato con una appassionata partecipazione, insospettabile in uno
scrittore ‘bizzarro’ per antonomasia», in Idem, Ottocento italiano. L’idea civile della
letteratura. Cattaneo, Tenca, De Sanctis, Imbriani, Capuana, Napoli, Liguori, 2000, p.
76. Tale caratterizzazione è denunciata anche da Fabio Pusterla, il quale parla di
«un giudizio lacerato [che] accompagna da sempre Vittorio Imbriani: ogni volta
che si è parlato della sua figura e della sua opera si è fatto ricorso all’antitesi
racchiusa, secondo l’implicito suggerimento crociano, nel titolo della prima e
principale silloge postuma, Studî letterari e bizzarrie satiriche (1907), che inagurava
la sua tiepida rivalutazione novecentesca, studioso, quindi, e insieme scrittore
bizzarro, outsider fastidioso e mordace», in Idem, Introduzione, in V. Imbriani, I
Romanzi, a cura di F. Pusterla, Milano, Garzanti, 2006, p. IX.
3 Nel maggio del 1859 Imbriani abbandonò Zurigo per partecipare come
volontario, insieme al fratello minore Matteo Renato, alla II guerra d’indipendenza;
nella primavera del 1866, invece, si arruolò nel corpo dei volontari
garibaldini, combattendo nel corso della III guerra d’indipendenza. «Questa
volta, a differenza del ‘59, gli riuscì alfine di combattere sul campo (fu anche
fatto prigioniero), egli che fin allora aveva solo abbondato in duelli», in A.
Palermo, Ottocento italiano. L’idea civile della letteratura. Cattaneo, Tenca, De Sanctis,
Imbriani, Capuana, cit., p. 78.
4 V. Imbriani, Merope IV. Sogni e fantasie di Quattr’Asterischi, a cura di R.
Rinaldi, Roma, Carocci, 2009.
5 V. Imbriani, Dio ne scampi dagli Orsenigo, in Idem, I Romanzi, cit.
452 NOEMI CORCIONE [3]
leciti in un prodotto letterario, non possono quasi mai darsi nell’esistenza
di un uomo.
Nelle due opere prese in considerazione la categoria della finzione
e quella dell’autobiografia si intrecciano continuamente determinando
una serie di piani di lettura che investono l’analisi delle
ragioni di una scrittura, lo studio di sé e delle passioni umane
attuato attraverso la confessione ironica o il racconto distaccato e
disincantato, la destrutturazione del romanzo sentimentale ottocentesco.
Del resto, sia nel caso di Merope IV che di Dio ne scampi dagli
Orsenigo, Imbriani antepone un capitolo iniziale a mo’ di avvertenza
che mette subito in guardia i lettori: alle vicende narrate, ed eventualmente
accadute, si darà sempre un riscontro fantastico, quasi che la
realtà non possa esistere al di fuori dell’immaginazione e della versione
che di essa ne fornisce l’Autore; e se la scrittura di quest’ultimo
è essa stessa un fatto reale, ecco che realtà e scrittura si intrecciano
e si con-fondono continuamente. L’Autore, allora, si ritrova ad incarnare
la duplice funzione dell’artifex, di artista e attore, scrittore e
personaggio, creatore e fingitore, in una dicotomia costante che riguarda
più in generale l’arte, la letteratura, l’attività dello scrivere
ed il vivere scrivendo.
2. Pubblicata parzialmente nel corso del 1866 nelle appendici dei
quotidiani «La Patria» e «Il Secolo» e in seguito a Pomigliano d’Arco
nel 1867, Merope IV narra la storia autobiografica dell’amore tra
il sottotenente Quattr’Asterischi, pseudonimo già utilizzato da Imbriani
in alcune prove giornalistiche e poetiche6, ed Eleonora Bertini,
6 Tale pseudonimo fu scelto dall’Autore per la raccolta di poesie 1863-1864.
Versi di ****, Napoli, Stabilimento tipografico delle Belle Arti, 1864, e per firmare
sia gli articoli di critica d’arte raccolti ne La Quinta Promotrice, 1867-1868. Appendici
di Vittorio Imbriani. Ristampa non corretta nèd accresciuta, Napoli, Tipografia
napolitana, 1868 (ora in Idem, Critica d’arte e prose narrative. Prefazione, note e
saggio bibliografico a cura di G. Doria, Bari, Laterza, 1937) che le corrispondenze
da Roma inviate tra «la fine del 1871 e il principio del ‘72, a un giornalucolo
politico napoletano [si tratta de «La Sentinella, giornale politico della sera»], che
le pubblicò nelle sue Appendici» (N. Coppola, Premessa in V. Imbriani, Passeggiate
romane ed altri scritti di arte e di varietà inediti o rari, Napoli, Fiorentino, 1967).
I caratteristici asterischi sono immediatamente presentati da Imbriani nell’avvertenza
iniziale del romanzo, Al lettore, nella quale si viene informati del duello
che la pubblicazione di Merope IV è costata al suo Autore, «V.*** I.***» per
l’utilizzo dell’«avverbio “repubblicanescamente”»; il duello fu richiesto come
riparazione per quanto riportato da Marziano Capo sul quotidiano «Popolo d’Italia
» il 10 gennaio 1867: «V.*** I.*** fece chiedere per mezzo de’ suoi amicissimi
[4] L’AUTOBIOGRAFIA IN VITTORIO IMBRIANI 453
moglie del ricco nobile Luigi Rosnati, di Gallarate7. Nora e Vittorio
si incontrarono, in giugno, durante la campagna militare del 1866
nella quale il giovane si era arruolato volontario al seguito dell’eser-
R.*** S.*** e G.*** de’ T.*** ritrattazione delle parole offensive al signor M.***
C.*** che si riconobbe Direttore del Popolo d’Italia e scrittore di quelle. Negata la
ritrattazione ebbe luogo uno scontro alla sciabola nel quale il C.*** fu assistito
dai signori G.*** M.*** e C.*** M.*** e che finì con una ferita al capo riportata da
V.*** I.***», V. Imbriani, Merope IV. Sogni e fantasie di Quattr’Asterischi, cit., p. 31.
Nel corso della sua esistenza, Imbriani ricorse a numerosi pseudonimi che
rispecchiassero la propria biografia nei diversi campi (giornalistico, romanzesco,
poetico) in cui volle provare la sua poliedrica intelligenza. Tali pseudonimi
sono: Ugo di Napoli, W.H.Y. o W.Y., Quattr’Asterischi, Il Misantropo, Il Misantropo
napolitano o napoletano, Prof. Bove, L’Orco, Un Italianissimo, Un
Monarchico, Jacopo Moeniacoeli. Per una trattazione particolareggiata dell’uso
degli pseudonimi nell’opera di Imbriani si legga R. Giglio, Il giornalismo di
Vittorio Imbriani, in Studi su Vittorio Imbriani. Atti del «Primo Convegno su Vittorio
Imbriani nel Centenario della morte» Napoli, 27-29 novembre 1986, a cura
di R. Franzese e E. Giammattei, Napoli, Guida, 1990. Il Giglio, inoltre, nel
puntualizzare che «la scelta della forma [dei diversi pseudonimi] rispecchiava
dei motivi ben precisi e quasi sempre attinenti a vicende autobiografiche» (Ivi,
pp. 410-411), annota che quello di Quattr’Asterischi «dovette essergli particolarmente
caro se coniò la forma Quattrasterischessa per la moglie, Quattrasterischina
per la figlia e Quattrasteriscopoli per Pomigliano d’Arco» (Ivi, p. 411). Per un
catalogo ragionato delle forme pseudonimiche adottate dall’Autore si rimanda,
ancora, a B. Iezzi, Vittorio Imbriani: uno, nessuno, centomila ovvero del buon uso dello
pseudonimo, «Il Mattino», 2 aprile 1985, ripreso in L’eredità culturale di Vittorio
Imbriani nel centenario della morte (Itinerario della Mostra Bibliografica), Biblioteca
Universitaria di Napoli, 1986, ed infine in Idem, Giunte e Mende alla Bibliografia
imbrianesca di Gino Doria, Napoli, Edizioni Cancroregina, 1986. Lo pseudonimo
di Quattr’Asterischi, inoltre, fu utilizzato dall’Autore anche per firmare alcune
missive, come quella indirizzata a Gherardo Nerucci del 29 agosto 1967 (V.
Imbriani, Carteggi II, Gli hegeliani di Napoli ed altri corrispondenti letterati ed artisti,
a cura di N. Coppola, Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano,
1964, p. 293). Infine, ricordiamo come nel racconto Baldoria tedesca compaia anche
un «Principato di Treppuntini» (V. Imbriani, Racconti e prose (1877-1886), a
cura di F. Pusterla, Parma, Fondazione Pietro Bembo – Guanda, 1994).
7 In una lettera all’amico Gherardo Nerucci del 16 febbraio 1867 Imbriani
scrive: «Guarda, in Merope, ho voluto spesso ritrarre la donna dell’alta Italia e
l’uomo della meridionale, quali sono: e perché avessero più campo a dimostrarsi
nella loro nudità ho scelta la forma autobiografica. Non per questo io approvo.
Io dico: le cose stanno così, non biasimo, non encomio, ciascuno tiri le conseguenze
da sé. Ove le cose stiano male, coraggio e correggiamoci; ma sappiate
che così si vive e si sente e si pensa» (V. Imbriani, Carteggi II, Gli hegeliani di
Napoli ed altri corrispondenti letterati ed artisti, cit., p. 288). Questa stessa presa di
distanza dal narrato è continuamente ribadita in Dio ne scampi dagli Orsenigo, in
cui l’Autore protesta il distacco oggettivo della propria scittura: «Io sono istorico:
narro, non giudico» (Ivi, p. 369) in un «riflettersi di impersonalità» quale «sottra454
NOEMI CORCIONE [5]
cito garibaldino, mentre la donna era «una delle dame del Comitato
ivi sorto [a Gallarate] per offrire al Reggimento la bandiera di combattimento
e festeggiare i volontarî»8. La vicenda riporta le fasi del
corteggiamento della donna che fugge, rassegnata e civettuola ad
un tempo, le avances dell’innamorato, la sua conquista e l’allontanamento
dei due amanti.
Il testo, presentato dall’Autore come «mezzo realista e mezzo
fantastico»9 in una lettera del febbraio 1867 indirizzata ad Alessanzione
del vantaggio che mette in vita la persona del narratore» (T. Pomilio,
Iperletteratura e artificio della passione, in Studi su Vittorio Imbriani, cit., p. 367).
8 Commento di Nunzio Coppola in V. Imbriani, Carteggi I. Lettere familiari e
diari inediti, a cura di N. Coppola, Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento
italiano, 1963, p. 177.
9 Cfr. Vittorio Imbriani, lettera ad Alessandro D’Ancona del febbraio 1867, in
Idem, Carteggi II, Gli hegeliani di Napoli ed altri corrispondenti letterati ed artisti, cit.,
p. 230: «Verso i primi del prossimo Marzo riceverete un mio racconto mezzo
realista e mezzo fantastico; secondo alcuni immorale, e come vedrete, monco ed
amputato. Io vi prego di farlo annunziare da qualche giornale fiorentino e s’è
possibile di fargliene riprodurre un capitolo come saggio: c’è un sacco d’episodî
che stanno di per sé. Capisco che il lavoruccio vi parrà forse più degno di
biasimo che di lode: e sia! Io amo forse più quel che un francese ha chiamato
L’applaudissement fauve et sombre des huées che gli applausi encomiastici. Del resto,
è un saggio, e m’importa di avere il parere de’ pochi intelligenti, di que’ tali
happy few, su questa quistione: s’io abbia in me gli elementi di un buon narratore.
Talvolta mi par di sì, talvolta di no; sto infraddue. In questi dubbi si cerca
l’opinione altrui p. arbitra». Nella missiva che il Coppola classifica come immediatamente
successiva a questa del febbraio 1867, il giovane scrittore richiama
ancora una volta l’attenzione del D’Ancona sul suo romanzo: «Ho indugiato per
qualche giorno a scrivervi sperando di potervi mandare la povera Merope IV; ma
è cosa d’un’altra quindicina. Ve la raccomando e perché me ne diciate schietto
il parer vostro e perché la raccomandiate al vostro amico antologico [si tratta del
professor Protonotari, direttore della «Nuova antologia»], perché la catalogizzi
nel suo erbario, e poco male se avesse a registrarla tra fiori puzzolenti o velenosi.
Un biasimo non può mai far male e può talvolta tornare utilissimo, il che non
può dirsi certo della lode. E poi un lavoro terminato è divenuto indifferente ed
estraneo all’autore, come l’opera d’un terzo; ed egli che sogna d’esser progredito
non si picca del vituperio di quella; ed essendosene nojato ha caro che un altro
la malmeni e tartassi, quasi facesse le sue vendette» (Ivi, pp. 230-231). E così
continuerà a fare nelle epistole successive: «Nel corso della prossima settimana
vi manderò la Merope; ma vi raccomando di raccomandarla al vostro amico
antologo» (Ivi, p. 232), sollecitando un parere da parte dell’illustre Professore: «E
Merope? Ve l’ho mandata fin dal 19» (Ivi, p. 233), così come un interessamento
per una maggiore conoscenza e diffusione del romanzo: «Siavi nuovamente
raccomandato di raccomandar la povera Meropuccia al v/o amico antologo»
(Ivi, p. 234) e «Ho mandato a voi direttamente un’altra Merope: giacché siete
tanto buono di accollarvi questa seccatura, accollatevela tutta; saprete a chi ri[
6] L’AUTOBIOGRAFIA IN VITTORIO IMBRIANI 455
dro D’Ancona, «si muove tutto sul discrimine fra l’appassionata
partecipazione sentimentale del narratore a un’esperienza vissuta e
il provocatorio allontanamento parodico dal narrato»10; e in questo
ci soccorre lo stesso Imbriani scegliendo come citazione di apertura
nella Dedica del romanzo il brano conclusivo delle Confessioni (1782)
di Jean-Jacques Rousseau: «Non ci poteva essere distanza troppo
grande dal luogo dove mi trovavo al primo Paese dei Sogni, che
non mi fosse agevole stabilirmici»11. La forte carica autobiografica
inizialmente dichiarata, che costituisce una sorta di patto che l’Autore
stringe con il lettore (egli scrive di voler raccontare la sua storia
«quantunque possa costarmi»12), incontra un primo ostacolo nella
gestione dei personaggi: perché vi sia autobiografia, infatti, occorre
trovarsi di fronte ad un racconto intimo in cui vi sia «identità tra
l’autore, il narratore e il personaggio»13 principale. Ebbene in Merope
IV effettivamente Imbriani propone una narrazione autodiegetica
ma attribuendosi il nome di Quattr’Asterischi, di per sé ambiguo e
disorientante nell’ironica carica nullificante che lo investe.
Nello scarabbocchiar questa novella, francamente, non ho pensato a
nessuna altra cosa che alla novella; ho creato due personaggi, ho
detto loro di levarsi e camminare; poi quel che vidi io scrissi. Sono
ben lungi dall’approvare ogni loro azione, di consentire in ogni loro
opinione. Dato e non concesso che sian cattiva gente, che c’entro io?
[…] Se col narrare alcune loro vicende farò sì che Merope14 e Quatmetterla
con qualche parola che valga ad ottenerne l’intento» (Ibidem). La richiesta
di un simile interessamento è presente anche nella corrispondenza tenuta
dall’Autore con l’amico Gherardo Nerucci (Cfr. V. Imbriani, Carteggi II, Gli
hegeliani di Napoli ed altri corrispondenti letterati ed artisti, cit., pp. 285-292).
10 Commento di Rinaldo Rinaldi in V. Imbriani, Merope IV. Sogni e fantasie
di Quattr’Asterischi, cit., p. 33. Il Rinaldi indica come tale «oscillazione distingua
Merope IV da tante altre novelle più tarde di Imbriani, dove lo schema convenzionale
della trama è pura occasione per un divertimento stilistico. E la distingua
perfino da Dio ne scampi dagli Orsenigo (1876 e 1883), dove la scrittura è più
distaccata e meno radicata nella vicenda biografica» (Ibidem).
11 V. Imbriani, Merope IV. Sogni e fantasie di Quattr’Asterischi, cit., p. 33.
12 Ivi, p. 52. All’espressione di Quattr’Asterischi fa da contrappunto (quasi
ulteriore rispecchiamento dell’animo stesso di Imbriani) quella di Merope, la
quale, ricordando al suo innamorato il desiderio di mantenere la promessa
fattagli divenendone l’amante, gli dice: «Non ho mai mancato ad una parola,
ancorché avventata, checché dovesse costarmi, io» (Ivi, p. 259).
13 P. Lejeune, Il patto autobiografico, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 13.
14 Ricordiamo che il gioco degli pseudonimi vale anche per il personaggio
femminile del romanzo che viene presentato non con un nome autonomo bensì
con un prestito letterario adottato quale soprannome (con evidente alterazione
456 NOEMI CORCIONE [7]
tr’Asterischi vivano un istante nella mente del lettore, e che l’interesse
per questi esseri ideali superi un momento quello per la prosa
della vita, e ne faccia dimenticare, per un attimo la sconsolata miseria,
non potrò dire di aver raggiunto lo scopo dell’Arte, e che mi
resta a desiderar di più?15
Se, dunque, nell’autobiografia l’enunciazione è a carico dell’autore
del testo, nella finzione romanzesca tale autore può assumere
tanti volti o uno, come questo di Quattr’Asterischi che pare, irrisoriamente,
immettersi in una dimensione sfuggente, nel vago, nell’incognita
da decriptare, nel rifiuto di sé, nella frode dell’identità.
Viene, in questo modo, a costituirsi una sorta di pseudonimia che
lambisce l’anonimia e che pone l’esistenza stessa dell’Autore in bilico.
Lo spazio autobiografico pare subito ridursi ed il patto stretto
con il lettore viene a configurarsi come «fantastico»: è la difesa che
Imbriani adotta per sottrarsi alla confessione disarmata di un’esperienza
che lo ha profondamente segnato, per dare l’illusione di un
viaggio letterario che travalichi la narrazione stessa.
Lo sdoppiamento operato dall’Autore nei confronti del personaggio
che è stato fa sì che il testo stesso parli una doppia lingua:
da una parte vi è il racconto che si arricchisce via via di nuovi
particolari, dall’altra l’occultamento sistematico e consapevole di
quegli stessi particolari attraverso la loro amplificazione e frammentazione
in tanti episodi apparentemente extravaganti16. Un procedimento,
questo, per mettere pudicamente una distanza tra il lettore
e la descrizione di un episodio centrale della propria vita amorosa;
procedimento che, a suo modo, continua ad essere veritiero: quella
di Imbriani infatti è una finzione non una menzogna, tanto che lo
stesso problema della fedeltà ai fatti narrati non risulta necessariamente
legato alla questione dell’autenticità espressa attraverso il
nome dell’autore del testo.
dell’identità); Imbriani, infatti, attribuisce alla donna il nome di Merope perché
ella «presentandogli la figlioletta, recitò con un mesto sorriso quel verso d’Alfieri:
Di sventurate nozze ultimo pegno» in V. Imbriani, Merope IV. Sogni e fantasie di
Quattr’Asterischi, cit., p. 46.
15 V. Imbriani, Merope IV. Sogni e fantasie di Quattr’Asterischi, cit., pp. 38-39.
16 Si pensi, ad esempio, alla lunga serie di sogni che attraversa il romanzo
(Sogno fantastico, Sogno idillico, Sogno drammatico, Sogno postumo, Sogno patologico,
Sogno giudiziario, Sogno ecclesiastico) così come ai vari intermezzi, interludi e
racconti affidati a personaggi secondari. Del resto, ricordiamo che un vero e
proprio brano autobiografico si legge in una delle digressioni del romanzo
sottoforma di orazione funebre nel capitolo XVI.
[8] L’AUTOBIOGRAFIA IN VITTORIO IMBRIANI 457
Merope IV può essere definita allora come un romanzo-specchio
che però non rimanda mai, né potrebbe, l’immagine univoca di una
passione per una donna «bellissima sempre»17 e «desideratissima»18,
della lunga attesa sognante del protagonista e di una fine consumata
in un «addio senza lacrime»19 anche se, biograficamente, il distacco
da Nora fu doloroso (checché ne dica l’Autore) e mai consumato
realmente se è vero che Imbriani continuò a recarsi nel corso degli
anni presso Villa della Costa, residenza della donna sulla collina di
Crenna, fino al matrimonio celebrato con la secondogenita di quest’ultima,
Gigia, nel 1878.
Venne dunque il momento dell’addio, e quell’addio non fu doloroso:
andò scevro ed immune di pianto e di rimpianto. Ci separammo
senza rimorsi del passato, senza speranza dell’avvenire. Io fui trascinato
dalla locomotiva verso mezzogiorno, ed ella si sdrajò con un
romanzetto in mano sul canapè di quel salottino dove io non le
sederò più accanto. Ameremo di nuovo? – Perché no? Siamo giovani
ancora d’animo e di corpo: perché dunque non dovremmo incontrare
un’altra volta io una donna, essa un uomo siffatti da illuderci di
veder pienamente incarnati in essi i nostri ideali, quegl’ideali ne’
quali la nostra fede pei ripetuti disinganni non è spenta? Io spero
che la cosa accada. Possa l’illusione durar molto tempo! e noi giunger
tardi al convincimento che il nostro nuovo amore discrepa dal
concetto che di bello abbiamo in mente! e possa ogni nostro nuovo
affetto esser degno come quello che ci ha ravvicinati20.
Ma poi, speranzoso e disarmato, aggiunge:
Ci ritroveremo? Chi sa! Forse quando accadrà di rivederci il tempo
ci avrà siffattamente mutati, che ci stuzzicheremo reciprocamente la
curiosità e l’immaginazione; ed allora non potrebbe avverarsi che da
questa brace male spenta che c’è rimasta in cuore, divampasse un’altra
fiamma? e forse maggiore della precedente? Nihil obstat!21
Il romanzo è percorso da una malinconia continuamente mascherata
da distaccato cinismo, dall’amarezza per un amore che si
connota come mancanza, come modo di vivere la propria solitudine,
dal desiderio di continuare a godere di quel sogno, di quell’
«idolo» che la fantasia ha creato e l’animo non vuole abbandonare.
17 V. Imbriani, Merope IV. Sogni e fantasie di Quattr’Asterischi, cit., p. 258.
18 Ivi, p. 34.
19 Ivi, p. 383. Si tratta del titolo del XXIII capitolo.
20 Ivi, pp. 397-398.
21 Ivi, p. 398.
458 NOEMI CORCIONE [9]
[…] di quelle tante memorie che fanno una vita, questa [di Merope]
è a me carissima, e sacra più d’ogni altra qualunque. E se il pensare
involontariamente e spesso ad una lontana, l’esser pronto a ricordarsele
graditamente a qualsiasi follia, il sognarne anche dormendo
allato ad altra; il rammentare con compiacenza le voluttà seco godute;
se questo è amore (e se non è, cosa dunque sarebbe? e cosa
diremo amore?) io perduro e persevero ad amarla22.
In tale ottica, la dichiarazione finale:
Non affrettarti ad invidiarmi, umanissimo lettore, e Lei, cara lettrice,
non si affretti a stupire del cattivo gusto della Merope, e della buona
ventura di questo sciocco Quattr’Asterischi. Ahimè! di quanto narrato
sin qui, sull’onor mio, non è accaduto nulla, nulla, a me Quattr’Asterischi;
v’ho ammannito un sacco di bugie23
presentando il ribaltamento di quanto fino a quel momento è stato
detto, risulta come una sorta di occultamento ambiguo di sé e di cio
che avrebbe potuto «essere e non è stato»24, elemento diacronico
fonte di cambiamento dell’immagine e sottrazione dello specchio
riflettente come mezzo di conoscenza. Il finale di Merope IV apre
dunque uno spazio vuoto che il lettore non può colmare, venendogli
meno la trama ed i motivi appena trattati, ed Imbriani, che non
22 Ivi, p. 399. Riflettendo sulla mutevolezza dell’animo umano e sulla inesplicabile
necessità avvertita dai due amanti di prendere le distanze da un amore
che è pur divenuto «carne e […] sangue» (Ivi, p. 383), Imbriani ribadisce la
tenacia del suo affetto per Merope: «Gli affetti sono come l’acqua del mare,
come la superficie terrestre; mutano faccia ogni giorno, si alterano, si modificano,
si trasformano e transustanziano: di veramente immobile non c’è che la
sterilità, il vuoto, il nulla. Anche l’amore è sottoposto a questa legge fatale
d’esplicazione e di cambiamento; perché non dovrebb’essere? Perché deplorarlo?
Talvolta e’ vien meno, sembra estinguersi del tutto, e non lascia altro vestigio
che una dolorosa esperienza […]. Talvolta finita la passione rimangono due
indifferenti che si odiano e si fuggono, mutilati in fondo al cuore, con due
piaghe sopravvissute all’affetto che le aperse […]. Ma io non parlo di queste e
di simiglianti catastrofi; non parlo di amori che muojono; quello che mi allacciava
alla Merope era di salda tempra, e non sarà forza di tempo o d’avvenimenti
che valga a soffocarlo; né amori nuovi per quanto numerosi e profondi, potranno
diminuirlo o cancellarlo!» (Ivi, p. 387).
23 Ivi, p. 421.
24 Ivi, p. 424. «Ma quel che ho narrato e non è accaduto, avrebbe potuto
accadere, perché no? Nihil obstat. Avrei potuto conoscere la bella ignota, presenziare
alla sua toletta, ottenerne il dolcissimo amore, vederla al mio capezzale,
cader ferito per la patria come il maggior Lombardi per insipiente baronal comando…
E perché poteva essere e non è stato, m’accoro» (Ivi, pp. 423-424).
[10] L’AUTOBIOGRAFIA IN VITTORIO IMBRIANI 459
fornisce più appigli alla comprensione della vicenda, si ritira in un
silenzio malinconico e sornione che lo occulta allo sguardo del lettore.
D’altronde, la negazione biografica, in un certo senso, fa sì che
la storia non si inveri mai realmente (quasi fosse uno di tanti sogni
ricorrenti nel romanzo), sfugga in continuazione e, soprattutto, non
esaurisca la sua carica ideale e desiderante, permettendo la mistificazione
e la perenne metamorfosi dell’idea stessa di amore. La donna,
così, continua ad esistere, segretamente avvolta nell’esclusività
dell’animo del suo amante.
In un’ottica autobiografica va collocato anche il personaggio di
Pietro De Mulieribus, vero e proprio doppio dell’Autore, compagno
d’armi di Quattr’Asterischi, ingenuo e mediocre poeta, fiducioso
amante dell’arte e di una donna «Signora e Padrona»25. Nei suoi
confronti il protagonista «provava una secreta invidia per quell’uomo
che amava tanto, quantunque d’infelice amore e la sua donna e
la poesia, da non saperle dimenticare neppure fra le armi, da perdurare
nelle sue illusioni erotiche ed artistiche. La sua posizione aveva
del buffo, come quella di chiunque ama e fa fiasco, tenta e non
riesce; ma quel buffo aveva una lieve tintura di sublime!»26. A tale
personaggio Imbriani affida ironicamente la paternità dei propri
versi (in cui, afferma De Mulieribus con una perfetta mise en abyme,
«m’è d’uopo nascondere il mio nome ed il suo [della donna amata]
»27) che egli ascolta declamare all’amico prima dell’inaspettato
incontro con Merope in abito da contadina. De Mulieribus, che in
tale occasione appare del tutto inconsapevole dell’afflizione patita
dal protagonista a causa della lontananza dalla donna amata, ricompare
alla fine del romanzo quando, consumata ormai la relazione
tra i due protagonisti, incontra Quattr’Asterischi in una tappa del
viaggio di ritorno a Napoli, mentre contempla su una spiaggia gli
esiti di un terribile naufragio. Qui, dopo l’ennesima declamazione
di versi amorosi, segue la presa di distanza da essi di Quattr’Asterischi
che, lontano ormai dagli entusiasmi sentimentali nutriti nel
corso delle vicende narrate, non può più consentite alle illusioni a
cui quei versi danno vita.
Il soprannome Pietro De Mulieribus era già stato utilizzato dal
padre di Imbriani, Paolo Emilio, che aveva dedicato ad un personaggio
reale, il pittore olandese Pieter Mulier, «una monodia d’into-
25 Ivi, p. 242.
26 Ivi, pp. 253-254.
27 Ivi, p. 243.
460 NOEMI CORCIONE [11]
nazione byroniana, narrandovi romanticamente le vicende della vita
di lui»28. Vittorio stesso aveva poi parlato dell’artista nelle Lettere
artistiche del 1868 raccolte nelle Passeggiate romane29. «Il nome
italianizzato (o latinizzato) dell’amico di Quattr’Asterischi» afferma
Rinaldi «allude al motivo centrale di Merope IV: il problematico
rapporto con la donna, evocato anche dalla drammatica biografia
del pittore. Ma al tempo stesso il nome del personaggio è un omaggio
al padre, una sorta di presa in carico della sua eredità intellettuale
[…]. Che su questo curioso alter ego paterno si stenda poi un
giocoso velo d’ironia, conferma la presa di distanza di Imbriani dal
suo passato familiare e personale»30.
3. Il passaggio da Merope IV a Dio ne scampi dagli Orsenigo31 si
consuma tutto sotto l’egida di un ironico e scettico labor limae, attraverso
il quale Imbriani giunge ad una nuova definizione non
solo dei rapporti che legano gli amanti ma anche della propria
autobiografia, investita ora, in maniera molto più discreta e segreta,
da un bisogno costante, esteso, quasi inconsapevole di configurare
e consumare continuamente il processo mutevole dell’esistenza, della
propria immagine e del proprio rapporto con il lettore-spettatore
che assiste alla metamorfosi, nel tempo, del concetto di passione32.
Anche in questo romanzo l’attenzione è dedicata all’analisi dissa-
28 Commento di Nunzio Coppola in V. Imbriani, Carteggi I. Lettere familiari
e diari inediti, cit., p. 142.
29 V. Imbriani, Passeggiate romane ed altri scritti di arte e di varietà inediti o rari,
cit., pp. 151-163.
30 Commento di Rinaldo Rinaldi in V. Imbriani, Merope IV. Sogni e fantasie
di Quattr’Asterischi, cit., p. 148. Ricordiamo, inoltre, che i diversi sogni riportati
nel corso del romanzo possono, nel loro insieme, assumere la funzione di ennesimo
alter ego dell’Autore.
31 Il romanzo, pubblicato dapprima sul «Giornale napoletano di filosofia e
lettere», fu stampato a Napoli nel 1876, presso lo stabilimento tipografico A.
Trani, con il titolo Iddio ne scampi dagli Orsenigo, in soli 100 esemplari; nel 1883
l’Autore approntò una nuova versione del testo che pubblicò presso l’«estrosoavventuroso
» (A. Palermo, Ottocento italiano. L’idea civile della letteratura. Cattaneo,
Tenca, De Sanctis, Imbriani, Capuana, cit., p. 95) editore Sommaruga, a Roma, con
il titolo definitivo di Dio ne scampi dagli Orsenigo.
32 Nel ribadire il nodo biografico e tematico che lega le due opere, Palermo
nota che il decennio che va dagli anni Sessanta ai Settanta vede non solo un
intensificarsi dell’attività letteraria di Imbriani ma anche una circolarità sentimentale
nella vita dello scrittore che scandisce le tappe compositive dei due romanzi:
«Questo decennio, tra l’altro, è segnato all’inizio e alla fine dai due maggiori
eventi della vita amorosa dell’Imbriani: nel 1867, legato alle vicende del tenente
[12] L’AUTOBIOGRAFIA IN VITTORIO IMBRIANI 461
crante e beffarda dell’adulterio borghese e ai «meccanismi che entrano
in gioco e determinano la sconfitta dell’uomo»33: Almerinda
Scielzo, sposata all’anziano e «sonnacchioso»34 «commendatore Don
Liborio Ruglia, Consigliere di Cassazione»35 e amante del capitano
Maurizio Della Morte (giovane «meno terribile del suo cognome»36),
decide, su suggerimento dell’amica Radegonda Salmojraghi Orsenigo,
di troncare la relazione con l’ufficiale per dedicarsi alla vita familiare.
Ma, in seguito alla lettura del carteggio amoroso intercorso tra i
due, in Radegonda nasce il «desiderio di sapere come si ama»37,
tanto da sedurre e divenire, caricatura dell’eroina romantica, l’amante
di Maurizio il quale sarà costretto a recitare con la donna un ruolo
che non gli appartiene, sopportando per il resto dei suoi giorni una
relazione non desiderata e frutto di un tremendo equivoco.
«Caro lettore, sappia vossignoria Illustrissima, che la mia fantasia
è poca, e pigra; sarà, presto, esaurita; e, se non mi ajutano, mi
ripeterò maledettissimamente»38 afferma l’Autore nel riprendere non
solo un tema già affrontato in Merope IV, come del resto in altre
prove narrative, ma anche il doppio sguardo, reale e fantastico, che
attraversa il testo: «L’amore, anch’esso, è manifestazione della fantasia;
la facoltà di amare è cognata alla virtù poetica»39. Se, allora,
Imbriani, vi è l’adulterio con la nobildonna milanese Eleonora Bertini Rosnati; nel
1878, il matrimonio, felice ma subito segnato dalla scomparsa del promogenito,
con la giovane figlia di Eleonora, Gigia Rosnati. Negli stessi anni nasce e si
realizza più copiosamente la sua vena di narratore. Anzi, si sarebbe portati a non
limitarsi a sottolineare una coincidenza, visto che la sua prima prova narrativa,
il romanzo Merope IV. Sogni e fantasie di Quattr’asterischi (1867) non solo rispecchia
largamente la autobiografica vicenda adulterina, ma funge anche da vero e proprio
cartone per uno dei più riusciti testi di Imbriani, l’altro romanzo, Dio ne
scampi dagli Orsenigo (1876 e 1883)» (Idem, Ottocento italiano. L’idea civile della
letteratura. Cattaneo, Tenca, De Sanctis, Imbriani, Capuana, cit., pp. 78-79).
33 F. Spera, Il principio dell’antiletteratura. Dossi, Faldella, Imbriani, Napoli,
Liguori, 1976, p. 113.
34 V. Imbriani, Dio ne scampi dagli Orsenigo, cit., p. 305.
35 Ivi, p. 296.
36 Ivi, p. 305.
37 Ivi, p. 352.
38 Ivi, p. 415. Anche in questo romanzo, come in Merope IV, Imbriani ricorre
allo schermo metaletterario dello «schema fantastico» (Ivi, p. 340).
39 Ivi, p. 293. Già nel 1866 Imbriani si era occupato della «fantasia favoleggiatrice
» soffermandosi sul ruolo del critico («un poeta mancato») e sulla sua
attività dedita non solo all’interpretazione di un’opera d’arte ma anche alla creazione,
con essa, di un ulteriore oggetto letterario, nel corso delle lezioni tenute
come libero docente presso la cattedra di Letteratura tedesca nell’Università di
462 NOEMI CORCIONE [13]
fine del romanzo è quello di «smascherare la realtà dell’apparenza
»40 Imbriani lo persegue celandosi dietro un’analisi impietosa della
materia narrativa, presentata con l’abituale, aggressiva ironia; tuttavia,
anche qui, l’amarezza prende il sopravvento e, alla fine, nulla
si salva, tutto è travolto e stravolto da un’intelligenza lucida e
intransigente, da una personalità dolente che vuole liberarsi, distruggendola,
di un’esperienza d’amore finito. L’elemento autobiografico
in Dio ne scampi dagli Orsenigo è suggerito dai numerosi
train-d’union che legano Vittorio e Nora al Della Morte e a Radegonda:
Maurizio è, come l’Autore, napoletano e di «famiglia liberale
»41, figlio di un emigrato del 1849, volontario e ferito in
battaglia, «bel giovane e di cuore»42, sebbene «attaccabrighe e sciabolatore
»43, talvolta «cupo, ipocondrico, smorto, convulso, come chi
non può risanare da un morbo occulto, che il consumi»44; anch’egli,
incline al duello come Imbriani, vorrebbe viaggiare tra «Parigi,
Brusselle, Berlino»45. Così, attraverso le parole di Almerinda che
cerca di allontanare a sua volta, come gesto di risconoscenza, la
Radegonda dal Della Morte, l’Autore ci offre questo ritratto del
capitano, nella scia di un amaro atteggiamento autocommiserativo
tipico dello scrittore: «[…] questo signor Della Morte, allora, poteva,
forse, aver qualche prestigio, allora. Giovane, franco, ardito,
onesto, coraggioso, puntiglioso, prometteva. Ora, è maturo e dive-
Napoli. Tali lezioni furono poi raccolte nel volume Dell’organismo poetico e della
poesia popolare italiana. Sunto delle lezioni dettate ne’ mesi di febbraio e marzo
MDCCCLXVI, nella Regia Università Napoletana da Vittorio Imbriani, Napoli, s. t.,
1866. Egli scrive: «La fantasia favoleggiatrice e la fantasia critica hanno il medesimo
punto objettivo che è il fantasma poetico: quella lo crea, gli dà la vita e il
moto; questa lo spiega, lo analizza, e cerca di renderlo evidente e chiaro al
giudizio, alla riflessione, e non solo più all’immaginazione; quella da un bell’aspetto
lascia presupporre tutta una macchina interna, questa espandendo tutta
la macchina interna vi dà conto della bella apparenza che avete ammirata. Se il
voler mettere ordine e gradi di nobiltà fra le facoltà umane non fosse quasi una
mezza scioccheria e facessimo baronessa la poetica, dovremmo porre almeno fra
le duchesse questa minor sorella critica» (Ivi, pp. 8-9).
40 F. Spera, Nota introduttiva in V. Imbriani, Dio ne scampi dagli Orsenigo,
introduzione di F. Spera, Milano, Rizzoli, 1975, p. 7.
41 V. Imbriani, Dio ne scampi dagli Orsenigo, cit., p. 305.
42 Ibidem.
43 Ibidem.
44 Ivi, p. 353. Irene Imbriani Scodnik, in un profilo dedicato al cognato, ricorda
come egli fosse «in fondo un grande infelice, malcontento di sé e degli altri»
(Eadem, I fratelli Imbriani, Benevento, Cooperativa Tipografi, 1922, p. 11).
45 Ivi, p. 412.
[14] L’AUTOBIOGRAFIA IN VITTORIO IMBRIANI 463
nuto… che? cos’han mantenuto le promesse? Dimmelo tu! Da quel
bozzolo misterioso, cos’è sfarfallato?»46.
Allo stesso modo, la Orsenigo, come Merope, è milanese, sposata,
benestante, madre di una bambina, dalla reputazione limpida, inesperta
di amori infedeli e, come l’eroina del romanzo precedente,
dedicherà in qualità di infermiera le sue cure all’amato dopo che
questi è stato ferito in un duello sorto per salvaguardare la reputazione
dell’Orsenigo stessa. Tuttavia il personaggio di Nora appare
scisso nelle due protagoniste del romanzo, e se Radegonda incarna la
donna che vuole farsi amante, spinta da suggestioni sentimentali non
a lei indirizzate, l’«indimenticabilissima»47 Almerinda incarna, invece,
l’ideale amoroso del protagonista: come la Bertini è paragonata
alla Merope di Maffei, Voltaire e Alfieri, così ella è avvicinata alla
Fedra di Racine; per lei il protagonista prova amore («Ho amato? Ed
amo pur troppo…»48) e «dolori senza nome»49 che lo portano al pianto
e alla non rassegnazione di fronte alla brusca fine della relazione:
E, se non altro, sa quanto io l’ami, oh sel sa bene! E Lei, cara signora
Radegonda, suppone, ch’io possa, mai, dimenticare il passato e quella
donna? È un oltraggio […]. Dimenticarla, io? Oh no! La non Le ha
detto, dunque, come le cose sono andate, e quanto tempo io l’ho
seguita e corteggiata ed amata, prima di osar, solo, dirle, che l’amavo?
[…]. E tutto sarebbe finito? cesserebbe tutto? Parli per sé, lei. Per
me, non è così, tutt’altro, il sento: quest’incendio non si spegne,
come una candela, che basta soffiarvi su…50.
46 Ivi, p. 462. Se Quattr’Asterischi e Maurizio Della Morte sono proiezioni
dell’Imbriani, i due personaggi non possono non avere, a loro volta, caratteristiche
comuni rintracciabili, ad esempio, nell’evidente affinità psicologica con cui
essi vivono il rapporto con il femminile, l’impossibilità di una relazione armoniosa
con le donne amate, l’idiosincrasia e lo sfasamento del desiderio e delle
aspettative che destinano gli uomini a rimanere sostanzialmente soli. La condizione
della solitudine d’amore, del resto, è un tratto che accomuna a Quattr’Asterischi
e al Della Morte anche altri protagonisti di novelle imbrianesche,
quali, ad esempio, il capitano Leonardo Cuzzocrea (Il vero motivo delle dimissioni
volontarie del capitano Cuzzocrea) e lo Spinosista (Fuchsia).
47 Ivi, p. 430.
48 Ivi, p. 345.
49 Ibidem.
50 Ivi, p. 349. In Merope IV Imbriani aveva scritto: «Ah! Quando si è amato
una davvero, ma proprio davvero, non si può mai guarir per modo che al
vedersela d’improvviso davanti non si provi turbamento alcuno: così una buona
ferita, come questa che ho addosso, ancorché perfettamente risanata, dà sempre
fastidio quando vuol piovere, duole acutamente se la tocchi troppo e da rozzo»
(V. Imbriani, Merope IV. Sogni e fantasie di Quattr’Asterischi, cit., p. 47).
464 NOEMI CORCIONE [15]
L’autobiografia, in Dio ne scampi dagli Orsenigo, si maschera, si
altera, tende nuovamente a celasi per mezzo di una parola scritta
che risistema, riscrive, tradisce, ridisegna, modifica una storia d’amore
in nome di una viva mutabilità del pensiero e delle esigenze
dell’Autore. «È inevitabile» sostiene Novajra «che nell’uso stesso di
strumenti critici come la parodia, l’ironia e il fantastico l’immagine
della realtà sia per nulla univoca»51, metamorfizzata da una tensione
amorosa irrisolta e irrolvibile in una storia del pensiero d’amore
e delle sue conseguenze indesiderate e nefaste, scevra da un’urgenza
psicologica ed emotiva che in precedenza aveva spinto la scrittura
verso l’espressione di un’amarezza irrecuperabile.
La distanza così acquisita si nota anche attraverso l’uso della
prima persona in Merope IV e della terza in Dio ne scampi dagli
Orsenigo dove, a voler allontanare l’attenzione da lunghe riflessioni
sulla passione, l’adulterio e la volubilità dell’animo umano, Imbriani
tende, di tanto in tanto, a chiamare in causa il lettore, seppur fittiziamente
(«Se l’ipotetico mio lettore, volesse e sapesse insegnarmi…
»52) con l’intento di smarrire lo stesso «empirico lettore, […]
invitato […] ma insieme scoraggiato dal collaborare con l’Autore, e
costretto pure a perdere il filo del racconto, per non ritrovarlo se
non al prezzo di una volontà integrativa, frustrato nella sua tentazione
all’identificazione nella storia»53. È come se l’Autore volesse, di
colpo, e in maniera più evidente, meno sottile, distinguere il problema
della persona da quello dell’identità, lì dove se «a livello di
referenze» ci spiega Lejeune «[…] l’identità è immediata, […] è subito
percepita e accettata dal destinatario come un fatto; a livello di enunciato,
si tratta di una semplice relazione…enunciata, cioè di un’asserzione
come un’altra, cui si può credere o no»54.
Si potrebbe aggiungere che in Dio ne scampi dagli Orsenigo vi sia
un ulteriore sdoppiamento che pone in crisi la semplice confessione
ed è appunto l’ulteriore rottura della conformità tra autore e personaggio
che porta Imbriani a giocare continuamente con l’identità,
volendo, in ultima analisi, sottrarla e problematizzarla attraverso
una costante identificazione-sottrazione di sé nel discorso. Tutto ciò
51 A. Novajra, Il sogno dell’ideale fra amore e politica, in Studi su Vittorio Imbriani,
cit., p. 312.
52 V. Imbriani, Dio ne scampi dagli Orsenigo, cit., p. 414.
53 T. Pomilio, Iperletteratura e artificio della passione, in Studi su Vittorio Imbriani,
cit., p. 367.
54 P. Lejeune, Il patto autobiografico, cit., p. 19.
[16] L’AUTOBIOGRAFIA IN VITTORIO IMBRIANI 465
induce lo scrittore a recitare la parte di se stesso (e dunque ad
occultarsi) secondo le regole dell’egotismo letterario già enunciate
da Valéry.
Scrivere di sé, proiettandosi in una serie di alter ego, in altre vite
parallele, letterarie e fantastiche, permette ad Imbriani, da un lato,
di attribuire valore al proprio Io e alle proprie esperienze, vedendosi
vivere perennemente, dall’altro, perdendo il compiacimento e la
teatralizzazione propri inizialmente della sua scrittura, di essere libero
nel delineare lo spazio autobiografico nel quale egli vuole che la sua
opera venga letta. Tale spazio, nei testi presi in considerazione, si
inscrive significativamente nell’ambito del romanzo nel quale il concetto
di finzione più agevolmente permette di mascherare i desideri,
i sogni e la verità di un’anima.
Noemi Corcione
(Università Federico II – Napoli)
VALERIA GIANNANTONIO
Storia e cronistoria dell’esilio: Ultime cose
di Umberto Saba
The peculiarity of Gadda’s collections of poems Parole and Ultime
cose depends on an interaction between several themes: for example,
the autobiographical sedimentation of the author’s condition as an
eternal exile and the historical background of the infamous fascist
racial laws. In his poems the search for a consolatory poetry is
intertwined with an itinerarium animae that is not experienced as
an evolutionary process of becoming but as a temporality seen as
an absolute and based on birth and destruction.
L’evoluzione di un poeta è una trama di pensieri e di azioni, che
si dipanano in un intreccio di relazioni, in cui i contrasti, assai
spesso, più che inerire a opposizioni di vedute, rivelano l’interscambiabilità
del reale e delle forme. Romanzo di una vita, il Canzoniere
di Umberto Saba esprime una complessa identità di uomo e di
poeta, non tanto e non solo nelle procedure diacroniche della storia
di una coscienza, quanto anche e soprattutto nell’itinerario sincronico
di epifanie metaromanzesche, giocate di rimessa con l’esercizio di
una vita. E allora il paradosso critico diventa quello di chiarire il
rapporto tra le implicazioni culturali e ideologiche e gli elementi
autobiografici di un’esistenza rovesciata, in cui la senescenza appare
vissuta come cifra di un disagio giovanile e la giovinezza come
la condizione permanente dell’età adulta.
Se con Ultime cose, secondo quanto l’autore ebbe a sentenziare in
Storia e cronistoria del Canzoniere, «Saba pensava veramente di congedarsi
dall’arte e dalla vita»1, in una sorta di consuntivo umano e
morale della propria esistenza e del proprio esercizio di scrittura, il
fascino della raccolta poggia ancora oggi, dopo decenni di interventi
critici, sull’ambiguità di una poesia, che «si intensificava da una parte
1 U. Saba, Storia e cronistoria del Canzoniere, Milano, Mondadori, 1948, p. 276.
[2] STORIA E CRONISTORIA DELL’ESILIO: ULTIME COSE DI UMBERTO SABA 467
e rarefaceva dall’altra»2. La sedimentazione autobiografica e psicologica
vi appare come il segno del perpetuarsi di una vicenda di dolore,
direttamente collegata alla storia esterna del poeta in quegli anni
che preludono all’esilio, eppure vi filtra come dimensione antinomica
della giovinezza, in un crescendo che non vuole dire divaricazione di
esperienze, ma assolutizzazione del vissuto, elevato a mito dell’essere,
e non interpretato come materia dell’esistente e dell’esistito.
È questo della ricomposizione sul piano esistenziale della dicotomia
tra il Saba autobiografico e il Saba orizzontale, partecipe di
un sentimento cordiale della vita, il tratto più coinvolgente di una
raccolta, che salda l’uomo vecchio a quello nuovo, il passato al presente,
e che interpreta il disagio ideologico dell’antisemitismo razziale
come condanna a una vita pervasa dal senso della colpa e del
peccato, in limine exilii. E allora la classicità della svolta di Parole e
di Ultime cose coincide con la tramatura esistenziale di una vicenda
perenne dello spirito e della coscienza, ben oltre il disagio contingente
di una crisi di certezze, quasi che il dolore, invece che inasprire,
avesse agevolato un rinnovellamento della psiche, entro strategie
comunicative rarefatte in poesia e introiettate nel cammino di un’anima
Il riscatto del vissuto in poesia detta in Saba atteggiamenti ambigui
nei confronti di un esercizio, che se da un lato rarefa il contenuto,
dall’altro serba le contraddizioni dell’essere, per qualificare
un’esperienza, che è interpretazione e testimonianza della vita, ma
anche consapevolezza di uno scarto e di una separazione dalle cose.
Circa un ventennio fa Giorgio Bàrberi Squarotti ebbe a osservare
che in Saba la vita conta ed «è vissuta soltanto in quanto traducibile
nella parola poetica, non in quanto visibile e attuabile perfettamente
in una comune vicenda d’amore, in un’azione normale, in normali
rapporti, anche nei dolori inevitabili, che la vita porta in sé»3, ma
forse, per la raccolta di Ultime cose, il nodo da sciogliere è proprio
quello di quanto la coscienza del presente e l’esperienza del passato
abbiano inciso sulla configurazione umana di un itinerario di poesia,
troppo originale per confondersi e identificarsi tout court con il
percorso anteriore dell’autore, eppure così imbevuto di pregnanza
autobiografica. La questione fondamentale inerisce al rapporto tra
storia e poesia, quasi che il segno della modernità, interpretabile
come dato di rifondazione di una vita e come fondamento ideologi-
2 Ivi, p. 272.
3 G. Bàrberi Squarotti, Poesia come autobiografia: Saba, in Id., La poesia del
Novecento, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1985, pp. 186.
468 VALERIA GIANNANTONIO [3]
co di un’inettitudine esistenziale, non comportasse la rinuncia a una
visione cordiale del vissuto e del vivente, ma anzi si avvalesse proprio
di quel significato autentico, oggettivamente impegnato, dell’incontro
con la classicità. Ci sembra anzi di potere convincentemente
asserire che, se per Alessandra Galletto all’altezza degli anni ’40
fosse «ben determinata la volontà di Saba di mascherare quelle presenze
tardoottocentesche rinvenute e sottolineate dalla critica, a
partire da Debenedetti, e di far risaltare invece l’impronta classicopetrarchesca
e leopardiana della propria musa giovanile»4, ciò non
significò in realtà rinuncia alla storicità dei testi, ché anzi la «diversità
maggiore fra Saba e i suoi contemporanei, specialmente fra
Saba e alcuni francesi (Valéry)» consistette proprio nell’assenza di
un «divorzio fra la poesia e la vita, fra il poeta e la sua Musa dai
semplici panni»5. Ripensare il passato, in questa prospettiva, non
comporta il celebrare un percorso culturale e autobiografico, ma
semplicemente inserirlo in una trama di implicazioni esistenziali,
che dipana, malgrado la marginalità geografica delle esperienze, il
fondo tradizionalista di una certificazione umana:
E quanto poco hanno capito gli italiani di questo “periferico” che fuper
sua ventura e sventura- e malgrado le venatura nordiche ed
orientali della sua poesia- il più italiano dei poeti italiani della sua
generazione6.
Lo sfondo politico di una raccolta scritta «in quegli atroci anni
che vanno dalla guerra etiopica all’armistizio e all’invasione tedesca
»7 filtra, allora, in Ultime cose, come itinerario culturale, più che
ideologico, di un disagio umano, che interpretò la triestinità e l’appartenenza
semita come anime della senescenza e come crisi di
coscienza.
2. Il disagio autobiografico
L’itinerario poetico di Saba, che come ha notato Romano Luperini,
«si svolge sotto il segno di una continuità che esclude fratture e
4 A. Galletto, Saba-Carimandrei: “Cronistoria” di una classicità consapevole, «Studi
novecenteschi», a. XXII (giugno 1995), n. 49, pp. 119. Il riferimento è anche a G.
Debenedetti, Poesia italiana del Novecento, Milano, Garzanti, 1974, p. 128.
5 U. Saba, Storia e cronistoria, cit., p. 278.
6 Ibidem.
7 Ivi, p. 272.
[4] STORIA E CRONISTORIA DELL’ESILIO: ULTIME COSE DI UMBERTO SABA 469
sorprese»8 attiene, dunque, a quel complesso di implicazioni umane
e mentali, che segnano la condanna dell’autore a un certo tipo di
psicologismo, che, secondo quanto ebbe ad argomentare il Debenedetti
sul «Convegno», evidenziava strette affinità tra la passività e
l’inettitudine sveviane e l’ebraismo delineato dal Weininger9. Ché
anzi la «coscienza ebraica» del mondo, nell’ambito della cerchia dei
solariani, fu avvertita proprio, secondo quanto ha osservato Giorgio
Luti, come «testimonianza dell’inquietudine europea»10. Il percorso
della memoria, coerente con quel «lavoro di illimpidimento e di
scavo» iniziato dal poeta già all’altezza di Parole11 appare in Ultime
cose allora come il frutto di un ricongiungimento alla vita, piuttosto
che come una forma di congedo da essa, nonostante che il terrore
delle persecuzioni razziali facesse sì che l’opera non apparisse mai
in Italia in edizione separata. Nel quadro dell’europeismo delle
Giubbe Rosse e dell’elevazione di Gide e Valéry, a numi tutelari dei
nuovi procedimenti letterari e poetici, l’assenza del divorzio tra l’arte
e la vita, in Saba, si impone come attingimento di verità ontologiche,
entro un viaggio nella memoria, che non è rimpianto, e che
non si colora delle tinte malinconiche del rammarico, ma indica
l’approfondimento di una certo tipo di spiritualità, collegata a una
precisa idea di poesia. L’identità biografica di liriche come Amico, I
morti amici, Ultimi versi a Lina filtra come restituzione di un sapore
presente alle memorie del passato:
La memoria
amica come l’edera alle tombe,
cari frammenti mi riporta in dono (Ultimi versi a Lina)
nello stupore di una vita che corre inesorabile, e in cui anche «il
mio rimpianto è vano» (In treno). Il disagio dell’uomo Saba è in
sintonia con un senso di esclusione e di diversità, che non si circoscrive
nel tempo, ma è condizione permanente della vita, coerente
8 R. Luperini, La cultura di Saba, in Il punto su Saba, Trieste, LINT, 1985, pp.
19.
9 G. Debenedetti, Svevo e Schmitz, «Il Convegno», X, 1-2, 1929, pp. 50-53, ora
in Opere II: Saggi critici. Seconda serie, a cura di C. Garboli, con la collaborazione
di R. Debenedetti, Milano, Il Saggiatore, 1971, pp. 81-82. Su questo argomento
cfr. anche G. Langella, Da Firenze all’Europa. Studi sul Novecento letterario, Milano,
Vita e pensiero, 1989, pp. 156-157.
10 G. Luti, La letteratura del ventennio fascista 1920-1940: cronache letterarie fra
le due guerre, Firenze, La Nuova Italia, 1972, p. 98.
11 U. Saba, Storia e cronistoria, cit., p. 271.
470 VALERIA GIANNANTONIO [5]
con un principio puro dell’arte, che demistifica ogni intrusione soggettiva
e che fa coincidere l’età matura con un’epoca di ripensamento
della propria diversità. L’esilio, che si profila, più che come una
condanna, è una risposta a un latente stato di insoddisfazione e a
una diffusa inquietudine, in cui cogliere le avvisaglie del recupero
di un’identità comune. La diversità, insomma, è una colpa, laddove
la serenità è il frutto dell’adeguamento a sentimenti comuni. Di qui
si comprende il senso di frasi come:
Nessuna novità presentano Ultime cose: la loro novità è
solo nel ‘tono’.
Ed anche questa novità, dopo Parole, è relativa12.
Il senso e la paura dell’esclusione dalla vita, indotti da pensieri
di morte o di delusione amorosa, rinviene in Ultime cose, proprio
all’interno di un tale stato d’animo angoscioso e doloroso, il termine
di riqualificazione della vita («Ed è il pensiero/della morte che,
infine, aiuta a vivere», Sera di febbraio), quasi che, come per la stessa
funzione della poesia, il poeta ritrovi nel distacco dal mondo una
più complessa identità di uomo. La separazione dalla vita non è
solo un’imposizione esterna, ma anche una forma interna di apparentamento
col mondo e con le cose, perché le stesse persecuzioni
politiche si trasformano in coscienza di un peccato e di una diversità
da aborrire e da condannare. In tale cupezza di sentimenti era
il segno di una colpa, perpetrata ai danni delle zone buie dell’anima,
che univa in una stessa esecrazione tanto il dolore, umanamente
connaturato all’uomo, quanto una condizione storica di emarginazione
e di sofferenza, nel momento del riscatto stesso dell’uomo
dalla desertificazione della coscienza. E certo le immagini del violino,
della fontanella, dell’«erta solitaria che nel mare /precipita», del
«bianco panorama di Trieste», del tavolo del bar, dei colombi in
cerca di refrigerio dall’arsura, della piazza, della finestra, del porto
e della foglia morta, se partecipano, da un lato, della polemica tra
oggettivisti ed ermetici di quegli anni Trenta13, si impongono, diversamente
ad esempio che in Betocchi14, per l’attribuzione ad esse di
12 Ivi, p. 276.
13 Sull’argomento cfr. G. Langella, Maritain, Bo, Betocchi. Il dibattito sulla
poesia degli anni Trenta, in Id., Da Firenze all’Europa, cit., pp. 221-297.
14 Sulla mancanza di attribuzione, in Betocchi, di un valore assoluto della
poesia, in considerazione, comunque, di una frattura fra la vita e la letteratura
e della sua inferiorità rispetto alle altre attività umane cfr. G. Betocchi, Sulla
poesia consolatrice, «Il Frontespizio», a. V (1936), n. 5, p. 4
[6] STORIA E CRONISTORIA DELL’ESILIO: ULTIME COSE DI UMBERTO SABA 471
un valore assoluto e simbolico, all’interno di un’alta considerazione
del messaggio poetico. L’atto di umiltà della poesia era il segno di
una rifondazione religiosa della stessa, entro una sete di riscatto,
che nel mentre si allontana dalle cose, desidera sancire anche l’imprescindibilità
dalla loro purezza e da una loro funzione umanamente
consolatoria. Un’ansia religiosa, dall’oscurità alla pace, serpeggia
nei versi di Ultime cose, nella riconduzione dell’ebraismo alla stessa
matrice e fisionomia storiche, come immagine della condizione interiore
del poeta e della poesia, imbevuti di sofferenza.
La concezione profondamente umana, e aggiungerei religiosa,
della poesia, che ha fatto scorgere ad Antonio Pinchera nel saggio
Quello che resta da fare ai poeti dell’autore «la matrice ideale del
discorso di Saba su Parole e su Ultime cose», tanto che «la poesia di
Parole e Ultime cose abbia messo in mano a Saba la carta buona,
quella finalmente vincente15 esprime un senso di comunione con la
vita, proprio laddove la diversità sembra escludere dal mondo, entro
quella onestà dalla quale Saba ricava, come ha sempre notato il
Pinchera nella poesia Il poeta, «la sua intima forza di verità, quel
sentimento che Il poeta esprime della vita accettata e vissuta con
uguale passione nella sempre meravigliante diversità degli eventi»16
Il binomio vita/morte, sostitutivo di quello vita/dolore, segna il
percorso di un’anima ormai estranea alle lusinghe della vita, in cui
la religione perde la sua connotazione sociale, per acquistare una
funzione palingenetica di autenticità spirituale e morale.
L’esclusione viene vissuta come sradicamento dal mondo delle
origini, ma non dai sentimenti della vita, come fuga da una città e
da un ambiente, cioè Trieste, nel quale, come aveva avuto a scrivere
il 2 novembre 1932 Saba a Sandro Penna, «non guadagno abbastanza
da vivere, e dove sono considerato meno di nulla»17, e in una
fuga che avrebbe dovuto significare riappropriazione di una propria
identità di uomo, mediata dal supporto della psicanalisi:
Ho quindi il progetto di venire a stabilirmi a Roma, dove- fra l’altroc’è
la sola persona alla quale possa rivolgermi qualche volta per
aiuto e consiglio: il Dott. Weiss18.
15 A. Pinchera, Carducci fra Pascoli e D’Annunzio nei giudizi di Saba, «La
rassegna della letteratura italiana», a. 86 (gennaio-agosto 1982), n. 1-2, pp. 232.
16 Ibidem.
17 Umberto Saba. Lettere a Sandro Penna (1929-1940), Roma, Archinto, 1997, p. 6.
18 Ibidem.
472 VALERIA GIANNANTONIO [7]
La fiducia nella psicanalisi («l’unica mia medicina per la mia
nevrosi, ma anche la sola cosa al mondo che veramente m’interessasse,
superavo con essa i conflitti abominevoli dell’epoca presente, e
intravedevo qualcosa del mondo nuovo. Oltre alla profondità dell’Es,
mi riappariva l’azzurro del cielo»)19 era stata attesa di una guarigione
e di una rinascita, che si era accompagnata a un desiderio di distacco
da una realtà ambientale (sempre a Penna il 16 dicembre 1932 Saba
ebbe ad esclamare: «La mia venuta a Roma è ancora un desiderio»)20
per inseguire sogni di ristabilimento psichico («Perché tu non sai
cosa ho perduto col malaugurato trasloco di Weiss da Trieste a
Roma»)21, entro, però, una sana consapevolezza di recupero della
propria personalità umana, e dunque anche dei fantasmi del passato.
La psicanalisi, aveva affermato Saba, in una lettera a Comisso:
può, dopo una lunga disciplina, portare alla coscienza dei fatti, o
meglio, dei sentimenti rimossi; e dare quindi alla coscienza dell’uomo
una maggiore estensione in profondità22.
Se una speranza poteva esserci negli anni torbidi e successivi
aperti da quell’infausto 14 luglio 1938, quando fu pubblicato il manifesto
fascista sulle leggi razziali, essa poggiava in Saba su un
proposito di liberazione, coincidente con una condizione psicologica,
da «quella particolare malattia nervosa, che ha origini ereditarie,
ed è stata acquita [sic] dall’angoscia di cui ha sofferto mia madre
(abbandonata dal marito e quasi in miseria) durante la mia gestazione
»23. E allora la colpa dell’ebraismo apparve, agli occhi del poeta,
come l’idea di una separazione dall’utero materno, nel fondamento
ancestrale di un legame da recidere, in vista di un distacco,
identificantesi con la dimensione dell’esiliato:
Sono un poeta italiano che, per essere nato da madre ebrea, sarò –
così all’improvviso – tagliato fuori dalla vita del mio paese che ho
tanto amato24.
19 Lettera del 4/1/1933 indirizzata da Saba da Trieste a Penna (Ivi, pp. 11-13).
20 Lettera del 16 dicembre 1932 a Sandro Penna (Ivi, p. 10).
21 Ivi, p. 11
22 Lettera del 1° settembre 1929[Saba Svevo Comissso (lettere inedite)], a cura di
M. Sutor, Presentazione di G. Pullini, Padova, Gruppo di Lettere Moderne,
1968, p. 25
23 Lettera a Comisso del 4 febbraio 1929 (Ivi, pp. 21).
24 Lettera a Penna del 23 luglio 1938, inviata da Trieste (Umberto Saba. Lettere
a Sandro Penna, cit., pp. 40-41).
[8] STORIA E CRONISTORIA DELL’ESILIO: ULTIME COSE DI UMBERTO SABA 473
Ed ancora, in altra sede, torna il lamento di una condizione subita
dalla nascita, e irrimediabilmente legata a una condanna ab origine:
io, perché la mia povera madre era ebrea [dovetti] nascondermi in
Italia come un pericoloso nemico della patria, e un terribile delinquente,
condannato in contumacia alla più ignominiosa delle morti25.
Da cui scaturisce lo scambio arte-vita, nella risoluzione tutta
avventurosa e inverosimilmente romanzesca della propria esistenza
(«È proprio vero che nessun romanzo, nessuna “invenzione” può
riuscire più inverosimile, più “romanzesca” della vita»)26. Non solo,
cioè, un’arte che rispecchia la vita, ma una vita che si atteggia in
forme artistiche. L’amore-odio per Trieste e per la propria identità
biografica divenne il segno di una divaricazione e di una frantumazione
della personalità, in nome di un dolore, che, come ha opportunamente
segnalato il Luperini, si era convertito «in una angoscia»,
in un «prodotto della malattia e della nevrosi»27. Il binomio erosthanatos
veniva inerendo a una lacerazione esistenziale, tanto profonda
da recuperare le forme ancestrali e istintive di una specularità
interna, agevolate da una escavazione psicologica, che non era meditazione
consapevole, ma mediazione del rimosso, e dunque conquista
di una condizione pura dell’essere. E perciò abbandonare
significava ricongiungersi alle radici di se stesso, immergersi nello
slancio vitale di una macerazione interiore, per colpe più interne,
che gli avvenimenti esterni avevano consentito di fare venire alla
luce. Da tali condizioni ci sembra dovere muovere, per immergersi
nella lettura di Ultime cose, segno, sì, di una svolta nella poesia
sabiana, ma forse più della decantazione di un lirismo, che nella
separazione trovò la forza di testimoniare e di riscattare una piena
appartenenza alle radici stesse della poesia e della vita.
3. Passato e presente
Nonostante la continuità e la normale evoluzione di una dolorosa
condizione psichica, è innegabile che lo stato di angoscia del
25 Prefazioni e Discorsi (Prefazione a «Poesie» di F. Almansi), in Id., Prose, a
cura di L. Saba, Prefazione di G. Piovene, Nota critica di A. Marcovecchio,
Milano, Mondadori, 1964, pp. 681.
26 Ibidem.
27 R. Luperini, La cultura di Saba, cit., p. 37.
474 VALERIA GIANNANTONIO [9]
poeta si venne rafforzando proprio negli anni della composizione
delle liriche di Ultime cose. In una lettera a Nora Baldi, inviata da
Trieste il 6 ottobre 1955, Saba espressamente notò:
quando il Dott. Weiss partì da Trieste per Roma, stavo molto meglio:
se non che, subito dopo, sopravvennero i noti fatti che accrebbero la
mia angoscia. Quello che guadagnai dalla psicanalisi fu di aver fatto
qualche passo avanti nella conoscenza degli altri e di me stesso: fu,
subito dopo l’analisi, che scrissi Parole28.
La determinazione psichica della condizione di déracinement dell’autore
si era venuta approfondendo, in quegli anni, in un senso di
oppressione, avvertito, in termini ambientali, come percezione di
una realtà angosciante. In una lettera, infatti, inviata da Roma sempre
a Nora Baldi, il 22 aprile 1953, Saba parlò di «angosce che sono
legate a Trieste», specificando più avanti: «Ho troppo sofferto in
quella città da sempre inquieta e sono troppo vecchio perché essa
non sia per me piena di spettri»29. L’escavazione psicologica, che non
ci sembra tanto connotare un atteggiamento conseguente a una cordiale
immersione nella realtà e nel vissuto, quanto piuttosto definire
«quell’immanenza della divisione che la cultura della città propone
(discontinuità economiche, contrasti di razza, mescolanza di lingue»),
su cui ha insistito Giuliana Morandini30, e che poggia su dinamiche
dolorose di scissione e di integrazione, determina, insomma, nel
Saba un approfondimento di una condizione atavica, legata alla
storia stessa del poeta, e dunque non definita e percepita in termini
esterni. Ché anzi, come opportunamente notato da Alberto Cavaglion,
«il testo di Weininger servì ad alimentare e a consolidare edipicamente
l’antica tenzone fra le due razze»31. E ciò avvenne, aggiungiamo
noi, non solo in riferimento a un contrasto interiore, ma anche
in ragione di una considerazione tutta psicologica degli avvenimenti
esterni e della vita dell’uomo.
Procedendo a un confronto di queste argomentazioni con la poesia
di Ultime cose viene, dunque, da chiedersi quanto la rarefazione del
28 U. Saba, Lettere a un’amica. Settantacinque lettere a Nora Baldi, Torino, Einaudi,
1966, p. 119.
29 Ivi, pp. 37.
30 G. Morandini, Coscienza infelice a Trieste, in Umberto Saba. Trieste e la
cultura mittleuropea, a cura di R. Tordi, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto
Mondadori, 1986, pp. 80.
31 A. Cavaglion, Saba e Weininger, in Umberto Saba. Trieste e la cultura, cit., p.
80.
[10] STORIA E CRONISTORIA DELL’ESILIO: ULTIME COSE DI UMBERTO SABA 475
dettato lirico nella parola, di suggestione ermetica, coerente con il
livello di delucidazione ontologica, definito dallo scandaglio psicologico,
fosse ugualmente in linea con quella intensità e chiarezza
individuate da Montale nella poesia di Saba in una lettera a Sandro
Penna32. Gli è, infatti, che la questione dell’originalità di Parole e di
Ultime cose affonda le radici in un’idea consolatrice della poesia, che
se rifiuta il carattere lenitivo di un esistenzialismo religioso, concepito
in termini tutti ebraici di attesa della salvezza, aderisce all’idea
bremondiana della catarsi poetica, come itinerario dall’angoscia alla
pace.
Posta nella coscienza e nell’escavazione psicologica, l’essenza
classicistica, e insieme moderna, della poesia di Ultime cose era affidata
a un ideale di purezza, che, più che poggiare sulle potenzialità
religiose di significazione, restituisse il senso arcano di una complicità
con la vita, in un sentimento accorato, ma pacificato del vivere.
Il contrasto tra l’uomo di un tempo («Un tempo/la mia vita era
facile») e l’uomo di oggi («Ora dissodo un terreno secco e duro»),
che muove il poeta a «Scavar devo/ profondo, come chi cerca un
tesoro», espresso nella lirica di apertura Lavoro, e ancora il ricordo
della fanciullezza (si veda la chiusa di Quando si apre il velario: «Era
questo la vita: un soave amaro») e il triste rimpianto di un mondo
passato «che amavo, al quale m’ero/dato» (Dall’erta), si stemperano,
più che nell’attesa di qualcosa da venire, nella speranza e nella
consolazione del pensiero dell’amore, persino della morte, nel ristoro
dell’acqua di una fontana dalle arsure della vita, nella «musica
d’ali alla finestra» di colombi, che visitano la casa del poeta come
presenze angeliche.
L’ebraismo, come senso di un’esclusione, e non come attesa della
salvezza, e dunque incontestabilmente associato alla coscienza della
colpa, trovava nell’accettazione quotidiana del dolore il decongestionamento
di un destino di sofferenza, entro spinte orizzontali, che
più che proiettare verticalmente l’autore nella direzione ermetica del
futuro, lo ancoravano saldamente alla vita di sempre, quotidianamente
consumata in un incontro con la natura. Il riscatto dell’umiltà,
nell’accettazione del calvario della vita, prefigurava un’identifica-
32 In una lettera a Penna, inviata da Albisola Capo, il 18 agosto 1938, a proposito
di Saba, così Montale commentava: «La sua lirica è uno dei pochi esempi
che abbiamo oggi di voce chiara e nello stesso tempo intensa (intensità e chiarezza,
come è difficile farle vivere insieme!» (Umberto Saba. Lettere a Sandro
Penna, cit., pp. 52-53).
476 VALERIA GIANNANTONIO [11]
zione con il Cristo patiens, e non triumphans, entro un cammino, che
in certo qual modo il Betocchi degli anni Trenta veniva compiendo
all’interno della revisione del fine stesso consolatorio della poesia.
Così al belato «fraterno/ al mio dolore» della capra legata dal viso
semita della poesia La capra, che è l’immagine eterna del dolore,
subentra, nella lirica Da quando, la rassegnazione «al giogo che gli è
imposto» del «docile animale» che segue il poeta, e che con la sua
remissività insegna, tacendo appunto, «eterne verità». L’ansia del
poeta di fuga dalla triste realtà si oggettiva in «un raduno/ di stornelli
frenetici a emigrare», in netto contrasto con l’identificazione del primo
Betocchi tra la condizione dell’esiliato e l’immagine dell’emigrante,
che «si strugge di ritornare/ verso il dolce paese suo»33.
Restare poteva anche risultare la dimensione del presente, in Saba,
ma per ritrovarsi in ciò che aveva reso felice l’uomo di ieri, e non
per accettare la sofferenza dell’oggi. Tra l’esiliato dalla gioie del
paradiso, che aspira a ritornare, e la condizione cercata e voluta di
esilio corre un senso accorato del vivere, come comune condanna a
una colpa, che priva l’uomo di solidi punti di riferimento nella fede
e lo costringe a un destino di «pellegrino errante»
Eppure l’immagine labirintica della condizione dell’uomo, avvilito
in zone d’ombra («allora in labirinti oscuri/errò, di angoscia, il
pensiero», Fumo) si stempera nell’impasto metrico dell’evocazione
delle figure dell’infanzia di Fumo e di C’era, non in uno smarrimento,
ma al contrario in un ritrovamento delle radici stesse del proprio
essere. Il presente era quel «color di purgatorio/delle tegole», che
dall’osservatorio di San Giusto si associava a un’idea di espiazione
nel ricordo della natia Trieste, da scorgere in quella «materna/linea
dei colli» della lirica Finestra. Ché anzi la memoria della propria
terra evoca, in tale poesia, nella negatività dell’infinito antagonistico,
l’angosciosa disperazione della presenza incombente della madre
e del proprio ambiente34. L’umanità, del resto, avrebbe sentenziato
Saba, «la triste umanità – è nata dal ‘senso di colpa’, e questo
ha sempre le sue radici nei rapporti coi genitori»35. Il dolore si
33 C. Betocchi, Tutte le poesie, Introduzione di L. Baldacci, e con note ai testi
di L. Stefani, Milano, Mondadori, 1984: Allegrezze.
34 Cfr. S. Carrai, ‘Veduta di collina?’ di Umberto Saba, in Come leggere la poesia
italiana del Novecento, a cura di S. Carrai e F. Zambon, Vicenza, Neri Pozza,
1997, pp. 9-21.
35 U. Saba, Lettere a un’amica, cit., pp. 41-43 (La lettera inviata da Roma, non
è datata).
[12] STORIA E CRONISTORIA DELL’ESILIO: ULTIME COSE DI UMBERTO SABA 477
condensa nell’immagine del «vuoto del cielo» (Finestra) e nella sensazione
di condanna provocata dallo schianto del vetro della finestra
(Il vetro rotto), che non riflette più la luce e il calore del sole.
L’erta solitaria, altrove, come in Da un colle o La cappella chiusa,
simbolo della vita pulsante della sua Trieste, si stempera nell’evanescenza
del mondo «che amavo, al quale m’ero / dato» (Dall’erta),
perché la mira dell’essere si oggettiva nella memoria, non più nel
presente. La distanza che separa il poeta dalle cose, ma non dal
fardello della memoria, diventa proporzionale all’angoscia dell’estraneità,
che esclude ogni ricongiungimento con le figure del proprio
passato, ma non rinnega le linee intimistiche e il tono affettivoconsolatorio
del proprio canto eterno. Ed in questo ritrovato e rinnovato
lirismo le suggestioni ermetiche attengono a un modo di
ricreare la vita, come spinta conoscitiva di un tempo della propria
esistenza, troppo lontano per sentirsene ancora affascinati, e troppo
presente per non volersi sradicare da esso. In tale triste calvario la
poesia condensa il significato assoluto delle forme ontologiche e
gnoseologiche dell’essere, sulle soglie, non del mistero, ma dell’auspicio
alla pace, da raggiungere in un moto di allontanamento, e
non nel recupero di una passata identità.
4. La quête sabina
La problematizzazione dell’esistenza, nei risvolti solariani di un
antisemitismo alla Wieninger, entro una coscienza ebraica del mondo
come segno più vasto e universale di un’inquietudine collettiva
ed europea, non si arrestò, dunque, in Saba, a una semplice presa di
coscienza del disagio dell’intellettuale di fronte al mistero e alla
storia, ma coinvolse l’impegno umano del poeta, attento a cogliere
nel classicismo la dimensione simpatetica del dolore, ben oltre il
puro formalismo di un distacco dai contenuti. Su questa via di
un’esigenza morale e storica, la svolta di Parole e di Ultime cose si
trova a coincidere con l’ermetismo storico della terza generazione,
nella ricerca di una parola comunicativa, che era ansia di liberazione
dalla menzogna, dalla falsità e dall’orrore della memoria.
L’escavazione psicologica si risolve nella triade di termini «Vagabondaggio,
evasione, poesia», definiti «cari prodigi sul tardi» nella
lirica Felicità di Parole, entro la consumazione di un distacco dalla
sua città «così aspra e maliosa», dalla «scontrosa grazia» (Distacco in
Parole).
478 VALERIA GIANNANTONIO [13]
Il processo di astrazione e di rarefazione della materia è filtrato
dal bagno nel reale, metafora di uno stato di eterno consistere, malgrado
le procedure dell’allontanamento. Non si trattava di fantasmi,
ma di presenze vive e concrete, richiamate nell’illusione di una speranza
e in un bisogno di non recidere i contatti con il mondo. Perciò
il fuggire non comportava lo sradicamento, ma la coscienza solo di
un presente problematico. Si trattava dell’attivazione di una conflittualità,
che evocava la condizione pascaliana della divaricazione della
coscienza, per trarre stimolo al riaffiorare del rimosso alla coscienza.
Legate a sé da un destino di dolore, le persone e le cose sono anche
gli oggetti percepiti nella diversità, su cui si concentra il senso sabiano
accorato dell’esistere, perché la condizione di esiliato non era solo
indotta da un dramma storico o religioso, ma dal modulo autobiografico
delle confessione, che, come ha colto Bàrberi Squarotti, «è la
manifestazione di quella diversità, che è anche ambiguità e contraddizione
e divisione interiore»36. L’estraneità diventa allora una condizione
dell’essere, un gioco di assenze che attengono alla frantumazione
dell’io, in una lontananza che non aveva più la grazia
dell’effusione sentimentale leopardiana, ma che si era arricchita di
implicazioni psichiche. Il dualismo non nascondeva l’ansia metafisica
della coscienza della vanità del tutto, ma la consapevolezza di un
itinerario psicologico, che gioca di rimessa con la vita e con le sue
contraddizioni. Perciò, lì dove Saba smorza, lì viene accentuando,
quasi che la tristezza non fosse più un sentimento di cui anche
compiacersi, ma un sentimento da vanificare. A questa divaricazione
interiore occorre ricondurre l’espressione sublimante della poesia,
che in rapporto alla perdita di sacralità conseguente alla scissione
baudelairiana, riacquista in Saba un senso problematico di guida al
profondo, atteggiando l’individualismo, non ancora nelle forme
autonome, montaliane, dell’esclusione del destinatario, ma in quelle
di un sereno equilibrio, malgrado le contraddizioni. È tale quête a
sradicare il poeta dalla storia contemporanea, e a far sì che realmente
il semitismo, come esperienza universale di dolore, si definisca,
ancor più che come causa di un esilio storico, come forma di
decantazione di un male di vivere, legato a una condizione eterna
dello spirito. Il dramma dell’uomo si risolveva in una vita controcorrente,
che obbligava il poeta a una esistenza di lotta, quando forse
sarebbe stato solo meglio calarsi in un’altra realtà storica («Tutta la
mia vita si svolse controcorrente, e questo può andare per un uomo
36 G. Bàrberi Squarotti, Poesia come autobiografia, cit., p. 194.
[14] STORIA E CRONISTORIA DELL’ESILIO: ULTIME COSE DI UMBERTO SABA 479
di lotta, non per caratteri come il mio. Avrei avuto bisogno di vivere
in un altro periodo storico; allora forse avrei dato di più, se non
altro avrei sofferto meno»)37. La scissione interiore si configurava,
perciò, come il risvolto inquietante di un disadattamento nei confronti
del presente e del proprio tempo, nell’inadattabilità a quel
fondamento disumano e disumanante di un regime, che aveva minato
l’essere e la personalità del poeta e che lo aveva costretto ad
alterare la propria stessa natura e a vivere un’altra identità.
5. Dal sogno alla memoria
La dicotomia presente-passato, vita-morte, gioia-dolore, nell’attivazione
di un procedimento neitzscheano tra l’apollineo e il dionisiaco
e di un itinerario freudiano giocato tra il sogno e la realtà, è dunque
il segno del recupero di una temporalità, che ungarettianamente riscatta
il poeta dall’oblìo e salda il Saba maturo al bambino. La
divaricazione dell’essere e della storia è il fil rouge che collega l’identità
presente alla stratificazione inconscia del passato, perché la storia,
se induce a rinnegare e a escludere, non si circoscrive nell’oggi, ma si
contemporaneizza in un procedimento attualizzante del ricordo, che è
la misura di un protagonismo dello spirito, e non dei fatti. E in questo
processo di ricongiungimento alle radici del proprio essere non va
colta la nostalgia ungarettiana per il recupero di una condizione
edenica, non contaminata dal senso della colpa e del peccato, ma
bisogna individuare un itinerario morale, che suona come liberazione
da sedimentazioni inconscie, in vista di un giovamento dello spirito:
l’uomo «deve naturalmente superare la crisi e diventare adulto»38.
La peregrinazione dell’io nelle profondità dell’essere si riscatta
dalla dimensione morale e psicologica, per definire un’immagine
avventurosa di un mare onirico, che avvicina la struttura delle Tre
poesie alla mia balia del Piccolo Berto a quella di Fumo, nella suddivisione
delle poesie in tre momenti bene individuabili: il primo, presente
e tangibile; il secondo coincidente con il percorso onirico; il
37 U. Saba, Lettere a un’amica, cit., pp. 21-22. La lettera è del 13 marzo 1950.
38 U. Saba, Note critiche e saggi: poesia, filosofia e psicanalisi (1946), in Id., Prose,
cit., pp. 792. A proposito di questa ricerca di innocenza, il Bàrberi Squarotti ha
puntualizzato che essa «non è il paese metafisico, ma è il luogo interiore dove
Saba ritrova ogni volta diversità e solitudine e di fronte a cui è necessario usare
tutti gli strumenti della poesia» (G. Bàrberi Squarotti, Poesia come autobiografia,
cit., p. 187).
480 VALERIA GIANNANTONIO [15]
terzo, che dall’approdo al mondo sognato si converte in sollecitazione
della memoria39. La metafora del legno che galleggia sull’onda,
in balìa delle acque, tradizionale topos della lirica italiana, si
modernizza in quella più barocca dei «labirinti oscuri», per sostituire
alla peregrinazione nel sogno quella nel ricordo di un filo azzurro
colorato dai raggi del cielo, che introduce un’immagine anch’essa
domestica, cioè della «casetta, sola/ fra i campi, che fumava per la
cena». Il percorso che dal sogno conduce alla memoria si può riassumere,
in quello ungarettiano dall’oblio alla memoria, e dalla memoria
all’innocenza, nella trasformazione del linguaggio in una serie
di scissioni interne e nell’incalzare di un clima di angoscia,
formalizzato in locuzioni come «insonni notti», «errò di angoscia»,
«la mano/corre affannosa». Senonché l’intimità dell’immagine finale,
che suggella un gioioso quadretto familiare, è il segno tangibile
della trasformazione del percorso ungarettiano dalla memoria al
sogno, che annulla i limiti spaziali e temporali in quelli dal sogno
alla memoria, perché se l’ispirazione poetica centrale tendeva in
quegli anni, anche per Saba, da un lato a risolversi in recupero della
tradizione, l’esperienza letteraria veniva d’altro canto a essere corroborata
e autenticata da profonde implicazioni psicologiche. Si trattava
di una memoria che attualizzava il passato contro un presente,
al poeta vicino, che Saba ha rimosso e rimuove completamente dalla
coscienza, come si evince dalla lettera A Linuccia, scritta da Firenze
il 31 dicembre 1944:
Io solo ho capito che il nazismo e il fascismo erano un cancro, che
non fu operato a tempo e contro il quale non c’era ormai un rimedio….
Io soffro troppo. Io non ho un momento di pace. Non ti
dico le immagini che mi si presentano una dopo l’altra, senza lasciarmi
un attimo di riposo; parte mi riesce di ricordarle, parte non
ho il coraggio di metterle in iscritto40.
Il gioco della memoria è il risultato, come Saba precisa più avanti
nella stessa lettera, di un «sincronismo raro», tra «la fatalità interna
e quella esterna», perché l’orrore del presente esterno «ha coinciso
con un carattere meno fatto per sopportarlo»41. La portata e
39 Sulla tripartizione della struttura della prima delle Tre poesie della mia balia
cfr. A. Cinquegrani, Solitudine di Umberto Saba da «Ernesto» al «Canzoniere»,
Venezia, Marsilio, 2007, p. 241.
40 U. Saba, La spada d’amore. Lettere scelte (1902-1957), a cura di A. Marcovecchio,
Presentazione di G. Giudici, Milano, Mondadori, 1983, p. 120.
41 Ivi, pp. 121.
[16] STORIA E CRONISTORIA DELL’ESILIO: ULTIME COSE DI UMBERTO SABA 481
l’incidenza spirituali e psicologiche del clima presente di destabilizzazione
politica, insomma, qualificarono e determinarono in Saba,
proprio in quegli anni di difficile sopravvivenza, una straordinaria
sinergia e insieme un difficile equilibrio di reazioni politiche e interiori,
di atteggiamenti consci e inconsci. Le estreme difficoltà del
presente erano quelle di una divaricazione tra l’arte e la vita, tra un
rifugio nella poesia come reazione al dolore e riqualificazione del
vissuto, perché quella stessa «prevalenza dei valori petrarcheschi su
quelli danteschi», lamentata da Saba nella lettera a Giuseppe De
Robertis, inviata da Milano il 22 settembre 1946, atteneva a un’età
di decadenza, e dunque a quella prevaricazione di valori «letterari»
sui valori «poetici» e alle forzature di un «sogno voluto (almeno in
gran parte) sognare» nei confronti di «un sogno veramente sognato
»42. L’incapacità e l’impossibilità di vivere segnano un’esperienza
avulsa dalla realtà, quanto bastava per elevare il ricordo a mito di
una sovrapposizione letteraria ed esistenziale, pur all’interno di un
sentimento sincero di dolore e di disagio.
In questo gioco complesso di proiezione nel sogno e nella memoria
si spiegano le ragioni di una poesia identificabili, per il Cinquegrani,
nella «ricerca di un’assenza»43, e per noi apprezzabili come
tentativo di assolutizzazione dei miti dell’infanzia, entro una complicazione
affettiva delle cose e delle persone legate a quella particolare
età della vita. Ricordare non significava non dimenticare, ma
eternare un bisogno di certezze, combinate con dinamiche di allontanamento
e di evasione.
E tutto si accomuna in un’esperienza di dolore, con la presenza
ossessiva delle figure e il ricordo cupo dei luoghi della propria
infanzia, il rimpianto di quanto si è perduto lungo la via e la consolazione
del pensiero. Nel mentre la memoria proietta nel passato
la propria ansia di certezze, la stessa fa prendere altresì coscienza
che tutto è cambiato («Anche il luogo natio mutato è tanto!» Luciana)
e che «il mio rimpianto è vano» (In treno), perché il passato si
identifica anche con il vissuto [«quello che ho perduto so io solo»
(Una notte)]. La memoria porta alla superficie della coscienza non
solo effettive presenze di una stagione tradizionalmente ritenuta
felice della vita («L’adolescenza è l’età della vita in cui credo di
essere stato “quasi” felice e va da sé che metto un forte accenno sul
42 Ivi, p. 176.
43 A. Cinquegrani, Solitudine di Umberto Saba, cit., p. 230.
482 VALERIA GIANNANTONIO [17]
“quasi” e sul “credo”)44, ma anche la percezione dell’assenza e delle
mancanze, entro un isolamento, che come ha ben visto il Cinquegrani,
è «qualcosa di simile alla struttura ebraica, rinchiusa nei termini
della famiglia e del gruppo, e ostinatamente isolata da tutto il mondo
dei goim»45. In questa coscienza dell’isolamento, più che della solitudine,
è il senso preciso dell’esclusione, di un destino di dolore, che
accomuna i fantasmi della giovinezza e la proiezione nostalgica dell’esiliato,
che rivive la condanna della separazione. Si tratta di una
interpretazione morale dell’ebraismo, estensibile e riassumibile in
quella coscienza propria dell’Ecclesiaste della vanità del tutto, che
per Debenedetti escludeva ogni forma di titanismo46, senonché la
mancanza di protagonismo non escludeva una specifica consapevolezza
di una precisa identità spirituale e intellettuale. A questi tratti
moralmente partecipi dell’esperienza dell’ebraismo occorre ricondurre,
a nostro avviso, gli elementi demistificanti della poesia di
Ultime cose, che apparentemente sembra congedarsi dalla vita, e nei
cui elementi evasivi e sognanti il Caccia ha colto soprattutto uno dei
segni di convergenza con l’ermetismo47. La questione, in realtà, è
assai più complessa, e coinvolge, oltre a suggestioni di materia, implicazioni
esistenziali, nell’accostamento forse non teorizzato, ma praticamente
realizzato, a un sentimento diffuso di estraneità dalla vita.
Eppure il punto in cui tale convergenza appare messo in discussione
è proprio in quell’affettuosa e affettiva ambivalenza della
tematizzazione dell’esilio, concepito non solo come distacco dal
presente, ma anche come garanzia di un recupero analettico.
Non un rifugio nell’aventino della poesia contro lo scacco e l’orrore
presenti, né un recupero cordiale della vita, su cui pure ha
insistito il Caccia, presiedono all’ispirazione di Ultime cose, ma la
percezione di un disagio che non contrappone l’oggi allo ieri, bensì
informa tutta la vita del poeta maturata all’insegna di un distacco.
E anzi lo scorrere del tempo, se rende possibile la rivitalizzazione
del passato, consente altresì di stendere un velo pietoso di morte
sulle ombre del passato: «Il Canzoniere è, per chi lo legge, un libro
di poesia, ma per me che ho conosciuto le figure alle quali mi sono,
44 U. Saba, Prefazioni e Discorsi (Prefazione per «Poesia dell’adolescenza»), in Id.,
Prose, cit., pp. 731.
45 A. Cinquegrani, Solitudine di Umberto Saba, cit., p. 226.
46 G. Debenedetti, La poesia di Saba, in Saggi critici, Firenze, Edizioni di
Solaria, 1929, pp. 101-102.
47 E. Caccia, Lettera e storia di Saba, Milano, Bietti, 1967, p. 234.
[18] STORIA E CRONISTORIA DELL’ESILIO: ULTIME COSE DI UMBERTO SABA 483
di volta in volta, affezionato, è anche un vasto cimitero»48. Non una
trama di reazioni o il confronto con la realtà presente scandiscono
la poesia di Ultime cose, ma la consapevolezza, diventata ormai
matura, di un completo destino di emarginazione, talora accettato
con rassegnazione e talaltra energicamente rifiutato. Il tutto risulta
realizzato all’interno di una interpretazione in termini psicologici
della storia, e non della lettura della vita dell’uomo in termini di
evoluzione storica, perché il disagio coincide con forme ancestrali di
colpa e di esistenza. Perciò quanto è passato non è dimenticato, ma
rivive nei versi come metafora di una condizione di eterna sofferenza,
nella tramatura esistenziale di vicende politiche e di avvenimenti
esterni, recepiti dal poeta con quella dose di distacco, che il senso
vivo della propria particolarità e della propria identità rendeva
evidente nella dialettica di presenza-assenza. E allora il ritrovare la
vita si imponeva, non come rifugio dal presente, ma come atteggiamento
retrospettivo, volutamente ripiegato su se stesso, sul poeta
che levava il suo canto eterno di dolore, e sull’uomo che faceva
trionfare la propria dignità di essere all’interno, e pure ben oltre le
macerie e le rovine della storia e di un cammino inesauribile di
distruzione. In questa esecrazione della stessa sofferenza sono racchiusi
il senso e il messaggio di una raccolta, senz’altro innovativa
rispetto alle precedenti procedure e ai passati atteggiamenti poetici,
ma in fondo non tanto rivoluzionaria nella restituzione di un percorso,
che a noi sembra scandito nel segno di una circolarità di
immagini e di suggestioni, più che in quello bergsoniano della durata,
nell’intreccio di relazioni linguistiche e di implicazioni psicologiche.
Da qui scaturisce un’idea di tempo, non come sviluppo lineare,
ma come distruzione del senso del divenire49, nella temporalità
assoluta di un ciclo eterno di nascita e di distruzione. E da qui
deriva il fascino imperituro di una silloge di poesie, legata alla
trasparenza e alla limpidezza cristallina dei versi, eppure materiata
di vita, perché il rapporto arte-vita in Saba non è connaturato a
forme di integrazione sul piano di un attardato lirismo, ma è fondato
su un rinnovato senso del tempo, come segno dell’inevitabile
decadenza della storia, ma non dell’uomo, implicante un amore
sorgivo per la vita, pur all’interno della rarefazione della parola.
48 U. Saba, Prefazioni e Discorsi (Prefazione per «Poesie dell’adolescenza»), cit., p.
231.
49 Su questo tema del divenire nella poesia di Saba ha insistito L. Polato,
L’aureo anello. Saggi sull’opera poetica di Umberto Saba, Milano, F. Angeli, 1994.
484 VALERIA GIANNANTONIO [19]
Appare dunque evidente che se «ragione e inconscio, maturità e
infanzia, classicità e modernità intrecciano la complessa trama di
una poesia»50, fondata sull’ossimoricità, la materia di Ultime cose
fornisce elementi di suggestione, che investono la sostanza di un
ciclico ritorno e di un perenne consistere. Il miracolo di una poesia
scarnificata nella nuda essenza dei sentimenti e degli oggetti, ricompone
le tappe salienti dell’essere, nell’evanescenza di una memoria
deificata nella dimensione orfica del viaggio. Così la parola
diventa coerente con lo spirito, e soprattutto l’età matura si vanifica
nella fanciullezza, scandendo le tappe di un itinerarium animae, che
nella transitorietà della storia scorge gli elementi per fondare un
vero e proprio riepilogo della propria esisistenza e per riconoscere
le ragioni autobiografiche di un perenne scacco nei confronti della
vita. In questa tipologia di chiarezza, che affianca il percorso psicoanalitico
verso la profondità51, sta il senso, non tanto e non solo
dell’illimpidimento formale, ma anche di un atteggiamento, che si
avvia a interpretare il recupero dell’antico come affioramento alla
coscienza della storia dell’uomo e a percepire le vicende contemporanee
come rimozione del non vissuto e come obnubilamento nella
condanna all’assenza e alla non esistenza. E da qui deriva il fascino
imperituro di una silloge di poesie, legato alla trasparenza e connaturato
a forme di integrazione tra implicazioni e suggestioni diverse
di arte e di vita.
Valeria Giannantonio
(Università di Chieti)
50 T. Ferri, Poetica e stile di Umberto Saba, Urbino, Quattro venti, 1989, pp. 19-
20. Su questo incontro tra antico e moderno, tanto diverso dal concetto di
primitivo di Rousseau e da quello di antico di Leopardi, cfr. C. Varese, L’inquieta
costanza delle parole, in Umberto Saba, Trieste e la cultura, cit., pp. 175-183:
180-181
51 Su questi concetti freudiani cfr. M. Marazzi, Il Saba di «Scorciatoie e
raccontini» tra Nietzsche e Freud, «Autografo», 20, 1990, pp. 27-51: 47-48.
GIOVANNA LO PRESTI
Montale, Contini e una variante trascurata
Gianfranco Contini reviewed Montale’s Le occasioni one year before
its publication (1939). In the essay Dagli “Ossi” alle “Occasioni”,
which testifies how attentive the young critic was to his friend’s
poems, Contini sees in La casa dei doganieri the turning point from
the first to the second period of Montale’s style. Nevertheless, his
analysis does not take into account a variant reading, the same this
essay intends to discuss.
Nell’ottobre del 1939, quando, presso l’editore Einaudi, escono Le
Occasioni, l’amicizia tra Eugenio Montale e Gianfranco Contini è già
consolidata. Il carteggio tra i due porta traccia della grande e partecipe
attenzione con cui Contini seguì le vicende che portarono alla
pubblicazione della seconda raccolta poetica di Montale. Fu Contini
stesso a segnalare Montale, come possibile collaboratore della casa
editrice, a Giulio Einaudi. Declinata la proposta di Einaudi, che avrebbe
voluto per la nascente collezione dei “Saggi” un libro sulla poesia del
Novecento, “un libro partigiano, naturalmente, poiché Lei, poeta e
critico, ha delle preferenze sentimentali o morali”1 Montale, nella lettera
del 13 gennaio del 1939, presenta una controproposta:
Pubblicherebbe entro il ’39 la raccolta delle mie poesie posteriori a
Ossi di seppia? Saranno 40, non lunghe. Con titanici sforzi tipografici,
spazi sapienti e carta di un certo spessore si può farne un libro di
mole normale (non vorrei la solita plaquette) da vendere a 10 lire o
più2.
Al libro che sta per vedere la luce, Contini contribuisce, in corso
d’opera, con numerose e puntuali annotazioni, come testimoniano
le lettere a Montale, a partire dal gennaio all’ottobre del 1939. Già
prima, nell’ottobre del 1938, sulla rivista “Letteratura” Gianfranco
1 Il carteggio Einaudi-Montale per “Le occasioni”, Torino, Einaudi, 1988, p. 3
(lettera del 24 giugno 1938).
486 GIOVANNA LO PRESTI [2]
Contini aveva pubblicato, con il titolo Eugenio Montale uno scritto,
successivamente intitolato Dagli “Ossi” alle “Occasioni”.
Nelle lettere di Contini, l’ammirazione e l’apprezzamento nei
confronti dell’amico poeta è costante; ciò non toglie che qualche
osservazione venga fatta e che lo stesso Montale solleciti il parere di
Contini su alcune poesie. Il quale risponde nel merito, premettendo
sempre l’incontestabile statura europea, il respiro largo ed eccezionale
della poesia che si appresta ad analizzare. Che qualche resistenza
dovesse esserci, da parte del poeta di fronte al rasoio affilato
del critico che notomizzava, ancorché reverente, i suoi versi, lo si
può apprendere dal suo epistolario. Il 20 novembre 1938 Montale
scrive ad Irma Brandeis:
Domani ti faccio arrabbiare mandandoti un ennesimo saggio su di
me (di Gianfranco Contini) assai bello per ciò che riguarda le mie
ultime poesie ma poco a fuoco e poco giusto per gli Ossi di seppia.
Ma a me fa comodo che ci sia chi preferisce le mie ultime cose: mi
dà il senso di essere ancora vivo3.
Qualche giono prima, l’8 novembre, era stato più spiccio: “Continuano
a uscire articoli più o meno inutili sulla mia poco esistente
poesia; l’ultimo è nel n° 8 di «Letteratura», a firma di Gianfranco
Contini, e mi pare capisca troppo e troppo poco, al solito!”4
Tali dichiarazioni, indirizzate alla giovane intellettuale americana
che lo aveva affascinato (e Le occasioni sono dedicate ad I.B. –
iniziali di Irma Brandeis) non sono forse da prendere alla lettera:
troppo secca quella del 20 novembre, soffusa del cinismo di chi è
interessato soprattutto a non passare come auctor unius libri (ed era
una preoccupazione reale del poeta, in quel momento), troppo
icasticamente riduttiva quella dell’8 novembre. Ma che non si trattasse
soltanto di understatement unito ad una certa spacconeria da
innamorato lo testimonia una lettera di Contini, che allude a qualche
malcontento dell’amico: “Non insisto nell’analisi, perché capisco
come tu debba aborrirla per legittima difesa: lo capisco meglio di
quelli che vanno ripetendo sic et simpliciter che tu non sei stato
contento del mio saggio”5.
2 Ivi, p. 7 (lettera del 13 gennaio 1939 di Eugenio Montale).
3 Lettere a Clizia a cura di R. Bettarini, G. Manghetti e F. Zabagli, Milano,
Mondadori, 2006, p. 259 (lettera di E. Montale del 20 novembre 1938).
4 Ivi, p. 254 (lettera di E. Montale dell’8 novembre 1938).
5 Eusebio e Trabucco. Carteggio di Eugenio Montale e Gianfranco Contini a cura
[3] MONTALE, CONTINI E UNA VARIANTE TRASCURATA 487
In ogni caso la poesia delle Occasioni è anche frutto della partecipe
opera del giovane critico.
Leggendo il carteggio, si comprende che Le occasioni, nel 1939,
sono ancora un cantiere aperto. Così, ad esempio, nella lettera di
Contini del 14 febbraio 1939: “Se mi permetti, ti segnalo qualche
areola che mi fa risentire. La Galassia, sulla calcina specialmente, la
sento come estetistica. Anche la icona, dopo i meloni i funghi i
marroni e il salnitro, può stare solo in funzione polemica […]”6.
Montale non resta insensibile alle annotazioni continiane; qualcosa
modifica (e in Notizie dall’Amiata “calcina” sparisce) qualcosa
mantiene – e ciò che viene mantenuto trova infine la sua giustificazione
anche allo sguardo sagace del critico. Perciò “l’icona” e la
“Galassia” vengono reinterpretati e riabilitati, una volta scomparsa
la “calcina”: “L’icona e la Galassia delle Notizie mi paiono quei diamanti
falsi da cui solo la tua poesia sa ricavare degli effetti di
autenticità”7.
Il labor limae viene svolto, in autonomia, anche dal poeta e il
critico se ne accorge. A proposito dell’Elegia di Pico Farnese (“un
pezzo formidabile”) afferma di non aver taciuto “obiezioni singole”:
“Cioè, l’unica l’hai distrutta tu, rinunciando per i casti frutti, alle
arance, che erano veramente un po’ troppo con i soriani, il cane
lionato e il melangolo”8.
Sulla opportunità delle “arance” Contini si era espresso cautamente
pochi giorni prima, nella lettera del 6 maggio: “La variante
delle arance è definitiva?”9.
Intanto procedono, parallelamente, anche i contatti con l’editore
– il quale, però, il 14 di aprile del 1939, non ha ancora ricevuto il
manoscritto, che cortesemente sollecita. Finalmente, il 31 maggio il
manoscritto parte da Firenze alla volta di Torino: “Caro dott. Einaudi,
Le mando a parte il mio ms. Gli ultimi ritocchi (ma minimi) li farò
sulle bozze in colonna”10. I “ritocchi”, in realtà, non dovranno aspettare
le bozze. Il 13 giugno Montale scrive a Giulio Einaudi: “[…]
di D. Isella, Milano, Adelphi 1997, p. 43 (lettera di G. Contini del 6 maggio
1939).
6 Ivi, p. 41 (lettera del 14 febbraio di G. Contini).
7 Ivi, p. 45 (lettera di G. Contini del 13 maggio 1939).
8 Ibid.
9 Ivi, p. 44 (lettera di G. Contini del 6 maggio 1939).
10 Il carteggio Einaudi-Montale per “Le Occasioni”. cit. p. 14 (lettera di Eugenio
Montale del 31 maggio 1939).
488 GIOVANNA LO PRESTI [4]
non si spaventi vedendo i 10 foglietti qui acclusi (avevo già avvisato
l’amico Leone che minacciavo, in una sola volta, alcune aggiunte;
ma da oggi il ms. è definitivo)”11. Ed ancora, nella lettera del 19
settembre:
“Le mie correzioni saranno pochissime […]”12.
Infine il libro vede la luce: contiene cinquanta poesie, scritte tra
il 1928 e il 1939 ed una parte di esse (ventisette) ha già avuto la
prima recensione ante litteram, come dice Contini, il quale, nel saggio
comparso su «Letteratura» nell’ottobre del 1938 avverte il lettore:
“Nelle nostre citazioni abbiamo potuto dare la lezione definitiva,
destinata alla futura edizione, per cortesia dell’autore”13.
Nel saggio Dagli “Ossi” alle “Occasioni” la tesi centrale è la seguente:
la poesia degli Ossi è una poesia che afferma un “nonsentimento”
che presenta “una situazione dell’ordine gnoseologico,
negativa; che rende improbabile la nascita delle liriche effettive, cioè
di sentimenti concreti discorsi nella loro articolazione dialettica”14.
Secondo Contini la vera poesia di Montale comincia un po’ dopo gli
Ossi, come “autoidentificazione perfetta dei suoi motivi: ogni sua
lirica consisterà, da allora, nella definizione di un fantasma che abbia
la possibilità di liberare il mondo nascosto”15.
Il punto di transizione dal primo al secondo Montale viene identificato
da Contini nella Casa dei doganieri, opera a cui attribuisce
“un’aria di inaugurazione”.
L’analisi della Casa dei doganieri dà modo a Contini di esercitare
la sua perizia di lettore sensibilissimo al fatto metrico e di tradurre
questa sua sensibilità in formule suggestive. È il ritmo stesso della
lirica, un ritmo elementare per cui il documento-prosa sfugge a se
stesso e, trasformandosi in movimento e dubbio, diviene poesia, che
denuncia il “tentativo fallito di metter mano sull’ignoto, di scandaglio
andato a male”16. È questo, secondo Contini, uno dei mezzi con
cui il poeta si difende contro “l’amorfo ignoto”. Dopo un inizio che
si impianta su “una nozione convenzionale di memoria” arriva quella
che Contini definisce “interiezione fondamentale”:
11 Ivi, p. 16 (lettera di Eugenio Montale del 13 giugno 1939).
12 Ivi, p. 30. (lettera di Eugenio Montale).
13 G. Contini Una lunga fedeltà, Torino, Einaudi 1974, p. VIII
14 Ivi, p. 19.
15 Ivi, p. 20.
16 Ivi, p. 40.
[5] MONTALE, CONTINI E UNA VARIANTE TRASCURATA 489
[…] l’emozione, diciamo l’interiezione fondamentale a cui si può
ridurre la lirica, è lo stupore e l’incertezza che colgono il poeta di
fonte all’orizzonte, possibile, ma solo possibile indizio del
“passato”(«Oh il segno dell’occaso dove s’accende / rara la luce
della petroliera! / Il varco è qui?»)”17.
Il verso citato, cui Contini attribuisce un valore fondante, in realtà
compare, nell’edizione del ’39, in altra lezione: “Oh l’orizzonte in
fuga, dove s’accende/ rara la luce della petroliera! Il varco è qui?” La
lezione proposta da Contini si trova nelle precedenti pubblicazioni:
la poesia era infatti già apparsa sulla rivista «Italia Letteraria» nel
1930 e, in seguito, dopo aver vinto nel 1931 il premio “Antico Fattore”
era stata raccolta, con altre quattro liriche, in una plaquette
edita da Vallecchi.
Che Contini abbia tenuto conto della variante precedente e non
di quella dell’edizione del 1939 è un dato di fatto; così come è un
dato di fatto che non sia più tornato sul suo antico saggio. Ma è
anche un dato di fatto che la variante pubblicata nel 1939 segnali il
procedere della padronanza stilistica montaliana, che si muove verso
quello che Dante Isella ha definito con sintesi efficace un “drastico
prosciugamento del descrittivismo e filosofismo degli Ossi“. Peraltro
una delle tesi centrali dell’analisi di Contini nel saggio del ’38 è
che il Montale maturo ottenga una “aspra ma decisiva vittoria della
forma sulla psicologia”. Nella “vittoria della forma” è compresa,
come “figura significativa, quasi significativa all’inverso” (laddove,
secondo Contini, il non-sentimento degli Ossi vive invece ancora
fuori dalla dialettica) la presenza di “persone e parole molto quotidiane”.
Quali sono le differenze tra le due varianti? Scompare la virgola
dopo “Oh” e l’esclamazione si fa, per così dire, più sobria; al “segno
dell’occaso “, espressione sin troppo vicina al tema centrale dell’opera,
sin troppo memore del titolo goethiano della raccolta, espressione
in cui si assiste ad una sorta di troppo-pieno di significato, con
quell’“occaso” marcato da forte letterarietà (sebbene “occaso” sia
parola desueta pure nel linguaggio poetico; e l’“occaso” più recente
rispetto a Montale, nella memoria collettiva, resta quello di “Davanti
a San Guido”) si sostituisce un più prosastico “orizzonte”, per
giunta “in fuga” (all’immagine statica il poeta preferisce adesso l’immagine
dinamica). Di certo “l’orizzonte in fuga” è più consonante
con la luce della petroliera che si accende in modo intermittente
17 Ivi, p. 39.
490 GIOVANNA LO PRESTI [6]
(una luce “rara”, che ricorda il leopardiano “rara traluce la notturna
lampa”); l’insieme rientra così, coerentemente, tra quelle immagini
che rendono il mistero fantasmaticamente presente, per un istante,
in modo “preciso e ordinario”.
Perché Contini abbia trascurato una variante18 che gli avrebbe
permesso di validare ulteriormente la sua tesi, non sappiamo. La
rete del critico era a maglie abbastanza strette per non farsi sfuggire
l’essenziale – se qualche piccola, per quanto originale, conchiglia sfugge
e si deposita sul fondo, poco cambia.
L’ultima citazione della Casa dei doganieri compare, nel carteggio
Montale-Contini, molti anni dopo la prima edizione delle Occasioni.
È il 15 gennaio 1973 – Montale scrive all’amico:
Quanto alle versioni spagnole, esiste una Antologia (50 poesie tolte
dai 4 libri) a cura di Horacio Armani. Ci sono anche annotazioni. Il
varco è qui? della Casa dei doganieri è una domanda che il Poeta
rivolge ai doganieri stessi per sapere se il passaggio è libero19.
Lo stolido commento dello studioso spagnolo ci ricorda come la
poesia sia sempre insidiata non dalla prosa ma dal prosaico. E la
memoria corre, per libera analogia a Gozzano, alla signorina Felicita,
alla vecchia stampa che rappresenta Torquato Tasso con la corona
d’alloro del “poeta laureato”, che viene interpretata dall’ingenua
signorina come “un ramo di ciliegie”. Con buona pace del poeta,
che ha capito abbastanza, con buona pace del critico, il cui destino
è di capire sempre troppo, o troppo poco.
Giovanna Lo Presti
18 La variante è, naturalmente, adeguatamente e debitamente segnalata. Ci
limitiamo qui ad indicare che compare, sempre senza commento, sia in Eugenio
Montale, L’opera in versi, ed. critica a cura di R. Bettarini e G. Contini,
Torino, Einaudi, 1980 sia in Eugenio Montale, Tutte le poesie, a cura di G.
Zampa, Milano, Mondadori, 1984 sia in Eugenio Montale, Le occasioni, a cura di
D. Isella, Torino, Einaudi 1996.
19 Eusebio e Trabucco. Carteggio di Eugenio Montale e Gianfranco Contini cit. p.
250 (lettera di Eugenio Montale del 15 gennaio 1973).
PASQUALE TUSCANO
Fortunato Seminara inedito e postumo
The unpublished and posthumous writings by Fortunato Seminara,
edited by Tommaso Scappatici, confirm the judgments about his
published works. Seminara was a polemic and subtle writer, whose
main aim was to open new paths (though he was in arrear of the
ongoing tendencies) in the Calabrian literary world of the early
twentieth century. From an aesthetic standpoint, the results he
obtained were significant. Seminara experienced many genres, from
the historical to the industrial novel. His works are set in Calabria
in the years ranging from the thirties to the sixties, a period which
deserves to be read and reconsidered anew.
I. La notorietà di Fortunato Seminara (Maropati, 1903 – Grosseto,
1984) cantore del mondo contadino, bracciantile e, più latamente, del
mondo paesano della sua Calabria, coi suoi miti e i suoi riti, con le
poche illusorie aspirazioni e le troppe ataviche amarezze e frustrazioni,
specificatamente della Piana di Gioia Tauro a lui familiare, è affidata,
com’è noto, a quattro romanzi di meritato successo, editi nel
decennio 1940-1950: Le baracche (1942, ma già pronto per la stampa
nel 1934, edito da Longanesi, che dirigeva, per conto dell’editore
Rizzoli, la collana ‘Il sofà delle muse); Il vento nell’oliveto (Einaudi,
1951); La masseria (Garzanti, 1952); Disgrazia in casa Amato (Einaudi,
1954). Per quasi unanime riconoscimento della critica, Seminara diede
in questi romanzi il meglio della sua originale visione del mondo e
della storia, e delle qualità della sua lingua e del suo stile.
Tuttavia, scrittore torrentizio e insoddisfatto qual era, in permanente,
ossessiva e polemica ricerca di editori, scrisse almeno altri sei
volumi, tra racconti e romanzi editi: Donne di Napoli (Garzanti, 1953);
La fidanzata impiccata (Venezia, Sodalizio del Libro, 1956); Il mio paese
del Sud (Sciascia Editore, 1957); Quasi una favola (RC, Parallelo 38,
1976); I sogni della provinciale (Oppido Mamertina, Barbaro Editore,
1980. Non solo. Insoddisfatto del successo raggiunto, volle tentare
strade nuove, come, per usare etichette a lui non del tutto pertinenti,
492 PASQUALE TUSCANO [2]
il ‘romanzo industriale’ e quello ‘storico’. E scrisse, e riscrisse, i romanzi
L’Arca, Il viaggio, La dittatura, Terra amara, rimasti inediti, malgrado
le insistenti pressioni presso i suoi editori. Cocciutamente fermo
nelle sue persuasioni, rifiutava sdegnosamente ogni suggerimento,
anche quando gli venivano da amici pazienti e cordiali, come fu,
tra gli altri, Italo Calvino, che tanto si adoperò per lui con l’editore
Einaudi. In una lettera, datata: ‘Roma, 28 maggio 1962’, gli scrisse:
Tu sei un narratore lirico, non un narratore epico. Quando vorrai
metterti in testa che i tuoi ‘romanzi epici’ sono la parte più caduca
del tuo lavoro, ed è invece in quelle che tu consideri ‘opere minori’
il pieno della tua forza?1
Ovviamente, del consiglio di Calvino non tenne alcun conto. Tirò
diritto per la sua strada di scrittore malcontento ma pertinace, lasciando
un corpus notevole di manoscritti e di dattiloscritti che, dopo
la sua morte, prese in consegna, e custodisce gelosamente, la Fondazione
Culturale che a lui s’intitola, e che ha sede nella sua Maropati.
* * *
Ritengo che abbia fatto bene la Fondazione a realizzarne la pubblicazione,
secondo il progetto dell’Opera omnia, progettata da Antonio
Piromalli, cugino dello scrittore per parte di madre, suo fraterno
sodale, nato nello stesso paese e quasi coetanei. Videro, così, la luce,
presso l’editore Pellegrini di Cosenza, i romanzi, rimasti inediti per
le più varie ragioni: L’Arca (1997); La dittatura (2002); Il viaggio (2003);
Terra amara (2005), tutti con Introduzione e Nota al testo dello stesso
Piromalli. Si tratta, come vedremo, di opere che, a mio parere, rimangono
essenziali per ricostruire scrupolosamente la figura e l’opera
di Seminara uomo e scrittore, e lo sfondo socio-culturale della sua
Calabria degli anni Trenta-Sessanta, quella che si portava nel cuore,
ma che, pur nella presenza di non pochi momenti poeticamente
felici, da antologia, nulla aggiungono, e nulla tolgono, ai ragguardevoli
esiti estetici raggiunti nei romanzi ricordati, specificatamente
con la trilogia einaudiana del 1963 (Il vento nell’oliveto; Disgrazia in
casa Amato; Il diario di Laura), che lo rivelarono, pur tra le polemiche
a volte aspre, uno dei narratori più geniali del nostro Novecento.
Nel caso di Seminara, ‘inediti’ non significa ‘non finiti’, quindi
1 F. Seminara, Carteggio einaudiano (1950-1980), a cura di M. Lanzillotta,
Cosenza, Università della Calabria, 2002, p. 163.
[3] FORTUNATO SEMINARA INEDITO E POSTUMO 493
non pronti ancora per la stampa, come, per ricordare esempi ben
noti – che fecero discutere, ma che si rivelarono di straordinario
valore, non tanto sul piano biografico ed estetico degli autori, quanto
perché capaci d’illuminare momenti cruciali, ideologici e civili, di
stagioni decisive del nostro Novecento – Ernesto (Einaudi, 1975) di
Umberto Saba2 e, più, Petrolio (Einaudi, 1992) di Pier Paolo Pasolini.
Si tratta, per Seminara, di romanzi che lettori esigenti e non prevenuti
come la Ginzburg, Vittorini, Calvino, Zavattini, Vigorelli, Bocelli,
Pampaloni, Davico Bonino, Mazzali, Ferrante, ed altri, avevano ritenuto,
come consulenti editoriali, che meritassero una rielaborazione
ben più impegnativa. E non certamente soltanto sul piano formale.
Tommaso Scappaticci, che ha una lunga e feconda consuetudine di
studio con l’opera narrativa di Seminara, in un recente volume
monografico, dedicato proprio a Seminara inedito e postumo3, ricorda,
opportunamente, che
gli inediti non hanno finora comportato una sostanziale revisione
del profilo di Seminara quale era stato delineato dalla critica sulla
base dei romanzi già noti, e non si è andati al di là di parziali
ritocchi e di modeste integrazioni a un quadro interpretativo ormai
consolidato4.
Ciò, perché, in definitiva, si fanno portatori di “motivi già ampiamente
sfruttati […], con soluzioni stilistiche poco presenti nella narrativa
di Seminara […]; un complesso di opere, dunque, quelle ‘postume’,
che arricchiscono e complicano l’immagine dello scrittore”5.
Certo,
l’ultimo Seminara resta ancora da studiare, non solo per la necessità
di colmare una lacuna relativa a quasi un ventennio di attività, ma
anche per individuare gli elementi innovativi all’interno di un percorso
narrativo sostanzialmente lineare e coerente6.
“Lineare e coerente” sì, ma sempre in attesa di quel soffio vivificante
della Poesia che gli dica: ‘Alzati e cammina!’. A Seminara,
2 Cfr. M. Lavagetto, Conferme da ‘Ernesto’, in La gallina di Saba, Torino,
Einaudi, nuova edizione ampliata, 1989, pp. 201-210.
3 T. Scappaticci, Seminara inedito e postumo, Cosenza, Luigi Pellegrini Editore,
2009, pp. 230.
4 Ivi, p. 29.
5 Ivi, p. 33.
6 Ivi, p. 30.
494 PASQUALE TUSCANO [4]
prima della Ginzburg, di Vittorini, di Calvino, e degli altri autori
ricordati, aveva dato preziosi suggerimenti Corrado Alvaro, dopo
aver letto il manoscritto di Baracche, che aveva ricevuto per un parere.
Alvaro gli rispose con una lettera lunga e cordiale, che si
conserva nelle Cartelle Seminara dell’Archivio Einaudi, avendo
mandato copia dattiloscritta a Italo Calvino, da Maropati, nel giugno
del 1961, ritenendola “notevole anche per certi atteggiamenti
spirituali di Alvaro al tempo in cui scriveva”. La lettera di Alvaro
è datata: ‘Roma, 17 maggio 1936 = Via Sistina 55’. Dopo avergli
riconosciuto “qualità rare di scrittore, forza di rappresentazione, occhio
sicuro ai particolari, capacità di comporre un insieme vitale”,
evidenziava, con la saggezza e la sensibilità che gli era propria, gli
aspetti, a parer suo negativi, che avrebbero connotato l’intera sua
produzione narrativa, aspetti che, al contrario, Seminara riteneva
parte essenziale e ineludibile della sua originalità di scrittore che
aveva preso le distanze da tutti gli altri contemporanei, a partire dai
suoi conterranei, dallo stesso Alvaro a Perri, da La Cava al giovanissimo
Strati.
Devo anche dirLe che al suo lavoro nuoce moltissimo una certa
crudeltà di atteggiamenti che si confonde con la crudeltà della vita
dei personaggi […]. Ella lo sa come me che la nostra vita nei luoghi
a noi cari è cruda, difficile, ossessionata da tutti i demoni del Mezzogiorno;
ma si trova un idealismo, una religiosità, un antichissimo
senso della vita che ne riscatta gli incubi, vi redime la miseria morale
e materiale, e forma a modo suo una mistica della vita […]. La
Sua fiamma brucia e non riscalda; l’autore si confonde spesso coi
personaggi […]. Il Suo lavoro mi pare tanto promettente, e per me
è così bello veder rinascere tra noi i segni dell’arte, che credo di
dover contribuire a chiarire, a uno che per molti segni è artista, quali
siano i pericoli d’una materia scottante come quella da cui siamo
nati e che intendiamo raccomandare a chi legge […]. Dovrei dirLe
anche dello stile che, senza tradire la Sua natura e il Suo ritmo,
dovrebbe qua e là curare meglio7.
Suggerimenti, come si vede, puntuali e generosi che, ovviamente,
Seminara non tenne in alcun conto, deciso com’era a percorrere
la strada che riteneva sua propria.
Scappaticci, con ampio apporto testuale, precisa il senso, e l’importanza,
dell’impegno sociale e della tensione etico-civile, portati
7 Il testo integrale della lettera è riportato, in nota, dalla Lanzillotta nel citato
Carteggio einaudiano (1950-1980), p. 130.
[5] FORTUNATO SEMINARA INEDITO E POSTUMO 495
da Seminara nell’ambito della narrativa italiana degli anni Trenta-
Cinquanta. Impegno che era in cima ai pensieri dello scrittore di
Maropati, e che ribadì, ad esempio, senza riserve, in una nota intervista
del 1963, rilasciata a «La Fiera Letteraria»:
Sono nato in una regione e in una condizione sociale, la cui realtà
dura e drammatica colpì per tempo fortemente la mia fantasia, preservandomi
dalle evasioni romantiche e dai vagheggiamenti decadentistici8.
E, con una punta di narcisismo, accampa una presunta originalità
che, a parer suo, Alvaro non ebbe:
Nati tutti e due nella stessa regione ma uno emigrato e quasi sradicato;
l’altro, io, con le radici profondamente abbarbicate alla mia
terra ed uno dei pochi scrittori che abbia resistito nell’inferno
calabrese. Uno, Alvaro, dal quale la realtà è vista con la mediazione
del mito e della favola; l’altro, io, che l’ho vista e rappresentata, per
usare un’espressione tecnica, in presa diretta e senza veli9.
Seminara non sapeva persuadersi che la dimensione ‘storicosociologica’,
che poneva a fondamento della sua opera di scrittore,
non poteva giocare, nella sua pagina, un ruolo positivo. Tutt’altro.
Tra le componenti della sua narrativa prevale pesantemente, senza
maliziosi infingimenti, “una visione cruda e disincantata della vita
e la tensione ad aderire alla psicologia popolare” e “un realismo
mirato alla documentazione dei problemi della sua terra”10. Così, gli
umili e gli emarginati che popolano il suo racconto, il mondo contadino
e bracciantile calabrese piegato dalla fatica e dal bisogno,
non solo sono lontani dalla ‘carità cristiana’ del Manzoni, o dalla
solitudine dominata dalla fatalità, dell’umanità verghiana, ma non
sanno la segreta saggezza e l’esaltante dignità, il contegno esteriore
e l’autentica semplicità dei personaggi alvariani. Il montaliano ‘male
di vivere’, la tragica realtà dell’esistenza, il senso di pena e di angoscia
di cui è intessuta la vita, eguaglia tutti i suoi personaggi, senza
8 Cinque domande a Fortunato Seminara, «La Fiera Letteraria», 17 novembre
1963. Il corsivo è mio.
9 F. Seminara, Narrativa meridionale appendice a Le baracche. Con introduzione
di W. Mauro, Marina di Belvedere, Grisolia Editore, 1988, pp. 197-213. La cit.
è a p. 203. Si tratta del testo di una conferenza tenuta da Seminara, il 14 maggio
1981, presso l’Istituto italiano di cultura di Strasburgo, e apparsa in «Sviluppo»,
n. 30, gennaio-marzo 1982.
10 T. Scappaticci, Seminara inedito e postimo, cit., pp. 10 e 28.
496 PASQUALE TUSCANO [6]
distinzione di classe, proprietari e contadini, poveri e benestanti,
giovani e vecchi, donne e uomini. Unico romanzo, come vedremo,
che chiude la vicenda con un fine lieto sarà Terra amara, il lavoro
suo forse meno riuscito.
In sostanza, i suoi personaggi, tutti, umili e potenti, sono creature
‘naturalmente libere’, che vivono e operano in una società classista,
con tutte le conseguenze che tale condizione comporta. Seminara
riteneva così, e lo dichiarava apertamente, d’inserirsi, con indiscussa
originalità e autorevolezza, tra la più esemplare narrativa russa
dell’Ottocento, quella dei naturalisti francesi e della narrativa americana
primonovecentesca. In questo senso, nella lingua e nello stile,
come osserva Scappaticci, “si orienta verso una sintassi elementare
e una espressività adeguata al parlato, adottando forme di strumentale
trasandatezza, idonea a raggiungere lo scopo di farsi leggere da
un pubblico nazionale”11 e, come aggiunge Piromalli, “di descrivere
vicende comuni e sentimenti primitivi con una lingua semplice che
non togliesse loro verosimiglianza e freschezza”12.
II. Persuaso che
[…] gli inediti non hanno finora comportato una sostanziale revisione
del profilo di Seminara quale era stato delineato dalla critica sulla
base dei romazi già noti, e non si è andati al di là di parziali ritocchi
e di modeste integrazioni a un quadro interpretativo ormai consolidato13,
Scappaticci esamina diacronicamente i romanzi postumi pubblicati,
per merito della Fondazione, a cura di Antonio Piromalli.
Il primo romanzo che prende in esame è Il viaggio14, esordio narrativo
di Seminara.
Scritto nel 1933, rimase inedito per settant’anni non essendo stato
preso in alcuna considerazione né dalla critica, né dagli editori ai
quali si era rivolto per la stampa. È il ‘resoconto’ amaro del viaggio
di un Conte utopista, “incapace di valutare le situazioni e di rinunciare
al sogno di una società ispirata a un superiore ideale di giu-
11 Ivi, p. 14.
12 A. Piromalli, Ritratto d’artista: conversazione critica con Fortunato Seminara,
«Letteratura e Società», n. 5, maggio-agosto 2000, p. 44. L’intervista risale al
1965.
13 T. Scappaticci, Seminara inedito e postimo cit., p. 29.
14 F. Seminara, Il viaggio. Introduzione e Nota al testo di A. Piromalli,
Cosenza, Luigi Pellegrini Editore, 2003.
[7] FORTUNATO SEMINARA INEDITO E POSTUMO 497
stizia e di pubblica felicità”15, che si reca a Genova nella speranza di
attuare un imbarco destinato a porre fine a una inguaribile e soffocante
disoccupazione. Già vivaio significativo dei motivi che avrebbero
connotato l’intera sua produzione narrativa, lo sfondo politico
di fa eccessivamente scoperto e pesante, e l’‘impegno’ dell’intellettuale
piuttosto nevrotico e frustrante. Scrive Scappaticci:
La nevrosi del personaggio, che vuole essere utile a tutti ma non ha
la possibilità di farlo, riflette la nevrosi dello stesso Seminara, l’inquietudine
repressa di chi si sente chiamato a un’arte impegnata, ma
avverte la difficoltà ad assolvere il suo compito in un’epoca di oppressione16.
Il romanzo rivela una debolezza irrimediabile del tessuto narrativo.
È monocorde. Sostanziale protagonista è la disperazione, il
pessimismo senza scampo effuso in monologhi lunghi e nevrotici.
Calvino lo stroncò senza mezzi termini. È una delle tante amarezze
che Seminara ricevette da uno dei suoi lettori editoriali. Gli scriveva,
da Torino, il 20 gennaio 1955:
Caro Seminara,
ho letto Il viaggio. Sarò sincero con te come sono sempre stato […].
Quest’insistere per tante pagine a riportare un vaniloquio angosciante
quasi sprofondandoci dentro, guardandolo senza distacco, identificando
il bisogno di sfogo del pazzo tuo bisogno di sfogo e muovendolo
con un tentativo di caricatura che non fa che renderlo più
doloroso, mi pare che riesca a creare sì un clima d’ossessione, ma
non è un’ossessione poetica, e un’ossessione di una triste testimonianza
umana, quella che appunto si prova a sentir parlare un pazzo
o un ubriaco. È a questo che volevi arrivare?17
Osserva, opportunamente, Scappaticci:
La chiave retrospettiva non dà al narratore la serenità e il distacco
onnisciente di chi domina gli eventi e sa come andranno a finire: i
fatti sono narrati con la partecipazione e le reazioni emotive di chi
li sta vivendo in quel momento, assumendo il punto di vista inquieto
e generoso del sognatore che insegue un miraggio di giustizia e
di felicità collettiva […]. In questa prospettiva […] ne deriva una
accentuazione patetica di vicende e di sentimenti, che sembra tendere
a esiti di un populismo melodrammatico e declamatorio18.
15 T. Scappaticci, Seminara inedito e postimo, cit., p. 45.
16 Ivi, p. 46.
17 Carteggio einaudiano (1950-1980), ed. cit., pp. 83-84.
18 T. Scappaticci, Seminara inedito e postimo, cit., pp. 49 e 50.
498 PASQUALE TUSCANO [8]
III. Alla delusione per il parere negativo su Il viaggio, segue quello,
non meno cocente, per Terra amara19, che leggiamo sempre nell’edizione
curata da Antonio Piromalli.
Seminara, in trattativa con l’editore Einaudi per la pubblicazione
di una trilogia che, con Il vento nell’oliveto e La masseria, comprendesse
anche Terra amara, rimase fortemente risentito con Italo Calvino,
allora responsabile editoriale della collana ‘I Coralli’, per aver escluso
la possibilità d’inserire Terra amara, al quale romanzo si riteneva
di preferire Le baracche20. In data 24 novembre 1961, Calvino gli
scrisse, da Torino, con amichevole, ma ferma, schiettezza:
Il pane [uno dei primi titoli dati da Seminara a Terra amara] non va,
non può andare, è una cosa che tu hai voluto scrivere, che hai montato
di forza, ma che hai scritto veramente […]. Anche il linguaggio
[…] diventa anonimo, pieno di locuzioni convenzionali, che si possono
sostituire a piacere[…].
Ti parlo proprio come chi per tutta la sua vita ha avuto come suo
massimo ideale proprio un’epica realistica, popolare e sociale come
la vivi tu; è dall’interno di questa comune tendenza che ti rivolgo la
mia critica, e ti dico: a tutti è capitato e continua a capitare di scrivere
qualcosa che poi non persuade né noi stessi né nessuno, e
continuiamo a ostinarci, a lavorarci sopra, e l’opera che noi vorremmo
continua a non uscire…21
E in una precedente lettera del 10 giugno, tra le critiche mosse al
romanzo, gli aveva rimproverato “le discussioni politiche che male
si fondono col linguaggio generale; i troppi ‘slogans’ di comizio che
appesantiscono la pagina”22.
Seminara, lo sappiamo, non era il tipo capace, se non di accogliere,
almeno di discutere certi suggerimenti. Incrollabile nelle sue persuasioni,
non acconsentiva che venissero messe in discussione. Temperamento
spigoloso, convinto, con una punta di orgoglio, di essere
l’antesignano del nostro neorealismo a dispetto di quanti lo giudicavano
diversamente – “Non è più un segreto – affermò nella ricordata
conferenza di Strasburgo – che il mio primo romanzo, Le Barac-
19 F. Seminara, Terra amara. Introduzione e Nota al testo di A. Piromalli,
Cosenza, Luigi Pellegrini Editore, 2005.
20 Sappiamo che la trilogia uscì nel 1963, nella collana ‘Supercoralli’, e che
Seminara preferì, come terzo romanzo, Diario di Laura.
21 Carteggio einaudiano (1950-1980), ed. cit., pp. 148-149.
22 Ivi, p. 133.
[9] FORTUNATO SEMINARA INEDITO E POSTUMO 499
che, segnò una svolta nella narrativa italiana”23 – pagò duramente
tale sua ostinazione. Il solo che poteva permettersi di dargli qualche
consiglio sul piano umano, letterario e politico, era Antonio Piromalli,
il cugino e l’amico col quale aveva trascorso l’infanzia e condiviso
esperienze culturali e politiche. Comunque, Piromalli sapeva bene
che anche i suoi consigli sarebbero rimasti inascoltati. Il romanzo
sarebbe stato rifiutato, nel 1963, da Arnaldo Bocelli, consulente editoriale
della milanese Nuova Accademia e, nel 1968, da Geno
Pampaloni, per conto dell’editrice Vallecchi. Riusciva facile dimostrare
che la personalità di Fausto, il protagonista “alla ricerca della
propria identità”24, non reggeva a sostenere la trama di un racconto
complesso, irto di eventi contraddittori e convulsi. Rimane personaggio
indecifrabile, confuso, irresoluto. Sono, ancora, numerosi, ed
evidenti, i rimandi a Le baracche e a La masseria, nell’illusione di
segnare il filo rosso della coerenza nella continuità del racconto del
mondo della povera gente umiliata e offesa. Al contrario, rimangono
riferimenti esterni e programmati. Anche perché ora è dominante,
in termini esasperati, la volontà di dimostrare un presunto
anarchismo congenito alla struttura mentale e sentimentale del contadino,
del pastore, del bracciante, del mondo subalterno calabrese,
in genere sognatore, facile alle vendette, indisponibile ad ogni forma
di solidarietà e di aggregazione, ‘eroe’ di episodi di violenza
inutili e nefasti individualmente e socialmente. A ciò si aggiunge la
delusione amara per i compromessi tra classe egemone e proprietari
terrieri per la restaurazione della condizione sociale e civile di una
visione del mondo che, con la fine della guerra e con la caduta della
dittatura, si riteneva tramontata per sempre. Era risorta la commedia
della finzione della giustizia. Scrive Piromalli nell’Introduzione:
Nella piccola sperimentazione paesana di rinnovamento si avvertiva
che il feudalesimo dei padroni delle terre non era finito con la devoluzione
dei feudi e che i signorotti avevano l’appoggio delle autorità
perché nessun evento traumatico – né la guerra catastrofica né il
crollo di un regime ventennale – avevano mutato gli assetti e le
gerarchie del potere25.
Il momento più negativo di questo romanzo rimane l’aspetto
‘cronachistico’ del racconto, privo di ogni cenno di drammaticità e
23 F. Seminara, Le baracche, ed. cit., p. 212.
24 T. Scappaticci, Seminara inedito e postimo, cit., p. 61.
25 A. Piromalli, Introduzione a Terra amara, ed. cit., pp. 17-18.
500 PASQUALE TUSCANO [10]
di poesia. È quanto riconosce, con ammirevole, ma ingenua schiettezza,
lo stesso scrittore. Scrive a Calvino, da Maropati, il 13 ottobre
1961:
Il mio romanzo è meno romanzesco di quanto si crede. Sono accaduti
in un paese qua vicino la maggior parte dei fatti raccontati, in
parecchi dei quali mi sono trovato mescolato io stesso, a volte protagonista
(sindaco, arrestato e liberato dal popolo insorto ecc.)26.
Fanno da lievito acre le reazioni umorali dei personaggi, prive
d’ogni valenza razionale, partecipate in una lingua rude e approssimativa,
specificatamente quando le discussioni degenerano in liti.
Gli esempi sono numerosi. Basti richiamare qualcuno. Nicola apostrofa
Antonio: “Sì, mettiti in potere della giustizia e dormi tranquillo:
la giustizia ti serve bene, pelo e contropelo […]. Aveva paura
dei padroni […] Maledetti zucconi! Nemmeno ora entrava a loro
nelle corna che il dominio dei padroni era finito”27.
Certo, in un magma così convulso, Seminara sa registrare anche
pagine felici. Penso alla descrizione della stazione ferroviaria di
Reggio Calabria in un tragico mattino del 1944 (Cap. VIII); al tumulto
della folla per il pane, di felice memoria manzoniana (Cap.
XVI); all’incendio del Municipio (Cap. XIX); all’impazzimento degli
spari da parte dei carabinieri in mezzo a un gregge di pecore e a
“una torma di buoi”, ritenendo, per la paura, che si nascondessero
dei rivoltosi (Cap. XX); il paese in rivolta che chiede al maresciallo
dei carabinieri la liberazione del Commissario. Richiami chiaramente
autobiografici che evocano un’esperienza vissuta dallo scrittore,
ma che sa rendere con un coinvolgente afflato drammatico che il
lettore non dimentica.
Va ricordato, ancora, il ruolo positivo, psicologicamente coerente,
che acquistano nel racconto – ma, in genere, nella narrativa di
Seminara – le figure femminili. Sono personaggi capaci di sentimenti
forti e profondi. Sono i momenti in cui, osserva bene Piromalli,
“Seminara è vero poeta dei sentimenti autentici, che sa cogliere
soprattutto nel momento aurorale o nel tremore psicologico che li
rende indicibili”28:
Cata s’era risentita per l’affronto fatto a suo figlio da Antonio e
26 Carteggio einaudiano (1950-1980), ed. cit., p. 146.
27 Terra amara, ed. cit., p. 39.
28 A. Piromalli, Introduzione a Terra amara, ed. cit., p. 19.
[11] FORTUNATO SEMINARA INEDITO E POSTUMO 501
l’aveva investito con parole roventi. I suoi occhi sfavillavano di fierezza
(…).
Gli occhi di Alba erano colore dell’ambra, grandi e teneri; il naso
diritto formava un angolo all’attaccatura con la fronte ampia e spianata;
aveva la bocca carnosa e il collo robusto e bianco (…).
La moglie di Nicola “stava seduta di fronte con le mani in grembo,
serena e sorridente, i gesti pacati, che parevano misurati non dalle
parole, ma da un ritmo interno di profonda saggezza29.
Come evidenzia Scappaticci,
pur nella studiata diversità dei caratteri, sono figure improntate a
una femminilità energica e risentita, convinte della legittimità delle
proprie idee e pronte a sostenerle con strumenti adeguati alla situazione
e all’indole di ciascuna: dal pacato discorrere della moglie di
Nicola all’ossessivo e angosciante lamento della madre di Antonio,
all’irruenza passionale di Gianna alla riservatezza di Alba e ai toni
materni di Cata30.
Tuttavia, non sono sufficienti questi elementi positivi per non
considerare Terra amara un romanzo mancato. Se è vero, infatti, che
“il naturalismo adoperato dallo scrittore consente di adeguarsi
stilisticamente alla realtà del mondo contadino”31, il racconto rimane
pur sempre ‘documento’ di un’esperienza vissuta che non va al
di là di una testimonianza sofferta di una realtà circoscritta, di quella
che era per i naturalisti una tranche de vie, e che Seminara coglie
come un’esperienza arcaica del mondo contadino di quella particolare
Calabria che è la piana di Gioia Tauro, tra Maropati e Galatro.
Come nel Vento nell’oliveto e nella Masseria, anche in Terra amara
voleva essere il cantore dell’occupazione delle terre, della rivolta del
mondo contadino meridionale che finalmente aspirava al proprio
riscatto. Ma nel romanzo rimane pura velleitaria aspirazione, se è
vero che le grandi lotte contadine calabresi che, in quegli anni,
costarono sangue, lutti e carcere (i fatti di Melissa, di Torremaggiore,
del Marchesato silano), non fanno nemmeno da sfondo al racconto.
Nel capitolo XIX racconta che
da come era cominciata e dagli entusiasmi suscitati era da aspettarsi
che la rivolta si estendesse e continuasse fino a raggiungere gli scopi
più immediati: si trovò invece, all’improvviso, di fronte a ostacoli
29 Terra amara, ed. cit., pp. 63 e 45.
30 T. Scappaticci, Seminara inedito e postimo, cit., pp. 79-80.
31 A. Piromalli, Introduzione a Terra amara, ed. cit., p. 11.
502 PASQUALE TUSCANO [12]
insormontabili e si arrestò […]. La rivolta era degenerata in brigantaggio32.
Socialista moderato, Seminara non accettava le soluzioni ‘rivoluzionarie’.
Aveva in antipatia gli esponenti progressisti cittadini,
espressione, a suo parere, di un socialismo aristocratico e salottiero.
Militanti dello stesso partito socialista, c’incontravamo, qualche volta,
nelle sede reggina. Non si tratteneva dall’esprimere apertamente
le sue opinioni, anche sugli eventi trascorsi dei quali era stato protagonista,
persuaso che il partito non aveva ritenuto di difendere le
sue posizioni come avrebbe dovuto. Chi è informato su come si
siano svolti realmente i fatti raccontati in Terra amara, si rende conto
di quanto siano effettivamente pura cronaca, e sa, altresì, riconoscere
nel personaggio dell’avvocato Manca la figura dell’avvocato
reggino Guglielmo Calarco, amico personale di Nenni, noto per l’aristocrazia
del suo portamento e per la forbita eloquenza. Il ‘profilo’
è subito tracciato:
Antonio […] si abbandonò a critiche e recriminazioni contro i compagni
borghesi di Reggio, che in passato erano rimasti nascosti come
topi nei loro studi di professionisti, ringagliarditi ora che fare i rivoluzionari
costava poco, anzi procurava vantaggi, vantaggi di affari e
di carriera […].
L’avvocato Manca […], mentre sfogliava un fascicolo di causa, rammaricandosi
che le beghe politiche lo distogliessero dal suo lavoro
professionale, ruminava avanzi di contrasti e di puntigli […].
Nella saletta Nicola e Fausto aspettavano in piedi […]. Li guardò un
momento senza rispondere al loro saluto, e riconosciuto Nicola, l’assalì
con rimproveri per il disturbo che gli dava ad un’ora così insolita
[…]. – Avete perduto la testa? Che credete di fare, di decidere
voi i destini del mondo? […]
Si era raggiunto l’accordo per dargli le consegne al Municipio. Per il
giorno stabilito fu assicurata la presenza dell’avvocato Manca, che
avrebbe pronunziato un discorso per accrescere la solennità dell’avvenimento
[…]. Con la persona eretta e la testa alta s’incamminò
verso la Casa del Popolo, dove era radunata molta folla che l’accolse
con un lungo applauso[…]. Era nervoso e stringeva i pugni […]. Dopo
un breve preambolo concentrò il fuoco della sua eloquenza contro certi
metodi di lotta, pronunziando una condanna definitiva e senza
attenuazioni per uomini e fatti conosciuti da tutti. E fece una pausa.
Poi continuò con foga […]33.
32 F. Seminara, Terra amara, ed. cit., pp. 147-148.
33 Ivi, pp. 70, 73, 74-75, 148, 150-151. Il corsivo è mio.
[13] FORTUNATO SEMINARA INEDITO E POSTUMO 503
IV. Pronta per la stampa nel 1974, ma rigettata e avviata dal
1963, L’Arca, malgrado registri i difetti evidenziati in Terra amara,
non ultimi quelli riguardanti la lingua, lo stile e le incontrollate
oscillazioni lessicali, non è romanzo esteticamente del tutto fallimentare34.
Osserva Scappaticci:
L’Arca è costruita come una sorta di studiata esemplificazione delle
teorie espresse nella produzione saggistica35, quasi una trasposizione
in chiave narrativa delle riflessioni di Seminara sulle prospettive e
sulle difficoltà di una industrializzazione del Sud36.
Si racconta di una vicenda che nasce nel 1950 e si conclude nel
1971. È, forse, il suo romanzo più tormentato nella stesura: il primo
dattiloscritto presentava una mole di 766 fogli dattiloscritti. Gli editori
ne giustificavano il rifiuto della stampa anche per la lunghezza.
Pensò, allora, di ridurlo a 407 pagine. L’ultima elaborazione ne contava
complessive 290. Doveva essere, probabilmente, la stesura definitiva.
È quella che Piromalli pubblicò nel 199737.
Con L’Arca Seminara cambiava decisamente registro narrativo e
stilistico rispetto alla precedente produzione narrativa. Tentava la
strada del ‘romanzo industriale’ quando tale genere aveva ormai
fatto il suo tempo. Trascorreva, quasi enfaticamente, se si pensa allo
spessore della prima stesura, dal mondo contadino e piccolo-borghese
meridionale, alle vicende grottesche di uno pseudo imprenditore
calabrese inebriato dalla grande illusione di far nascere un’industria
nel Sud. È la storia di un’azienda olearia di fatto mai nata,
pensata da un parvenu cresciuto nel “lezzo della stalla e dei muli”,
degno figlio di “un ometto tripputo, taciturno e lercio di morchia”,
il quale “scaracchiava e schizzava il moccio da una narice, otturando
l’altra con un dito, e scorreggiava anche in presenza di estranei
senza scomporsi”38.
34 Un’analisi puntuale, con particolare attenzione al registro linguistico, si
deve a Mario Strati, L’Arca di Fortunato Seminara: note di lettura, in Società
meridionale ed esiti tecnico-stilistici nell’opera di Fortunato Seminara. Atti del convegno
(Polistena, 18-19 ottobre 1997), Cosenza, Luigi Pellegrini Editore, 1999, pp.
190-195.
35 Soprattutto i saggi I nostri problemi e Vecchie e nuove inadempienze, in L’altro
pianeta, Cosenza, Luigi Pellegrini Editore, 1967.
36 T. Scappaticci, Seminara inedito e postumo, cit., p. 95.
37 F. Seminara, L’Arca. Introduzione e Nota al testo di A. Piromalli, Cosenza,
Luigi Pellegrini Editore, 1997.
38 Ivi, pp. 6-7.
504 PASQUALE TUSCANO [14]
La ‘novità’ e ‘attualità’ del romanzo fu bene evidenziata da Italo
Calvino in un commosso ricordo in occasione della morte dello
scrittore:
La vitalità del protagonista, un mulattiere che riesce dal nulla a
metter su una raffineria d’olio per finire inghiottito dagli intrallazzi
politici e burocratici del capoluogo, e l’attualità del tema: un ‘Mastro
Don Gesualdo’ dell’epoca del ‘boom’ economico e delle speranze
deluse dell’industrializzazione in Calabria, fanno l’interesse del libro39.
Comunque, Seminara non poteva avere alcuna simpatia per una
possibile nascita dell’industria in Calabria, anche se la riconosceva
necessaria al suo progresso sociale. Scrive Scappaticci: Seminara “vede
nelle moderne trasformazioni anche il rischio della crisi e della
scomparsa di quel mondo rurale e provinciale da cui i suoi scritti
avevano tratto ispirazione e vitalità40.
L’ambizioso progetto della raffineria nasce destinato al fallimento
perché frutto della
vanità e dell’improvvisazione di una borghesia provinciale che, arricchitasi
con attività legate all’agricoltura, spera di fare il salto dal
piccolo affarismo di campagna al prestigio delle complesse manovre
del grande capitalismo urbano41.
Protagonista, come sappiamo, è un imprenditore egocentrico e
delirante, arrampicatore sociale da piccolo affarista di provincia.
Tutto deve ruotare intorno a lui, anche le notazioni paesaggistiche.
A lui lo scrittore assegna una centralità inedita rispetto agli altri
romanzi, nei quali la coralità del mondo rurale ha un posto determinante.
Ma chi è, in fondo, Domenico Antonio Petullà, protagonista
del romanzo? “Un isolato che diventa disperato”; “un grottesco
itinerante”; “un incapace gonfio di presunzione”; “un povero uomo
sommario e furbastro”42; “uno zotico campagnolo, più che mai
imbertonito […]. Uno zotico goffo e ignorante, un oliandolo inzafardato
di morchia, che si era arricchito senza sforzo e senza merito”43.
39 I. Calvino, È morto Fortunato Seminara, in Saggi (1945-1985), a cura di M.
Barenghi, I, Milano, Mondadori, 1995, pp. 1250-1252. La cit. è a p. 1252. Già in
‘la Repubblica’, 3 maggio 1984.
40 T. Scappaticci, Seminara inedito e postumo, cit., pp. 91-92.
41 Ivi, p. 99.
42 A. Piromalli, Introduzione a L’Arca, ed. cit., pp. XIV, XV, XVI, XIX.
43 F. Seminara, L’Arca, ed. cit., p. 78.
[15] FORTUNATO SEMINARA INEDITO E POSTUMO 505
Ponendosi decisamente fuori della sua vocazione di narratore di
ambientazione contadina, anche l’ispirazione annaspa, perde il ritmo
grave e pausato, la felicità espressiva che lo aveva accompagnato
nel racconto del ‘particulare’ del mondo campagnolo e provinciale,
specialmente della ormai classica trilogia. Lo stesso faticoso affanno
connoterà La dittatura, ultimo suo romanzo, nato a margine
della sua vocazione, anch’esso privo di efficacia narrativa, senza
una sua fisionomia ben definita, pur volendosi offrire come ‘romanzo
storico’.
Nell’ampio tessuto narrativo dell’Arca, pur quando emerge uno
sfumato ‘umor nero’ che fa ricordare certo Tarchetti, non trovano
spazio adeguato i fatti ‘storici’ e sociali che avrebbero dovuto caratterizzare
un tempo, com’era avvenuto, e avveniva mirabilmente, nei
romanzi di Bernari, di Pratolini, di Ottieri, di Bianciardi, di Bilenchi,
di Volponi, di Mastronardi, ecc. Al contrario, a Seminara interessava
il luogo, rivissuto e, quindi, ricostruito nella sua immaginazione,
radicato com’era nel mondo contadino, in un’aria, si potrebbe dire,
neoromantica intrisa di un labile sentire dostojeskiano come mondo
autentico della ‘povera gente’, degli ‘umiliati e offesi’, perché “i
cittadini, pensava [Petullà], sono scaltri e sanno dissimulare i loro
sentimenti”44.
IV. Terminato nel 1977 – la prima idea risaliva al 1953 –, il
romanzo ‘storico’ La dittatura vuol essere, come lo definì lo stesso
scrittore in una lettera del 2 dicembre 1975, a Italo Calvino, “una
satira-parodia del ventennio fascista”45.
Mi si permetta, a tale proposito, un ricordo personale. Come ho
ricordato, ho conosciuto Fortunato Seminara nella prima giovinezza,
negli anni Cinquanta, in sporadici incontri presso la federazione
reggina del PSI, nel quale partito militavamo entrambi. Ci siamo
rivisti, e ricordato la trascorsa fraterna amicizia, in occasione del
convegno nazionale su Corrado Alvaro, l’Aspromonte e l’Europa, svoltosi
a Reggio Calabria dal 4 al 12 novembre 197846. Durante i lavori
del convegno gli sono stato sempre vicino, ascoltando con molto
interesse il racconto che mi faceva della sua vita di politico e di
scrittore, con le conseguenti soddisfazioni e delusioni, richiamando-
44 Ivi, p. 40.
45 Carteggio einaudiano (1950-1980), ed. cit., p. 217 (nota).
46 Cfr. Corrado Alvaro, l’Aspromonte e l’Europa, R. C., Casa del Libro Editrice,
1981, pp. 386.
506 PASQUALE TUSCANO [16]
mi giudizi che conoscevo su politici locali a noi noti e sullo stato
della cultura, anche nazionale. Conoscevo il suo carattere duro e inquieto.
Lo ascoltavo in silenzio, guardandomi bene, naturalmente,
dal contraddirlo. Certi scatti di risentimenti non rimossi verso la classe
egemone politica – compresa, ovviamente, quella reggina alla quale
apparteneva – e culturale, rischiavano di renderlo scostante. Mi
parlò a lungo di Terra amara, dell’Arca e, con maggiore, puntigliosa
insistenza, de La dittatura, lavori, come sappiamo, che aveva ancora
in corso d’opera, e che avrebbero dovuto costituire la sua nuova
trilogia. Quando parlava de La dittatura come di “un’opera monumentale
sulla sciagura fascista che nessuno prima di lui aveva saputo
scrivere per il congenito vizio di connivenza da parte di tutti gli
scrittori nostrani”, gli brillavano gli occhi azzurri e profondi, protetti
dalla visiera dell’immancabile berretto che rendeva ancora più tozza
la sua statura. Eppure era già in atto, proprio con quei romanzi in
costante faticosa rielaborazione, sopra tutti con La dittatura, l’ennesima
prova del duro scontro con l’editoria e, più in generale, con i più
prestigiosi esponenti della nostra attività editoriale e letteraria di quegli
anni, resi difficili dalla contestazione del sistema e dal terrorismo.
Una lettura serena del romanzo, edito da Piromalli nel 200247,
evidenzia come il rancore e il disgusto dello scrittore per quel regime
liberticida e poliziesco rimangono fini a se stessi, non si traducono
in metafore di universale condanna per lo scempio che si
compiva della libertà civile e culturale, e della stessa dignità umana.
Seminara non aveva la tempra di Alfieri, né sapeva la sardonica
ironia che rendono memorabili, e ammonitori, i profili del duce e
del fascismo del Vecchio con gli stivali (1945) e de I fascisti invecchiano
(1946) di Brancati, e quelli, ancora più pungenti, di Gadda di Eros e
Priapo, da furore a cenere (1967). Sono incisi, in queste opere, in immagini
indimenticabili, protagonisti di ogni tirannide, dalla delazione
all’educazione alla spia, alla giustificazione di ogni provvedimento
liberticida come emanazione della ‘volontà popolare’.
Protagonista del romanzo è Nunzio Bandera, un contadino emigrato
in Argentina, dove perse una gamba, e perciò venne nominato
lo Storpio. Ma ‘Bandera’, nel linguaggio popolare, vuol dire ‘banderuola’;
in termini dialettali: ‘vota bandera’48. La sua ‘storia’ è quella
47 F. Seminara, La dittatura. Introduzione e Nota al testo di A. Piromalli,
Cosenza, Luigi Pellegrini Editore, 2002.
48 Si pensi a quanto contino i nomi di protagonisti dei romanzi del Seminara
più impietoso: ad esempio: l’avvocato Manca di Terra amara o Petullà de l’Arca
[17] FORTUNATO SEMINARA INEDITO E POSTUMO 507
di una metamorfosi radicale e non poco improbabile, che porta un
oscuro mezzadro-emigrante a una posizione di tale prestigio da influenzare
le decisioni dei potenti e la vita stessa della nazione […],
di un personaggio al livello di macchietta, di uomo che non propone
ideali e programmi, ma vive di finzioni e formalismi, in una esteriorità
estesa dalla sua persona a un sistema di potere tanto militarista
e aggressivo quanto fragile e parolaio49.
A La dittatura non si può assegnare certamente l’etichetta di ‘romanzo
storico’, come riteneva Seminara. È soltanto una cronaca
bozzettistica deformata dall’esagerazione di voler fare di un contadino
proveniente da un villaggio calabrese un pericolo nazionale,
capace, con le sue idee anarchicheggianti, di abbattere la dittatura,
e da un mediocre eleggere un dittatore incapace di esercitare il
potere assoluto fondato sull’ingiustizia e sull’oppressione, e che,
scoppiata la rivolta, viene ucciso, mentre lo Storpio si rifugia in
Corsica. Come scrisse Carlo Carlino, quest’ultima, impegnativa fatica
di Seminara “è in parte rovinata proprio dall’eccessiva dilatazione
del grottesco, che a volte appare esagerata e non sembra colpire
il bersaglio, dall’iperbole figurata, surreale, dalla insistita contrapposizione,
soprattutto nella prima parte, tra città e campagna”50.
V. Inedito è il romanzo-diario La ribellione degli angeli (Diario
d’una stagione), che si conserva presso la Fondazione ‘Seminara’, a
Maropati, e del quale Scappaticci dà ora la prima lettura critica.
Bilicato tra diario e racconto, lo scrittore descrive un periodo di
vacanza che l’io narrante-protagonista trascorse, tra i mesi di agosto
e ottobre del 1934, tra Maropati e una casa su un’altura, che fa
pensare a quella della sua campagna a Pescano. È impossibile stabilire
una data certa della composizione dell’opera, mancando una
qualche indicazione orientativa, né quale struttura narrativa dovesse
assumere. Ed è difficile comprendere le ragioni della stesura di
un’opera fondamentalmente diaristica che si richiama agli anni Trenta
del Novecento, quando, cioè, scrisse le prime significative opere, da
che, come ritiene Piromalli, può significare ‘farfallone’, ‘uomo facile e leggero’,
o, come ritiene di ricollegarlo la Lanzillotta, al “termine ‘peto’” (M. Lanzillotta,
I romanzi calabresi di Fortunati Seminara, Cosenza, Luigi Pellegrini Editore, 2004,
p. 437, nota 19.
49 T. Scappaticci, Seminara inedito e postumo, cit., p. 123.
50 C. Carlino, ‘La dittatura’ di Fortunato Seminara. Satira grottesca del Ventennio,
in ‘Gazzetta del Sud’, 5 novembre 2002, p. 3.
508 PASQUALE TUSCANO [18]
Le baracche ai primi racconti di Il mio paese del Sud. Come avverte
Scappaticci,
è ipotizzabile che Seminara abbia pensato inizialmente di scrivere
racconti autonomi e solo in un secondo momento, constatata la congruenza
tematica e tonale dei singoli brani, abbia deciso di unirli e
farne i capitoli di un’opera più vasta51.
Comunque, si trattava di un lavoro destinato a subire la sorte
dei ricordati romanzi postumi. Le ragioni del fallimento sono le
stesse e vengono inequivocabilmente richiamate da Scappaticci che
indica quello decisivo
nella convinzione della perdurante validità di un modello narrativo
che si era prefissato di far conoscere e di risolvere in forma artistica
i problemi e le condizioni di vita della sua regione52.
Malgrado i frustranti rifiuti dei consulenti editoriali, accompagnati
quasi sempre da benevoli suggerimenti, Seminara non intendeva
prendere atto che quei modelli narrativi appartenessero ormai
a un altro tempo, ad una superata cognizione, non solo del mestiere
dello scrittore, ma dalle esigenze di un nuovo pubblico di lettori,
anche di quelli della sua Calabria. Negli anni Sessanta-Settanta del
Novecento, rimasticare lavori impostati negli anni Trenta, era non
solo inutile fatica, ma dichiarava una patetica nostalgia per eventi e
moduli comunicativi irrimediabilmente tramontati. Aveva ragione
Calvino nel suggerirgli, in termini amichevolmente inequivocabili,
in una lettera datata: ‘Torino, 15 ottobre 1952’: “Non t’affezionare
mai alle cose vecchie. Punta sempre tutto su quello che hai ancora
da scrivere. Il segreto è tutto lì”53.
Seminara volle rimanere un ‘emarginato volontario’ dal mondo
delle lettere, come lo era da anni da quello dell’impegno politico,
nel quale non si ritrovava più. Sentiva in sé incrollabile la tensione
a calarsi nei sentimenti e nei pensieri dei contadini, del suo mondo,
ed elevarli a dignità artistica. Di tale fede rimangono lucida testimonianza
l’intervista concessa a Dante Maffia il 27 maggio 198054 e il
51 T. Scappaticci, Seminara inedito e postumo, cit., p. 146.
52 Ivi, p. 148.
53 Carteggio einaudiano (1950-1980), ed. cit., p. 52.
54 D. Maffia, Intervista a Fortunato Seminara, in Ritratti di calabresi (Altomonte,
De Angelis, Gironda, La Cava, Seminara, Strati), a cura di Pasquale Falco, Cosenza,
‘Periferia’, 1986, pp. 7-23.
[19] FORTUNATO SEMINARA INEDITO E POSTUMO 509
testo della ricordata conferenza, tenuta a Strasburgo, nell’Istituto
Italiano di Cultura, il 14 maggio 198155.
Anche La ribellione degli angeli, come i romanzi postumi, rimane
documento imprescindibile per un riesame complessivo della sua
opera di scrittore e di polemista, e per la puntuale ricostruzione della
sua odissea politica. Forse, in quest’ultimo inedito, il rosario dei motivi
ampiamente, e felicemente, sviluppati ed esteticamente risolti, nelle
opere edite tra gli anni ’40 e ’50 del nostro Novecento, si traduce in
un monotono salmodiare. Ciò, come ricorda Scappaticci, perché
il vecchio è riproposto come nuovo, come frutto di una scoperta
appena fatta, di una illuminazione rivelatrice della dignità letteraria
di un mondo incompreso e quasi sconosciuto […]. Il protagonista
[…] è un intellettuale in crisi, del tipo tante volte proposto dalla
letteratura del primo Novecento, in contrasto con se stesso e con i
tempi e dubbioso sul ruolo da assumere nella società56.
Non si tratta, quindi, soltanto di trovarci di fronte a testi utili a
soddisfare curiosità e il gusto della cronaca. È fuori di dubbio il
fatto che il discorso critico sull’opera letteraria di Seminara “rimane
aperto e molto resta da dire e da scoprire, anche per la rilevante
quantità di inediti (racconti, opere teatrali, diari, carteggi, ecc.) che
ancora aspetta di vedere la luce”57.
Intanto, i testi che consegnano Fortunato Seminara alla storia della
nostra attività letteraria del primo cinquantennio del Novecento rimangono,
per consenso unanime degli studiosi, Le baracche, Il vento nell’oliveto,
La masseria, Disgrazia in casa Amato58. Gli inediti non hanno portato,
come in altre analoghe circostanze, a una sorta di ‘caso Seminara’.
Pertanto, con la sua opera narrativa e saggistica i conti sono ancora
aperti. Tuttavia, rimane ineludibile il fatto che, nella sua opera narrativa,
come ricordava Calvino, “si potrà seguire un mezzo secolo di
storia del profondo Sud e soprattutto gli accenti d’una voce grave e
pausata, dal profondo d’un’anima ricca di nobiltà e di ritegno”59.
Pasquale Tuscano
55 Cfr, nota 9.
56 T. Scappaticci, Seminara inedito e postumo, cit., pp. 158-159.
57 Ivi, p. 221.
58 Su questi romanzi, cfr. il fondamentale lavoro di M. Lanzillotta, I romanzi
calabresi di Fortunato Seminara, Cosenza Luigi Pellegrini Editore, 2004, pp.
510.
59 I. Calvino, Saggi (1945-1985), vol. I, ed. cit., p. 1252.
ISABELLA PUGLIESE
Ai margini del mondo: il “Cottolengo” di Italo Calvino
The literary category of ‘margin’, that characterizes most of the
twentieth-century literature, influences deeply and at several levels
of meaning the short story La Giornata di uno scrutatore by Italo
Calvino, published in 1963. This category, that stands out as the
foremost element of the author’s narrative method and represents
a value in itself – takes a concrete shape in the place that is the
very symbol of the story, the “Cottolengo” of Turin.
La categoria letteraria del ‘margine’ risulta assai produttiva e funzionale
se applicata ad ogni autore del Novecento. Infatti è ormai un
dato pacificamente acquisito dalla critica che tale periodo letterario
sperimenti l’incompiutezza, la parzialità e la frammentarietà come
suoi costituenti essenziali. È proprio nel XX secolo che nasce un nuovo
sistema di coordinate dell’uomo nel mondo, una nuova percezione
che l’uomo ha della struttura e quindi un nuovo sentimento e
giudizio della realtà, nonché del proprio essere ed esserci nel mondo1.
Da un lato sono ormai caduti i parametri oggettivi che rendevano
misurabile e conoscibile il mondo delle cose, dall’altro è venuta
meno anche l’unità del soggetto, la cui anima si rivela non più momento
di sintesi e di autenticità, ma luogo di scissione, di compresenza
di verità opposte e addirittura di diverse personalità. Risulta
dunque impossibile il romanzo unitario e organico della tradizione
ottocentesca, ma ad esso si sostituisce un romanzo policentrico,
destrutturato, poliprospettico, capace di esprimere varietà diverse: un
romanzo la cui struttura aperta, divagante e inconclusa, esprime una
concezione della vita analogamente aperta e altamente problematica.
Il concetto di ‘margine’, dunque, in quanto espressione della
policentricità e della destrutturazione della narrativa novecentesca,
può costituire una via privilegiata di accesso ed un modo inedito di
1 G. Debenedetti, Il Romanzo del Novecento, Milano, Garzanti, 1998, pp. 3-4.
[2] AI MARGINI DEL MONDO: IL “COTTOLENGO” DI ITALO CALVINO 511
avvicinamento all’opera di uno dei maggiori autori del secolo in
questione, un vero e proprio ‘classico del Novecento’: Italo Calvino.
Accostarsi all’opera di Calvino dalla particolare prospettiva del
‘margine’ richiede innanzitutto delle precisazioni sul significato da
attribuire al concetto stesso di margine e ad una scrittura che di
conseguenza si pone come ‘scrittura del margine’. In realtà scrivere
in margine per Calvino non consiste nell’affollare il testo e la pagina
scritta con una fitta attività di glossatura alla propria opera,
attività che viene ad occupare appunto il margine del foglio, come
nel caso dello scrittore lombardo del secondo ottocento Carlo Dossi,
in cui le enunciazioni prefative finiscono con l’acquisire una totale
emancipazione e, quindi con l’accedere, secondo le intenzioni stesse
dell’autore, ad una dimensione del testo del tutto autonoma. Le
scritture liminari dossiane, infatti, diventano il luogo privilegiato in
cui precisare ed illustrare le proprie ragioni stilistiche ed intellettuali,
in cui l’autore racconta se stesso inventandosi, negandosi e moltiplicandosi,
mettendo continuamente in gioco il soggetto e le sue
controfigure e arrivando ad una manifestazione di scrittura intesa
come prassi di autobiografia2. Si precisa, dunque, il risvolto semantico
del termine ‘margine’ che, se da un lato definisce il bordo, la periferia
da cui Dossi prospetta e glossa la sua esistenza d’autore, dall’altro
connota la scrittura di sé come eccesso debordante, proliferazione
esorbitante e iperbolica3.
Non è sicuramente questo il concetto di ‘margine’ che si tenta di
rintracciare nell’opera di Calvino: la ‘scrittura del margine’ calviniana,
in effetti, non consiste soltanto nel produrre tutta una serie di discorsi
liminari che precedono (o seguono) le ristampe dei suoi libri
giovanili, (importantissima in questo senso la prefazione del 1964
alla nuova edizione dell’opera di esordio Il sentiero dei nidi di ragno
edita per la prima volta nel 1947), bensì in una vera e propria condizione
esistenziale che si riflette anche nella pratica della scrittura,
tanto che più che di ‘scrittura del margine’ nel caso di Calvino
sembrerebbe più opportuno parlare di ‘scrittura dal margine’.
Considerare Calvino un ‘classico del Novecento’ e cercare di
rintracciare nella sua opera la presenza di un ‘margine’ significa da
un lato assegnare l’autore ligure alla categoria di ‘tradizione novecentesca’,
espressione che nell’accostamento di due termini così
2 A. Saccone, Carlo Dossi. La scrittura del margine, Napoli, Liguori, 2000, pp.
97-98.
3 Ivi, p. 130.
512 ISABELLA PUGLIESE [3]
antitetici fra loro non vuole significare una restaurazione della struttura
narrativa ottocentesca, bensì l’adozione di una misura sempre
mobile, varia ed originale fra oggettività narrativa e analisi interiore,
realismo e surrealismo, norma e infrazione; dall’altro tenere comunque
ben presente che la rottura primonovecentesca ha lasciato
i suoi indelebili segni, una traccia molto profonda che continua a
farsi sentire lungo tutto il secolo, attraverso la problematicità e la
pluralità di prospettive della narrazione4, arrivando oltre la metà
del secolo ad Italo Calvino.
La cifra del margine, infatti, risulta essere parte integrante del
modus operandi dello scrittore sanremese, in quanto la sua capacità
critica si propone sempre di valicare i confini e di esplorare zone di
frontiera nella continua ricerca di nuovi strumenti di osservazione e
di misurazione del reale, senza mai cedere a tentazioni esibizionistiche
o protagonistiche5. Calvino è sì uno dei protagonisti del dibattito
culturale del secolo appena passato, ma egli evita costantemente
nel corso della vita di dar veste ufficiale alla propria attività
di intellettuale militante, non assumendo mai l’identità di un organizzatore
culturale o di un maître à penser6, adottando bensì atteggiamenti
intellettuali spogli e privi di qualsiasi enfasi. Il celebre
understatement calviniano, dunque, si può intendere come una scelta
consapevole da parte dello scrittore di porsi ai margini della letteratura
ufficiale e di propaganda politica, sia per quanto riguarda il
contenuto, sia la forma delle sue opere.
Più volte nella narrativa calviniana si incontrano infatti situazioni,
luoghi e personaggi che hanno come cifra caratteristica quella di
appartenere ad una realtà marginale, ad un mondo che del mondo
tout court rappresenta solo una piccola e secondaria parte. L’opera
calviniana in cui più risulta verificabile tale particolare scelta dell’autore
è sicuramente la tormentata e mirabile Giornata d’uno scrutatore,
il «racconto più pensoso», come ebbe a definirlo proprio Calvino7.
Il breve romanzo è edito per la prima volta nel 1963 presso
Einaudi nella collana «I Coralli» e la sua genesi è tutta da ricercare
4 Cfr. R. Luperini, L’autocoscienza del moderno, Napoli, Liguori, 2006.
5 Cfr. M. Barenghi, Introduzione a I. Calvino, Saggi 1945-1985, Milano, Mondadori,
2007, p. IX.
6 Ivi, p. XIII.
7 Cfr. il risvolto della prima edizione di I. Calvino, La giornata d’uno scrutatore,
in Id., Romanzi e Racconti II, Milano, Mondadori, 2004.
[4] AI MARGINI DEL MONDO: IL “COTTOLENGO” DI ITALO CALVINO 513
in un’occasione concreta e storicamente determinabile: l’esperienza
diretta di Calvino, nel racconto Amerigo Ormea, quale scrutatore
durante le elezioni politiche del 7 giugno 1953 in un seggio stabilito
presso l’Istituto per minorati fisici e mentali, il «Cottolengo» di
Torino. Amerigo Ormea, militante comunista, è dunque scrutatore
alle elezioni politiche del 1953 (quelle che nella storia politica italiana
possono essere considerate le elezioni per antonomasia), surriscaldate
dal previsto premio di maggioranza, denominato dalle opposizioni
«legge truffa». Calvino stesso ce lo spiega all’inizio del romanzo,
rendendoci partecipi dell’atmosfera che si respirava in quei
giorni:
[…] era ormai il 1953, e con tante elezioni che c’erano state s’era
visto che, pioggia o sole, l’organizzazione per far votare tutti funzionava
sempre. Figuriamoci stavolta, che si trattava per i partiti del
governo di far valere una nuova legge elettorale (la «legge-truffa»,
l’avevano battezzata gli altri) per cui la coalizione che avesse preso
il 50% + 1 dei voti avrebbe avuto i due terzi dei seggi…8
Nella scrittura del libro il Cottolengo diventa l’occasione per visitare
tutta una realtà nascosta9, per andare alla scoperta del mostruoso,
del deforme, dell’imprevedibile, insomma di tutto quello
che si sottrae alle migliori intenzioni di un progetto razionale che
mira a dare un senso possibile alla Storia:
[…] A veder votare i ricoverati del «Cottolengo» […] il pensiero che
li occupava pareva essere soprattutto quello dell’insolita prestazione
pubblica richiesta a loro, abitatori d’un mondo nascosto, impreparati
a recitare una parte di protagonisti sotto l’inflessibile sguardo di
estranei, di rappresentanti d’un ordine sconosciuto, […] ostentando
una specie di fierezza, come d’un riconoscimento finalmente giunto
della propria esistenza. […]
Era un’Italia nascosta che sfilava per quella sala, il rovescio di quella
che si sfoggia al sole, che cammina le strade e che pretende e che
produce e che consuma, era il segreto delle famiglie e dei paesi, era
anche (ma non solo) la campagna povera col suo sangue avvilito, i
suoi connubi incestuosi nel buio delle stalle, il Piemonte disperato
che sempre stringe dappresso il Piemonte efficace e rigoroso, era
anche (ma non solo) la fine delle razze quando nel plasma si tirano
le somme di tutti i mali dimenticati d’ignoti predecessori, la lue
taciuta come una colpa, l’ubriachezza solo paradiso (ma non solo,
8 Ivi, p. 5.
9 G. Baroni, Italo Calvino. Introduzione e guida allo studio dell’opera calviniana,
Firenze, Le Monnier, 1990, p. 77.
514 ISABELLA PUGLIESE [5]
ma non solo), era il rischio d’uno sbaglio che la materia di cui è fatta
la specie umana corre ogni volta che si riproduce, il rischio (prevedibile
del resto in base al calcolo delle probabilità come nei giochi di
fortuna) che si moltiplica per il numero delle insidie nuove, i virus,
i veleni, le radiazioni dell’uranio… il caso che governa la generazione
umana proprio perché avviene a caso…10
Calvino ci descrive dunque un vero e proprio margine della
realtà più comune e quotidiana in cui tutti siamo abituati a vivere,
margine che inoltre si identifica con una condizione limite per eccellenza11.
Per lo scrutatore, come per ogni lettore condotto per mano in
questo racconto da Calvino stesso, attraversare la soglia del Cottolengo
significa infatti rimettere in discussione tutte le certezze fino
allora acquisite, in quanto proprio nel Cottolengo avviene la metamorfosi
del personaggio «uomo» nel drammatico confronto di questo
personaggio con l’assurdità del mondo che lo circonda. Amerigo
Ormea, muovendosi tra i corridoi dell’ospedale, sembra aver disimparato
a vivere, nel senso che egli si trova in uno stato cronico di
perplessità circa il proprio essere, di dubbio o addirittura di incredulità
circa il proprio potere di comunicare con gli altri e col mondo,
di miscredenza dolorosa ma non acritica circa l’esistenza, la
consistenza e l’accessibilità delle cose che si presentano via via ai
suoi occhi intenti di «scrutatore». Nelle pagine del libro compaiono
essere deformi e mostruosi, a metà strada tra il definibile e l’indefinibile,
tra l’umano e l’inumano, esseri che realmente si direbbero
posti in un margine oscuro e indistinto. In questa zona dai contorni
sfumati, nella figura del “mostro”, si fronteggiano gli opposti e i
contrari, generando attrito, a volte vere e proprie scintille agli occhi
dell’osservatore, al quale l’umano e il non umano appaiono dolorosamente
commisti, agglutinati nella «pasta collosa» di cui parla lo
stesso Amerigo, formando un vero e proprio amalgama opaco, ottuso,
incongruo che non può che suscitare reazioni di stupefatta
pietà12:
Ogni significato si stingeva sull’altro, […]. Ad Amerigo la complessità
delle cose a volte pareva un sovrapporsi di strati nettamente
10 I. Calvino, La giornata d’uno scrutatore, cit., pp. 20-21.
11 C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, Milano, Garzanti,
1990, p. 74.
12 M. Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, Bologna, Il Mulino, 2007, p.
55.
[6] AI MARGINI DEL MONDO: IL “COTTOLENGO” DI ITALO CALVINO 515
separabili, come le foglie d’un carciofo, alla volte invece un agglutinamento
di significati, una pasta collosa13.
In un margine del mondo, il Cottolengo, lungo un margine di
tempo, una singola giornata, attraverso il punto di vista di un uomo
semplice posto ai margini dell’ufficialità e della macchina elettorale,
un semplice scrutatore, si fronteggiano allora normalità e anormalità,
deformazione e menomazione.
Allo scrutatore e al lettore che vengono situati in questo margine
esistenziale da Calvino, si apre per la prima volta un mondo sconosciuto,
quello degli ammalati cronici, dei deformi e dei pazzi, mondo
che però non resta un semplice margine, una parte imperfetta di
una realtà perfetta, ma assume su di sé la caratteristica di alterità,
di piena opposizione e contropartita all’universo degli uomini normali.
Davanti alle creature mostruose che sfilano come in una danza
macabra davanti ai suoi occhi, Amerigo non può far altro che
sentire come estraneo quel popolo di esseri deformi che lo circonda.
Invano egli si immerge nella corsie della Piccola Casa della Divina
Provvidenza, sosta davanti ai lettini e si dà a scrutare le malattie
degli sventurati che vede: la distanza fra la normalità dell’osservatore
e l’anormalità degli osservati non fa altro che essere confermata
e ribadita. Sembra possibile allora poter adattare anche a questo
particolare aspetto della Giornata d’uno scrutatore la celebre formula
di «pathos della distanza» creata da Cesare Cases a proposito della
narrativa calviniana:
Questo pathos della distanza, se è segno di elezione, è anche causa
d’infelicità, incapacità di adattarsi alla realtà immediata […]. In questa
tensione tra la solitudine nella distanza e la comunità necessaria,
ma disgustosamente vicina ed infida, vive l’opera di Calvino. In
entrambe le situazioni estreme l’uomo è mutilato, e si tratta di ricomporlo
[…]14.
In questo caso nessuna comunità potrebbe essere più vicina ed
infida di quella del Cottolengo, ed essere dunque profondo motivo
di sofferenza e di incertezza per il protagonista. Anche in quest’opera
perciò il distanziamento programmatico conserva la doppia valenza
che ha sempre avuto in Calvino: da un lato garanzia di conoscenza
“pura”, non contaminata dal mondo (e in questo caso dal mondo
13 I. Calvino, La giornata d’uno scrutatore, cit., p. 9.
14 C. Cases, Patrie lettere, Torino, Einaudi, 1987, pp. 161-166.
516 ISABELLA PUGLIESE [7]
contaminante per antonomasia, il Cottolengo); dall’altro segno dell’alienazione
dell’individuo che lo vive, e della ragione illuministica
che egli incarna, rispetto alla realtà stessa. E si direbbe che è quest’ultimo
aspetto che lo scrittore sottolinea di preferenza15, se anche
Amerigo Ormea viene definito nel testo come «un ultimo anonimo
erede del razionalismo settecentesco»16. Amerigo è davvero alienato
dal mondo del Cottolengo, in quanto le due comunità dei sani e dei
malati sono infatti divise in modo netto da una linea invalicabile
che segna il confine tra due mondi in comunicanti, linea che porta
dunque con sé la marca dell’estraneità e dell’incomunicabilità. Da
sempre, infatti, i sani, o presunti tali, hanno messo in atto procedimenti
per emarginare e comunque bollare chi è o si è sottratto alle
leggi della convivenza17. Il Cottolengo si conferma dunque come
“mondo altro” e come “altro mondo”, come ricettacolo di carne
malata e deforme in una realtà diversa dalle solide certezze di tutti
i giorni18. Amerigo stesso, camminando per le strade di Torino per
giungere all’ospizio, percepisce, ancor prima di entrarvi, la completa
estraneità della realtà che lo attende:
[…] cercando sotto la pioggia l’ingresso segnato sulla cartolina del
Comune aveva la sensazione d’inoltrarsi al di là delle frontiere del
suo mondo.
L’istituto s’estendeva tra quartieri popolosi e poveri, per la superficie
d’un intero quartiere, comprendendo un insieme d’asili e ospedali
e ospizi e scuole e conventi, quasi una città nella città, cinta da
mura e soggetta ad altre regole19.
Egli infatti si trova a dover fare i conti con un vero e proprio
regno a parte, caratterizzato anch’esso dalle sue rigide regole sociali
e da una vita parallela, estranea al regno della normalità razionale e
positiva. È la città a parte del Cottolengo, una vera e propria «città
nella città», che segna l’entrata del protagonista nell’altro mondo,
quello della malattia e della mostruosità insanabile, nell’universo
chiuso ad ogni riscatto di significato20. Le pagine del libro si affol-
15 P.V. Mengaldo, L’arco e le pietre, in Id., La tradizione del Novecento. Da
D’annunzio a Montale, Milano, Feltrinelli, 1975, p. 408.
16 I. Calvino, La giornata d’uno scrutatore, cit., p. 9.
17 C. Segre, Fuori del mondo. I modelli nella follia e nelle immagini dell’aldilà,
Torino, Einaudi, 1990, p. 6.
18 R. Barilli, La barriera del naturalismo, Milano, Mursia, 1970, p. 259.
19 I. Calvino, La giornata d’uno scrutatore, cit., p. 8.
20 F. Serra, Calvino, Roma, Salerno Editrice, 2006, p. 148.
[8] AI MARGINI DEL MONDO: IL “COTTOLENGO” DI ITALO CALVINO 517
lano dunque di ritratti e di descrizioni di malati che puntano ad
una vera e propria deformazione espressionistica, in cui i reali confini
dell’umano sembrano dissolversi di fronte a tanta sofferenza:
Il grido acuto proveniva da una minuscola faccia rossa, tutta occhi
e bocca aperta in un fermo riso, d’un ragazzo a letto […] che spuntava
col busto dall’imboccatura del letto come una pianta viene su
da un vaso, come un gambo di pianta che finiva (non c’era segno di
braccia) in quella testa come un pesce, e questo ragazzo-pianta-pesce
(fino a dove un essere umano può dirsi umano? Si chiedeva Amerigo)
si muoveva su e giù inclinando il busto ad ogni ghii… ghii… E il
gaa gaa che gli rispondeva era d’uno che nel letto prendeva meno
forma ancora, eppure protendeva una testa boccuta, avida, congestionata,
e doveva avere braccia – o pinne – che si muovevano sotto
le lenzuola in cui era come insaccato (fino a che punto un essere può
dirsi un essere di qualsiasi specie?)
[…] Amerigo lo guardò: era una faccia viola, riversa, come un morto,
a bocca spalancata, nude gengive, occhi sbarrati. Più che quella
faccia, nel guanciale affossato, non si vedeva; era duro come un
legno, tranne un ansito che gli fischiava dal fondo della gola […]; le
braccia, nel camicione bianco, erano rattrappite, con le mani piegate
in dentro, e anche le gambe aveva allo stesso modo, come se le
membra cercassero di tornare dentro se stesse a cercare un rifugio21.
La presenza nell’immaginario letterario di Calvino di creature
aberranti dal punto di vista fisico, di veri e propri mostri, non è un
fatto isolato e fine a se stesso. La validità dei mostri a cui ricorre la
letteratura, infatti, viene misurata non in base alla verosimiglianza
naturalistica, come pure sarebbe giusto nel caso della Giornata d’uno
scrutatore visto che si fa riferimento ad un luogo reale, bensì in base
al grado di penetrazione e conoscenza che essi hanno nei confronti
del reale. Il ricorso ad essere mostruosi, risorsa in passato solo possibile,
nella letteratura dell’ultimo secolo è divenuto qualcosa di
necessario: partendo da soggetti normali, infatti, la realtà risponde
solo in modi già scontati e l’indagine narrativa non offre frutti nuovi,
ricalcando le orme della narrativa precedente. Così nasce l’esigenza,
da parte di molti autori della letteratura moderna e contemporanea,
di prendere le mosse da casi patologici ed irregolari, da
veri e propri “casi-margine” potremmo dire, con l’intento di elevare
le loro aberrazioni a vere e proprie forme trascendentali, cioè condizioni
necessarie per vedere e pensare il mondo in termini nuovi22.
21 I. Calvino, La giornata d’uno scrutatore, cit., pp. 61-64.
22 R. Barilli, La barriera del naturalismo, cit., p. 261.
518 ISABELLA PUGLIESE [9]
Più in generale, quando si passa dai romanzi ottocenteschi a quelli
moderni si vede che dal ritratto dei personaggi scompare ogni
traccia di bellezza fisica, si assiste cioè alla cosiddetta «invasione
vittoriosa dei brutti»23, che è il segno più concreto ed evidente
della cessata fiducia nella possibilità senza eccezioni di spiegare
causalmente i personaggi e ciò che a loro succede. Per quanto
riguarda in particolare La giornata d’uno scrutatore, è stato osservato
dalla critica che nel racconto del 1963 il diverso, l’anormale e il
deformato alludono ad un livello di naturalità istintiva, di un fondo
biologico irriducibile agli schemi ordinatori della ragione. Tale
richiamo riveste nel racconto un duplice ruolo: da un lato segna il
limite, il confine delle possibilità dell’agire sociale e razionale,
evidenziando la finitezza dell’uomo e delle sue capacità; dall’altro
indica la fonte primaria dell’energia che l’individuo esprime, della
sua tendenza a proiettarsi nel mondo come homo faber24. La deformazione
del personaggio, la sua descrizione espressionistica allora
tende a fornirci una visione completa dell’uomo: ce lo mostra cioè
come appare nel dominio del visibile, ma sotto l’azione di ciò che
non appare e che muove dal dominio dell’invisibile. La deformazione
nasce proprio dal contrasto dovuto alla compresenza dei due
momenti: l’Io e l’Altro25, in cui è proprio l’Altro a scatenare le
sofferenze testimoniate dal deformarsi della fisionomia del personaggio.
Amerigo Ormea osserva tutto ciò proprio da un luogo che
si situa al confine tra il momento dell’Io e il momento dell’Altro,
e cioè dal Cottolengo che dunque si caratterizza come margine sia
dell’una che dell’altra categoria. È dunque un “altrove” reale e non
immaginario da cui la testimonianza di Calvino si carica di angoscia
esistenziale26.
Il procedimento di esclusione delle creature del Cottolengo non
si realizza in un’espulsione vera e propria, ma nell’accentuazione
del distacco tra i «persecutori» (sani di mente) e i «perseguitati» e
sbeffeggiati (folli e malati). In complesso domina l’opposizione NOI/
GLI ALTRI, si sottolinea la diversità, o meglio l’appartenenza ad un
23 G. Debenedetti, Il Romanzo del Novecento, cit., pp. 440-441.
24 B. Falcetto, La tensione dell’esistenza. Vitalismo e razionalità in Calvino dal
Sentiero allo Scrutatore, «Nuova Corrente», XXXIV, 99, gennaio-giugno 1987, p.
48.
25 G. Debenedetti, Il Romanzo del Novecento, cit., pp. 459-462.
26 C. De Caprio, Calvino e l’ottica del viaggiatore, in Il fantastico e il visibile, a
cura di C. De Caprio e U.M. Olivieri, Napoli, Libreria Dante e Descartes, 2000,
p. 56.
[10] AI MARGINI DEL MONDO: IL “COTTOLENGO” DI ITALO CALVINO 519
mondo diverso27; in questo caso ad un mondo posto “ai margini”.
L’immagine dell’ospizio, dunque, nelle pagine del libro viene definita
attraverso una dialettica di marginalità e alterità, in cui forse
l’alterità arriva a porsi come una marginalità elevata ad un livello
superiore, e cioè capace di opporsi e di fungere da concreta alternativa
alla totalità da cui il margine era stato estrapolato: il mondo dei
normali, dei perfetti, degli esseri compiuti e razionali.
Il margine, in questo senso, arriva ad acquisire ontologicamente
quasi uno statuto autonomo e una legittimità letteraria nell’economia
del libro. Infatti il punto di vista dal quale l’osservatore guarda
alla realtà, e cioè il “margine-altro” Cottolengo, coincide proprio
con un mondo che del mondo completo rappresenta solo un dettaglio,
un particolare, e per giunta un particolare che ha in sé il germe
dell’incompiutezza e dell’imperfezione, qualità che sono perfettamente
adattabili a qualsiasi “margine”.
Da un punto di vista più generale e squisitamente letterario,
inoltre, allargando la nostra riflessione sui concetti di “tutto” e di
“parte”, la dialettica che abbiamo visto instaurarsi all’interno del
libro tra la totalità del mondo normale e la parte marginale “mondo-
Cottolengo” sembra rimandare al rapporto che si crea nell’intero
Novecento letterario fra totalità e parzialità, realmente fra la “parte”
e il “tutto”. Infatti, nello stesso tempo in cui viene meno il principio
dell’opera compiutamente delineata, dell’opera come rispecchiamento
del mondo, si afferma nel Novecento un’altra forma artistica e un’altra
forma di conoscenza: si guarda al tutto a partire dal dettaglio,
dal particolare, dall’incompiuto, poiché la totalità ben delineata non
è più né una possibilità della conoscenza, né della narrazione né
dell’arte in generale28. Questa descrizione del modo di procedere
del Novecento in campo letterario, e soprattutto narrativo, sembra
adattarsi perfettamente alla modalità di composizione della Giornata
d’uno scrutatore, in cui appunto si guarda alla totalità del mondo dal
dettaglio, dal particolare, dall’incompiuto, e cioè dal margine rappresentato
dal Cottolengo e dai suoi miseri abitanti. Nel corso del
libro, Amerigo Ormea arriva persino a prospettare l’eventualità che
tutto il mondo razionale ed ordinato si trasformi ad un tratto in un
27 C. Segre, Fuori del mondo. I modelli nella follia e nelle immagini dell’aldilà, cit.,
p. 89.
28 M. Barenghi, Il «tempo» del racconto lungo, in Tipologia della narrazione
breve. Atti del Convegno di studio «Il Vittoriale degli Italiani», Roma, Vecchierelli
Editore, 2004, p. 4.
520 ISABELLA PUGLIESE [11]
gigantesco Cottolengo, e cioè, in termini più generali, che una parte
del mondo arrivi a prendere il posto del mondo intero:
Era tutto il mondo fuori a diventare parvenza, nebbia, mentre questo,
di mondo, questo del «Cottolengo», ora riempiva talmente la
sua esperienza che pareva il solo vero. […] Un mondo, il «Cottolengo
», – pensava Amerigo, – che potrebbe essere il solo mondo al
mondo se l’evoluzione della specie umana avesse reagito diversamente
a qualche cataclisma preistorico o a qualche pestilenza… Oggi,
chi potrebbe parlare di minorati, di idioti, di deformi, in un mondo
interamente deforme? […] Se il solo mondo al mondo fosse il «Cottolengo
», pensava Amerigo, senza un mondo di fuori che, per esercitare
la sua carità, lo schiaccia e umilia, forse anche questo mondo
potrebbe diventare una società, iniziare una sua storia…[…] E più la
possibilità che il «Cottolengo» fosse l’unico mondo possibile lo sommergeva,
più Amerigo si dibatteva per non esserne inghiottito. Il
mondo della bellezza svaniva all’orizzonte delle realtà possibili come
un miraggio e Amerigo ancora nuotava nuotava verso il miraggio
per riguadagnare questa riva irreale…29
Il Cottolengo allora, secondo una forma di leibniziana ascendenza,
sembra porsi non tanto come il migliore dei mondi possibili, ma
addirittura come l’unico dei mondi possibili; quasi come se l’unica
eventualità prospettabile consistesse nel fatto che una parte del
mondo prenda il posto del mondo intero.
È stato più volte affermato dalla critica che anche il Novecento
letterario si comporta esattamente allo stesso modo: non solo viene
concessa più attenzione alla parzialità e alla marginalità, ma queste
ultime vengono considerate proprio in sostituzione della totalità e
della compiutezza: la “parte” compare al posto del “tutto”. Del
resto Calvino stesso, come parecchi intellettuali della sua generazione,
era stato indotto ad accettare definitivamente il fatto che il mondo
e la nostra esistenza sono frammenti di un tutto che ci rimarrà per
sempre imperscrutabile30. Sul piano biografico tale svolta coincideva,
non a caso, con l’abbandono della militanza politica entro organismi
collettivi e con la rinuncia a pubblicare su periodici che fossero
l’espressione di un partito o di una tendenza precostituita.
Infatti la denuncia da parte di Nikita Krusciov al XX Congresso del
PCUS dei crimini staliniani e l’invasione dell’Ungheria nel 1956
avevano incrinato la solidità del movimento comunista in tutta
29 I. Calvino, La giornata d’uno scrutatore, cit., pp. 20-27.
30 C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, cit., p. 71.
[12] AI MARGINI DEL MONDO: IL “COTTOLENGO” DI ITALO CALVINO 521
Europa; in Italia non pochi esponenti del partito, magari già in crisi
per i motivi accennati, colsero l’occasione per uscire dal partito e
passare ad altre organizzazioni; altri preferirono attivare un dibattito
interno oppure uscire dal partito senza tuttavia prendere altre
strade o compiere scelte altrettanto irrevocabili31. Quest’ultimo fu
anche il caso di Calvino. Il 1957 è per lui l’anno cruciale: lo scrittore
rassegna le sue dimissioni dal Partito Comunista con una lettera sull’
«Unità» del 7 Agosto e denuncia con angoscia crescente l’assenza
di un progetto nel quale potersi riconoscere. Va detto che Calvino
non mostrò nessun rancore né alcuna astiosa recriminazione nei
confronti di un partito in cui era entrato a vent’anni, negli anni della
Resistenza, e in cui, seppur talvolta con riserve e polemiche, aveva
militato con convinzione e lealtà. È una decisione sofferta, ma che
alla fine emerge netta e limpida32. Recentemente è stata pubblicata
una lettera inedita di Calvino a Ludovico Geymonat del 12 settembre
1957, scritta dunque a pochi giorni dalle dimissioni dal Partito.
In essa non si trova l’opzione per una mutata scelta di campo, bensì
una consapevole presa di posizione da parte di chi ritenne di poter
svolgere da «fuori» un lavoro di critica più efficace:
Caro Geymonat, […] credo che sia importantissimo che noi che abbiamo
creduto meglio operare «fuori» e voi che credete ancora di
dover operare «dentro» non perdiamo i contatti, non dimentichiamo
che il nostro scopo comune è ritrovarci insieme – soprattutto – alla
classe operaia, che non ha aspettato gli intellettuali per manifestare
la sua crisi. Qui a Torino, tra gli amici «dentro» e noi «fuori» cerchiamo
già di realizzare contatti sistematici e azioni comuni.
È inutile nasconderci che la situazione invita a un netto pessimismo,
ma è anche inutile crogiolarsi solamente nel pessimismo33.
Dalla lettera si evince come la scelta di Calvino sarà quella di
abbandonare il partito, senza però con questo rinunciare a condurre
un’azione politica e culturale di collaborazione con chi aveva deciso
di proseguire la battaglia di rinnovamento dall’interno, come appunto
fece allora e continuò a fare Geymonat. Il 1957 è dunque
crocevia importantissimo nell’esistenza di Calvino, sia come uomo
31 G. Baroni, Italo Calvino. Introduzione e guida allo studio dell’opera calviniana,
cit., p. 9.
32 M. Bucciantini, Il nostro addio al PCI. Due lettere inedite di Italo Calvino e
Antonio Giolitti a Ludovico Geymonat, «La Repubblica», 12 settembre 2007, p. 49.
33 I. Calvino, Lettera a Ludovico Geymonat, Torino, 12 Settembre 1957, in M.
Bucciantini, Il nostro addio al PCI, cit., p. 49.
522 ISABELLA PUGLIESE [13]
che come scrittore. L’uscita di Calvino dal PCI e la conseguente
scelta di porsi dunque ancora una volta ai margini della realtà politica
e sociale non deve però trarre in inganno: scegliere consapevolmente
di trovarsi a latere del mondo dell’ufficialità e della propaganda
nel nostro scrittore non equivale affatto a disinteresse o disimpegno.
Al contrario in Calvino permangono sempre gli ideali di
azione e di impegno politico, come egli stesso non manca di sottolineare
nell’importante scritto saggistico Il midollo del leone, datato
1955 e quindi composto quando la tormentata gestazione della Giornata
era già in atto e poco tempo prima della sua rinuncia all’attività
politica in veste ufficiale. Secondo la sua opinione, l’epoca presente
può essere capita soltanto situandosi vicino alla linea del fuoco,
sul campo di battaglia che la storia prepara, tra le trincee morali
dalle quali difendersi e tra le brecce attraverso cui passare al contrattacco:
Noi crediamo che l’impegno politico, il parteggiare, il compromettersi
sia, ancora più che un dovere, necessità naturale dello scrittore
d’oggi, e prima ancora che dello scrittore, dell’uomo moderno34.
Calvino rifiuta così la letteratura dell’intellettuale deracinè, scisso
drammaticamente da una società che egli non comprende e che non
lo comprende. Contro questo decadentismo vittimistico occorre trovare
il nutrimento di una letteratura capace di agire:
Noi siamo pure tra quelli che credono in una letteratura che sia
presenza attiva nella storia, in una letteratura come educazione, di
grado e di qualità insostituibile. […] La letteratura deve rivolgersi a
quegli uomini, deve – mentre impara da loro – insegnar loro, servire
loro, e può servire solo in una cosa: aiutandoli a esser sempre più
intelligenti, sensibili, moralmente forti. […] Intelligenza, volontà: già
proporre questi termini vuol dire credere nell’individuo, rifiutare la
sua dissoluzione35
È l’espressione più chiara di uno dei fili rossi che legano l’attività
intellettuale e letteraria di Italo Calvino: la persuasione, che corre
dall’inizio alla fine della sua opera, che quella della “scrittura” sia
fondamentalmente un’operazione morale, e cioè quanto di più lontano
ci possa essere dal disimpegno, dall’indifferenza e dal disinteresse.
È lo stesso comportamento ideale che Calvino tratteggia nella
34 I. Calvino, Il midollo del leone, in Id., Saggi 1945-1985, cit., p. 20.
35 Ivi, pp. 21-23.
[14] AI MARGINI DEL MONDO: IL “COTTOLENGO” DI ITALO CALVINO 523
descrizione di Amerigo Ormea nella Giornata d’uno scrutatore, comportamento
che può tranquillamente essere ricondotto a Calvino
stesso, visto che lo scrutatore altri non è che uno scoperto alter-ego
dell’autore:
Amerigo non era uno che gli piacesse mettersi avanti: nella professione,
all’affermarsi preferiva il conservarsi persona giusta; non era
quel che si dice un “politico” né nella vita pubblica né nelle relazioni
di lavoro […]. Era iscritto al partito, questo sì, e per quanto non
potesse dirsi un “attivista” perché il suo carattere lo portava verso
una vita più raccolta, non si tirava indietro quando c’era da fare
qualcosa che sentiva utile e adatto a lui. In Federazione lo consideravano
elemento preparato e di buon senso: ora l’avevano fatto
scrutatore: un compito modesto, ma necessario e anche d’impegno,
soprattutto in quel seggio, all’interno d’un grande istituto religioso.
Amerigo aveva accettato di buon grado36.
Se questo porsi ai margini vale per la sua anima di politico, la
situazione non cambia di certo per lo scrittore. Dal punto di vista
letterario, infatti, fino al 1960 egli stesso aveva coltivato la pretesa o
l’illusione di possedere un’immagine della società italiana, di intrattenere
un dialogo con un pubblico ben preciso; poi gli sembrò che
si andasse diffondendo una zona d’ombra sempre più fitta e sempre
più vasta che gli impediva di riconoscere e definire cose e persone
con la consueta esattezza37. Per non soccombere dunque all’opacità
di tale zona d’ombra, anche in qualità di scrittore Calvino sceglie di
porsi dalla prospettiva del margine e di osservare da lì la realtà,
quasi che dai margini fosse possibile vedere di più e meglio.
È proprio quanto accade nella Giornata d’uno scrutatore, in cui lo
scrittore si sofferma sul corpo inorganico, sulla parte inorganica
dell’uomo, sulla parte irriducibile all’ordine e alla simmetria, al corpo
che diventa corpo assoluto nell’«uomo-Cottolengo», in cui il simmetrico,
l’ordinato, il razionale, l’esatto (per usare una categoria critica
tipicamente calviniana) non viene separato dal residuo38, ma prende
il sopravvento su di esso e arriva a sostituirlo in pieno. Il residuo,
in questo caso, si pone come una ulteriore sottocategoria del margine
e balza addirittura in primo piano nella chiusa del libro, in cui
36 I. Calvino, La giornata d’uno scrutatore, cit., p. 6.
37 C. Milanini, Introduzione a I. Calvino, Romanzi e Racconti I, Milano, Mondadori,
2004, p. XLII.
38 Per il concetto di residuo in Calvino cfr. C. Ossola, Calvino, la simmetria,
il residuo, in Il fantastico e il visibile, cit., p. 37.
524 ISABELLA PUGLIESE [15]
persino lo stesso Cottolengo, regno del subumano, del deforme, del
diverso e dell’inferiore, contiene in sé il germe che rende possibile
il riscatto e il perfezionamento: «anche il Cottolengo, l’ultima città
dell’imperfezione, ha la sua ora perfetta, l’ora, l’attimo, in cui in
ogni città c’è la Città»39. La città dei residui diviene allora la Città
per antonomasia, fondata appunto su un’ora, su un solo attimo in
cui il residuo diventa il tutto40. Ancora una volta dunque, il residuo,
e cioè una categoria particolare di margine, in un margine di tempo
molto breve, un solo attimo, diviene il Tutto. D’altra parte, è valida
in Calvino l’idea, conforme a una venatura di individualismo anarchico
ben avvertibile in lui fin dal Sentiero, che quanto è consentito
all’uomo di felicità e autenticità si nasconda nell’atto inutile, sottratto
al calcolo, nel gesto che sfugge alla programmazione dei congegni,
nell’allegra dissipazione di sé41, nel residuo appunto.
Alla luce di queste riflessioni, per quanto riguarda la narrativa
di Calvino e in particolare il caso della Giornata, sembra quasi possibile
parlare di un “effetto margine” che fa sentire i suoi riflessi in
tutti gli ambiti dell’analisi critica dei testi. Le domande di fondo e
i rovelli etici che tormentano Amerigo e naturalmente Calvino stesso,
vengono resi ancora più acuti e più pungenti proprio dalla presenza
nel libro della dimensione inconsueta del Cottolengo come
luogo in cui far svolgere l’azione. Qui Calvino, e il suo alter-ego
Amerigo, è stimolato a rivedere ogni atteggiamento e ogni risposta,
a riprendere la riflessioni sulle scelte proprie e su quelle degli altri,
sul destino individuale e su quello collettivo42. L’adozione di un
luogo marginale quale il Cottolengo come ambientazione del racconto
porta al verificarsi di un “effetto margine” anche sul punto di
vista da cui è condotta la narrazione: nel racconto del 1963, infatti,
è presente il divaricarsi continuo dei punti di vista a causa del
rapporto sempre alterabile e contraddittorio tra chi guarda e chi è
guardato, per lo scambiarsi continuo delle parti tra il soggetto che
osserva e la realtà osservata per scendere in una contraddizione
cruciale, in una determinata difficoltà del conoscere e dell’esistere43.
La stessa parola «scrutatore» rimanda ad una dimensione “visiva”:
al di là del riferimento alle elezioni e all’universo della politica, il
39 I. Calvino, La giornata d’uno scrutatore, cit., p. 78.
40 C. Ossola, Calvino, la simmetria, il residuo, cit., p. 39.
41 P.V. Mengaldo, L’arco e le pietre, cit., p. 424.
42 A. Asor Rosa, Stile Calvino, Torino, Einaudi, 2001, p. 32.
43 G. Ferroni, Lo sguardo di Calvino, in Il fantastico e il visibile, cit., p. 23.
[16] AI MARGINI DEL MONDO: IL “COTTOLENGO” DI ITALO CALVINO 525
termine suscita una serie di ambigui richiami, allude ad una osservazione
rallentata, minuta, meticolosa, di una complessa e indeterminata
realtà. L’importanza concessa alla dimensione visiva non
stupisce dunque in un autore come Calvino, basti pensare al titolo
della quarta delle sue Lezioni americane, Visibilità appunto, che si
pone quindi come uno dei sei valori da traghettare nel nuovo millennio.
Egli è infatti uno dei pochi scrittori che hanno dedicato
grande attenzione ai problemi della visione e della percezione: si
presenta a noi come uno degli autori più “visuali” della nostra
letteratura. In cosa consiste però il visualismo di Calvino? Non certo
nel trattare di arte e pittura, di cinema e fotografia, di oggetti e
immagini, ma nel “modo” particolare in cui egli ne ha parlato e ne
ha scritto. C’è infatti nell’opera dello scrittore ligure un’attenzione
allo spazio, alla topologia e alla percezione delle forme sensibili che
non riguarda strettamente gli oggetti artistici, ma più in generale la
superficie del mondo. L’occhio di Calvino è soprattutto un occhiomente
mosso dal suo irrefrenabile desiderio di conoscere il mondo
come superficie inesauribile e questo non solo nell’ultimo periodo
della sua vita, a cui risale appunto Visibilità, ma fin dal suo esordio
letterario nel 1947. In lui si nota una costante attenzione verso il
sensibile, verso la percezione visiva e verso i modi attraverso cui il
mondo si rende discreto ai nostri cinque sensi44.
Il visivo richiama tanti aspetti dell’opera di Calvino, proprio
perché la sua idea di letteratura come conoscenza si avvale soprattutto
dello sguardo e del racconto, di una spinta continua e irresistibile
a guardare e a raccontare. La categoria della visibilità si affaccia
spessissimo nelle opere calviniane, a partire già dai titoli: Il
cavaliere è inesistente proprio perché non è percepibile attraverso il
senso della vista, Le città sono invisibili, il signor Palomar prende il
nome da un celebre osservatorio astronomico… D’altra parte, è
proprio nella Giornata che l’attraversamento calviniano del concetto
di visibilità è dato non come un’utopica apertura ai nuovi orizzonti
del visibile, ma come un’inquieta, ironica, anche autoironica, indagine
sulla contraddittorietà dello stesso vedere, sul suo mai concludersi
e mai esaurirsi, sul suo non attingere mai ad una “visione”
rivelatrice, epifanica, rassicurante e totale, sul suo inevitabile sospendersi,
rovesciarsi, bruciarsi.
Possiamo chiederci allora se con Calvino il visivo si rivolga veramente
all’occhio o se invece non sia una attività mentale di lonta-
44 M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, Torino, Einaudi, 1996, pp. IX-XII.
526 ISABELLA PUGLIESE [17]
na matrice platonica, cioè se il visivo si apparenti alla forma e se la
forma, quindi, sia un aspetto della conoscenza45. Inoltre, se la visibilità,
la dimensione visiva, il percepire il mondo esterno con lo
sguardo coincide dunque per Calvino con la conoscenza stessa del
mondo, allora guardare il mondo «precipitando nella tromba delle
scale», come era solito affermare Calvino stesso, significa dire che la
nostra conoscenza del mondo è decentrata, priva di punti cardinali
e di basi solide e certe. È vero che si precipita, ma si continua
comunque ad osservare e a trasferire sulla pagina qualche frammento
di immagine catturata appena con la coda dell’occhio. In
questo senso molti libri e racconti di Calvino finiscono su un’immagine,
tra tutti, come abbiamo visto, La giornata d’uno scrutatore: «Anche
l’ultima città dell’imperfezione ha la sua ora perfetta, pensò lo
scrutatore, l’ora, l’attimo, in cui in ogni città c’è la Città»46. Per un
momento, per un attimo solo ci sembra di toccare la perfezione; poi
un soffio, e il libro è finito47.
In questo senso, allora, nella poetica calviniana, viene quasi a
stabilirsi un’equazione tra visione e conoscenza, per cui a diverse
visioni del mondo e quindi a diversi punti di vista da cui viene
condotta l’osservazione del reale, corrispondono molteplici visioni
del mondo stesso. Nello specifico del testo, c’è un luogo nella Giornata
molto significativo che da un lato mostra proprio l’intercambiabilità
dei punti di vista da cui è condotta l’osservazione, e dall’altro
la ricerca delle varie possibilità di interazione tra i protagonisti
dell’episodio. Ci riferiamo al momento in cui il protagonista si
affaccia ad un cortile interno dell’ospedale per concedersi un po’ di
riposo. Sotto di lui scorge la figura di un onorevole democristiano
accorso ad assicurarsi che tutto proceda a dovere. Basterebbe l’incontro
tra due personaggi ideologicamente così distanti a far nascere
una forte tensione, ma a Calvino questo non basta. La tensione,
infatti, viene notevolmente accresciuta quando Ormea si accorge
della presenza di un nano che percuote i vetri di una finestra, a cui
non riesce ad affacciarsi, per richiamare l’attenzione dell’onorevole:
Guardando dalla finestra, s’accorse che a un altro davanzale, apparivano
due occhi dietro il vetro, una testa che non riusciva a sporgere
più in su del naso, una grossa scatola cranica coperta di pelu-
45 C. Ossola, Calvino: la simmetria, il residuo, cit., p. 31.
46 I. Calvino, La giornata d’uno scrutatore, cit., p. 78.
47 D. Scarpa, Dalla musica che trascina al silenzio degli spazi, in Il fantastico e il
visibile, cit., pp. 190-191.
[18] AI MARGINI DEL MONDO: IL “COTTOLENGO” DI ITALO CALVINO 527
ria: un nano. Gli occhi del nano erano fissi sull’onorevole, e contro
il vetro della finestra s’alzarono delle dita corte corte, la grinzosa
palma d’una piccola mano, che battè contro il vetro, battè due volte,
come per chiamarlo. Cosa aveva da comunicargli? si domandò
Amerigo. […]
L’onorevole si voltò, il suo sguardo girò sulla finestra, si fermò appena
sul nano, poi passò via, distante48.
Si crea così un curioso “triangolo”, una inedita terna di valori
che sollecita nel protagonista molte riflessioni, la prima delle quali
può essere considerata come una confessione non solo del personaggio,
ma, dietro di lui, anche dell’autore49: «Ecco, osserva Amerigo,
io e l’onorevole siamo da una parte, e il nano dall’altra»50. Di fronte
alla grande diversità fisiologica e psichica che contraddistingue il
nano rispetto alla persone normali, il protagonista sente di poter
trascurare le diversità ideologiche e pratiche che lo dividono dall’uomo
politico democristiano, avvertendo quasi la necessità di stringersi
a lui, di far fronte comune in una leopardiana “social catena”
per resistere alle oscure minacce provenienti da una natura insidiosa
e malefica:
E tutt’a un tratto l’avversione si trasformò in solidarietà: non erano
forse, loro due, più simili che chiunque altro là dentro? Non appartenevano
alla stessa famiglia, alla stessa parte, la parte dei valori
terreni, della politica, della pratica, del potere?51
Il primo moto provocato in Amerigo dalla vista del nano è dunque
quello di una solidarietà istintiva con l’altro “normale”, al di
sopra delle divisioni di parte che ora gli appaiono conciliabili e
secondarie. È anche un chiedersi con angoscia che cosa quell’essere
mostruoso possa pensare di loro, esseri sani, regolari, favoriti dalla
natura:
Cosa aveva da comunicargli, si domandò Amerigo, cosa pensava il
nano di quell’autorevole personaggio? Cosa pensava – si disse – di
noi, di tutti noi? […] Qual è il giudizio, si domandava Amerigo, che
un mondo escluso dal giudizio dà di noi?52
48 I. Calvino, La giornata d’uno scrutatore, cit., pp. 44-47.
49 R. Barilli, La barriera del naturalismo, cit., p. 255.
50 I. Calvino, La giornata d’uno scrutatore, cit., p. 46.
51 Ibidem.
52 I. Calvino, La giornata d’uno scrutatore, cit., pp. 46-47.
528 ISABELLA PUGLIESE [19]
D’altra parte era anche vero che:
Il confine tra gli uomini del Cottolengo e i sani era incerto: cos’abbiamo
più di loro? Arti un po’ meglio finiti, un po’ più di proporzione
nell’aspetto, capacità di coordinare un po’ meglio le sensazioni
in pensieri… […] poca cosa per la presunzione di costruire noi la
nostra storia…53
Sono questi degli interrogativi che non si levano solo in questo
punto, ma ricorrono periodicamente nel breve racconto, costituendone
il leit-motiv. Poiché sono interrogativi a cui l’autore non saprà
dare una risposta, si può dire che da qui si irradi, in tutta l’opera,
un tono di impotenza e di incertezza54.
In seguito Calvino mostra di voler saggiare tutte le combinazioni
possibili a partire dal triangolo che abbiamo visto configurarsi inizialmente:
ora l’autore mette insieme il “normale” intellettuale e
virtuoso, lo scrutatore Ormea, con il nano, formando il blocco dei
contemplativi, dei candidi, contro il praticismo dell’onorevole:
[…] Amerigo adesso si sentiva tutto dalla parte del nano, s’identificava
con quello che il Cottolengo testimoniava contro l’onorevole,
contro l’intruso, il solo vero nemico infiltratosi là dentro55.
Questa soluzione, tuttavia, è subito scartata poiché contemplazione
e candore non si addicono ad un eroe positivo, quale deve
pur essere Amerigo Ormea. Non resta allora che l’ultima soluzione:
racchiudere in un unico fronte il politico maneggione e il minorato
fisico-psichico:
Il negare valore ai poteri umani implica l’accettazione (ossia la scelta)
del potere peggiore: il regno del nano, dimostrata la sua superiorità
sul regno dell’onorevole, lo annetteva, lo faceva proprio. Ecco
che il nano e l’onorevole confermavano d’essere dalla stessa parte, e
Amerigo adesso non poteva starci, era fuori…56
In questo modo il male, sia fisico che morale, viene a trovarsi
tutto da una parte, mentre il bene si trova dalla parte opposta.
Questa è la soluzione che l’autore sembra preferire, proponendola
per ultima in una calcolata progressione ascendente; si tratta però
53 Ivi, pp. 41-42.
54 R. Barilli, La barriera del naturalismo, cit., p. 256.
55 I. Calvino, La giornata d’uno scrutatore, cit., p. 47.
56 Ibidem.
[20] AI MARGINI DEL MONDO: IL “COTTOLENGO” DI ITALO CALVINO 529
di una soluzione provvisoria che equipara la stortura fisica a quella
morale e che contribuisce ad aumentare la barriera fra lo scrutatore
e il mondo del Cottolengo. Amerigo dunque, nella prima delle possibilità
vagliate da Calvino nell’episodio citato, osserva un nano che
a sua volta osserva un onorevole democristiano, cioè una persona
appartenente per antonomasia al mondo dei normali, e si chiede
quale possa essere «il giudizio che un mondo escluso dal giudizio
dà di noi», prospettando in maniera esemplare l’intercambiabilità
dei punti di vista a cui si è accennato in precedenza, ma anche
l’inversione dei ruoli tra soggetto giudicante e oggetto giudicato.
Sono vagliate, inoltre, tutte le possibilità e soprattutto calcolate le
probabilità di interazione tra i tre protagonisti del capitolo, in perfetto
accordo con la nuova poetica del romanzo novecentesco. Infatti,
se consideriamo il romanzo come una «risposta ad una certa
situazione», possiamo osservare che il romanzo tradizionale supponeva
che quella risposta fosse unica ed insostituibile, mentre il romanzo
moderno si limita a dare atto di alcuni comportamenti possibili
in una situazione che poteva vederne nascere altri, e tutti
diversi, eppure altrettanto probabili57, esattamente come accade nel
nostro caso. L’idea che presiede al prodursi dei fatti e degli eventi
è quella stessa che i fisici chiamano l’idea dell’onda della probabilità,
che non è garantita da una legge assoluta ed inderogabile, ma
che si può solo presumere o prevedere come possibile. In questo
senso la Giornata, in definitiva, rappresenta la più lucida cronaca di
quell’epocale minaccia che coglie lo scrittore tra gli anni ’50 e ’60,
quando l’onda lunga della Politica all’improvviso lo lascia a terra.
L’incontro dell’intellettuale comunista con i mostri del Cottolengo
non è altro, infatti, che lo spaventoso incontro con il potenziale che
non si è ancora realizzato: è il terrore di non arrivare a possedere
una forma che abbia un significato, un vero e proprio cimitero delle
potenzialità perdute. Gli splendidi frutti della maturità e della vecchiaia
di Calvino, in sostanza, non fanno altro che riprendere, approfondendola
e variandola, la problematica giovanile del Sentiero
dei nidi di ragno, in quanto cercano di sanare, restando però sul
piano realistico come nel caso della Giornata, il conflitto tra anima
solitaria e comunità imperfetta58.
D’altra parte, nello stesso 1963, si affaccia già all’orizzonte il
protagonista che dominerà tutti gli anni ’60 della narrativa calviniana:
57 G. Debenedetti, Il Romanzo del Novecento, cit., p. 123.
58 C. Cases, Patrie lettere, cit., p. 166.
530 ISABELLA PUGLIESE [21]
l’eroe delle Cosmicomiche, l’essere metamorfico e iper-evolutivo per
eccellenza, il principe della rinascita e dell’azzeramento. Questa coincidenza
cronologica ci dimostra che dietro la paura di non prendere
forma, o di non prenderla giusta, paura che spiega La giornata d’uno
scrutatore, c’era quella di prenderla troppo, pietrificandosi in un’identità
unica e definitiva, una paura che porterà dritti alla passione
combinatoria degli anni ’7059.
La Probabilità e la Combinatorietà dunque si sostituiscono alla
Legge, allo stesso modo in cui abbiamo visto la “parte” sostituirsi al
“tutto” ed un margine esistenziale balzare in primo piano ed essere
eletto a punto di vista privilegiato da cui condurre la narrazione.
Lo scambio molto frequente nel testo tra osservatore e osservato,
come nell’episodio del nano, comporta anche uno scambio tra realtà
principale e realtà marginale, quasi come se ad un certo punto per
Amerigo diventasse impossibile distinguere quale dei due mondi,
quello del Cottolengo e quello della vita normale, sia marginale e
secondario rispetto all’altro, e cioè chi sia realmente il margine di
chi. Tra le mura di quell’ospedale la realtà smette di apparire univoca,
oggettiva e perfettamente definibile con scientificità, di conseguenza
la narrativa diventa interrogativa perché è il senso delle
cose a balenare e a sfuggire, ad essere privo di stabilità e di certezze
che comunque non diventeranno mai un sicuro possesso di cui disporre
a nostro piacimento. Ormea stesso, come tutti gli uomini che
si interrogano sul fine ultimo e sulle modalità del fare, di un agire
positivo nella Storia, è travagliato da una serie di dubbi: perché i
malati, i deficienti, i mostri? E d’altra parte perché i sani, perché i
felici? E non basta: che senso ha la procreazione se la natura può
giocare beffe così raccapriccianti?60 Tutto ciò è una conseguenza del
fatto che l’uomo di Calvino, o più precisamente l’uomo che nasce
da tutta l’opera narrativa dello scrittore, ha in sé la saggezza dell’eroe
della favola e la problematicità inquieta e ricca di tensione
dell’uomo contemporaneo: è l’uomo lacerato dalle contraddizioni
che trascina con sé la nuova società capitalistica ed è menomato
della sua stessa umanità. Parafrasando una frase di Husserl, l’uomo
di Calvino, ma anche l’uomo-Calvino, si trova a vivere in un mondo
incomprensibile, in un mondo in cui ci si pone invano la domanda
«a che pro?». È lo stesso interrogativo che travaglia per tutta la
59 F. Serra, Calvino, cit., p. 155.
60 G. Bonura, Italo Calvino, in Storia generale della letteratura italiana, a cura di
N. Borsellino e W. Pedullà, Milano, Federico Motta Editore, p. 94.
[22] AI MARGINI DEL MONDO: IL “COTTOLENGO” DI ITALO CALVINO 531
durata del romanzo Amerigo Ormea, quando ai suoi occhi si mostra
l’umanità, o meglio quella specie di umanità che sollecita i
massimi interrogativi che l’uomo può porsi sul male di vivere e sul
significato dell’esistenza. A che pro vivere dato che l’esistenza, o
almeno una parte di essa, è condannata fin dalla nascita? Il mondo
è opera di un Dio o di un demonio? O di un unico Ente che è
insieme Dio e demonio e che si diverte a cambiare faccia e morale
a seconda delle circostanze, come un prestigiatore? Proprio in virtù
di questi interrogativi La giornata è anche il romanzo in cui
l’areligiosità di Calvino fa i conti anche, e forse per la prima volta,
con gli insolubili problemi metafisici61. Ecco come Calvino stesso
commenta i temi che si affacciano tra le pagine della Giornata d’uno
scrutatore:
I temi che tocco con La giornata d’uno scrutatore, quello della infelicità
della natura, del dolore, la responsabilità della procreazione, non
avevo mai osato sfiorarli prima d’ora. Non dico ora d’aver fatto più
che sfiorarli; ma già l’ammettere la loro esistenza, il sapere che si
deve tenerne conto, cambia molte cose62.
Si affaccia dunque il mondo della pluralità dei segni, dei significati,
dei valori e dei disvalori: dalla marginalità si approda al
mondo della molteplicità, altra categoria critica tanto cara a Calvino.
Nell’ultimo capitolo del romanzo si affaccia un personaggio dalla
valenza icastica, anch’esso segno concreto dell’ennesima svolta di
riflessione del protagonista scrutatore e latore di valori e di significati
importanti nella chiusa del libro:
Ora gli scrutatori facevano capannello attorno a uno degli ultimi che
avevano votato, un omone col berretto. Era senza mani, dalla nascita:
due moncherini cilindrici gli uscivano dalle maniche, ma stringendoli
uno all’altro sapeva afferrare e manovrare oggetti, anche
sottili (la matita, un foglio di carta; difatti aveva votato da solo,
piegato da solo le schede) come nella presa di due enormi dita. –
Tutto: anche accendermi una sigaretta, – diceva l’omone, e con
movimenti svelti prendeva il pacchetto di tasca, lo portava alla bocca
per estrarne la sigaretta, stringeva il pacchetto dei cerini sotto
l’ascella, accendeva, tirava una boccata, impassibile.
61 Id., Invito alla lettura di Italo Calvino, Milano, Mursia, 1972, p. 118.
62 I. Calvino, Il 7 giugno al Cottolengo, intervista ad Andrea Barbato, «L’Espresso
», 10 marzo 1963, ora in Id., La giornata d’uno scrutatore, Milano, Oscar Mondadori,
2002, p. VI.
532 ISABELLA PUGLIESE [23]
Gli erano tutti intorno, a chiedergli come faceva, come aveva imparato.
L’uomo rispondeva brusco: aveva una grossa faccia sanguigna
da operaio anziano, ferma, senza espressione. – Io so fare tutto, –
diceva. – Ho cinquant’anni. Sono cresciuto al «Cottolengo» –. Parlava
a mento alto, con una dura aria quasi di sfida. Amerigo pensò:
l’uomo trionfa anche della maligne mutazioni biologiche; e riconosceva
nelle fattezze dell’uomo, nel suo vestiario e atteggiamento, i
tratti che contraddistinguono l’umanità operaia, anch’essa orbata – il
simbolo e la lettera – di qualcosa della sua completezza, eppure atta
ad autocostruirsi, ad affermare la parte decisiva dell’homo faber.
– Io so fare tutti i lavori da me, – diceva l’omone col berretto, – Sono
le suore che mi hanno insegnato. Qui al «Cottolengo» facciamo tutti
i lavori da noi. Le officine e tutto. Siamo come una città. Io ho
sempre vissuto dentro il «Cottolengo». Non ci manca niente. Le
suore non ci fanno mancare niente.
Era sicuro e impenetrabile: in quella specie di sussiego della sua
forza, e della sua adesione a un ordine che aveva fatto di lui quello
che era. La città che moltiplicherà le mani dell’uomo, si chiedeva
Amerigo, sarà già la città dell’uomo intero? O l’homo faber vale
proprio in quanto non considererà mai abbastanza raggiunta la sua
interezza?63
Davanti ad un’immagine così forte, Calvino non vuole dare delle
soluzioni, ma esprime solo un’angoscia, che è l’apertura di una
dimensione nuova: la dimensione dei sentimenti oltre che delle idee.
Sono sentimenti congiunti agli interrogativi e alle incertezze che la
difficoltà delle risposte comporta. Forse l’uomo vero è quello che
non si realizza mai del tutto e cerca instancabilmente? Forse una
civiltà consiste nella passione con cui si sforza di realizzarsi più che
nelle istituzioni con cui si definisce o minaccia di paralizzarsi? Sono
anche queste le domande finali che, dal tema della natura umana e
dei suoi limiti, passano a quello della società64. È proprio la diversità
dell’omone senza mani, il prevalere in lui del lato irrazionale,
dell’istinto biologico di sopravvivenza ad ogni costo che lo spinge a
porsi e a muoversi nel mondo come homo faber, per cui una condizione
di deficienza fisica diventa una risorsa.
Analogamente e in conclusione, l’adozione della categoria del
‘margine’ in tutte le sue declinazioni come struttura sottostante alla
narrazione della Giornata d’un scrutatore costituisce un valore aggiunto
dell’opera e si pone in perfetta consonanza con le scelte teo-
63 I. Calvino, La giornata d’uno scrutatore, cit., pp. 76-77.
64 G. Pullini, Volti e risvolti del romanzo italiano contemporaneo, Milano, Mursia,
1974, pp. 156-157.
[24] AI MARGINI DEL MONDO: IL “COTTOLENGO” DI ITALO CALVINO 533
riche del Calvino scrittore: è proprio il mondo nascosto del Cottolengo,
l’insieme di quelle creature nascoste e relegate veramente
ai margini della società civile che sprona l’uomo normale a fare
qualcosa, a non dare mai nulla per scontato e a far sentire forte e
prepotente la sua capacità di agire positivamente sulle cose e di
modificarle, a porsi come homo faber anche in contesto così assurdo,
in un margine esistenziale in cui «la vanità del tutto è l’importanza
d’ogni cosa fatta erano contenute tra le mura d’uno stesso cortile»65.
Isabella Pugliese
(Università Federico II – Napoli)
65 I. Calvino, La giornata d’uno scrutatore, cit., p. 43.
ROBERTO SALSANO
Humanitas e orizzonti del moderno
in Mario Verdone*
This essay takes into critical account Sergio Campailla’s introduction
to Pirandello: i racconti, le novelle e il teatro (Roma, Newton Compton,
2009) and Pirandello’s works in general. Issues about the unity of
Pirandello’s production are also discussed, with a focus on poetical
features, cultural perspectives and moments of the writer’s literary
career.
Ripensando la multiforme e pur mai superficialmente occasionale
attività critica e creativa di Mario Verdone sul metro di una definizione
che ne rilevi, pur inevitabilmente soggiacendo alle approssimazioni
o semplificazioni d’ogni definizione che si presenti come
schematica ed onnicomprensiva, certe configurazioni di fondo, potremmo
dire che l’unità connettiva, organica di questa esperienza
abbia insistito su un binomio le cui polarità sembrano appartenere a
sfere distinte di esemplarità fenomenologica e storico culturale: da
una parte l’humanitas, con i diversi campi evocativi che la parola può
suscitare, dall’altra l’attenzione al “moderno” non solo nelle varie
accezioni novecentesche ma in una centralità conferita al ruolo rappresentato
dal futurismo, con l’apertura, vocazionale e variamente
teorizzata da esso espressa, al futuro o a un presente-futuro. Nell’un
caso intravediamo, fra altre, l’immagine di una visione dell’uomo e
del mondo che è retaggio di un corso secolare di civiltà, inscrivibile
in una pretesa di eterno e attraversata da una sensibilizzata tensione
valoriale, nell’altro, anche qui tra un ventaglio di paradigmi, il profilo
del moderno quale nella fase avanzata del lungo corso della
storia occidentale evolve verso una declinazione di tentativi di
* Il presente testo risulta dall’ampliamento di una relazione tenuta al Convegno
internazionale “A self-made man” in ricordo di Mario Verdone, Roma,
Facoltà di Scienze della formazione, Università di Roma Tre, 2 dicembre 2009.
[2] HUMANITAS E ORIZZONTI DEL MODERNO IN MARIO VERDONE 535
svecchiamento culturale di una condizione antropologica e sociale
nel segno di una prospettiva che esalti le chances dell’alternativa
assoluta agli stereotipi di ciò che è statico, metafisicamente e astrattamente
ideale, negato ad ogni apprezzamento dell’uomo tecnologico
e della sua ansia sperimentale1. L’humanitas è categoria definibile
su un piano soprattutto storicamente e culturalmente datato e su un
piano che tende a diventare sfera d’una universalità trascendente la
temporalizzazione strettamente storica. Può ad esempio riferirsi, più
o meno dappresso, allo stereotipo degli studia humanitatis da cui
deriva la figura, professionalmente intesa, dell’umanista rinascimentale
e può rapportarsi a un’immagine di intellettuale o artista che propone
e salvaguarda il carattere proprio dell’essere uomo, posizione
questa che pur trovando un apice di esemplarità nella tensione laica
e universalistica del Rinascimento si può articolare in disposizioni
concepibili come intrinseche di un carattere, di una forma mentis che
media o sublima metastoricamente quell’eredità.
Tendenziali aspetti umanistici del giovane Verdone, iscritto al
liceo classico, traspaiono dallo spiccato interesse per uno studio
filologicamente attento della tradizione artistica e letteraria, al punto
che una sua ricerca giovanile riesce a stabilire documentate relazioni
tra Petrarca e Simone Martini. Ne è documento un articolo
sull’amicizia di Simone Martini e Francesco Petrarca2 che sarà pur
apprezzato, quanto ai risultati filologici, a distanza di mezzo secolo.
Anche per quanto riguarda la letteratura moderna un interesse
del giovane per gli inediti che si esplicherà nella scoperta e valorizzazione
di testi del Belli colto e accademico non sembra lontano
da parametri che si potrebbero definire di una vocazione
assimilabile alla forma mentis del filologo, ad un abito mentale,
cioè, non alieno dalla tipologia dello studioso umanista. Ma l’abito
mentale di Verdone si connota, al di à di queste prime manifestazioni,
nello svolgimento di una specificità intellettuale ed etica
spiccatamente aderente a un confronto col tempo storico troppo
vivo e irruente per costringersi nel severo e circoscritto ambito
della filologia.
1 Per uno scavo critico nella complessità dell’intreccio tra diverse tendenze
letterarie, estetiche, culturali, caratterizzanti l’opera artistica e saggistica di Mario
Verdone, rimando a R. Salsano, Avanguardia e tradizione. Saggi su Mario Verdone,
con una nota di M. Verdone, Firenze, Franco Cesati, 2007.
2 Il saggio viene citato in S. Corradi e I. Madia, Un percorso di auto-educazione
(Materiali per una bio-bibliografia di Mario Verdone), Roma, Aracne, 2003.
536 ROBERTO SALSANO [3]
In particolare, l’atteggiamento umanistico può prendere l’aire di
un’aderenza sentimentale oltre che culturale ai valori etici ed estetici
esibiti dal patrimonio artistico senese col quale il giovane convive
in una dimensione di accentuata interiorizzazione dei suoi
simboli facilitata dalla vicinanza spaziale, da una contiguità,
ovverosia, che è parte, non indifferente, d’ogni esperienza vissuta.
È ciò che traspare, fra l’altro, da alcune sue rievocazioni alle
intervistatrici Isabella Madia e Sofia Corradi3, rivolte a un ambiente
psicologicamente introiettato dal quale la sua prima formazione
appare inscindibile. Ma si intravede quanto quel patrimonio non
tanto sia percepito come eventuale referente di una possibile investigazione
finalizzata al recupero accademico della civiltà in termini
archeologici o di erudizione, nello spirito dominante di un vagheggiamento
del passato, anche remoto, quanto piuttosto come insieme
di segnali immediatamente attuali. La città di Siena, insomma, è la
città delle testimonianze artistiche, pittoriche, scultorie, architettoniche,
che possono parlare al presente. Direi che la disposizione di
spirito e di intelligenza generalmente umanistica, aggiornata all’impellenza
d’un’attualizzazione fervida del tempo, attinge l’espressione
paradigmatica dell’umanitas nuova affiorante nel poemetto
prosastico Città dell’uomo, proprio spingendo l’asse ideale ed estetico
verso una revisione della categoria del monumentale o dell’”umanistico”
a favore di prospettive più intime e soggettive, relative a
certo connotato di un’umanizzazione moderna e personale del “monumentale”
o del “classico” là dove i monumenti, o i modelli, segnando
una traccia mnestica pronta ad affiorare, tra subliminalità
ed operatività dell’io, sono in grado di rivivere più o meno patentemente
in quel mondo di un’autobiografia ideale che scambia cultura
tramandata con acquisizione personale, maturazione dell’esperienza
intellettuale con slancio attivistico di operosità. L’umanesimo
di Verdone, d’altro canto, si articola da umanesimo filologico in un
umanesimo della coscienza e della prassi tale da attingere, a un
ulteriore livello, la sfera anche specifica del “politico”. Egli si oppone,
già presto, alla concezione autarchica del fascismo ed è pronto,
andando più in là anche dell’europeismo mazziniano che ispira la
sua tesi di laurea discussa con Norberto Bobbio, a trasporre le tendenze
di una vocazione alla trascendenza universalistica propria
dell’umanesimo classicistico nelle forme di un universalismo co-
3 Vedi S. Madia e I. Corradi, Un percorso di auto-educazione, cit.
[4] HUMANITAS E ORIZZONTI DEL MODERNO IN MARIO VERDONE 537
smopolitico adeguabile al multilateralismo culturale di un certo
modello della modernità.
A questo punto, in un discorso storico generale che prescinde
anche dalla stretta osservanza dell’iter culturale ed umano di Verdone
ma che pure eventualmente per certi aspetti vi rientra, si potrebbe
rievocare, sullo sfondo della determinazione delle varie facce della
modernità, l’evoluzione alla quale è chiamato il concetto stesso distintivo
di humanitas in vista di un superamento della sua identificazione
assoluta con l’uomo occidentale. Non è un caso, del resto,
che Verdone privilegerà, con sempre più ampia possibilità di applicazione
lungo il corso inoltrato del suo iter esperienziale, eludendo,
si direbbe, quella definizione dell’autocoscienza dell’humanitas che
presume di fondarsi, in quanto proprietà dell’uomo occidentale, sull’opposizione
a culture altre, un’apertura mentale, una simpatia di
ricerca verso manifestazioni artistiche e culturali anche al di là del
limite strettamente europeo, estendendo l’indagine sul futurismo ai
più diversi contesti sociali, etnici e politici, rivolgendosi a obiettivi
orientali, mediorientali oltre che esteuropei e sudamericani, riscoprendo,
tra l’altro, un poeta armeno, Egische Ciarenz, e approfondendo
i contatti, fino al punto di sperimentarne in proprio modi e temi,
con forme di scrittura giapponese: gli haiku4.
Il Verdone che, ancora molto giovane, recensisce positivamente
Alleluiah di King Vidor rifiutando ogni pregiudizio razzista5, che scrive
contro il giornale “L’idea fascista” che boicottava gli intellettuali
stranieri antifascisti, è già sulla linea di un attento analizzatore dei
caratteri internazionali e interculturali dell’Avanguardia, ai quali fornisce
un proprio sui generis contributo il movimento futurista. L’adesione
poco più che adolescenziale al movimento di Marinetti e in
generale all’avanguardia ha aggiunto al formarsi delle prospettive
ideali in senso lato di Verdone un piglio militante, agonistico, che Il
Verdone più maturo conserva nel sottofondo passionale del proprio
multiforme impegno culturale ed artistico (multiforme come multiformi
appaiono le identità espressive dell’arte futurista) pur non negandosi
la volontà di capire razionalmente e storicamente i fenomeni
4 Si può arguire che gli haiku abbiano operato qualche suggestione sulla
stessa sperimentazione poetica di Verdone tante volte improntata alla composizione
breve. Lo stesso Verdone, poi, si è cimentato in una riscrittura personale
del modello haiku in una serie di componimenti. Vedi M. Verdone, Il viale dei
ciliegi, ouverture Walter Veltroni, Empoli, Ibiskos, 2006.
5 S. Madia e I. Corradi, Un percorso di auto-educazione, cit., p. 55.
538 ROBERTO SALSANO [5]
della cultura e dell’arte analizzandoli e storicizzandoli. Gli intrecci o
le polarità fra sensibilità umana, cultura, impegno civile sottesi alla
sua operosità hanno la caratteristica di esplicarsi sul piano non di
una sola sfera di azione. Il loro segno incide in una continua alternanza
tra vari generi di attività: egli è stato saggista, critico, giornalista,
documentarista cinematografico, scrittore di prose narrative, prose
poetiche, cronache storiche, romanzi, Atti unici, radiodrammi.
Poiché spiccano in Verdone aspetti di una personalità di studioso
e di critico delle arti che non ha mai reciso certi traits d’union tra
invenzione personale e riflessione a volte anche sistematica sulle
forme e le potenzialità testuali, si potrebbero ritrovare, in gran parte
della sua opera, le chances di un modello culturale declinabile, complessivamente,
con il titolo di poetica generale, nella misura in cui
in siffatta categorizzazione si incontrano, non senza l’apporto, mediato,
d’una consapevolezza storica portata a risolversi in storiografia
e trattatistica, fattori tendenzialmente collegati alla poiesi: moti intenzionali,
concezioni teoriche, vocazioni di scrittura convogliabili
nella presenza, pressoché costante, di un rapporto con l’interpretazione
e la fruizione del fenomeno artistico stimolata da un’esperienza
di gusto mai mortificata.
Ma è sul piano di una scrittura creativa quale ci offre Città dell’uomo6,
il cui titolo la dice lunga sulla esemplarità dell’umano, rimarcabile
da un modo di concentrazione e visibilità massime rispetto al
lungo corso della parabola di Verdone, che si coglie, con speciale
intricata evidenza, la maturazione di un coagulo tra avvertimento
di sollecitazioni profonde di un ancora tradizionale mondo di valori
e di sentimenti, da una parte, sensibilità montante per il destino
dell’uomo nel presente-futuro inscindibilmente collegata ad un’esigenza
espressiva passibile letterariamente di un distacco netto dalle
tradizioni e dal passatismo formale e tematico, dall’altra parte. Vi si
attua infatti una stratificazione semantica e poetica valorizzante il
connubio tra un ideale di humanitas vagheggiato come superamento
di passioni faziose entro un cupo scenario di Siena ai primi anni
quaranta, in nome di una più veramente etica identità sociale e
civile, e l’ideale proprio di un nuovo cliché della raffigurazione stessa
dell’uomo e del suo ambiente in corrispondenza con il travalicamento
di moduli rappresentativi naturalistici e localistici verso soluzioni
che risentono dello spirito e delle forme d’un’arte tendenzial-
6 M. Verdone, Città dell’uomo, Siena, GUF, 1941. Questo testo è stato
ripubblicato in R. Salsano, Avanguardia e tradizione, cit.
[6] HUMANITAS E ORIZZONTI DEL MODERNO IN MARIO VERDONE 539
mente collegata alla “vista interna” come è proprio dell’Espressionismo.
Lo scrittore propizia, nell’alone d’una percezione estetica vibrante,
il delinearsi di un’icona universalistica di uomo e di ambiente
attraverso uno sguardo interiore e idealizzante. Questo sguardo
tuttavia è anche fantastico, surreale, grottesco, disponibile a ripercorrere
la gamma di una molteplicità fenomenologica di un essere
nel mondo non più prigioniero di uno stato identificativo bloccato.
Rappresentazione e rappresentato tendono a convergere. Sia la
mobilità dello sguardo sia gli oggetti della focalizzazione partecipano
di un medium espressivo e di una referenza immaginaria in cui
certo andamento simile a un incontro fra le arti (realizzato sul piano
editoriale dalla presentazione del libro illustrato dai disegni di Piero
Sadun) e certa scelta di obiettivi a quell’incontro adeguata si approssimano
a una cifra di sensibilità poetica ed estetica alla quale
Verdone sempre mostrerà di aderire. La tendenza figurativa brilla,
trasfigurata, nell’epica visionaria. Una visualità prossima ai motivi
cubisti di una sintetica, a suo modo astratta, plasticità di valori,
apprezzabile secondo l’estetica di un Savinio che alla rivista “Valori
plastici” negli anni venti affidò una sua teoria di arte “metafisica”,
toglie alla rappresentazione di Siena, pur concretizzata in scorci
paesistici topograficamente esatti, il piatto naturalismo del realismo
descrittivo. D’altra parte la drammatizzazione non solo visionaria
dell’evocazione, ma attiva nella prosopopea dell’io eroico e pragmatico,
aggiunge al tema pittoresco o visionario l’essenza della testualità
teatrale in un equilibrio che, per di più, accenna alla dimensione
cinematografica. Senza dubbio specimina strutturali di marca poetico-
prosastica arieggianti a vari filoni poetico-letterari, dal frammentismo
all’Espressionismo al realismo magico (chiavi poetiche e stilistiche
che mutatis mutandis introducono in altre scritture verdoniane,
da taluni Atti brevi7 alle prose di La piazza magica o di Raoul e altre
storie, per citarne solo alcune8), accompagnano Verdone, in Città
dell’uomo, sulla sponda di tendenze modernizzanti. E comunque, se
la personalità artistica di Savinio suggerisce uno fra i punti di riferimento
in relazione al quale saggiare l’attualità novecentesca del
testo verdoniano, sempre in Città dell’uomo si possono intravedere,
7 Id., Teatro breve. Atti unici, Roma, Editori Associati, s.d. (n. 30, collana a
cura della SIAD). Una maggiore parte della produzione drammaturgica di
Verdone è in M.Verdone, Esercizi teatrali, Roma, Bulzoni, 1993.
8 Id., La piazza magica, Roma, Lucarini, 1984 e Raoul e altre storie, Roma,
Fermenti, 1998.
540 ROBERTO SALSANO [7]
nella stessa dimensione di un rapporto privilegiato con Siena, spiragli
di quell’adesione intima al mondo poetico di un altro antesignano
del mondo ideale e umano di Verdone, Federigo Tozzi che può rappresentare,
pur nella collocazione di questo scrittore non certo in
un’orbita passatista o di semplice tradizione veristica (indubbio il
quoziente espressionistico della poetica tozziana), prospettive di scrittura
meno unilateralmente spinte verso il diagramma del modernismo
avanguardista, più concilianti con una dimensione di umanità
e liricità inscritte nel sentimento, in qualche modo naturalistico, d’una
realtà di provincia. Del resto il sentimento poetico di Verdone oscillerà
ancora e altrove, continuandosi, al di là di Città dell’uomo, una
sua attitudine di scrittura moderna e insieme antica, tra il limite del
quotidiano e la fuga in un “oltre”, sì che troverà appiglio dalle cose
più umili, dalla domestica cornice evidenziata dal titolo Il profumo del
terrazzo come dall’irrequietezza del viaggiatore che oscilla tra paese e
mondo attraversando esperienze affidate, nelle loro valenze biografiche,
simboliche ed allegoriche, ai racconti di Il mito del viaggio9.
La bilateralità, per così dire, di un Tozzi insieme modernistico e
provinciale, autore presente almeno in palinsesto sul tracciato dell’esperienza
del poemetto ma anche, e forse più esplicitamente, in
altre composizioni, ad esempio nei drammi raccolti nel volume
Correre per vivere, può alludere al dualismo di un’adesione al moderno
che non cancella del tutto quel che di meno eclatante e più
tradizionale può riflettersi nella memoria e nell’esperienza della
condizione moderna a patto tuttavia che lo si ricollochi in un’ampia
sfaccettatura di poliedricità estetica e sperimentale entro la quale il
progetto artistico converga con orizzonti estetici che tendono ad
allargarsi ed intrecciarsi.
È sintomatico che Verdone si sia rivolto al futurismo come alla
manifestazione artistica e culturale, fra le avanguardie, che più ha
impegnato il suo interesse10: balzano infatti vive relazioni tra i caratteri
di questo movimento artistico e la forma mentis della sua personalità
nel più tipico e costante tratto distintivo. Si pensi alla rispondenza
fra il temperamento umano di Marinetti, così proteiforme
9 M. Verdone, Il mito del viaggio. Aforismi e apologhi, a cura e con una nota
di Carlo Fini, Siena, Il leccio La copia, 1997.
10 Il futurismo ha costituito parte della biografia ideale di Verdone al punto
da essere intensamente introiettato come esperienza soggettiva. Ne è autoconsapevole
Verdone stesso che ha intitolato un suo libro su protagonisti e temi
futuristi Il mio futurismo. Cfr. M. Verdone, Il mio futurismo. Panorama di protagonisti
e temi futuristi, Milano, Nuove edizioni culturali, 2006.
[8] HUMANITAS E ORIZZONTI DEL MODERNO IN MARIO VERDONE 541
nell’attività dinamica ed extravagante, e quella verve di persona “ubiquitaria”
(tale Verdone si ritiene nella nota di prefazione al volume
Un percorso di auto-educazione)11 che informa un dispiegamento di
studi e di interessi sempre così multiforme e variato. Proprio la
collateralità tra il futurismo ed una sperimentazione assai allargata
di generi artistici, apprezzata dagli stessi futuristi nel manifesto del
Teatro di varietà, anima una radicata prospettiva dell’impegno saggistico
di Verdone intesa a visionare un mondo, come recita il significativo
titolo di un suo volume, di arti senza frontiere12. Ecco allora
congeniale allo strato più profondo delle sue disposizioni intellettuali
ed estetiche il rapporto, da lui analiticamente studiato, fra
teatro e cinema, da una parte incidente nella parabola storica che
vede affermarsi progressivamente il genere più nuovo13 (ma anche
al radiodramma significative attenzioni non sono mancate), dall’altra
parte inerente al gioco intrinseco di strutture rappresentative
retrodatabili fino ai lontani archetipi del “teatro delle ombre”. È
certo indubbio che il vettore modernista degli studi di Verdone ha
mostrato nel modo più efficace la vicenda dell’intersecarsi delle arti
visualizzandola a livello dell’opera intesa come “opera totale”, rappresentazione
emblematica non solo delle tendenze futuriste, ma
dell’avanguardia storica nel suo complesso in un’ampia e articolata
espansione di indirizzi di diversa provenienza. Verdone ha studiato
11 S. Corradi e I. Madia, Un percorso di auto-educazione, cit., p. 21.
12 M. Verdone, Arti senza frontiere, Bologna, Bora, 1993.
13 Dedicato a questo tema è, fra altri, il saggio: M. Verdone, Teatro e cinema:
interazioni, in Il teatro nella società dello spettacolo, a cura di C. Vicentini, Bologna,
Il mulino, 1983. Estesa è la produzione critica e saggistica di Verdone sul cinema
(a cominciare dallo studio, storicamente importante, che ha incrementato la discussione
sul nuovo mezzo di comunicazione artistica: Gli intellettuali e il cinema,
risalente al 1952 (ripubblicato da Bulzoni, Roma 1982) articolata variamente in
pubblicazioni aperte anche ad una fruttuosa divulgazione – si veda ad esempio
l’utilissimo Le avanguardie storiche del cinema, Torino, SEI, 1977), sul teatro (fondamentale,
fra tanti scritti e ricerche, il Teatro del tempo futurista, Roma, Lerici, 1969
poi Bulzoni 1988), sul circo e sul teatro popolare, sulla danza e su tanti volti di
quelle che, nel titolo di un volume di saggi figurano come “Avventure teatrali del
Novecento” : Avventure teatrali del Novecento, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1999.
Un volume che si impone per ricchezza di documentazione e di investigazione,
e che sembra assommare in sé il risultato di una ricerca “totale”, è M. Verdone,
Drammaturgia e arte totale. L’avanguardia internazionale. Autori Teorie Opere, a cura
di R.M. Morano, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005. La bibliografia di Mario
Verdone va comunque ben al di là dei titoli citati in questa sede. Per una conoscenza
particolareggiata vedi la bibliografia contenuta nel volume, citato, di Sofia
Corradi e Isabella Madia.
542 ROBERTO SALSANO [9]
in vari saggi critici questa caratteristica sviluppando un discorso
che, nella cura con la quale definisce certi rapporti tra manifestazioni
artistiche distinte ma convergenti in un genere, o puntualizza il
riferimento di certi modelli all’applicazione, per via di metamorfosi
e pur sul filo di una continuità, di stereotipi di diverso genere
(basta pensare ad esempio al fil rouge che collega spettacolo popolare,
circo, cinema), potremmo da parte nostra chiederci se non sia un
discorso in qualche aspetto convergente con la direzione, se non con
la metodologia tecnicamente intesa, di quelle prospettive puntate
sull’intertestualità o ipertestualità le quali nell’arco storico tra strutturalismo
e poststrutturalismo, ben dunque dopo il futurismo primo
novecentesco e comunque in anni dove non sono mancati nuovi
paradigmi culturali e artistici, hanno interessato un nodo importante
della cultura europea. La stessa notevole disponibilità alla traduzione
o riduzione di testi poetici, coltivata da Verdone con particolare costanza,
implica qualche eventuale conferma circa la possibilità di indurre,
nel frequentatore dell’opera di Verdone nel suo complesso,
una visione della letteratura e dell’arte in genere, se non come un
sistema di “rete”, come orizzonte di intercambiabilità di temi e motivi
ove sembrerebbero inscrivibili, con estensione di riferimento, anche,
tuttavia, non solo ai rapporti fra testualità letterarie, ma fra testi letterari
e strutture d’altre arti (nella misura almeno in cui queste sono
reversibili, pur approssimativamente, alla testualità), nozioni di
ipertesto e ipotesto di genettiana memoria. Occorre del resto chiedersi,
ancora, se l’interesse, anche critico-riflessivo, per un autore quale
Tozzi che dallo stesso Verdone è stato riconosciuto ispiratore di significative
sue esperienze letterarie e di un modo particolare di concepire
la scrittura, sia in grado di denunciare o invece di eludere un
vecchio modo positivistico di intendere le fonti letterarie. Quel che
possiamo osservare è che scritti creativi quali Città dell’uomo o Correre
per vivere indiziano il ritrovamento, in una certa eredità da Tozzi, di
una possibilità di intervento di scrittura originale, personale quanto il
sentimento che può ispirarlo, sullo sfondo latente di una implicita
disposizione critica generale verso gli auctores, esternata in tanti saggi
di studio, non solo storicistica, idealistica o positivistica che sia, ma
attiva, in una cornice intertestuale, come un tipo di relazione essenzialmente
fenomenologica al documento anche se non aliena, tante
volte, da interessi per ciò che riguarda il retroterra biografico e umano
che sta dietro i segni dell’arte e delle poetiche.
Un segno della estensibilità a categorie metodologiche che sfumano,
sfrangiano ogni visuale sul rapporto con le fonti letterarie mecca[
10] HUMANITAS E ORIZZONTI DEL MODERNO IN MARIO VERDONE 543
nicamente puntata entro i parametri di una verifica meramente
quantitativa di ciò che è imitato e di ciò che è variato, potrebbe
riflettersi nel titolo di una raccolta di testimonianze e giudizi: Diario
parafuturista14 qualora ne interpretassimo il prefisso “para” oltre che
come apertura a una rievocazione memorialistica di contatti avuti
con esponenti italiani ed europei del futurismo, ciò che pure è motivo
cardine del libro, come allusione a ciò che costeggia il futurismo nei
termini di una obliquità ove la misura esatta dei debiti e delle innovazioni
ceda a un discorso più problematico, sfumato e flessibile, in
una mappa varia di relazioni nelle quali si arrivino a includere perfino
espressioni al futurismo estranee, come quella di Tozzi, ostile al
movimento e pur infine recuperabile a più moderati punti di vista.
Basta pensare poi a come Verdone ha saputo vedere, in ampi spaccati
storici, le varie trasformazioni del futurismo in simbiosi con altre
tendenze poetiche, si pensi ad esempio al futurismo cubista o espressionista,
e si noterà che alla concezione lineare di un evoluzionismo
storico si può sostituire una visione delle esperienze da calibrare nei
loro montaggi costitutivi, in quelle configurazioni, cioè, che esprimendo
una loro particolare originarietà costitutiva della composizione
affievoliscono ogni dipendenza meccanica dei testi dalle fonti.
Una marca, in effetti, che ha reso più di altre moderno il punto
di vista saggistico storico ma anche compositivo di Verdone sembra
essere stata certa attenzione singolare alla testualità artistica intesa
come montaggio. In un’area non marginale del suo mondo creativo
e della sua ispezione critica, il modello artistico ha mostrato di edificarsi
più che secondo un principio lineare, per aggregazione organica
di parti. Per questo superamento del modulo lineare si potrebbe
pensare a certe acquisizioni, in ambito di costruzione della forma,
elaborate dai teorici della Gestalt. Comunque Verdone non si
distanzia da un riconoscimento del fattore tecnico della composizione
letteraria e drammaturgica e, naturalmente, cinematografica se è
vero che proprio l’interesse per il cinematografo incentra esemplarmente
siffatta istanza di montaggio. In questo contesto il carattere
di convergenza con i tempi della modernità potrebbe collegarsi alla
disamina storica di un Benjamin che passa al vaglio modi ed effetti
della tecnica nella concezione dell’arte propria di un’epoca che si
affida alla riproducibilità delle opere. E tuttavia, in certo sotterraneo
o affiorante nesso con una Weltanschauung di conio umanistico, Verdone
potrebbe apparire attratto ancora, quasi, dall’“aura”. Intense,
14 M. Verdone, Diario parafuturista, Roma, Lucarini, 1990.
544 ROBERTO SALSANO [11]
umanamente fervide, sono sue predilezioni, all’interno della fenomenologia
del futurismo, per un meraviglioso che ha chances di apparire,
almeno in ultima istanza, non solo nella dimensione tecnica e
materiale, pur sempre elevata alla suggestione impalpabile dell’immaginario
quale tra montaggio e illusorietà può offrire una “officina
delle immagini” (titolo di una raccolta di saggi di quel Ricciotto
Canudo, valorizzatore della “settima musa”, che Verdone ha avuto
il merito di segnalare alla storia e alla critica delle arti) ma “auratica”
in certa misura, o per elementi che più che alla tecnica in assoluto
appaiono relazionabili a una dose di idealità, talvolta a un mondo
primigenio, mitico infantile, o per riferimenti a paradigmi di poetica
ove si afferma il motivo fantastico con un rientro nella vasta corrente
del realismo magico avvertito attraverso un incanto personale e
sentimentale, non privo a volte di un accondiscendente partecipazione
a un fantastico tipicamente fanciullesco (con quanta intima
simpatia, intuiamo, egli rievoca le “monellerie” di un Cangiullo!15).
Attrazione verso il mito alla quale ha soggiaciuto – le prose di Il
mito del viaggio ne sono una conferma – la stessa ansia movimentista
insita nella centralità del viaggio che ha occupato l’esperienza biografica
analogamente al comportamento stesso dei futuristi; trascendentalità
del puer (se vogliamo ricordare una mediazione antropologica
e letteraria che ha animato certi parametri demiurgici di talune
poetiche della tradizione italiana) insito nel candore della visione
immaginosa che focalizza in potenziamento estetico anche aspetti
modesti del reale (gli animali, prototipi tozziani, rivisitati in talune
poesie di Verdone); attenzione ai tratti estatici e idealizzanti pur
rinvenibili nel fondo latente di una sensitività dinamica e aperta
all’écart espressivo di certe poesie (non solo a quelli disarmonici e
destrutturanti che pur caratterizzano tanta avanguardia), accanto a
memorialismo autobiografico, pacatezza intellettuale, passione comunicativa:
sono tutti aspetti della personalità che hanno umanizzato
atteggiamenti mentali e artistici di questo avanguardista il quale
cela una formazione di coscienza e di esperienza dietro ogni giudizio
o esperimento, non disdegnando, in definitiva, di guardare, oltre
che in avanti, intorno e dietro di sé.
Guardare dietro o anche a lato di sé per Verdone ha significato,
15 È un moto di simpatia e adesione, quello di Verdone, che traspare dall’aver
posto, con sonora evidenza, uno squillante verso di Cangiullo ove spicca
la figura del monello all’inizio del capitolo Il teatro della sorpresa di Francesco
Cangiullo (in Drammaturgia e opera totale cit., p. 27).
[12] HUMANITAS E ORIZZONTI DEL MODERNO IN MARIO VERDONE 545
umanisticamente, guardare ai classici. Non è casuale, circa il quadro
della sua evoluzione culturale, che fin i giovanili interessi per la
lettura selezionavano, nel ventaglio delle scelte possibili, autori certo
importanti nell’orizzonte della modernità ma percepiti, come viene
ricordato all’intervistatrice Isabella Madia, proprio come “classici”
16. E scrittori ufficialmente classici, inseribili come tali nel canone,
sono stati i modelli che, secondo quanto ricorda Verdone stesso,
hanno influito sul suo primo impegno nella scrittura poetica, una
scrittura che raccolte poetiche quali Fuoco di miele e Il profumo del
terrazzo hanno illustrato nella cornice di una classicità visitata da
sensi del “moderno” a cominciare dall’adesione a un verso libero
che ha sottinteso, a livello dell’autocoscienza formale, un primo storico
personale incontro col futurismo letterario.
Dello stesso spiccato interesse di Verdone per la composizione
artistica come montaggio, senz’altro bisogna riconoscerne gli aspetti
moderni e novecenteschi, come abbiamo osservato, ma quanto al
background di questa tendenza, non mancano di allignare, negli anni
giovanili dello scrittore, quasi prefigurazioni, solo parziali e pur
notabili, di quel ben diverso trasporto modernistico verso le strutture
costruttivistiche che può dedursi dall’attività di un montaggio,
interessi per strutture testuali, congegni di configurazione, modelli,
e si tratta di cliché, però, che un ideale della proporzione coltivano
nel proprio patrimonio genetico in termini di stile e di retorica.
Riferendosi alla forma compositiva del genere qualificabile come
scritto saggistico, genere assai frequentato lungo l’intero arco della
sua biografia, Verdone ricorda ad Isabella Madia gli ideali, accarezzati
in anni lontani, di una proporzionata struttura e, cosa invero
certamente antitetica al progetto marinettiano, di una realizzazione
di bella scrittura. Né si può disconoscere una qualche continuità
discontinua tra questi accenni di un umanistico profilo retorico estetico
e qualche tendenza alla prosa d’arte che tocca anche, solo
complementarmente, Città dell’uomo. Tuttavia quel che più ci sembra
interessante rilevare è che la componente di una mitologia letteraria
raffinatamente stilizzata entro le angolature di un attento
ordine formale, la cui ascendenza è rinvenibile fin nella Ronda e nel
Cecchi, scrittore certamente ben conosciuto da Verdone, si è realizzata,
già a livello della prosa poetica del ’41, nell’equilibrio, lo ribadiamo,
con altri ben più drammatici volti estetici e letterari, di marca
espressionista, simbolica, allegorica.
16 S. Corradi e I. Madia, Un percorso di auto-educazione, cit., p. 133 e segg.
546 ROBERTO SALSANO [13]
Probabilmente, riguardando ed interpretando l’opera intera di
Verdone, lo stesso possibile indizio di certi atteggiamenti tradizionalistici
sia del poeta che del critico e saggista può rientrare, su una
direttrice da noi prospettata come oggettivamente allusiva, nell’attualità
di un tempo a noi stessi ravvicinato. C’è un aspetto della sua
tanto ampia ed articolata esperienza che lo accosta a una singolare
modernità, quello che oltrepassando il più irruente e storicamente
datato impegno modernistico dell’avanguardia può porre interrogativi,
all’interprete della sua opera, circa eventuali relazioni col postmoderno
o, addirittura, col postumo. Ci si può chiedere se una
ricezione, criticamente consapevole, delle avanguardie e dello stesso
futurismo, in epoca ormai fuori del contesto dell’avanguardia storica,
dunque filtrata, da parte di Verdone, da tutte quelle inevitabili
mediazioni che pur senza declassare l’istinto di novità e di eversione
che quelle esperienze proclamavano ricollocano quest’ultime nei
quadri della tradizione letteraria, non comporti eventualmente quella
possibilità di recupero o citazione del passato (con quel tanto di
frizione che ciò comporta) che il postmoderno sostituisce alla più
militante baldanza del verbum novum, o quella possibilità di riesumazione
del passato che la condizione del “postumo” nella condizione
di un trovarsi “dopo la fine”17 potrebbe attuare traguardando le
opere e i giorni del tempo trascorso da un’ottica radicalmente retrospettiva,
a salvaguardia, se si vuole (in questo caso paradossalmente
trasfigurando l’ottica assolutamente futuristica del futurismo stesso),
del pregresso culturale e civile di un’epoca estinta. Ma, più
semplicemente forse, l’epocalità del passato ritorna presso Verdone
come una categoria concettuale atta a ritessere fili di una dimensione
eterna dell’uomo artista nel momento stesso in cui si osservano
esperienze anche nuovissime. Ragionando sui nuovi segni costituiti
dalla concezione futurista della poesia visiva il critico, dopo essersi
chiesto se, trattando spesso di futurismo, non possa essere considerato
egli stesso un passatista, osserva: “Non solo vedo segnali antichi
di poesia visiva nei geroglifici, nelle criptografie latine e medioevali,
negli scudi, vessilli, blasoni e imprese del linguaggio araldico,
nelle poesie in forma di croce, di rosa, di albero, di zampogna, o di
pioggia (Apollinaire), ma una indicazione precisa è soprattutto in
Leonardo da Vinci…” e cita poi alcuni versi di Dante18.
Quel che è certo è che Verdone ha perpetuato soprattutto, alla
17 G. Ferroni, Dopo la fine, Torino, Einaudi, 1996.
18 M. Verdone, Diario parafuturista, cit., p. 158.
[14] HUMANITAS E ORIZZONTI DEL MODERNO IN MARIO VERDONE 547
memoria dei posteri, figure esemplari del secolo scorso: nella sua
opera possiamo, a diversi livelli di manifestazione rileggerne tracce
significative. Né è mancata qualche tendenza a teorizzare sulla poesia
che dalle pagine storiche e saggistiche passa a motivo, talvolta,
della personale poesia, con varchi alla metaletterarietà secondo un
indirizzo analogo a un carattere di autocoscienza critica che le poetiche
del Novecento, non escluso il futurismo poetico-teorico, assumono
quale fattore programmatico e in atto della stessa poiesi. Valga
l’ultimo componimento, Sentimenti che sopravvivono, della raccolta
postuma Versi e memorie. Ponendosi sul versante d’una illazione
metatestuale, brillano, quasi a conferma d’un intreccio tra diverse
sfumature di sensibilità, come in simbiosi, da una parte la suggestiva
immagine metaforica del metallo lavorato, alludente al processo
artistico inteso antiretoricamente nel suo aspetto di concreta operosità,
di lavoro essenzialmente materiale (in linea con la fervente
pragmaticità dell’idea futurista della poesia) sia pure raffinato da
un progetto estetico, e, dall’altra parte, segni d’un’humanitas lirica e
memoriale, fervidi moduli evocativi rivolti al passato, un passato
che tuttavia non si isola, e da preterito si fa, nel presente, futuro:
Nei versi
che scrivo
sono raccolti
coagulati
memorizzati
i miei sentimenti.
Quando non sarò più
i miei sentimenti
restano lì
come incisi
metallo battuto
ingentilito dall’artigiano –
lavorato
che non si è disperso
che sopravvive19.
Roberto Salsano
(Università di Roma Tre]
19 Id., A Cantalupo in Sabina. Versi e memorie, Cantalupo in Sabina, Edizioni
sabine, 2009, p. 67.
Meridionalia
ALESSIA PIRRO
Il “secondo mestiere” di Michele Prisco
Starting from an inquiry on the meaning of an expression which
Michele Prisco often used to refer to his journalistic activity and on
the basis of an investigation which has never been carried out before
concerning Prisco’s journalistic output, the article aims to draw critical
attention to the relationship between the author’s journalism and his
literature. From the early 1940s almost up to the author’s death this
relationship did not always express itself in the same way.
[…] ma veramente siete un giornalista? [disse
il contadino]. […] sorrisi e dissi di sì,
ch’ero giornalista. – Giornalista di sopra i
giornali? […] Ma il giornalista, per spiegarmi
meglio, non è quello che scrive la politica
e i fatti della gente che si spara o va sotto
i treni? – Dissi ch’ero un altro tipo di giornalista:
viaggiavo, ogni tanto, e raccontavo
quel che vedevo: fu la sola spiegazione alla
buona che mi riuscì di trovare. E uno degli
altri cognati […] disse saputo: – E tu che ti
credi? Lui è giornalista agricolo, per farti
capire. Si vede che pure fra i giornalisti ci
sono le specializzazioni.
Ecco – dissi, – come fra voi: chi coltiva ortaggi
e chi alberi da frutta, chi l’uva e chi il
grano. – E mi venne da pensare ai critici:
chi lo sa le mie cose come sono classificate,
se della famiglia degli ortaggi o delle
graminacee o degli alberi da frutto.
(M. P., Il podere1)
Tutti gli studi su Michele Prisco si sono concentrati finora sulla
sua opera narrativa.
1 M. Prisco, Il podere, «Il Mattino», 6 settembre 1962.
[2] IL “SECONDO MESTIERE” DI MICHELE PRISCO 549
Ad eccezione di sporadici, ed in parte inattendibili, accenni alla
collaborazione a qualche giornale contenuti nei saggi critici dedicati
al narratore2, di alcune brevi considerazioni sul giornalismo fornite
dall’Autore nell’ambito di interviste3, anch’esse come i saggi incentrate
sulla produzione narrativa dello scrittore, di alcuni articoli
apparsi sui giornali e poi confluiti nei suoi libri4 e dello scritto
2 P. Giannantonio, Invito alla lettura di Michele Prisco, Milano, Mursia, 1977,
pp. 6, 14-19; Michele Prisco – Una vita per la Cultura, a cura di L. Luisi, Cassino,
Ente Fiuggi, 1986, pp. 37-38; C. Aliberti, La narrativa di Michele Prisco, Foggia,
Bastogi, 1994, pp. 14-17; Aurelio Benevento, Michele Prisco – Narrativa come testimonianza,
Napoli, Alfredo Guida Editore, 2001, pp. 7-9; L. Rocco Carbone, Incontro
con l’autore Michele Prisco, Napoli, Massa Editore, 2004, 2ª ed., p. 14, pp. 72.
Collocati di solito nelle sezioni riservate alla biografia, i riferimenti al lavoro di
giornalista di Michele Prisco si limitano all’indicazione del nome di qualche
giornale («Il Mattino», il «Corriere della Sera», «Oggi», «Il Giornale d’Italia», «Il
Messaggero», il «Corriere del Mezzogiorno», «Il Risorgimento», «Il Nuovo Corriere
», la «Gazzetta del Popolo», «Il Mattino di Napoli») o rivista («La Lettura»,
«Aretusa», «Mercurio», «Le ragioni narrative») a cui lo scrittore collaborò. Talvolta
è specificata la data d’inizio della collaborazione o l’arco di tempo in cui
essa avvenne; quasi sempre, però, le informazioni cronologiche differiscono da
un autore all’altro e, in alcuni casi, sono in contrasto con la storia stessa dei
periodici interessati.
3 Mi riferisco in particolare alle considerazioni espresse da Michele Prisco
nelle interviste raccolte in volume: a quelle incluse nell’intervista di G. Marinelli,
con cui si apre il volumetto da lei curato Michele Prisco – Una vita per il romanzo,
Napoli, Edizioni del Delfino, 1998, p. 15; a quelle nell’intervista di L. LUISI,
posta all’inizio della raccolta di saggi da lui curata Michele Prisco – Una vita per
la Cultura, cit., pp. 53-55; a quelle nell’intervista di G. Amoroso, al principio del
suo saggio Michele Prisco, Firenze, La Nuova Italia, 1980, pp. 3-4, 8. Ulteriori
risposte dell’Autore ad interviste o a inchieste in cui, più o meno marginalmente,
è affrontato il tema della sua attività giornalistica, come pure altre sue dichiarazioni
sulla storia del giornalismo e su alcuni dei suoi protagonisti, sono
state, infatti, pubblicate sui giornali o rilasciate da Prisco nell’ambito di trasmissioni
televisive, di incontri-dibattiti a lui dedicati nel corso degli anni; sarebbero,
dunque, rimaste molto probabilmente ignote, se, nel caso di quelle più recenti,
non fossero state da me preservate al momento della loro uscita sui
giornali (come ad esempio quella di T. Marrone, Il compleanno – Prisco, fedeltà
come stile, uscita su «Il Mattino» il 4 gennaio 2000) o non mi fossero state
consegnate personalmente dai loro autori (come quella di E. Corsi, Lo scrittore
che ha firmato 5mila articoli, uscita sul «Roma» il 18 gennaio 2000), e, ancora, nel
caso soprattutto delle più vecchie, ma non solo, se l’Autore non avesse avuto a
suo tempo la premura di conservarle o farle registrare e, più tardi, le sue figlie,
Annella e Caterina, non mi avessero concesso l’opportunità di consultarle.
4 Quattro sono le raccolte di racconti di Michele Prisco contenenti articoli in
precedenza usciti sui giornali: Fuochi a mare, Milano, Rizzoli, 1957; Punto franco,
Milano, Rizzoli, 1965; Il colore del cristallo, Milano, Rizzoli, 1977; Terre basse,
550 ALESSIA PIRRO [3]
dichiaratamente in parte autobiografico La parabola dello scrittore5,
con le riflessioni da esso scaturite6, nulla si conosce ad oggi sull’attività
giornalistica di Michele Prisco: quella che, in più occasioni,
egli definì il suo “secondo mestiere”7.
A partire proprio da un’interrogazione sul senso dell’espressione
adottata dall’Autore, tre anni fa, in vista della mia tesi di laurea, ho
intrapreso una ricerca sulla produzione giornalistica prischiana.
Attraverso una serie di indagini, condotte tanto presso l’Associazione
della Stampa quanto presso l’Emeroteca Tucci e quella della Biblioteca
Nazionale di Napoli, grazie alla testimonianza di alcuni vecchi
colleghi dell’Autore, quali Lino Zaccaria ed Ermanno Corsi, alla consultazione
di una parte della corrispondenza con Gino Montesanto,
Rocco Scotellaro e Laudomia Bonanni, ma, soprattutto, mediante la
lettura, l’analisi e il tentativo di mettere ordine nella sterminata quantità
di articoli conservati nella casa dello scrittore, in Via Stazio, a
Napoli, mi sono addentrata in molti aspetti ancora ignoti dell’attività
giornalistica di Michele Prisco: dal numero di testate su cui egli scrisse,
di gran lunga superiore a quello finora conosciuto, alla cronologia e
alla consistenza, sia pure ancora approssimative, delle sue collaborazioni;
dalle sue corrispondenze con l’estero al suo ricorso a pseudonimi;
dalle diverse categorie in cui i suoi articoli possono essere iscritti al
suo rapporto con la scrittura giornalistica nel tempo.
A poco a poco, da punto di partenza qual era, la domanda sull’espressione
“secondo mestiere” è divenuta il nucleo di fondo del
mio lavoro. Sempre più mi è apparso chiaro, infatti, che essa rac-
Milano, Rizzoli, 1992. Oltre ai racconti, pur con alcune modifiche, l’Autore ha
raccolto in volume alcuni ricordi di amici e colleghi ed alcuni articoli di viaggio
da lui pubblicati sui giornali: da qui il volume a tiratura limitata Ritratti incompiuti,
Roma, I.P.S. editrice, 1986, riedito dalla stessa casa editrice nel 1987, con
l’aggiunta del ricordo di Antonio Altomonte, e il libro di articoli di viaggio Il
cuore della vita, Torino, SEI, 1995.
5 Id., La parabola dello scrittore, in Il colore del cristallo, cit., pp. 225-228. Sul
carattere in parte autobiografico de La parabola dello scrittore cfr. la risposta di
Michele Prisco all’intervista di Giuseppe Amoroso in G. Amoroso, Michele Prisco,
cit., p. 3 e quella all’intervista di P. Gargano, uscita su «Il Mattino» del 14
febbraio 1978 col titolo La paura del silenzio.
6 Interessante è soprattutto l’analisi di A. Zambardi nel suo saggio Borghesia
e letteratura – Analisi semisociologica dell’immaginario attraverso l’opera narrativa di
Michele Prisco, Roma, Bulzoni, 2002, pp. 143-144.
7 Cfr. in particolare la risposta di M. Prisco all’intervista di G. Marinelli in
Michele Prisco – Una vita per il romanzo, cit., p. 15 e la prefazione dell’Autore al
suo libro Il cuore della vita, cit., p. VII, Giustificazione di un libro.
[4] IL “SECONDO MESTIERE” DI MICHELE PRISCO 551
chiudeva in sé la ragione del disinteresse della critica nei confronti
della produzione giornalistica dell’Autore e, assieme, la necessità di
uno studio in tale direzione. Attorno ad essa si giocava tutta la
problematicità di un’interpretazione di Prisco giornalista: il senso di
quel rapporto, conflittuale per molti versi, ma imperituro che, nell’Autore,
il giornalismo ebbe con la letteratura.
★ ★ ★
La produzione giornalistica prischiana copre un sessantennio di
storia del giornalismo italiano: dagli inizi degli anni Quaranta del
Novecento al principio del Duemila, quasi fino alla morte dello
scrittore, avvenuta nel novembre del 2003.
Nell’arco di tal periodo l’Autore scrisse su ben centootto testate
distribuite sull’intero territorio nazionale: da giornali aventi
un’amplissima diffusione già al tempo in cui egli cominciò a pubblicarvi
i suoi “pezzi”, come «Il Mattino», «Il Messaggero», «Il Secolo
XIX», il «Messaggero Veneto», il «Corriere della Sera», «Il Resto del
Carlino», il «Giornale di Sicilia», «Il Nostro Tempo», a periodici
legati a piccole realtà locali, come «Torrequick» e «Il Giornale di
San Severo», o addirittura di quartiere, come «Il Vomero»; da giornali
appartenenti ai settori più disparati, spesso lontani dalla letteratura,
come «Guerin sportivo», «La Voce dei Sarti», «Cinema d’oggi
», «La Gazzetta delle arti», a riviste, invece, più propriamente
letterarie, alla fondazione di una della quali in particolare, «Le ragioni
narrative»8, egli stesso contribuì; da quotidiani a giornali a
scadenza settimanale, quindicinale, mensile.
Oltre che su testate distribuite in Italia, Prisco scrisse su quattro
testate diffuse all’estero: «Il Popolo italiano», «La Voce d’Italia»,
«Cronaca», «Il Risorgimento», rispettivamente pubblicati negli Stati
Uniti, in Francia, a Il Cairo, a Buenos Aires.
8 Nata nel 1960, la rivista ebbe tra i suoi più stretti collaboratori Domenico Rea,
Mario Pomilio, Luigi Incoronato, Gianfranco Vené. Negli “anni della dissoluzione
programmatica delle forme e delle funzioni del romanzo tradizionale ad opera
delle avanguardie, dell’ecole du regard e poi, in Italia, del Gruppo 63”, essa si propose
una “difesa del romanzo”: “non già [in quanto] […] mero genere letterario,
ma [come] forma-valore dell’umanesimo, struttura antropologica dell’immaginario
chiamata ancora a rappresentare le superstiti ragioni dell’uomo moderno” (E.
Giammattei, Introd. al quinto quaderno della collana “Quaderni del Circolo”, curata
da S.G. Bonsera, Potenza, RCE edizioni, 2000, pp. 12-13). A causa di difficoltà
economiche, la rivista cessò le sue pubblicazioni dopo meno di due anni.
552 ALESSIA PIRRO [5]
In ordine di consistenza delle relative collaborazioni – da quelle
più fitte a quelle più sporadiche a quelle, finanche, isolate – le
testate su cui uscirono articoli dell’Autore sono9:
«Il Mattino» (Napoli), «L’Arena» (Verona), «Il Giornale d’Italia»,
(Roma), «Il Messaggero» (Roma), «La Gazzetta del Mezzogiorno»
(Bari), «Il Resto del Carlino» (Bologna), «Il Secolo XIX» (Genova),
«Gazzetta del Popolo» (Torino), «Il Nostro Tempo» (Torino), «Giornale
di Sicilia» (Palermo), «Il Gazzettino» (Venezia), «Messaggero
Veneto» (Udine), «Idea» (Roma), «La Fiera Letteraria» (Roma), «Il
Tempo» (Roma), «L’Indipendente» (Milano), «Il Giornale dell’Emilia»
(Bologna), «Corriere della Sera» (Milano), «Milano Sera» (Milano),
«Il Giornale» (Napoli), «La Nazione» (Firenze), «Il Nuovo Corriere»
(Firenze), «Il Mattino d’Italia» (Napoli), «La Città» (Salerno), «Corriere
del Mezzogiorno» (Napoli), «Il Lavoro Nuovo» (Genova), «La
Voce» (Napoli), «Gazzetta del Popolo della Sera» (Torino), «Corriere
d’informazione» (Milano), «Il Risveglio di Stabia» (Castellammare
di Stabia), «Giovedì» (Roma), «Guerin sportivo» (Milano), «La Brigata
» (Bologna), «Le ragioni narrative» (Napoli), «La Sicilia» (Catania),
«Il Giornale di Brescia» (Brescia), «Il Vesuvio» (Napoli), «Il
Popolo italiano» (U.S.A.), «Il Tirreno» (Livorno), «Corriere di Sicilia
» (Catania), «Il Risorgimento Nocerino» (Nocera Inferiore), «l’Impegno
» (Nola), «Pomeriggio» (Bologna), «La Provincia» (Como), «La
Voce Repubblicana» (Roma), «Avvenire» (Milano), «Mondo operaio
» (Roma), «Il Risorgimento» (Napoli), «Gazzetta di Parma» (Parma),
«Il Corriere Lombardo» (Milano), «Tre Notizie» (Napoli), «Corriere
di Napoli» (Napoli), «L’Unione sarda» (Cagliari), «Il Progresso
d’Italia» (Bologna), «Gazzetta Veneta» (Padova), «L’Ora» (Palermo),
«Libertà» (Piacenza), «Cronaca» (Il Cairo), «Il Veneto» (Padova),
«Corriere vesuviano» (Napoli), «Noi dell’Aerfer» (Pomigliano d’Arco),
«Meridiano di Roma» (Roma), «Il rievocatore» (Napoli), «La
Caravella» (Roma), «La Lettura» (Milano), «Il Risorgimento» (Buenos
Aires), «Alfabeto» (Roma), «Il Mattino del Popolo» (Venezia), «Gazzetta
Padana» (Ferrara), «La Voce d’Italia» (Francia), «Aristocrazia»
(Sardegna), «Alto Adige» (Bolzano), «Ordine» (Como), «Tempo libero
» (Como), «Bis» (Torino), «La Voce del Mezzogiorno» (Napoli),
9 Tanto l’ordine in cui le testate sono disposte quanto il loro numero riflette
lo stato delle ricerche da me svolte finora nella casa dell’Autore, presso
l’Emeroteca Tucci e quella della Biblioteca Nazionale di Napoli; non pretende
pertanto di essere definitivo.
[6] IL “SECONDO MESTIERE” DI MICHELE PRISCO 553
«Domenica» (Roma), «il Mastro di Posta» (Napoli), «la Settimana
nel Sud» (Salerno), «Il Mondo» (Roma), «Quarta dimensione» (Milano),
«Pattuglia» (Forlì), «Enne Due» (Torre Annunziata), «Quinta
generazione» (Napoli), «Il Vomero» (Napoli), «Stampa Sera» (Torino),
«Corriere della Regione» (Castellammare di Stabia), «Il Giornale
di San Severo» (San Severo), «Proposte» (San Severo), «Nuova
Stagione» (Napoli), «Gazzetta di Mantova» (Mantova), «Questioni
di letteratura» (Giarre), «Il Giornale del Mezzogiorno» (Roma), «Il
Giornale di Vicenza» (Vicenza), «La Città» (Firenze), «La Voce dei
Sarti» (Napoli), «La vetta» (Castellammare di Stabia), «Orizzonti
d’Abruzzo» (Pescara), «Torrequick» (Torre Annunziata), «Il Sabato»
(Milano), «Roma» (Napoli), «Il Popolo del lunedì» (Catania), «Corriere
del Giorno» (Taranto), «La Voce di Napoli» (Napoli), «Italia
oggi» (Milano), «La Gazzetta delle Arti» (Venezia), «Lombardia oggi»
(Varese), «Terrazza» (Napoli), «Sabato sera» (Napoli), «Gazzetta del
Sud» (Messina), «Avanti!» (Roma), «Cinema d’oggi» (Roma).
Non potendo riassumere in questa sede gli esiti di un lavoro che
ha avuto come oggetto un materiale vastissimo ed assai esteso negli
anni e volendo al tempo stesso provare a fornirne la chiave, ritengo
opportuno soffermarmi proprio su quella che, come accennavo, è
stata la domanda da cui esso ha preso le mosse: che cosa intendeva
Michele Prisco con l’espressione “secondo mestiere”? che cosa rappresentò,
in ultima analisi, per lui l’attività giornalistica?
★ ★ ★
Nel 1998, quando Gioconda Marinelli gli chiede “[…] cosa ne
pensa del suo lavoro di giornalista?”10, Michele Prisco precisamente
risponde:
Brutalmente ho sempre considerato il lavoro giornalistico il mio gagnepain,
diciamo il mio “secondo mestiere”, dal momento che non sono
un narratore, anche se di buon successo medio, che possa vivere
solo dei rendiconti dei suoi diritti d’autore. […]11.
Ancor prima, nel racconto La parabola dello scrittore, uscito il 1°
novembre 1976 sul «Corriere della Sera» e confluito l’anno seguente
nella raccolta Il colore del cristallo, egli scrive:
10 G. Marinelli, in Id., Una vita per il romanzo, cit., p. 15.
11 Id., Una vita per il romanzo, cit., p. 15.
554 ALESSIA PIRRO [7]
[…] viveva in un paese nel quale i guadagni dei diritti d’autore non
erano mai tali da consentire una piena indipendenza economica anche
ad uno scrittore che, come lui, potesse considerarsi mediamente un
autore di successo, sicché come a quasi tutti i suoi colleghi gli toccava
d’esercitare un secondo mestiere. […] molti suoi colleghi lavoravano
nel cinema o alla televisione […]; altri erano consulenti di
case editrici e maneggiavano dunque grosse leve di potere […]; altri
infine svolgevano un lavoro del tutto differente – erano medici o
funzionari statali o professori eccetera […]. Col più modesto ruolo di
collaboratore alla terza pagina dei giornali lui aveva ritenuto d’aver
risolto la quadratura del cerchio, come si dice: insomma si sentiva in
pace – anche col suo bilancio domestico12.
Dai passi riportati – i più noti sull’argomento, perché entrambi
pubblicati in volume – emerge una visione utilitaristica del giornalismo:
il giornalismo è presentato come un mezzo per guadagnare
il pane (un gagne-pain13, dice l’Autore), un’attività da affiancare alla
stesura di romanzi e racconti al fine di garantire a chi scrive un’indipendenza
economica.
In linea con tale visione, congiunta, come è suggerito nella stessa
Parabola dello scrittore14, al più vasto processo di delegittimazione del
fare letterario da tempo in atto in Italia e alla conseguente necessità
per gli scrittori di trovare nuove e diverse forme di sostentamento
accanto alla scrittura narrativa15, l’espressione “secondo mestiere”,
presente in tutti e due i passi citati, sembrerebbe avere né più né
meno che il significato di “mestiere aggiunto”.
Una visione utilitaristica del giornalismo, a ben vedere, è al fondo
anche di alcuni racconti di Michele Prisco usciti sui giornali nel
corso degli anni.
Accomunati dalla presenza di uno scrittore-giornalista, la cui voce
di solito coincide con quella del Narratore, e quasi tutti in prima
persona, Fogli ingialliti16, Racconto su Anna17, Un trasloco movimenta-
12 Id., La parabola dello scrittore, in Il colore del cristallo, cit., p. 226.
13 Id., Una vita per il romanzo, cit., p. 15.
14 Id., La parabola dello scrittore, in Il colore del cristallo, cit., p. 226.
15 Sulla necessità per gli scrittori italiani di ricorrere ad un “secondo mestiere”
per assicurarsi un’indipendenza economica cfr. anche le osservazioni di
Prisco nell’intervista televisiva di Vincenzo Manganiello del 20 marzo 1983, in
V. Manganiello, Incontri. Interviste con 26 napoletani, Napoli, Fiorentino, 1983,
pp. 338-339.
16 Id., Fogli ingialliti, «Tre Notizie», 13 dicembre 1953.
17 Id., Racconto su Anna, «Il Mattino», 10 marzo 1954.
[8] IL “SECONDO MESTIERE” DI MICHELE PRISCO 555
to18, Sul terrazzo19, Racconto su Antonia20, Le due telefonate21, più che
sull’aspetto funzionale dell’attività giornalistica insistono, tuttavia,
sull’aspetto emotivo legato a quest’ultima, sullo stato d’animo dello
scrittore che collabora ai giornali: quello che, ne La parabola dello
scrittore, proprio in relazione al giornalismo, l’Autore indica come
“la fatica del ‘secondo mestiere’”22:
[…] non avevo voglia di lavorare eppure bisognava mi costringessi
al tavolino per scrivere i due “pezzi” regolamentari da mandare al
giornale, (il mese sta per finire), e allora per svegliare le idee e
scaldarmi la mente mi sono messo a spolverare i libri levandoli dalle
scansie e ingombrando la stanza.
[…]
Rimettiamoci a tavolino, cerchiamo almeno di scrivere un pezzo, dei
due che mi occorrono: la mattinata non sarà sprecata […]23.
…
[…] mi son messo una vecchia coperta sulle gambe, nello studio, e
ho già consumato inutilmente e oziosamente un paio di sigarette
nell’attesa di riscaldarmi, soprattutto dentro di me, per scrivere un
pezzo da mandare al giornale. Il quaderno è aperto sulla scrivania,
la pagina è bianca, non ho nemmeno segnato il titolo, mi verrà
dopo. E non ho idee: o più esattamente, le ho confuse, ancora annebbiate:
la verità è che non mi va di scrivere un pezzo su commissione.
Bisognerà pure che mi risolva: il giornale lo richiedeva in un termine
perentorio che a giorni scade, ho paura, e tuttavia fisso svogliatamente
il foglietto a quadretti che resta vuoto24.
…
Fu un paio d’anni fa, in piena estate, e in occasione del trasloco
ormai imminente, che mi pervenne un invito a scrivere un pezzo
sulla “jettatura” per un almanacco che si andava preparando. […]
Se c’è una cosa in cui non credo è la jettatura; se c’è una cosa che
m’infastidisce è questo perenne, superficiale riferimento alla napoletanità
come capacità di colore […]25.
18 Id., Un trasloco movimentato, «Il Mattino», 4 febbraio 1961.
19 Id., Sul terrazzo, «Il Mattino», 31 luglio 1965.
20 Id., Racconto su Antonia, «Il Mattino», 14 aprile 1970.
21 Id., Le due telefonate, «Il Mattino», 14 febbraio 1966. Il racconto sarà ripubblicato
il 18 marzo 1966 sulla «Gazzetta del Popolo» col titolo Cose di mestiere.
22 Id., La parabola dello scrittore, in Il colore del cristallo, cit., p. 226
23 Id., Fogli ingialliti, cit.
24 Id., Racconto su Anna, cit.
25 Id., Un trasloco movimentato, cit.
556 ALESSIA PIRRO [9]
…
Da poco è passata la mezzanotte: entra, dai balconi aperti sul terrazzo,
il leggero vento marino che assottiglia l’aria e dà il senso della
città addormentata, sono pochi e radi ormai quassù i rumori […].
[…] ritorno alla scrivania. Devo scrivere l’elzeviro per il giornale, ma
non ho proprio idee, questo è il fatto. Una macchina passa romandando
sulla strada, dev’essere del tutto vuota la strada a quest’ora:
sarebbe bello camminarci adagio, con un amico accanto, parlando di
libri: come ai bei tempi della giovinezza26.
…
[…] io qui alla scrivania già da un’ora non faccio che distrarmi,
perdere tempo, mettere un disco dopo l’altro, aspettando di riscaldarmi,
se così posso dire, per scrivere un pezzo da mandare al
giornale. Forse non è una giornata felice (dico per me, per il lavoro);
forse ancora non mi sono completamente riadattato alla nuova stanza
(abbiamo cambiato casa di recente […]): il fatto è che il quaderno,
davanti, è ancora intatto, e lo sguardo sull’onda della musica si
distrae e guarda fuori.
[…] l’importante è scrivere il pezzo. Speriamo di farcela27.
…
Comprato il giornale, lo apriva subito, immancabilmente, alla terza
pagina: quando vi trovava un suo articolo due pensieri uguali e
contrari gli attraversavano simultanei la mente: uno era quello, rasserenante,
che gli traduceva nella cifra del compenso le colonne di
stampa, e lo faceva respirare di sollievo all’idea che per il mese
venturo era assicurata una somma base; l’altro era quello del prossimo
articolo da scrivere e inviare, e lo faceva sospirare di pena
all’immediata ricerca d’un appiglio che gli offrisse la possibilità di
poter scrivere qualcosa. 28
Anche da una rapida scorsa ad alcuni stralci dei racconti in
questione, viene fuori l’immagine di uno scrittore-giornalista nell’attesa
spossante, e spesso affannosa, di rintracciare spunti per i suoi
“pezzi”; incalzato dalle scadenze imposte dal giornale per cui lavora;
in certi casi infastidito dall’invito a scrivere su un determinato
tema o all’improvviso preso dalla nostalgia dei libri: sempre di-
26 Id., Sul terrazzo, cit.
27 Id., Racconto su Antonia, cit.
28 Id., Le due telefonate, cit.
[10] IL “SECONDO MESTIERE” DI MICHELE PRISCO 557
midiato tra il bisogno di assicurarsi una somma base per il mese
venturo e l’obbligo di sottostare a regole che con l’estro sembrano
avere poco a che fare.
Il giornalismo, nei racconti citati, non appare più soltanto come
un “mestiere aggiunto”, come un’attività collaterale alla scrittura
narrativa senza che su di essa ricadano giudizi di sorta, ma come
un’attività che richiede compromessi ad uno scrittore, e che molte
volte è sofferta.
A partire dai racconti, il senso dell’espressione “secondo mestiere”,
dunque, si complica: accanto al significato immediato, neutrale,
di “aggiunto al primo”, a cui si accennava all’inizio, nell’aggettivo
“secondo” cominciano a insinuarsi i significati di “altro”, di “nuovo”,
di “differente rispetto al primo”, quando non addirittura quello
di “inferiore al primo per valore e importanza”.
Inizia a profilarsi, sin dai racconti di Prisco, la questione del
rapporto tra giornalismo e letteratura, sebbene in essi sia prospettata
in un unico modo, traducibile in una sostanziale estraneità tra i
due o, quanto meno, in una loro forte conflittualità.
Tal modo di intendere il rapporto tra giornalismo e letteratura è
esemplificato in particolare nel racconto Le due telefonate (il solo, di
quelli menzionati, in cui ricorre l’espressione “secondo mestiere”):
G. […] tu sai bene che non si può mai giudicare uno di noi dalle
cose che scriviamo sui giornali: è il nostro secondo mestiere, questo
[…]
F. […] siamo per i primi convinti che le nostre cose di mestiere non
valgono niente […]
G. […] lo sappiamo no?, che son cose di mestiere! […]29.
Lo scambio di battute che intercorre tra i tre scrittori-giornalisti
protagonisti del racconto, con il suo completo disconoscimento del
prodotto giornalistico rispetto a quello letterario, rappresenta la manifestazione
più estrema di quella visione, utilitaristica e cupa insieme,
che si coglie nei racconti dell’Autore contenenti un riferimento
all’attività giornalistica.
Pur senza arrivare alle conclusioni radicali incluse nel racconto
Le due telefonate, una visione del giornalismo analoga a quella che
si desume dai racconti, in parte affidata agli stessi motivi, si ritrova
in Prisco anche al di fuori di un contesto narrativo: in partico-
29 Ibidem.
558 ALESSIA PIRRO [11]
lare, negli articoli L’elzeviro di Clotilde30 e Qualche ritocco: la maturità
va31.
Nel primo, un ricordo della scrittrice-giornalista Clotilde Marghieri,
pubblicato a quasi due anni dalla sua scomparsa su «Il
Mattino» del 1983, l’Autore mette in evidenza il diverso approccio
che, al momento di redigere un “pezzo”, contraddistingue uno scrittore
che collabora ai giornali rispetto ad un giornalista di professione;
e, soprattutto, sottolinea il disagio provato dallo scrittore nel
dover imporsi uno “spazio”32:
[…] il giornalista di professione che si accinge a scrivere un pezzo, e
quasi sempre su commissione, si mette alla macchina da scrivere e in
breve tempo riempie le cartelle prescritte (che adesso, con le nuove
tecnologie, sono fatte in modo da regolare le righe e le battute, così
che in precedenza l’impaginatore sa quanto spazio debba calcolare).
Anche lo scrittore che collabora a un quotidiano è munito delle
stesse cartelle (provvede a dargliele il giornale), solo che egli è abituato
a scrivere a mano e, dopo che ha corretto quanto ha scritto,
ricopia a macchina e spesso, non avendo bene fatto i calcoli, deve
sul dattiloscritto tagliare o aggiungere e, di conseguenza, nuovamente
ricopiare33.
Sempre nel medesimo articolo, dopo un elogio della scrittura,
Prisco ancora puntualizza:
Nessun’altra attività, forse, provoca, tante emozioni e tumulti e piaceri;
solo che vi si aggiunge, se siamo obbligati a scrivere per un
giornale su un tema, che di solito ci è richiesto, anche una sorta di
lacerazione, il conflitto in altri termini, di dover svolgere un compito
e il sentimento di volerlo svolgere senza tradire la propria libertà
interiore34.
L’insofferenza provocata dalla necessità di vincolare la scrittura
ad uno spazio preciso e di affrontare un tema piuttosto che un altro
è ribadita nel secondo articolo.
Scritto in risposta ad una lettera pubblicata sul giornale salernitano
«La Città», nell’ambito di una rubrica tenuta dall’Autore nel 1996,
esso possiede una forza polemica ancora maggiore del precedente,
30 Id., L’elzeviro di Clotilde, «Il Mattino», 14 maggio 1983.
31 Id., Qualche ritocco: la maturità va, «La Città» (Salerno), 30 giugno 1996.
32 Id., L’elzeviro di Clotilde, cit.
33 Ibidem.
34 Ibidem.
[12] IL “SECONDO MESTIERE” DI MICHELE PRISCO 559
probabilmente attribuibile al fatto che, anziché limitarsi a fare delle
generiche considerazioni sull’attività dello scrittore-giornalista, anziché
riferirsi ad un ipotetico scrittore-giornalista, stavolta Prisco esprime
una sua reazione in quanto scrittore-giornalista.
Proprio come alcuni racconti, il “pezzo” comincia con una lamentela,
che, nel caso specifico, suona quasi una rimostranza:
Lo sapevo, anzi lo temevo: l’esame di maturità è una scadenza, e le
scadenze sono implacabili. Ma ancor più implacabile è la scadenza
d’esserne chiamato a scriverne: voglio dire che ogni anno, nell’attesa
o in coincidenza con le prime prove scritte affrontate dagli studenti,
chi si trova a collaborare ad un quotidiano non sfugge alla richiesta
del direttore o del redattore alla cultura di scrivere un articolo o
anche trenta righe (perché nei giornali, come saprà, i “pezzi” sono
commissionati matematicamente: hanno, d’altronde, per esigenze di
spazio, una misura, una lunghezza deputata non alla fantasia o all’estro
dello scrivente ma alla necessità del committente o meglio del
menabò), di riflessione o ricordo o semplicemente di divagazione su
questa esperienza […].
Quest’anno la sua lettera ha sostituito la richiesta del direttore, ma
le cose non cambiano35.
Al di là del carattere fittizio o meno delle lettere uscite su «La
Città», come in fondo dello stesso tono polemico adottato dall’Autore
(che potrebb’essere, sì, il segno di un autentico sfogo, ma anche
un atto di provocazione “dovuto”, richiesto da un giornalismo ormai
estenuato), la visione del giornalismo che traspare dall’articolo
è coerente con quella fin qui delineata.
Dal complesso dei documenti presi in considerazione (dalla risposta
di Prisco alla domanda sul suo lavoro di giornalista rivoltagli
dalla Marinelli nel 1998 al passo tratto da La parabola dello scrittore
del 1976, dai racconti usciti sui giornali tra la metà degli anni
Cinquanta e gli anni Settanta in cui compare uno scrittore-giornalista
agli estratti degli articoli L’elzeviro di Clotilde e Qualche ritocco: la
maturità va, rispettivamente del 1983 e del 1996), emerge una visione
dell’attività giornalistica priva di contraddizioni.
Nel solco di tale visione per lo più si è mossa la critica finora.
Trascurando la questione del rapporto tra giornalismo e letteratura
o meglio affrontandola nei termini in cui essa è stata sopra
illustrata – quelli di una sostanziale estraneità o di una forte conflittualità
tra i due ambiti –, la critica ha finito per incunearsi in una
35 Id., Qualche ritocco: la maturità va, cit.
560 ALESSIA PIRRO [13]
lettura dicotomica dell’attività prischiana (la letteratura da un lato,
il giornalismo dall’altro) e per concentrarsi unicamente su quella
parte della produzione giornalistica dell’Autore da lui ritenuta meritevole
di assurgere a testo letterario.
In conseguenza di questa visione e di quest’atteggiamento della
critica, non solo è calata un’ombra sulla produzione giornalistica di
Michele Prisco non confluita nei suoi libri, ma, soprattutto, è rimasta
in sospeso, non indagata fino in fondo, la questione del rapporto
tra giornalismo e letteratura nell’Autore.
A spingere in una direzione diversa da quella in cui fino ad oggi
ha proceduto la critica è, però, Prisco stesso: non solo attraverso la
costante trasmigrazione dei suoi pezzi giornalistici nella sua produzione
letteraria e, viceversa, già di per sé testimonianza incontrovertibile
di un raccordo da lui voluto, pensato, tra giornalismo e
letteratura e, quindi, stimolo ad approfondire la conoscenza della
sua produzione giornalistica, ma anche attraverso una particolare
visione del giornalismo che, in contrasto con quella fin qui tratteggiata,
è presente qua e là nei suoi scritti.
Pur non tradendo la sua immagine di “animale narrativo”36, anzi,
piuttosto rimarcandola, in alcuni passi, parte dei quali contenuti in
quegli stessi scritti di cui si è fatta menzione, l’Autore rappresenta
il giornalismo come un’attività piacevole per uno scrittore, capace
di procurargli delle soddisfazioni, non in conflitto con la letteratura.
Nel racconto La parabola dello scrittore, dove pure, come si è osservato,
egli accenna alla “fatica del ‘secondo mestiere’”37, a un certo
punto è descritto il gradevole abbandono con cui il protagonista,
dietro cui si intravede l’Autore, si appresta a scrivere un suo articolo:
[…] scrivere a sera nel silenzio dello studio un racconto – fra i libri
e i quadri, e in sottofondo un disco – gli procurava ogni volta una
leggera eccitazione, uno stato d’amabile euforia. Era una sorta d’appuntamento
misterioso a cui sentiva di non poter mancare e che
d’altronde, per il primo, non voleva mancare38.
Il riferimento, qui, è ad una fase specifica della collaborazione ai
giornali: al “tempo, [in cui] lo scrittore dedicava la sua attività in
prevalenza ai racconti”39.
36 Id., La parabola dello scrittore, cit., p. 227.
37 Ivi, p. 226.
38 Ibidem.
39 Ivi, p. 225.
[14] IL “SECONDO MESTIERE” DI MICHELE PRISCO 561
Antecedente al “cambio di rotta”40 che intorno agli anni Settanta
sarebbe intervenuto nella storia della “terza pagina”, e che di lì a
poco sarà ricordato anche da Prisco nel racconto, esso è presentato
come un tempo appagante, anche dal punto di vista del rapporto
coi lettori:
[…] non riteneva ancora di aver un pubblico ma sapeva, questo sì,
che la sua firma cominciava ad essere cercata, sul giornale, da una
ristretta cerchia di lettori i quali ormai di lui avevano imparato a
riconoscere, e forse ad amare, il timbro della prosa, l’intonazione del
taglio narrativo, il clima evocativo: era, questo legame sotterraneo tra
lui e i lettori, il frutto più soddisfacente della sua attività, quello che
in qualche modo dava un senso alla fatica del “secondo mestiere”41.
“[…] col tempo aveva finito con l’affezionarsi a questo suo lavoro”
42, scrive ancora l’Autore ne La parabola dello scrittore, anche stavolta
alludendo ad una fase iniziale della collaborazione ai giornali,
fondata principalmente sui racconti.
Nell’articolo L’elzeviro di Clotilde, come si è notato, Prisco
evidenzia le difficoltà e le lacerazioni interiori a cui va incontro
uno scrittore che collabora ai giornali. Nello stesso articolo egli
afferma che uno scrittore considera i suoi “pezzi” giornalistici “sempre
un po’ scritti con la mano sinistra”43 (concetto questo già espresso,
e in maniera ben più incisiva, come si è visto, nel racconto Le
due telefonate); con amarezza rileva il carattere effimero dell’articolo
di giornale: “come la rosa del poeta, l’articolo vive solo l’espace
d’un matin”44, egli scrive.
Eppure, anche nell’articolo L’elzeviro di Clotilde, proprio come nel
racconto La parabola dello scrittore, da alcune frasi, da alcune dichiarazioni,
da alcuni ricordi, trapela un forte attaccamento al giornalismo,
sia pure ad un certo tipo di giornalismo:
[…] Clotilde Marghieri apparteneva a quella famiglia di scrittori (di
cui, probabilmente, in qualche modo partecipo anch’io) destinata fra
breve a scomparire del tutto dalle pagine dei quotidiani.
Oggi per questo tipo di collaboratori lo spazio sui giornali si fa
sempre più esiguo: scrivere un elzeviro, abbandonandosi ai propri
umori o, nel caso di dover parlare d’un libro, prendere pretesto dal
40 Ivi, p. 227.
41 Ivi, pp. 225-226.
42 Ivi, p. 226.
43 Id., L’elzeviro di Clotilde, cit.
44 Ibidem.
562 ALESSIA PIRRO [15]
volume in questione non per informare della sua uscita o recensirlo
ma per compiere un viaggio anche all’interno di se stessi, se quel
libro risveglia consonanze o allarmi, è un genere di collaborazione
che i giornali non amano più; tallonati, come sono, dall’ansia dell’attualità,
della cronaca, dell’immediato45.
Il rimpianto per la scomparsa dell’amica e collega Clotilde
Marghieri si fonde nell’articolo con il rimpianto di una stagione giornalistica,
di un determinato modo di fare giornalismo: più vicino agli
interessi di uno scrittore, e in cui Prisco stesso pare si riconosca.
Leggendo, talvolta ri-leggendo, i “pezzi” della scrittrice-giornalista
per preparare un discorso commemorativo che avrebbe dovuto tenere
su di lei – racconta l’Autore sempre nell’articolo L’elzeviro di Clotilde
– egli ne scopre “la […] tenuta, la […] freschezza, […] la […] attualità
[…], […] [in alcuni casi] la […] forza d’anticipazione”46:
Quei pezzi non sono invecchiati. Segno che Clotilde restava scrittrice
anche quando si mutava in giornalista; segno che quelle trepidazioni,
e quella fatica nel redigere il pezzo, approdavano sempre a un risultato
compiuto47.
A volte, quindi, per Prisco, un articolo di giornale riusciva anche
a superare lo “spazio di un mattino”.
Oltre che nel racconto La parabola dello scrittore e nell’articolo
L’elzeviro di Clotilde, una visione positiva del giornalismo si ritrova
ancora in molti passi della produzione giornalistica prischiana.
Per lo più si tratta di passi in cui l’Autore si concentra su alcuni
periodi della storia del giornalismo italiano:
[…] il tempo glorioso e battagliero del vecchio giornalismo napoletano,
fatto di polemiche, di passioni, di duelli che ferivano e di
articoli che colpivano al cuore, di personaggi curiosi e diversi fra
loro ma tutti uniti da un solo ideale […]48;
il tempo dell’elzeviro, intendendo, però, per “elzeviro”
[…] non […] quel genere letterario prossimo alla prosa d’arte che
negli […] anni si era trasformato unicamente in un saggio di vacuo
calligrafismo, di bella (e inutile) scrittura sino alla stucchevolezza,
così da mettere a ragione la sua scomparsa […] [ma] quel «pezzo»
45 Ibidem.
46 Ibidem.
47 Ibidem.
48 Id., A Palazzo Brancaccio una enciclopedia mobile, «L’Arena», 6 agosto 1952.
[16] IL “SECONDO MESTIERE” DI MICHELE PRISCO 563
fatto di moralità […] e rievocazione memoriale d’un personaggio,
d’un luogo, di un avvenimento, che ha costituito in passato la forza
della nostra letteratura […]49.
Di solito in essi ricorrono nomi di giornalisti nei quali “l’equazione
giornalismo-letteratura”50 si è risolta felicemente secondo Prisco;
vengono ricordati Fracchia, Alvaro, Piovene, Emanuelli, i “pezzi [dei
quali sono] nati solo all’apparenza dall’occasione”51, nota l’Autore;
Pier Angelo Soldini, nel quale “il giornalista non ha ucciso […] il
narratore”52; Giovanni Artieri, che ha saputo mescolare “alla socievolezza
di lettura dell’alto giornalismo la validità espressiva della
prosa fantastica”53; e ancora, Bilenchi, esempio di “scrittore [che], pur
senza rinunciare alla letterarietà della propria pagina, ha mutuato dal
giornalista il segreto di farsi leggere”54; Sinisgalli, ai cui elzeviri Prisco
dedica un lungo articolo55 intriso di ricordi personali risalenti agli
anni in cui il poeta lucano collaborava a «Il Mattino»; Giovan Battista
Angioletti ed Emilio Cecchi, elzeviristi di cui, come confesserà l’Autore
ad Ermanno Corsi, “[è stato] molto utile assorbire la lezione”56.
Più che alcune parti del racconto La parabola dello scrittore e dell’articolo
L’elzeviro di Clotilde, più che le considerazioni e i giudizi su
alcuni periodi o autori del giornalismo italiano, disseminati nella
sua produzione giornalistica, il documento che meglio attesta in
Michele Prisco l’esistenza di una visione positiva del giornalismo,
di un suo apprezzamento associato alla contemplazione della possibilità
di una convergenza tra esso e la letteratura è, tuttavia, la
risposta da lui fornita nell’inchiesta del 1957 Il giornalismo ha un’influenza
sulla letteratura?57.
In essa l’Autore fa esplicita menzione di un giornalismo “nel
quale uno scrittore non perde nulla delle proprie sollecitazioni e del
proprio lavoro”58, conserva la sua “funzione di mediatore”59.
49 Id., Viaggio nel tempo senza calendario, «Il Nostro Tempo», 18 ottobre 1992.
50 Id., Penultima Napoli, «L’Arena», 20 marzo 1964.
51 Id., in Il giornalismo ha un’influenza sulla letteratura?, «La Discussione», 14
luglio 1957.
52 Id., Due libri italiani, «L’Arena», 13 dicembre 1958.
53 Id., Penultima Napoli, cit.
54 Id., Due libri italiani, cit.
55 Id., Gli elzeviri di Sinisgalli, «Il Nostro Tempo», 15 gennaio 1984.
56 Id., in E. Corsi, Lo scrittore che ha firmato 5mila articoli, cit.
57 Il giornalismo ha un’influenza sulla letteratura?, cit.
58 Id., in Il giornalismo ha un’influenza sulla letteratura?, cit.
59 Ibidem.
564 ALESSIA PIRRO [17]
Tal tipo di giornalismo, secondo Prisco, va distinto da uno basato
sulla “pura e […] bruta notizia informativa”60; ed è da lui definito
“superiore”61.
L’immagine compatta del giornalismo delineata all’inizio, a questo
punto, risulta infranta: non solo, in realtà, dalla risposta appena
citata, ma da una lettura attenta di tutti gli ultimi documenti presi
in esame.
A volte dichiarata espressamente (come nel caso, appunto, della
risposta all’inchiesta), altre volte implicita, sottesa, in tutti è possibile
cogliere, infatti, una contrapposizione tra due forme di giornalismo,
tra due modi di intendere e di fare giornalismo. In tutti è
possibile ravvisare una polarizzazione.
Ecco, dunque, il giornalismo fondato soprattutto sui racconti e
quello in cui i racconti non sono più richiesti62; gli elzeviri e le
recensioni di Clotilde Marghieri – esempio di un giornalismo animato
dal desiderio di durare nel tempo (e non a caso spesso repertorio
a cui attingere per raccolte in volume) – e gli articoli, invece,
ancorati all’attualità63, alla cronaca, all’immediato, quasi sempre
destinati a durare né più né meno che lo “spazio di un mattino”; “il
tempo […] del vecchio giornalismo napoletano”64 e quello in cui
esso è percepito come “un’epoca ormai tramontata”65; il “’pezzo’
fatto di moralità […] e rievocazione memoriale”66 (il “vecchio classico
elzeviro, che [per uno scrittore] resta sempre la più libera, e la
più amata, […] fra le collaborazioni a un giornale”67), e il “saggio di
vacuo calligrafismo, di bella (e inutile) scrittura”68, estenuazione di
quel genere letterario “che ha costituito in passato la forza della […]
letteratura [italiana]”69; i giornalisti nei quali “l’equazione giornali-
60 Ibidem.
61 Ibidem.
62 Id., La parabola dello scrittore, cit., p. 227. “Per cominciare: niente più racconti”,
“Il pubblico ormai rifiutava i racconti […]”.
63 È interessante notare come nell’articolo L’elzeviro di Clotilde, cit. il termine “attualità”
acquisti una diversa accezione a seconda della forma di giornalismo di cui
l’Autore sta trattando: in una parte dell’articolo essa è “ciò che avviene nel momento
presente”; in un’altra – quella in cui Prisco si riferisce ai “pezzi” della Marghieri – è,
invece, “ciò che continua a suscitare interesse nel momento presente”.
64 Id., A Palazzo Brancaccio una enciclopedia mobile, cit.
65 Ibidem.
66 Id., Viaggio nel tempo senza calendario, cit.
67 Id., L’elzeviro di Clotilde, cit.
68 Id., Viaggio nel tempo senza calendario, cit.
69 Ibidem.
[18] IL “SECONDO MESTIERE” DI MICHELE PRISCO 565
smo-letteratura”70 si è risolta felicemente e quelli in cui essa non è
riuscita o magari neppure si è posta; un giornalismo nel quale uno
scrittore sembra non perdere nulla e uno, al contrario, in cui sembra
perdere tutto.
Profilando l’idea di un giornalismo non in disaccordo con la
letteratura, ma che, anzi, addirittura, si iscriva nel solco della letteratura,
la polarizzazione ravvisabile negli scritti, nelle annotazioni,
nelle risposte di Prisco induce a riconsiderare la questione del rapporto
tra giornalismo e letteratura nell’Autore, imponendo, fra l’altro,
una nuova riflessione sull’espressione “secondo mestiere”.
Basata, come si è visto, su una serie di stralci di racconti, di estratti
di articoli, di affermazioni di Prisco, in cui il rapporto tra giornalismo
e letteratura o non è proprio messo in rilievo o è rappresentato
in termini di alterità, quando non di contrasto, l’interpretazione dell’espressione
“secondo mestiere” tenuta in conto finora scopre i suoi
limiti nel momento in cui ci si imbatte nella rappresentazione, e in
alcuni casi nella perorazione, di un giornalismo che rechi in sé lo
sforzo di restar letterario. Ai significati in precedenza rilevati di semplice
“mestiere aggiunto” o di “mestiere altro” o di “mestiere inferiore
per valore e importanza” rispetto alla letteratura, alla luce degli
ultimi documenti analizzati, non si può fare a meno di affiancare
quello di “mestiere subordinato” alla letteratura: non nell’accezione,
ancora una volta deteriore, di “inferiore”, di “subalterno”, ma in quella
di “ciò che è sotto la direzione”, di “ciò che guarda”, di “ciò che ha
come obiettivo”, di “ciò che tende a” la letteratura.
Più che per il significato aggiunto alla visione prischiana del
giornalismo, e quindi al senso dell’espressione “secondo mestiere”,
la polarizzazione individuata nell’Autore è interessante, però, per
un altro motivo: per la tensione che essa introduce tra questo significato
aggiunto ed il suo opposto, tra un prodotto giornalistico in
cui “l’equazione giornalismo-letteratura”71 è perfettamente riuscita
ed uno, invece, che con la letteratura non ha nulla a che fare.
Tale tensione, in uno studio su Michele Prisco giornalista, è centrale.
Con i suoi due estremi, ma anche con tutta la gamma di livelli
intermedi che essa include tra i due, con tutti i possibili prodotti
giornalistici intermedi che essa comprende al suo interno, tale tensione
dà conto della pluralità di significati, di attribuzioni di valore,
70 Id., Penultima Napoli, cit.
71 Ibidem.
566 ALESSIA PIRRO [19]
di visioni rintracciabili nell’Autore rispetto al giornalismo. Non ad
un solo, unico giornalismo, evidentemente si riferisce Prisco nei
diversi contesti, ma a più forme, a più tipologie, a più idee di
giornalismo, differenti tra loro; da qui, la manifestazione di un suo
disuguale stato d’animo rispetto al giornalismo, e talvolta giudizio.
Soprattutto, però, ed è questo, poi, l’aspetto che più interessa, la
tensione indicata è insita alla produzione giornalistica dell’Autore.
Lo si vede bene ad uno sguardo diacronico.
Prendendo le distanze da una rappresentazione della produzione
giornalistica prischiana come insieme monolitico e indifferenziato
ed esaminando i singoli “pezzi” pubblicati dall’Autore nel tempo, ci
si accorge, infatti, di differenze e sfumature, si individuano fasi
produttive con caratteristiche diverse; si constata insomma, che il
rapporto tra giornalismo e letteratura, in Michele Prisco, non si
declinò sempre in un solo modo.
Dall’iniziale ricerca di uno spazio letterario sui giornali degli
anni Quaranta e Cinquanta del Novecento al progressivo estendersi
dell’impegno giornalistico del’Autore a campi quali la critica letteraria,
quella d’arte e cinematografica; dalla tendenza di Prisco a
preservare nei suoi articoli un’impronta narrativa anche quando sui
giornali cominciarono a non essere più richiesti racconti – proprio
come attestano tanto i suoi testi al mezzo tra recensione e racconto
quanto i suoi ricordi di scrittori ritratti come personaggi quanto la
sua stessa lingua, spesso ipotattica e ricca di incisi come nei romanzi
– al graduale prevalere del commento sulla diegesi, alla crescente
invasione, nei suoi “pezzi”, della cronaca, dell’attualità, del costume,
in linea con i mutamenti della “terza pagina”, fino ad arrivare
a quella sorta di “presenzialismo dello scrittore”72, che l’Autore sentì
pericolosamente incalzare agli inizi degli anni Settanta73 (forse
addirittura ancor prima!74), e in cui, alla fine, pur’egli incorse, la
produzione giornalistica prischiana viene a configurarsi come un
terreno in cui agiscono spinte contrapposte.
72 Id., Vita e morte dell’elzeviro, «Il Nostro Tempo», 20 settembre 1987.
73 Id., Scrittore e personaggio, «Corriere della sera», 16 gennaio 1973. “Oggi, in
piena euforia e dannazione consumistica, […] l’impegno dello scrittore sembra
ormai volontariamente confinato al superstite fervore delle ‘firme’ che ne prolunga
quella falsa immagine di eterno disponibile pronto a dare la sua opinione
sui più disparati fatti di cronaca o di costume”.
74 Cfr. Id., La macchina della sopraffazione, «Le ragioni narrative», Anno II, n.
2. (Il saggio è integralmente riportato in Michele Prisco – Le ragioni narrative, cit.,
pp. 65-74).
[20] IL “SECONDO MESTIERE” DI MICHELE PRISCO 567
Svelata in tutta la sua evidenza da un raffronto tra il punto di
partenza e quello d’approdo della collaborazione di Michele Prisco
ai giornali, la dialettica presente nella produzione giornalistica
prischiana – quella tensione a cui si accennava poc’anzi – sovente
permea di sé un medesimo articolo, rendendone difficile l’inquadramento
in una categoria precisa.
La difficoltà di legare gli articoli dell’Autore a delle categorie
definite riguarda in particolare la produzione degli anni Settanta:
periodo di forte frizione tra un giornalismo letterario ed uno che,
invece, alla letteratura iniziava a preferire altri ambiti e che alla
mediazione letteraria sempre più sostituiva nuovi approcci al reale.
In generale, però, è chiaro che, all’interno di un percorso giornalistico
così dilatato nel tempo e a cui è connaturata una tensione di
fondo, come quello di Michele Prisco, siano piuttosto frequenti oscillazioni,
innesti, rotture rispetto ad una certa modalità di scrittura
giornalistica ed improvvisi ritorni ad essa, compromessi e tentativi,
più o meno riusciti, di liberarsene.
Da qui, la necessità di considerare con cautela il ricorso, pur
funzionale, a fasi e categorie in un’analisi di Prisco giornalista.
Da qui, la necessità di considerare con cautela l’uso di definizioni
(o di etichette) per la produzione giornalistica prischiana.
La stessa espressione “secondo mestiere”, in fondo, con la molteplicità
di significati e di valenze che è possibile cogliere in essa, è
senza dubbio un indizio della complessità del discorso critico su
Prisco giornalista, tuttavia non lo esaurisce!
Si potrebbe notare, per esempio, che essa stride con alcune “dichiarazioni”
dell’Autore, che mettono al primo posto la sua attività
di giornalista piuttosto che quella di scrittore: si pensi alla risposta
data al tassista nel divertente articolo Il tifoso di Ungaretti75 o, ancora,
a quella del personaggio, dietro cui pure pare si intraveda l’Autore,
del racconto Il collega76.
In realtà, però, valutando le parole di Prisco all’interno dei rispettivi
contesti, si comprende subito che esse sono nient’altro che
il segno di una pudica reticenza:
Una sera di primavera inoltrata, quando le giornate son lunghe e la
75 Id., Il tifoso di Ungaretti, «Il Mattino», 22 febbraio 1986. Ricordo di una
serata romana nel periodo in cui l’Autore ricoprì la carica di vicesegretario
nazionale del Sindacato Scrittori, l’articolo è incluso nel volume Ritratti incompiuti,
cit., pp. 175-183, col titolo Giuseppe Ungaretti.
76 Id., Il collega, «L’Arena», 6 gennaio 1957.
568 ALESSIA PIRRO [21]
luce – la luce romana – tarda a declinare, restammo un bel po’,
Ungaretti ed io, nell’atrio verso l’ingresso ad attendere i rispettivi
tassì chiamati dalla signora D’Ajello. […] quando finalmente arrivò
uno soltanto dei due tassì, o per lo meno il primo, nonostante volessi
dargli la precedenza Ungaretti insisté perché me ne servissi io se
non volevo rischiare di mancare il treno. E ovviamente accettai subito
senza fare altri complimenti.
[…] [Il tassista] era un uomo poco più anziano di me, molto magro e
piuttosto piccolo di statura: doveva aver assistito alle nostre cerimonie
sulla precedenza della corsa perché, dopo un istante di silenzio disse,
osservò, e aveva l’aria di rimproverarmi: – Così per prendere lei, non
m’ha fatto dare il passaggio al maestro Ungaretti. Mi voltai a guardarlo,
un po’ sorpreso, e allora vidi ch’era magro e minuto. Dissi, quasi
a giustificarmi: – Ho il treno, che non aspetta, e il maestro invece
quasi rincasava: è stato lui a insistere che salissi io sul suo tassì ch’è
arrivato prima.
Non replicò. […].
Dopo qualche altro minuto di silenzio, […] commentò: – Però per
stare insieme al maestro Ungaretti, anche lei dev’essere un poeta. È
un poeta? – e sembrò chiedermelo con l’aria e la speranza d’avere
accanto almeno un suo collega. Dovetti disilluderlo subito: – No –
dissi, – non sono affatto un poeta –. E poiché sempre un po’ m’impaccia
dichiararmi scrittore, con estranei, e poiché vedevo, m’accorgevo
che lui, il tassista, aspettava da me una precisazione, aggiunsi:
– Scrivo sul Messaggero – (dove in quegli anni, collaboravo infatti
alla terza pagina)77.
…
Un giorno [l’impiegato delle poste addetto al mio quartiere], […]
trattenendo in mano il berretto rigirandoselo imbarazzato e aiutandosi
con un sorriso più prolungato a vincere il proprio impaccio
[…], mi chiese:
– Scusate un’indiscrezione, vostro padre insegna?
Gli spiegai, lì per lì sorpreso, che mio padre, avvocato, era morto da
dieci anni: e poi la sorpresa si mutò involontariamente in una specie
di compiacimento, pensando: devo avere ancora l’aspetto d’un ragazzino,
e perciò si chiede a chi vadano tutti questi libri.
Infatti l’impiegato dei pacchi postali mi squadrò un istante, come se
mi scoprisse per la prima volta, e poi domandò, sempre sorridendo:
– Allora, insegnate voi?
Sì, mi riteneva per lo meno ancora uno studente universitario. Dissi:
– No… non insegno…
E restai a mia volta impacciato presso la porta: capivo che dovevo
spiegarmi meglio e classificarmi, per così dire professionalmente.
77 Id., Il tifoso di Ungaretti, cit.
[22] IL “SECONDO MESTIERE” DI MICHELE PRISCO 569
Ma perché si prova sempre un terribile pudore a dichiararsi scrittore?
Ecco una professione considerata, da noi, ancora con sospetto e
una punta di sufficiente ironia, quando addirittura non con aperta
sopportazione e dileggio. Almeno io non riesco mai a dichiararmi
tale con disinvoltura, ammucchio un giro di parole allusive con il
risultato di farmi prendere ancor più sottogamba: e anche in quel
caso mormorai, dopo che l’impiegato postale m’ebbe chiesto, premettendo
un «per non entrare nei fatti vostri», il motivo di quell’arrivo
abbastanza frequente di libri:
– Ecco, il fatto è… che mi occupo di giornalismo… scrivo su giornali…
78
Sebbene non sia mancato chi in tempi recenti abbia preferito per
Michele Prisco l’appellativo di giornalista-scrittore79 a quello per lui
ormai consueto di romanziere, di narratore o, al massimo, di scrittore-
giornalista, e sebbene in alcuni momenti, l’attività giornalistica,
condotta in un certo modo, con determinati ritmi e caratteristiche80,
abbia rischiato effettivamente di compromettere quella narrativa
dell’Autore81, indulgere all’idea di un giornalismo come “primo
mestiere” di Michele Prisco sembra sterile, ma, soprattutto, poco
fedele alle radici82 prischiane.
Più importante, invece, è osservare che l’espressione “secondo
mestiere”, pur con tutti i significati passati in rassegna, non riesca a
rendere, anzi oscuri, una visione del giornalismo e, con essa, un
aspetto del rapporto tra giornalismo e letteratura, a cui pure l’Autore
fa riferimento qualche volta: una visione del giornalismo come
qualcosa d’altro dalla letteratura, ma non per questo inferiore; una
visione positiva, diversa, però, da quella già esaminata, perché non
collegata ad un giornalismo iscritto nel solco della letteratura, bensì
ad uno che, viceversa, alla letteratura sia in grado di dare un proprio
contributo.
78 Id., Il collega, cit.
79 S. Napolitano, Il grillo parlante, Napoli, Fratelli Ferraro Editori, 1998. L’appellativo
compare sulla copertina di tutti e tre i volumi dell’antologia.
80 Alludo in particolare al periodo compreso tra il 1975 ed il 1978, allorché
Michele Prisco fu prima critico cinematografico e poi caposervizi del Settore
Spettacoli e responsabile della “terza pagina” presso «Il Mattino» di Napoli.
81 Significativa in proposito è stata la testimonianza gentilmente offertami
nel luglio del 2008 da Lino Zaccaria, attualmente giornalista de «Il Mattino» e
all’epoca collega dell’Autore e, ancora, la lettera di Prisco a Laudamia Bonanni
del 17 aprile 1977.
82 Id., in E. Corsi, Lo scrittore che ha firmato 5mila articoli, cit. “[…] essendo le
mie radici più di scrittore che di giornalista […]”.
570 ALESSIA PIRRO [23]
Nell’articolo Due libri italiani del 1958, a proposito di alcuni racconti
di Bilenchi, ma, in generale, avendo a mente la produzione dei
tanti scrittori che in quegli anni tornavano alla letteratura dopo
averla abbandonata per dedicarsi al giornalismo, Prisco afferma:
[…] è […] un conforto […] notare come la parentesi non abbia nociuto
alla loro qualità, anzi, il quotidiano rapporto con il pubblico ha
come sciolto certi iniziali inceppi conferendo alle nuove pagine una
duttilità ed una freschezza insospettate […]83.
Nella risposta alla domanda di Gioconda Marinelli sul suo lavoro
di giornalista – riferendosi stavolta a sé, alla sua opera – l’Autore
sostiene:
[…] il lavoro di giornalista […] mi è servito, proprio per la sua
necessità di comunicazione e immediatezza, a cercare di ridurre al
minimo quel certo abuso del… freno narrativo, per così dire, che per
temperamento e magari scelta mi è consueto e che qualche lettore, o
forse qualche critico, spesso mi ha rimproverato84.
Sull’apporto del giornalismo alla produzione narrativa di Michele
Prisco si è soffermato, negli anni di poco precedenti alla morte
dell’Autore, Ermanno Corsi.
In contrasto con la posizione critica dominante, anche se senza
giungere all’idea di un giornalismo come “primo mestiere” di Michele
Prisco, nel suo articolo Lo scrittore che ha firmato 5mila articoli85,
uscito sul «Roma» in occasione degli ottant’anni dell’Autore, Corsi
sottolinea soprattutto il contributo tematico offerto dal giornalismo
alla narrativa prischiana: pone l’accento sul vasto repertorio di situazioni
e di personaggi offerto a Prisco dal costante contatto con la
cronaca, con la quotidianità:
La mente e lo studio di Michele Prisco sono come un grande laboratorio
dove si raccoglie tutto quello che ogni giorno si mette a
frutto. Per questo il grande scrittore deve avere anche una propria
metodicità, una regola di lavoro. Ogni giorno Prisco legge molti
giornali, ha diverse cartelle in cui raccoglie articoli di cronaca; cerca
nella quotidianità spunti per racconti o trame per romanzi. Gli ultimi
due libri – “Il pellicano di pietra” e “Gli altri” – sono quelli che
più hanno acquisito taglio giornalistico, come fossero degli ampi
83 Id., Due libri italiani, cit.
84 Id., Una vita per il romanzo, cit., p. 15.
85 E. Corsi, Lo scrittore che ha firmato 5mila articoli, cit.
[24] IL “SECONDO MESTIERE” DI MICHELE PRISCO 571
reportages: fanno rivivere, sapientemente trasfigurate, vicende di
cronaca, fatti realmente accaduti […].
[…]
La cronaca, la vita, la quotidianità sono connaturate ormai alla formazione
culturale di Michele Prisco86.
Riportando alcune affermazioni dell’Autore, egli presenta il giornalismo
come una fonte creativa per quest’ultimo; e, ancora, ne
evidenzia il contributo linguistico:
«Scrivendo per i giornali mi sono liberato progressivamente di un
certo barocchismo, di una certa enfasi, sono penetrato sempre più
nei meccanismi della vita e nella psicologia delle persone. […]».
[…]
Ma il giornalista che più ha influito sullo stile e sulla scrittura di
Michele Prisco? «Senza dubbio Gianni Brera; lavorava molto sul linguaggio
[…]»87.
Per quanto siano le più vicine in ordine di tempo e qualcuno,
pertanto, possa essere tentato dal vedere in esse un punto d’arrivo,
le considerazioni di Corsi, quelle appartenenti all’Autore citate
dal giornalista nel suo articolo, come pure quelle contenute
nella risposta alla Marinelli, da sole, non basterebbero a riassumere
tutto.
A leggere le parole di Corsi sugli spunti forniti dalla cronaca alla
narrativa prischiana, il pensiero torna immediatamente a quelle
dell’Autore nel suo saggio A proposito del personaggio88, dove pure è
riconosciuto un rilievo alla cronaca, alla realtà, nella letteratura; all’interno,
però, di un orizzonte di tutt’altro respiro:
Madame Bovary, Delitto e Castigo, Cavalleria Rusticana, per fare i primi
esempi che ci vengono sotto la penna, che cosa sono, ridotti allo
schematismo dell’idea di base, se non dei fatti di cronaca più o
meno vistosi? Il Rosso e Nero è addirittura ispirato a un delitto
realmente avvenuto e registrato nella Gazette des Tribunaux. Naturalmente,
Madame Bovary, Delitto e Castigo, Cavalleria Rusticana, e
tanto più Il Rosso e Nero, non sono per nulla dei fatti di cronaca
così come i loro autori ce li hanno presentati, nella stessa misura in
86 Ibidem.
87 Ibidem.
88 Id., A proposito del personaggio, «Le ragioni narrative», Anno I, n. 3. (Il
saggio è in parte riportato nel volume Michele Prisco – Una vita per la Cultura,
cit., pp. 19-22; integralmente appare in Michele Prisco – Le ragioni narrative, cit.,
pp. 51-64).
572 ALESSIA PIRRO [25]
cui non è il fatto di cronaca, in quelle opere, a interessarci. E insomma
questo nostro discorso non è, sia ben chiaro, un invito ai
narratori a cercare ispirazione sulle pagine dei quotidiani, ma nello
stesso tempo non si fa scrupolo di sottintendere che, se mai, la
realtà è persino troppo piena di personaggi e che eludere i problemi
posti da una simile realtà è, per un narratore, eludere al suo
impegno.
[…]
[…] un romanzo non è una storia che marginalmente, esso è prima
di tutto un clima, un mondo, una società, dei personaggi. Quel
che importa al romanziere non è il fatto, ma l’uomo. E sarà buona
ogni storia che ci rappresenterà l’uomo dall’interno, nella sua profondità
[…]. La necessità romanzesca non è quella di farci assistere,
per esempio, a un delitto compiuto dal signor Rossi, ma quella di
farci assistere al signor Rossi capace di compiere un delitto. A
questo punto, se vuol rappresentare il signor Rossi, il romanziere
può anche, senza mancare al suo imperativo di verità, raccontare
una storia tutta diversa da quella del delitto compiuto dal signor
Rossi89.
Le stesse osservazioni fatte da Prisco sugli effetti che l’attività
giornalistica avrebbe avuto sulla sua prosa richiamano per contrasto
alcuni passi di articoli, anche piuttosto tardi, dell’Autore, dove la
sua prosa continua ad assomigliare, come notava Mario Pomilio, ad
“una spirale, a un movimento avvolgente che, lungi dal mirare a
una messa a nudo dell’evento, aspira come a catturare la qualità
multiforme dell’istante in cui esso si verifica, sensazioni e sentimenti
insieme, luci ed ombreggiature, sonorità e dissolvenze”90: fra tutti,
uno tratto dalla recensione su un libro di Tano Citeroni, uscita su
«Il Nostro Tempo» nel 1987:
Il lettore avrà già avvertito, sin qui, gli ammicchi che l’autore è
andato predisponendo per lui prima di narrare la vicenda vera e
propria. Che si svolge tutta in una giornata, la vigilia di Ferragosto
in una Roma assolata e svuotata (è anche la vigilia del compleanno
del protagonista: il giorno dopo compirà sessantacinque anni), e si
snoda lungo via Nazionale che, disceso dopo una mattinata ad Ostia
alla metropolitana della stazione Termini, Napoleone con la sua
valigetta da cui non si separa mai percorre a piedi (un improvviso
sciopero selvaggio l’ha costretto a smontare dall’autobus appena
messo in moto) per tutta la sua lunghezza. Cioè no: sino all’imbocco
89 Id., A proposito del personaggio, in Michele Prisco – Le ragioni narrative, pp.
52-53.
90 M. Pomilio, Pref. a Michele Prisco – Una vita per la Cultura, cit., p. 11.
IL “SECONDO MESTIERE” DI MICHELE PRISCO 573
del Traforo, ch’egli cerca d’attraversare per uscirne dall’altra parte e
rincasare91.
No, da sole, non basterebbero a riassumere tutto.
Sicuramente, però, sono sufficienti a chiudere il discorso su Prisco
giornalista nel segno della tensione; quella che, adesso, non resta
che esplorare nel tempo.
Alessia Pirro
(Napoli)
91 Id., L’importanza di chiamarsi Napoleone, «Il Nostro Tempo», 8 novembre
1987.
[26]
Contributi
SILVIA FREILES
La discesa al trono come storia di una catabasi: il
dantismo di Bartolo Cattafi
The works belonging to the second period of Bartolfo Cattafi’s
literary production owe a lot to Dante’s Comedy, as the many words
and figurative schemes deriving from the first two parts of the
Comedy demonstrate. There are, for instance, neologisms and
expressions typically Dantesque, as well as caricatural and
decontextualizing references, and even the rewriting of the author’s
life into to an allegorical history marked by Fall and Redemption,
that is to say by katabasis (La discesa al trono) and anabasis (Marzo
e le sue idi). Cataffi’s works also contain elements based on some
antinomical features of the language of Dante’s Paradise.
Tra le tante motivazioni che hanno «contribuito a fare conoscere
meglio il poeta ma anche, paradossalmente, ad ostacolare una valutazione
davvero integrale della sua scrittura»1 troviamo l’antologizzazione
cui l’opera di Bartolo Cattafi, «per la sua natura rapsodica
e oracolare»2, si è prestata, ed il carattere copioso assunto dall’attività
compositiva intorno al 1971, in seguito alla lunga pausa, «con
una molteplicità di ispirazioni ed esiti tematici che le raccolte non
riescono del tutto ad arginare in un ordine regolare»3, non sostenuta,
tra l’altro, da alcuna «prospettiva filologica globale del corpus»4.
A farne le spese l’analisi della seconda produzione5, quella che
1 S. Prandi, Da un intervallo nel buio. L’esperienza poetica di Bartolo Cattafi,
Lecce, Manni, 2007, p. 8.
2 Ibidem.
3 Ibidem.
4 Ibidem.
5 Discordanti le teorie sui vari tempi della produzione cattafiana. Per il presente
lavoro è stata presa in considerazione la scansione cronologica scelta da
Giuseppe Savoca nel saggio Linea montaliana del linguaggio di Cattafi, in Atti del
convegno di studi su Bartolo Cattafi, Catania, Lunarionuovo, 1980, p. 126, che
indica come discrimine «un vuoto di circa sette anni, del quale non sopravvive
[2] LA DISCESA AL TRONO COME STORIA DI UNA CATABASI 575
ha inizio, per intenderci, con L’aria secca del fuoco6, a lungo delineata
attraverso microlectures volte ad isolare questo o quel frammento, ad
attestare la permanenza di alcune tematiche primitive, col risultato
di far ruotare ancora la fama cattafiana attorno al processo metamorfico
dalla «prevalente figuratività» alla «prevalente figuralità»7,
descritto così lucidamente da Giovanni Raboni in relazione al passaggio
dalla raccolta degli esordi, Le mosche del meriggio8, alla più
matura L’osso, l’anima9.
Invece, proprio a questa altezza del percorso poetico, la maggiore
indipendenza da quelli che erano stati in passato i principali maestri
a guidare Cattafi nella «inquieta ricerca della propria voce»10 (Montale,
Ungaretti, Quasimodo, Govoni, García Lorca, gli ermetici insieme
agli americani Hemingway ed Eliot)11, ha prodotto un insospettabile
accadimento: l’elezione di Dante a nuovo modello letterario.
Un alto tasso di contaminazioni dantesche si concentra infatti ne
La discesa al trono12, un unicum nella produzione cattafiana per l’omogeneità
delle tematiche, incentrate principalmente sulla catabasi e
sull’investigazione dei lati inferi del reale, ma con strategie e soluzioni
così diversificate da smentire l’idea di una «coerenza tonale
che non conosce distrazioni o possibilità di variazioni»13.
Il nuovo approccio di Cattafi all’universo reale e letterario dà
delle risposte sulla funzione assunta dalla ‘vacanza’ poetica, utile sì
ad una rielaborazione di vecchi stilemi, ma anche alla creazione di
soluzioni nuove date in primis proprio dalla rimeditazione dell’opera
dantesca: il «senso precipite d’abisso» che emergeva in L’osso,
l’anima come ipotesi, possibilità inespressa della discesa, recesso
testimonianza», e circoscrive il secondo periodo «dal ’71 (data della maggior
parte delle liriche dell’Aria secca del fuoco) al ’77 (che è l’anno in cui sono
raccolte le ultime cose dell’Allodola ottobrina)».
6 B. Cattafi, L’aria secca del fuoco, Milano, Mondadori, 1972.
7 G. Raboni, Introduzione a Bartolo Cattafi, Poesie 1943-1979, cit., p. VII.
8 B. Cattafi, Le mosche del meriggio, Milano, Mondadori, 1958.
9 Id., L’osso, l’anima, Milano, Mondadori, 1964.
10 P. Maccari, Spalle al muro. La poesia di Bartolo Cattafi. Con un’appendice di
testi inediti, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2003, p. 13.
11 Per l’importanza del poeta americano nell’apprendistato e nella prima produzione
cattafiana, soprattutto in relazione al tema subacqueo e funebre (mediato
anche da Govoni e Luzi) e alla multiforme avifauna, rimandiamo al saggio di M.
Gezzi, T.S. Eliot in Bartolo Cattafi, in Sentieri poetici stranieri contemporanei, a cura
di F. Italiano e G. Landolfi, Novara, Interlinea edizioni, 2001.
12 B. Cattafi, La discesa al trono, Milano, Mondadori, 1975.
13 P. Maccari, Spalle al muro. La poesia di Bartolo Cattafi, cit., p. 169.
576 SILVIA FREILES [3]
recondito da temere14, fonte di horror vacui, diventa insomma, ne La
discesa al trono, consapevole scelta di poetica.
Il dantismo cattafiano va dalla citazione vera e propria alla ripresa
di diagrammi figurativi tratti dalle prime due cantiche della Divina
Commedia, da neologismi e locuzioni di sapore dantesco ad
allusioni decontestualizzanti15, dalla interpretazione allegorica del
proprio percorso come storia di peccato e di redenzione, alla caricatura.
Ma soprattutto, in linea con la maggior parte dei poeti italiani,
è precipua l’attenzione alla «sempre sorprendente freschezza e ricchezza
della lingua di Dante»16 in una calibratura di presenze lemmatiche
che confermano l’assunto montaliano di un Dante che «parla
ai poeti»17.
Tuttavia, l’appropriazione dell’opera dantesca, avvenuta presumibilmente
attraverso il primo canale intertestuale indicato da Anna
Dolfi18 (l’apprendimento liceale e quindi la reminiscenza e la rilettura
privata) e secondariamente attraverso la mediazione di altri poeti
italiani19, non costituirà mai quella influenza «cumulativa, che si accresce
con gli anni […] norma di ogni vero rapporto dantesco»20, ma
rimarrà canone di lettura critica della realtà scelto in una particolare
fase del percorso poetico, pur con propaggini in quelle successive.
La discesa al trono si configura infatti come una vera e propria
«scoperta della sostanziale natura infera del reale»21 che sviluppa la
vena noir della sezione Tenebra e azzurro de L’aria secca del fuoco, ora
14 Leggiamo in L’osso, l’anima: «La mente è un’abile / astuta acrobata / teme
l’abisso, il vuoto» (Ipotesi); «cupo occhio d’abisso» (Lettera); «sprofondare / fare
l’abisso con le proprie mani» (Perderci la vita); «un giro / centripeto di vortice/
un senso precipite d’abisso» (La notizia); «E non andare alla cieca con la mano
/ non ficcarla nell’andito più oscuro / dove l’occhio non giunge / la mano si
ferma impaurita […] nell’abisso temuto, nelle tenebre» (Offerta).
15 Per quanto riguarda le modalità della presenza dantesca nell’opera degli
scrittori del secondo Novecento cfr. H.F. Plett, Intertextualities, in Intertextuality,
a cura di H.F. Plett, Berlin, New York, Walter de Gruyter, 1991.
16 R. De Rooy, «Il poeta che parla ai poeti». Elementi danteschi nella poesia italiana
ed anglosassone del secondo Novecento, Firenze, Franco Cesati editore, 2003.
17 E. Montale, Dante ieri e oggi, ora in Id., Sulla poesia, a cura di G. Zampa,
Milano, Mondadori, 1976, pp. 15-34.
18 A. Dolfi, Dante e i poeti del Novecento, in «Studi danteschi», 58, 1986, pp.
307-342.
19 Nel caso di Cattafi essenzialmente Montale, la cui lezione agisce «in profondo
anche nel più maturo Cattafi» (G. Savoca, Linea montaliana del linguaggio
di Cattafi, cit., p. 133).
20 A. Dolfi, Dante e i poeti del Novecento, cit., p. 342
21 S. Prandi, Da un intervallo nel buio, cit., p. 141.
[4] LA DISCESA AL TRONO COME STORIA DI UNA CATABASI 577
nella rappresentazione della «realtà “orrenda”»22 e degli «araldi del
mondo infero»23 che vi compiono incursioni epifaniche, ora finanche
nel «simbolo per eccellenza della vita cosmica», l’uovo, in cui «si
insinua una presenza oscura, secondo quell’ossessione della centralità
minacciosa, così caratteristica della poesia cattafiana»24.
Le tonalità cromatiche prevalenti25 sono in linea con il messaggio
di fondo, confluendo nella silloge gran parte della plaquette Il Buio26,
dove il topos del locus amoenus primaverile27 veniva sarcasticamente
ribaltato per fare emergere il lato ctonio della natura. Ma vero e
proprio serbatoio di motivi danteschi è la poesia che fornisce la «chiave
di lettura dell’intero percorso poetico cattafiano»28, in particolare per
la locuzione ossimorica elevata a titolo dell’intera raccolta:
La discesa al trono
Non è una pausa di riflessione
è un raccogliere forze
ed elemosine
seduti a sommo delle scale
22 Ivi, p. 142.
23 Ivi, p. 143.
24 Ivi, p. 144.
25 Insieme ai colori scuri («nero» 18, «buio» 5, «tenebra» 5, «oscuro» 3, «oscurare
» 1, «oscuramente» 1, «annerire» 2, «grigio» 1), concorre alla rievocazione
dell’«aere tenebroso» dell’Inferno, anche la frequenza del lemma «ombra» che
conta ben 16 occorrenze.
26 La natura descritta ne Il buio (Milano, Scheiwiller, 1973) è lussureggiante
ma infida perché «là può apparire un evento selvaggio / un furente stendardo
/ una mano che ti picchia al cuore» (Evento); lo scenario falsamente rassicurante
nasconde movimenti, intrighi notturni, improvvise manifestazioni spettrali: «piccoli
/ morti prematuri che nell’ombra si mordono le mani / alla luce vengono
a fare terribili capriole fingendosi vivi», (In agosto l’oliva); «bianchi fantasmi di
vapore fuggono con furia sibilando» (Se nel tuo prato); «un vento serpente / che
su se stesso s’avvolge» (Vortice). Il male, la violenza costituiscono l’essenza
latente del reale (Questi piccoli uccelli). Proprio con Il buio, dunque, ha inizio il
filone del ‘disvelamento’ approfondito poi nelle poesie Fuori, Evento, Dalla nostra
parte, Ex tenebris de La discesa al trono.
27 La primavera, depositaria di valenze ideologiche e letterarie, continuerà ad
essere obiettivo polemico anche in Marzo e le sue idi (Milano, Mondadori, 1977)
e nella postuma Simùn (Genova, Edizioni San Marco dei Giustiniani, 2004). Ciò
non stupisce perché i tempi di composizione de La discesa al trono e di Marzo e
le sue idi corrispondono, trattandosi del biennio ’72-’73 (cfr. V. Leotta, Nota ai
testi, in B. Cattafi, Poesie 1943-1979, a cura di V. Leotta e G. Raboni, Milano,
Mondadori, 1990, pp. 321-344) data a cui risalgono anche le poesie di Simùn.
28 M. Gezzi, La prigione e la dimora: il percorso poetico di Bartolo Cattafi, in
«Atelier», VII, 26, giugno 2002, p. 45.
578 SILVIA FREILES [5]
prima d’intraprendere
la discesa al trono
e tutto profondere
al fondo roccioso
aspro inebriante della disperazione.
Il trono, «simbolo e sede di potere e di autorità»29, è inusualmente
accostato, come è stato notato, all’atto dello scendere e non del
salire30, secondo quella capacità prettamente cattafiana di recuperare
«frasi fatte, nessi proverbiali o comunque abituali»31 appoggiandosi
«alla solo apparente comodità della consuetudine […] per
spogliarl(i), rovesciarl(i), metterl(i) in discussione, ridurl(i), appunto
all’osso, scoprendo così una loro anima»32.
Dalla fusione del sintagma corrispondente al topos letterario della
‘discesa agli inferi’, con quello dell’’ascesa al trono’, afferente
all’ambito politico ma anche scritturale (il trono come simbolo del
potere spirituale detenuto da Cristo) è generato un nuovo significato:
l’accesso al Regno dei Cieli è interdetto dal peccato, che conduce
invece a un «fondo roccioso / aspro inebriante», come «“selvaggia
aspra e forte” è la selva di Dante che prelude all’Inferno»33.
Lì si colloca il trono di Lucifero, «lo ’mperador del doloroso
regno» (Inf. XXXIV, 28) confitto nel Cocìto, cui va assimilata per
contiguità semantica l’immagine del «bassissimo impero» con «le
insegne adorne di tanti sbagli» della poesia Impero.
Altra parola emblematica, collocata nell’ultima sede del verso
finale, è «disperazione», da intendersi nell’accezione cristiana di
assenza di speranza (una delle tre virtù teologali, «quelle tre facelle
/ di che ’l polo di qua tutto quanto arde»34), e riconducibile alla
condicio dei dannati sintetizzata nel I canto dell’Inferno35. La beatitudine
ultraterrena condensata nell’immagine evangelica dei «tesori»,
si tramuta in una perdita, in un consumarsi che il verbo «profondere
» rende perfettamente coniugando il senso dello «spendere a di-
29 Ibidem.
30 Ibidem.
31 A. Dei, Proverbi taglienti. Note sul linguaggio poetico di Cattafi, in Anniversario
per Bartolo Cattafi, Atti del Convegno di Studi, Firenze 2 dicembre 2004, a cura
di Adele Dei, Comune di Firenze 2006, p. 21.
32 Ibidem.
33 M. Gezzi, La prigione e la dimora: il percorso poetico di Bartolo Cattafi, cit., p. 45.
34 Purg. VIII, 89-90.
35 Inf. I, 114-115: «e trarrotti di qui per luogo etterno; / ove udirai le disperate
strida».
[6] LA DISCESA AL TRONO COME STORIA DI UNA CATABASI 579
smisura»36 con quello dello sprofondare in senso fisico, per assonanza
con «fondo»37, lemma utilizzato da Dante per indicare non solo
stricto sensu il «fondo che divora / Lucifero con Giuda» (Inf. XXXI,
142-143) ma la stessa condizione morale dei ‘senza speranza’38.
I riferimenti danteschi, che orientano decisamente in senso religioso
l’interpretazione della lirica, non si esauriscono qui: altro debito
verso il padre della lingua italiana è stato individuato nel
sintagma «sommità della scala», ricondotto alla «suggestione
occitanica dell’Arnaut Daniel di Purg. XXVI, 145-147 (“Ara vos prec,
per aquella valor / que vos guida al som de l’escalina, / sovenha
vos a temps de ma dolor”)»39.
Proporrei, invece, quale fonte diretta dei sopracitati versi, il canto
XIII del Purgatorio in cui l’isotopia della scala funge da tramite
tra una cornice e l’altra e il cui incipit suona così: «Noi eravamo al
sommo della scala, / dove secondamente si risega / lo monte che
salendo altrui dismala». Ciò conferirebbe ai versi cattafiani il valore
aggiunto di un’intenzione programmatica (l’identificazione diretta
con la vicenda di Dante, secondo l’assunto per cui «i poeti moderni
quando riflettono su Dante, spesso si riflettono anche in Dante»)40, e
tradirebbe al contempo una lettura funzionale, non superficiale, del
36 G. Devoto, G. Oli, Il dizionario della lingua italiana, Firenze, le Monnier, 1990.
37 A fronte delle 18 occorrenze nella Commedia e, in particolare, nella geografia
spaziale dell’Inferno quale polo della dicotomia morale alto/basso («Nel
fondo erano ignudi i peccatori» XVIII, 25; «In questo fondo della trista conca /
discende mai alcun del primo grado» IX, 16-17; «così ne puose al fondo Gerione»
XVII, 133; «ma però che gia mai di questo fondo / non tornò vivo alcun, s’io
odo il vero» XXVII, 64-65), il termine «fondo», è utilizzato dal secondo Cattafi
33 volte, di cui 6 ne La discesa al trono: è il simbolo di sofferenza universale del
Cricetide che rimane «in fondo alla gabbia», o quello dell’uomo che «scompare
nel raggio del faro / risucchiato nel fondo» in Cenere d’un giorno. Ancora, «il
futuro che borbottando si stacca dal fondo /e viene a darti una soffiata calda in
faccia» (Cosa bolle in Pentola) assume i contorni di un cupo messaggio di morte
che sembra provenire dall’inferno.
38 Ricordiamo le parole di Ciacco («Ei son tra le anime più nere; / diverse
colpe giù li grava al fondo» Inf. VI, 85).
39 S. Prandi, Da un intervallo del buio, cit., p. 140; ad Eliot riporta invece la
somiglianza del verso con il titolo dell’attuale terza parte di Ash-Wednesday,
apparsa a sé nel 1929 come Som de l’escalina (M. Gezzi, T. S. Eliot in Bartolo
Cattafi, cit., p. 48).
40 R. De Rooy, «Il poeta che parla ai poeti», cit., p. 17; fra i tanti esempi, il testo
Pochi gesti, dove il tema dantesco dell’esilio è utile a rappresentare l’esperienza tutta
cattafiana del conflitto tra indagine gnoseologica e stasi: «difficile è per la mente /
stare nel suo loculo / girovaga inferma / piedi felpati / di chi sverna all’inferno».
580 SILVIA FREILES [7]
modello dantesco da parte di un poeta capace di dissimulare quanto
di ostentare le sue letture colte.
Come conferma infatti il testo Arancia, nel macrosistema testuale
cattafiano il tema della discesa è spesso connesso alla verticalità,
largamente presente nel Purgatorio e nel Paradiso, di «quella scala /
u’ sanza risalir nessun discende»41 e sulla quale si misura il rapporto
col trascendente benchè, adesso, dimidiato e desublimato («Scala
immensa / gradini infiniti / il tuo fianco aperto / d’arancia ormai
/ rotolata in basso»)42.
Altre volte la paura della ‘caduta morale’ è sentita quale ostacolo
al raggiungimento di una fiducia assoluta, di una fede salda:
Livelli
Chi ci sta sugli alti
livelli da capogiro
ti scappa il piede
scivoli
scendi
a rotta di collo
riabbracci la folla bieca dei pensieri
t’infili nelle tane di sotterra
bestia tenera e cieca.
Il pericolo che dagli «alti livelli» si possa precipitare è sempre in
agguato: leggiamo infatti in Ipotesi, contenuta in L’osso, l’anima, che «La
mente è un’abile / astuta acrobata. Teme l’abisso, il vuoto». La vera
discesa non è quella agli inferi ma nel profondo della psiche in cui si
nascondono i mostri più terribili e ci si riconosce fragili, incapaci di
qualsiasi elevazione spirituale, mostri attaccati a questa «crosta di terra
»43. Tale vertigine dell’altezza44, vertigine mistica, ha un suo
41 Cfr. Par. X, 86-87 ma anche Par. XXII, 68-74.
42 Per le implicazioni simboliche dell’arancia nel primo e nel secondo Cattafi
cfr. G. Fontanelli, Tra festa e festa. Su alcuni segnali del primo Cattafi, in Viaggio
verso qualcosa di preciso, Percorsi della poesia di Bartolo Cattafi. Atti del Convegno di
studi, Messina, 25-26 novembre 2004, a cura di D. Tomasello, Firenze, Olschki
Editore, 2006, p. 49.
43 Così in Costrizione, compresa nella raccolta L’allodola ottobrina (Milano,
Mondadori, 1979, p. 37): «Siamo ora costretti al concreto / a una crosta di terra
/ a una sosta d’insetto / nel divampante segreto del papavero».
44 Anche nella poesia Il buio è tematizzato il rischio «della caduta dall’alto,
che si conclude con l’impatto su una trama di fili tesi, tra i quali l’io rimane
inestricabilmente impigliato» (F. Pappalardo La Rosa, Lo specchio oscuro. Piccolo-
Cattafi-Ripellino, Torino, Tirrenia Stampatori, 1996, p. 82): «[…] puoi cadere in
[8] LA DISCESA AL TRONO COME STORIA DI UNA CATABASI 581
corrispettivo in Ponti d’oro45 de L’allodola ottobrina, dove il dio / sole,
per avvicinarsi all’uomo, deve uscire «dagli alti capogiri».
Persiste dunque un vago dantismo: l’io soffre il rischio dell’esplorazione
e della scoperta, e l’agostiniana inadeguatezza alla comprensione
del trascendente lo rende fragile di fronte al male, rappresentato
dalla «folla» dei pensieri che ricorda quella dei dannati
perché «bieca»46.
Il lemma «bestia» è da ricondursi all’accezione dantesca: se nel
canto XII dell’Inferno, per fare solo un esempio, è riferito al Minotauro47,
non si dimentichi che anche in Cattafi la figura della
bestia è quanto mai presente quale prodotto della disgregazione di
un io «alienato, sdoppiato, scisso, in perenne, immisericorde e straziante
lotta con un sé sosia-ombra (o sparente “figura” speculare)
»48: in particolare in Un bene indiviso l’atto del mordersi il braccio
«credendolo un tentacolo del mostro» (marino, perché, come vedremo,
l’inferno può assumere una connotazione equorea)49, ci riporta
al Minosse che «attorse / otto volte la coda al dosso duro; / e […]
per la gran rabbia la si morse»50. Infine la cecità, nell’imagery dantesca,
oltre a costituire una punizione purgatoriale, è attribuita all’essere
umano che si allontana dal bene e quindi, temporaneamente, ai
pellegrini che si addentrano nell’atmosfera infernale51.
quei fili tesi / là in mezzo impigliarti / crollando in avanti / a occhi spalancati
verso il buio / sbattere la fronte».
45 Ponti d’oro, in L’allodola ottobrina, cit., p. 79.
46 Il termine ha chiara valenza morale indicando uno strabismo spirituale, una
stortura della vista interiore. Pensiamo a Ciacco che «Li diritti occhi torse allora
in biechi» (Inf. VI, 91), agli ipocriti che scrutano Dante «con l’occhio bieco» (Inf.
XXIII, 31), agli invidiosi «Provenzai» che calunniarono Romeo di Villanova con
«le parole biece» (Par. VI, 136), o al voto bieco di Iepte (Par. V, 65).
47 Creatura metamorfica, simbolo di quella «matta bestialità» che è la violenza,
il Minotauro è apostrofato da Virgilio, in Inf. XII, «bestia» (v. 18) e successivamente
«quell’ira bestial ch’i ora spensi» (v. 33).
48 F. Pappalardo La Rosa, Lo specchio oscuro, cit., p. 82.
49 L’isotopia del mostro ha l’origine equorea descritta nella poesia La bestia,
compresa in L’osso, l’anima («E come fai prevedere che / se affondi il braccio /
in un’acqua di pretto celeste / scatta su dal nulla / con tumulto di bolle l’immonda/
bestia che ti azzanna […]»).
50 Inf. XXVII, 125-126.
51 Cfr. l’episodio degli ignavi («la lor cieca vita è tanto bassa / che invidiosi
son d’ogni altra sorte», Inf. III, 46-48), quello dei golosi («cadde con essa a par
de li altri ciechi» Inf. VI, p. 93) ma anche l’ingresso di Dante e Virgilio nella città
di Dite: «chè l’occhio non potea menare a lunga / per l’aere nero e per la nebbia
folta» (Inf. IX, 6-7).
582 SILVIA FREILES [9]
Dunque ne La discesa al trono i mutamenti spaziali dal «sommo
delle scale» verso il «fondo», dai «gradini infiniti […] in basso»,
dagli «alti livelli» fino a «sotterra», attestano la consapevolezza di
non poter sostenere la vertigo delle altezze, di fronte alla quale unica
alternativa resta l’imbestiamento o il «rintanamento»52.
Sono infatti dita «disperate», per tornare al nucleo semantico
della lirica La discesa al trono, quelle che in Un po’ di vita, sfuggendo
dalle mani di una qualche entità benefica, tentano una risalita convulsa
ma fallimentare, per giungere alla rassegnazione totale, all’’
adattamento’ al recesso «isomorfo degli abissi marini»53 in cui l’esistenza
fittizia e degradata equivale ad una previta, ad una sopravvivenza
animalesca: insomma, ad una sub esistenza54.
L’abisso di Cattafi può dunque assumere una connotazione marina,
la «broda»55 di Paguro56, ed in questo caso prendere su di sé i
molteplici significati simbolici dell’elemento equoreo, rappresentando
uno «sprofondamento nel buio gnoseologico e subcoscienziale»57
della psiche (pensiamo alle «fresche forze unite / in discesa al mare»
di Acquemorte58, ai «canali invisibili / nelle nullificanti tentazioni» di
52 Secondo Franco Pappalardo La Rosa il topos del rintanamento ne L’aria
secca del fuoco era connesso ad un «disagio esistenziale tale da innescare nell’io
la molla dell’istinto autoconservativo contro un pericolo, all’apparenza esterno
ma in realtà interiore, che l’opprime e minaccia di annientarlo […] contro una
presunta minaccia interiore che sottintende, invece, a livello più profondo, il
desiderio di difendersi dalle farneticazioni, in qualche modo “formate”,
estrinsecate, visualizzate, dell’inconscio e della mente, che lo assillano, lo tormentano
» (F. Pappalardo La Rosa, Lo specchio oscuro, cit., pp. 77-78).
53 M. Gezzi, La prigione e la dimora, cit., p. 45.
54 Dormire e respirare sono, infatti, nell’immaginario di Cattafi le due attività
principali delle creature ancestrali degli abissi descritte in Marzo e le sue idi:
«dietro la diga / i mostri dormono in tane profonde» (In tane profonde) e «Posato
in un angolo come l’alga il sasso / globo morbido / madreperlaceo /
respiro appena / ad occhi chiusi aspetto / l’amo l’esca la fiocina […]» (Biologia).
55 Cfr. Inf. VIII, 53.
56 In Paguro (L’allodola ottobrina), la metamorfosi in animale marino è
tematizzata consapevolmente: «mi domando che assorbo e che trasfondo /-
protese le mie parti più porose- / nella torbida broda circostante / qua vivo e
viaggio / nell’ansimante flusso dell’osmosi».
57 F. Pappalardo La Rosa, Lo specchio oscuro, cit., p. 79.
58 Anche qui ricorre il termine «folla» che, come nel testo Livelli precedentemente
analizzato, è un segnale di apertura dell’immaginario cattafiano a scenari
danteschi. In questo caso alcuni elementi ci riportano al canto XIII del Purgatorio:
i versi «sporche schiume /occhi opachi che ogni catabasi scordarono / le
fresche forze unite in discesa al mare» non sembrano estranei a «se tosto grazia
[10] LA DISCESA AL TRONO COME STORIA DI UNA CATABASI 583
Nei rivoli amari, ed infine alle «acque nere»59 dirette al mare di Per
Vecchie tenebre che scorrono per «tubi ingrommati»60 come le «ripe
grommate» delle Malebolge) o mantenere una connotazione ctonia.
In questo secondo caso il modello di riferimento è la Divina Commedia
dalla quale si estraggono stralci di topografia, geografie stravolte,
paesaggi desolati.
Pensiamo al mondo sotterraneo che viene immaginato sotto la superficie
terrestre in Ferro («C’è un mondo nero qui sotto / di ferro / di
pesantissimo ferro / che ancora non conosce gli altiforni /e puzza già
di fuoco/legifera e decide»)61 o in Ex tenebris («prepara la comparsa /
del fosforo dello zolfo dell’ottone / come al giallo che al nero si unisce
/ nel mantello dei morti / minerali e metalli si levano dai loculi e
stanno nella notte») sotto la specie di un sacro paganeggiante.
Viene infine assimilato allo scenario reale e quotidiano delle nostre
metropoli: «Traffico torbido sulla tangenziale / ondeggia oscuramente
periglioso/ pronto a coinvolgerti in un gorgo/ sull’autostrada
» (Lanciato). Anche il termine «rovina» nella sua valenza anfibologica,
inerisce da un lato alla prostrazione morale e dall’altro, riecheggiando
la «ruina» di Inf. V, 34 e XXIII, 137, alla voragine infernale
provocata dalla caduta di Lucifero, costituendo così uno scenario
archeologico di distruzione, vero e proprio locus infernale.
Se la predilezione dei poeti italiani del secondo Novecento è per
«certi paesaggi dell’aldilà dantesco fra cui predominano quelli infernali,
come la selva oscura del prologo, l’Acheronte e la surrealistica
selva dei suicidi»62, Cattafi non fa eccezione: prova ne è Il guasto lo
resolva la schiume / di vostra coscienza sì che chiaro / per essa scenda de la
mente il fiume» (v. 88-90). Gli occhi «opachi» ricordano quelli cuciti col fil di
ferro degli invidiosi, paragonati prima ai «ciechi cui la roba falla» (v. 61), poi «a
li orbi» cui «non approda il sole» (v. 67).
59 Il sintagma «acque nere» riecheggia le «onde bige» di dantesca memoria
(Inf. VII, 104), così come il composto quasimodiano «aquamorta» rievoca la
«morta gora» del fiume Stige (Inf. VIII, 8).
60 Il diretto antecedente è il Montale degli Ossi («si stria di giallo tenero e
s’ingromma», Crisalide) e della Bufera («l’ali ingrommate», Sulla colonna più alta),
come emerge da G. Savoca, Vocabolario della poesia italiana del Novecento, Bologna,
Zanichelli, 1995, p. 488.
61 Il paesaggio ricorda quello delle Malebolge («Luogo è in Inferno detto
Malebolge, / tutto di pietra di color ferrigno / come la cerchia che dintorno il
volge» Inf. XVIII, 1-3) mentre l’accostamento dei verbi «legifera e decide» sembra
rievocare concettualmente le azioni compiute dinamicamente da Minosse
(«essamina […] giudica e manda» Inf. V, 5-6).
62 R. De Rooy, «Il poeta che parla ai poeti», cit., p. 16.
584 SILVIA FREILES [11]
squarcio dove lo scenario iniziale apparentemente apollineo (ma già
delineato lessicalmente come inferno da «gelo» e «cristallo», che
rinviano alla distesa ghiacciata del Cocìto) è trasformato, dall’emersione
di uno «scafo infame / infangato di Stige»63 guidato da un
demone, novello Flegiàs, in uno «scorcio fulmineo d’abisso».
Lo stesso aspetto fonetico caratterizza il testo come un’esperienza
‘petrosa’: stridente risulta la consonanza del gruppo «st» nei
termini «guasto»,«lastra», «stige», del gruppo «sq»/«sc» in «squarcio
» e «scorcio», e la rima «schegge»:«regge» è improntata sulla
dantesca «legge»:«regge». Inoltre il lemma «guasto», dalla forte
pregnanza semantica, non è solo dantesco («“In mezzo al mar siede
un paese guasto” / diss’elli ancora» Inf. XIV, 94) ma anche eliotiano
(The Waste Land).
Nonostante l’abbassamento ironico dello statuto demoniaco della
creatura che «in tuta grigia sparge da poppa a piene mani il
catrame», persistono i riferimenti alle coordinate spaziali dell’Inferno64,
anche se irrelati e ridotti a micro citazioni (ne Il moscerino: «Oh
rive, rive d’acheronte») o, talvolta, commisti a fonti estranee come
ad esempio la mitologia scandinava65.
Tutto questo in apparente disforìa con la bassissima frequenza
del lemma «inferno» che ricorre solo 2 volte ne La discesa al trono in
alternanza ad «erebo», e 3 in Marzo e le sue idi con la variante
«averno», assumendo la coloritura classica suggerita dalle poesie
Ingresso e Liofilizzati, testi metapoetici66 della Discesa dedicati al mito
63 Il topos della barca infernale ricorre tra l’altro anche in La fine, il primo
della triade di brevi testi che chiudono La discesa i quali, accomunati dalla
presenza del lemma «anima» («la barca ti sgusciò davanti / la tua anima a
bordo»), segnano la condanna, almeno temporanea, all’abisso.
64 I nomi Stige e Acheronte sono scritti in minuscolo secondo la tendenza del
secondo Cattafi a rendere comune il nome proprio o di persona.
65 È il caso di Vulnerabilità, testo metapoetico nel quale il pericolo di
sovraesposizione dell’intellettuale nella società «della non poesia, della
strumentalizzazione ideologica, dello snobismo fatuo» (M. Freni, Si va giù non
si sale: “La discesa al trono” di Bartolo Cattafi, «La Fiera letteraria», anno 51, n°10,
9 marzo 1975) è simboleggiato dalle «fontane / dove tumultano acque stigie /
e fafnir si svuota del suo sangue».
66 Il grido di «Euridice Euridice» della poesia Ingresso, segna il decadere del
valore eternante dell’arte (rappresentata da un Orfeo significativamente assente),
incapace di restituire senso all’esistenza del poeta e alla sua opera, volti
entrambi inesorabilmente verso il nulla. E gli stessi personaggi mitologici ricompaiono
emblematicamente in Liofilizzati, dove dall’«ammollo del nuovo diluvio
universale» non si potrà salvare neanche la poesia, ridotta a rifiuto di una civil[
12] LA DISCESA AL TRONO COME STORIA DI UNA CATABASI 585
orfico che, come Raimbaud e Campana ci insegnano, è perfettamente
centrale al tema della catabasi.
Vale per il dantismo di Cattafi, almeno in questa fase del suo
percorso poetico, ciò che è stato detto per Caproni: il suo innestarsi
in un «contesto semanticamente ed ideologicamente dissonante» privo
dei «valori essenziali su cui si fondava il testo di partenza: la
sicurezza ontologica e religiosa, la fiducia nel potere della poesia,
l’onnipresenza e onnipotenze divine»67, in antitesi a Montale o Luzi,
per i quali «i legami con Dante sono di tipo esistenziale o religioso»68.
Altre rifrazioni infernali sono da ravvisarsi nell’immagine delle
fosse di Trapasso, ad esempio, («scorre il tuo mondo come acqua /
che ritrovi stagnante / anima immersa in ogni nuova fossa») eco
lontana del contrappasso degli iracondi e degli accidiosi, confinati
nella palude stigia; o nelle defigurationes de Il prezzo («vedervi diventare
pozze chiare / in cui entrare / da cui uscire a piedi nudi
senza ribrezzo»), di Nei rivoli amari («quando piove e piove / sotto
la persistenza della pioggia / scolori / perdi vigore / e in tante
parti diviso / sfumi ti allarghi scompari») probabile suggestione
della dissoluzione delle forme subita dalle anime dei golosi («Noi
passavamo su per l’ombre che adona / la greve pioggia, e ponavam
le piante / sovra lor vanità che par persona», Inf. VI, 34-36).
Non si può escludere che certe immagini surreali, come «il pallido
volto vuoto / occhi tenaci / teneramente aperti sulla nuca» (Autunnoprimavera),
nascano dal fascino esercitato su Cattafi dalle punizioni
delle Malebolge (pensiamo a quelle dei maghi e degli indovini).
Ma se in questo caso si tratta soltanto di tangenze che nulla
aggiungono alla indiscussa peculiarità del dettato poetico cattafiano,
incontrovertibile marca dantesca hanno l’hapax «stenebrare»69 e il
neologismo «malabestia», che non ricorda soltanto il composto
«Malebranche» ma anche «Malebolge», luogo in cui vengono puniti,
fra gli altri, ruffiani e seduttori: nella poesia Al davanzale, infatti,
tà distrutta, coinvolta nel degrado della realtà in cui il vero Ade si localizza
(«Euridice è persa /-colorito turgore salute- / ìmpari come orfeo / galleggianti
rifiuti»). Poesia che, attraverso la simbologia degli occhiali di montaliana memoria,
sarà recuperata alla sua funzione solo in Chiromanzia d’Inverno (Milano,
Mondadori, 1983) quando emergerà «da un fondo di immondizie» per vedere
«Chi viene / di là dal dettaglio dall’assieme» (Occhiali).
67 R. De Rooy, «Il poeta che parla ai poeti», cit., p. 84.
68 Ibidem.
69 Il verbo è nel testo Incetta de L’allodola ottobrina (p. 33) e risale al dantesco
«stenebraron» (Purg. XXII, 61-63).
586 SILVIA FREILES [13]
«mentre il cielo guardi / e le cose celesti» le formiche, creature
ctonie per eccellenza, «s’aprono il passo /[…]/ malebestie in guerra
con qualcuno / per pinzarti per dirti / toglietevi da qui / tu e la
tua razza dalle finestre / scendi / vieni con noi / incolonnato nell’ombra
».
Significativo, inoltre, il lemma «livido»70 (2 ne La discesa al trono,
5 in Marzo e le sue idi) che contamina l’universo espressivo cattafiano
fino a tradire, nell’Allodola ottobrina, il suo legame intertestuale con
l’Inferno: «livido e stolto / stravolto colore di dannato» (Miele).
Oltre a queste isole lessicali, troviamo una vera e propria locuzione
dantesca in Me ne vado: l’espressione «uscir di mente» (Purg.
VIII, 15) è coniugata in prima persona per indicare una esperienza
di alienazione dal reale che prelude alla catabasi stessa71, come conferma
la collocazione del testo in apertura sia della plaquette Il buio
che de La discesa al trono. A tal proposito afferma Prandi che
l’«annuncio di congedo»72 di Me ne vado «testimonia un movimento
verso il punto cieco di un’interiorità niente affatto consolatoria»73
che non tarda a svelare la sua sostanziale natura infera come l’interessante
interpretazione dei versi finali74 lascia supporre: la situazione
«è quella dantesca di Inf. XXXII: i dannati sono confitti nel ghiaccio
di Cocito dal busto in giù e il poeta, nonostante gli ammonimenti
di Virgilio (vv. 19-21), colpisce col piede uno di essi, Bocca degli
Abati: “Piangendo mi sgridò: ‘perché mi peste?’” (v. 79)»75.
Nelle successive raccolte sono presenti, seppur raramente, altre
locuzioni dantesche come «da far tremare le vene i polsi»76 che
70 Il lemma «livido» connota il paesaggio visivo ed emotivo dell’Inferno: «nocchier
de la livida palude» (III, 98), «piena la pietra livida di fòri» (XIX, 14),
«livido e nero come gran di pepe» (XXV, 84), «livide, insin là dove appar
vergogna / eran l’ombre dolenti ne la ghiaccia» (XXXII, 34-35) e anche della
seconda cornice del Purgatorio («parsi la ripa e parsi la via schietta / col livido
color della petraia» XIII, 8-9), dove rappresenta una strategia per «concentrare
il nostro sguardo sul colore dell’invidia» (C.S. Singleton, Campi semantici dei
canti XII e XIII del Purgatorio, in Miscellanea di studi danteschi, a cura dell’Istituto
di Letteratura Italiana, Genova, Bozzi, 1966, pp. 20-22).
71 Me ne vado, in La discesa al trono, cit., p. 11.
72 S. Prandi, Da un intervallo nel buio, cit., pp. 141-142.
73 Ibidem.
74 I versi cui Prandi fa riferimento sono i seguenti: «mi chiudo nel guscio
delle palpebre / cammino e incespico / in un pacco in un braccio teso / in un
lamento che dice / non pestarmi col piede / dammi la mano» (Me ne vado).
75 Ibidem.
76 Rosso di sera, in Marzo e le sue idi, cit., p. 97.
[14] LA DISCESA AL TRONO COME STORIA DI UNA CATABASI 587
ricalca la celeberrima «ella mi fa tremar le vene e i polsi» (Inf. I,
90), «impazzire al declino di nostra vita»77 che parodia «nel mezzo
del cammin di nostra vita» (Inf. I,1), o il «gran mare» in cui
«seguo con occhio traiettorie»78 che è la «versione moderna del
“gran mar dell’essere” dantesco»79. Gli «sguardi di brace»80, poi,
hanno una certa familiarità con gli «occhi di bragia» di Caronte
(Inf. III, 109).
Non ultime, le locuzioni avverbiali «a foglia a foglia», «a fibra a
fibra», «a squama a squama», «a pezzo a pezzo», presuppongono
l’uso dantesco «a brano a brano» (Inf. XIII, 128 e VI, 114).
Se ne La discesa al trono prevale la tragica condizione esistenziale
dell’Inferno, si può affermare che Marzo e le sue idi, pur nella sua complessa
articolazione81, rappresenti un momento purgatoriale dell’itinerario
cattafiano (in particolare Ostuni e un gruppo di testi): vi compare
infatti un alter ego costretto ad un pellegrinaggio sulla terra («come una
statua nell’immensa pianura / […] / t’incammini») durante il quale
rinuncia a qualsiasi decodificazione del reale («chini la testa») per affondare
i piedi nella «nera putredine del mondo» (Di colpo).
Se ne La discesa al trono, inoltre, il percorso umano si definisce
nei termini di un «uscire ed entrare / in un unico posto / senza più
vita»82 realizzato in «una successione di stasi e di stagnazioni»83, in
Marzo e le sue idi emerge la necessità della pena, da espiare attraversando
la «pianura spinosa», luogo dello spirito assimilato dallo stesso
Cattafi alla montagna del Purgatorio («camminare / alle spalle
avendo / ammende e mortorio / montagne pianure di purgatorio»,
Un collare). Lo scenario descritto sta, quindi, al crocevia di suggestioni
purgatoriali ma anche infernali84, perché può assumere i con-
77 Simmenthal, in L’allodola ottobrina, cit., p. 101.
78 Ombre, statue, presenze, in Marzo e le sue idi, cit., p. 98.
79 G. Savoca, Linea montaliana del linguaggio di Cattafi cit., p. 131.
80 La piena, in L’allodola ottobrina, cit., p. 67.
81 La difficoltà oggettiva di riassumere l’iter poetico di Marzo e le sue idi
dipende dalla varietà di proposte, non più confluenti verso un unico centro
come ne La discesa al trono, dalla divisione in sezioni, quattro, che rappresentano
isole semantiche aperte (tranne Ostuni), dalla gamma degli approdi a cui giunge
la scrittura cattafiana e infine dalla compresenza di aree lessicali e tematiche
trasversali alla suddivisione in sezioni, perché dovute all’inserimento parziale o
integrale di plaquettes preesistenti nel tessuto connettivo del macrotesto.
82 Calo, in La discesa al trono, cit., p. 20.
83 S. Prandi, Da un intervallo nel buio, cit., p. 146.
84 Non è estranea a Cattafi la tendenza «che si verifica ad esempio anche in
Giudici, a far cozzare tra loro materiali provenienti da cantiche diverse, creando
588 SILVIA FREILES [15]
torni di «uno spinato / un disossato inferno / uguale agli altri / a
fiamme ribadite» (Rosea, morbida, dolce) o di «un’immane / pianura
fumigante» (Ara) per quanto sussista la dialettica, dantesca anche
quella, tra alto e basso, cielo e terra85.
L’aggettivo «chino» inoltre, si presenta in parecchi microcontesti:
«le spalle curve la greve onniveggenza della testa china» (Una gelida
luce), «la moribonda china sullo specchio di morte» (Rosa colpita),
«in silenzio a testa china» (In silenzio), «la mente / china itinerante
/ legge e legge / come su un prato fiorito / dei suoi nomi si bea»
(Spesso quando cammini). In quest’ultimo leggiamo ancora: «nell’aria
tersa prodiga di aiuti / ferme parole squadrate / da terra si levano
/ incolonnate / simili a lapidi dall’alta fronte / con concreti
proponimenti».
Pur negando una ripresa puntuale dei singoli loci del Purgatorio,
probabilmente Cattafi sovrappone l’atteggiamento degli invidiosi che
camminano «l’uno a l’altro chini» (XIV, 7) ascoltando esempi vocali,
a quello dei superbi delineato nei canti XI86 e XII87 quando «andavan
sotto il pondo» (XI, 26) leggendo in terra gli esempi scultorei di
superbia punita che Dante paragona a lapidi incise con raffigurazioni
dei defunti88.
Affine a tale ansia di redenzione anche il testo In quella chiara89,
per il sapore vagamente stilnovistico dell’incipit:
In quella chiara castità dell’aria
c’erano adunate tutte quante
le mie primavere
a decine
a fronte china e grinzosa
dinnanzi alla mia fuga
di giuda ansante
spesso delle atmosfere tra infernali, purgatoriali e paradisiache» (R. De Rooy,
cit., p. 19).
85 Per quanto riguarda il lessico dell’elevazione spirituale presente in Marzo
e le sue idi, mi permetto di rinviare a S. Freiles, Ostuni: mito della caduta e ansia
di rigenerazione, in Viaggio verso qualcosa di preciso, cit., pp. 101-108.
86 «chinai in giù la faccia» (XI, 73); «me che tutto chin con loro andava» (XI, 78).
87 «avvegna che i pensieri / mi rimanessero chinati e scemi» (XII, 8-9); «fin
che chinato givi» (XII, 69); «e non chinate il volto sì chè veggiate» (XII, 72).
88 «Come, perché di lor memoria sia, / sovra i sepolti le tombe terragne /
portan segnato quel ch’elli eran prima[….] si vid’io lì, ma di miglior sembianza,
/ secondo l’artificio, figurato / quanto per via di fuor del monte avanza» (Purg.
XII, 16-24).
89 In quella chiara, in La discesa al trono, cit., p. 110.
[16] LA DISCESA AL TRONO COME STORIA DI UNA CATABASI 589
di chi taglia obliquo per la pianura spinosa
in cerca d’un legno dolce
d’un albero a braccia aperte90.
Non a caso «chi entra in una chioma d’albero […] rinverdito ne
esce / rinfrescato / inerme e agguerrito in un’altra sfera / le pianure
riarse ripudia / le masse impure / operanti nel cuore / i nemici
lucenti come scaglie / in ordine sparso sulle nostre pianure»91 che
possiamo immaginare di natura infera, come suggerisce l’uso
dantesco del lemma «nemico»92.
Ma risultando il demoniaco «una componente rilevante, attiva
quasi quanto l’altra, antinomica e speculare insieme, della ricerca di
Dio»93, non è impossibile rintracciare nelle raccolte cattafiane elementi
desunti dal territorio lessicale del Paradiso: la «radice oscura
»94 traduce la «radice incognita e ascosa» di Par. XVII, 141; l’uso
metafisico del termine «orto» («chiuso orto infinito / bel serbatoio
di ciò che non appare»)95, pur debitore del sintagma latino hortus
conclusus, rievoca «l’orto dell’ortolano etterno» (Par XXVI, 64-65); ed
infine prestiti danteschi quali «antelucano»96 o «occaso»97 conferiscono
una patina arcaizzante al modernissimo dettato poetico di Cattafi.
Non dimentichiamoci le multiformi presenze angeliche che «avanzano
nel loro mondo / sotto la sferza d’amore»98, nello stesso modo
90 Il «legno dolce» ricorda il «diletto legno» di Par. I, 25, anche qui sostituto
simbolico della croce di Cristo («l’albero a braccia aperte»); richiamo cristologico
ha inoltre l’aggettivo «spinoso», che mantiene un’ambiguità semantica, rievocando
da un lato la corona di spine di Cristo, dall’altro lo scenario desolato e
arido della selva dei suicidi dove si può assistere ad una ‘caccia infernale’.
Alcuni dei testi pubblicati in Marzo e le sue idi vanno in questa direzione: Una
fuga perfetta («senza lasciare brandelli alle spine / fili d’odore al fiuto dei cani
/ e lontano da qui / brandelli appendere alle spine / annodare fili per il fiuto
dei cani») e In silenzio («Un qualcosa che dà ombra/ sorge e punge/ una pianta
di spine / un livido inchiostro […]»).
91 Ripudio, in Marzo e le sue idi, cit., p. 16.
92 Dante definisce Pluto «il gran nimico» (Inf. VI, 115), Lucia «nimica di
ciascun crudele» (Inf. II, 100), Dio stesso «l’avversario di ogni male» (Inf. II, 16).
93 V. Leotta, Come lavorava Cattafi, in Viaggio verso qualcosa di preciso, cit., p. 31.
94 Cfr. Di radice oscura in La discesa al trono, cit., p. 84.
95 Cfr. False acacie, in Marzo e le sue idi, cit., p. 105.
96 Le «creature ferme ad un’ora antelucana» (Lucido e viscido, in La discesa al
trono, cit., p. 90) ricordano gli «splendori antelucani» di Purg. XXVII, 109.
97 Cfr. Rosso di sera, in Marzo e le sue idi, cit., p. 97. Il termine «occaso» è
govoniano (Cuor mio) e montaliano (Ossi di seppia) secondo i dati desunti da G.
Savoca, Vocabolario della poesia italiana del Novecento, cit., p. 671.
98 Cfr. Queste forme di vita, in Marzo e le sue idi, cit., p. 37.
590 SILVIA FREILES [17]
in cui «Questo cinghio sferza / la colpa dell’invidia, e però sono /
tratte d’amor le corde de la ferza»99, o alcune figure della «geometria
“metafisica”» in cui Cattafi «spesso si avventura pascalianamente
»100 per rappresentare alla maniera dantesca l’inenarrabile,
l’inesprimibile101. Alcune di queste (il «cerchio», ad esempio, il «giro»
e la «sfera», discendente dalla dantesca «spera») sono interne alla
«geometria poetica della più grande tradizione europea»102 al cui
vertice si colloca appunto Dante.
Ma ciò che più è indicativo di quanto Dante contribuisca alla
semiosi dell’opera di Cattafi è la traduzione, da parte di questi, della
propria storia umana e letteraria in un percorso di discesa e di redenzione,
di autodistruzione e di rigenerazione, in una sorta di personalissimo
itinerarium mentis in Deum. Tale allegorismo è la cifra più alta
del recupero di Dante da parte del nostro: se Marzo e le sue idi presenta
un testo che postula ancora la necessità della discesa, benché
sotto forma di reminiscenza103, L’allodola ottobrina denota un habitus
meditativo sulla vicenda trascorsa («Chi venne a sospingermi sul
ciglio / a buttarmi sul fondo degli abissi / mi fece risalire a colpi
d’ala», Dodici dicembre 1976) da parte di un io che non è più agens ma
auctor, per riprendere la nota dicotomìa continiana104. E Chiromanzia
d’inverno segna il tempo di interrogarsi sul senso del dolore, sul proprio,
personale inferno, sulla necessità di accettarlo in un’ottica universale
e cristiana, come parte di un provvidenziale «disegno»:
La grazia
Sarebbe dunque in questo lividore
d’aria la grazia
che fa cadere a fiocchi
99 Purg. XIII, 37-39.
100 Per non addentrarci in questa sede nella simbologia geometrica di Cattafi,
rimandiamo al saggio di G. Savoca Un punto per la geometria di Cattafi, in
Viaggio verso qualcosa di preciso, cit., pp. 5-11.
101 «Ne la profonda e chiara sussistenza / dell’alto lume parvemi tre giri /
di tre colori e d’una contenenza» (Par, XXXIII, 115-117).
102 G. Savoca, Linea montaliana del linguaggio di Cattafi, cit., p. 134.
103 Si tratta di Nel pieno dell’estate: «Memore all’improvviso d’una mia / larvale
vita di sotterra / piombai nelle tenebre sull’alto / pino di Aleppo / vorticando
ad ali irrigidite / nel pieno dell’estate / caddi di schiena / lontano da ogni eliso
/ non larva non alato» dove il termine «Aleppo» viene scelto presumibilmente
per la sua somiglianza fonetica con il grido incomprensibile emesso da Pluto in
Inf. VII,1: «Pape Satàn, Pape Satàn aleppe».
104 G. Contini, Un’idea di Dante, Torino, Einaudi, 1976.
[18] LA DISCESA AL TRONO COME STORIA DI UNA CATABASI 591
gelo candore oblio?
E dove metteresti l’altra grazia
che c’imbratta la faccia
di fiamme e di fumo
che ci rammenta d’essere
schiatta di legna da ardere al buon Dio.
Silvia Freiles
(Messina)
ALESSANDRO GAUDIO
Mai bruciati dalla Cosa. Parole, figure e oggetti
dell’inattualità alle origini della Poesia Visiva
in Italia
This paper examines the works written by the artists (Sarenco,
Franco Verdi, Giancarlo Pavanello) who committed themselves to
the organization of the ‘primo spazio d’ordine’ of Italian Visual Poetry.
The essay analyses the epistemological field that gave origin to this
art form, which keeps concerning a chosen circle of critics and
scholars.
1. Alla base della precisazione teorica del composito fenomeno
della Poesia Visiva c’è l’istituzione di un rapporto di similitudine (se
non di intrinseca coincidenza) tra le parole e le cose, così come tra
queste e le loro rappresentazioni: esso sembra rimandare a un ordine
che si può definire senz’altro concreto, oggettuale, al quale, negli anni
Sessanta e Settanta, cominciarono a uniformarsi artisti, poeti, critici
d’arte, studiosi, intellettuali di diversa estrazione culturale che credettero
di trovare nell’inattualità di quel nuovo legame un principio
d’avanguardia, di rottura rispetto al passato, che fosse in grado di
rappresentare ironicamente, paradossalmente, retoricamente, il rapporto
che l’uomo moderno intrattiene (o dovrebbe intrattenere) con
la realtà. Quella concomitanza tra l’immagine e il suo referente oggettivo
ha indotto i vari operatori a prendere le distanze da forme d’arte
e di poesia che non partecipassero del tempo e, più in generale, a
riconsiderare la funzione dell’arte e della letteratura in seno al tardo
capitalismo. Questa parvenza di apertura si è, però, consumata spesso
in un processo tutto interno al linguaggio (sia esso visivo o verbale)
che, tanto sul versante teorico quanto su quello pratico, ha fatto sì
che gran parte della Poesia Visiva si allontanasse irrimediabilmente
dal suo tempo, bruciata da un contatto troppo diretto con la Cosa1.
1 Il riferimento implicito, ma sin troppo evidente, è costituito da S. Z}iz]ek,
[2] MAI BRUCIATI DALLA COSA 593
I poeti visivi si sono rapportati alla Cosa secondo modalità disparate
e, soltanto nei casi migliori, accordando una disposizione
politica alle loro pratiche intellettuali: questo assetto rappresenta
un indizio sicuro del fatto che, comunque, alcuni di essi non volessero
rinunciare al compromesso con la realtà. Nondimeno, il più
delle volte si tratta di una realtà troppo perfetta, distillata, per così
dire quintessenziale, che mal si presta a rappresentare quell’universo
popolare spesso inseguito dalle neoavanguardie. Così facendo, la
Poesia Visiva (non soltanto in Italia), attaccata organicamente (cioè,
più che strenuamente) ai propri eccessi, non ha prodotto, salvo
poche eccezioni, alcun contributo all’analisi dialettica dei contrasti
della società civile borghese ed è questo stesso motivo che, probabilmente,
le ha impedito di estendere il suo periodo di massima
visibilità oltre la prima metà degli anni Ottanta e, pur facendosi
Cosa, la sua portata oltre i confini privati (e, in ogni modo,
menzogneri) di una metafisica troppo soggettiva o, che poi è lo
stesso, della pura differenza estetica. Se anche la realtà è da considerarsi
arte, dov’è possibile ritrovare la realtà o tentare di avvicinarsi
ad essa?
La strada seguita dai poeti visivi più consapevoli non è quella
che consiste nel lasciar essere le cose e, quindi, nell’abbandono di
qualsiasi metafisica. Sarenco, Eugenio Miccini, soprattutto Franco
Verdi e pochi altri provano così la via dell’ironia. È un procedimento
retorico che, tenendo conto di uno sfondo storico ben preciso,
esamina e prende le distanze da alcuni aspetti sostanziali del capitalismo:
da un lato, l’accumulo di merci e di materiali inutili, non
funzionali, di rifiuti da smaltire, dall’altro, il gioco poetico prezioso
e anch’esso non funzionale: è appena il caso di precisare che l’equivalente
dell’oggetto nelle poesie visive è costituito dalla struttura
sintattica. Si isola un luogo comune o un codice e lo si valuta da
una prospettiva eteroclita (cui partecipa anche il linguaggio verbale)
che sconvolge le prospettive ordinate. Le immagini artistiche che ne
derivano sono – direbbe Francesco Orlando – antimerci che possono
rivelare un aspetto rimosso di quella Cosa cui si faceva riferimento
in precedenza2.
Bruciato dalla Cosa, trad. di F. Conte, in «Allegoria», XVII (maggio-dicembre
2005), n. 50-51, pp. 5-18.
2 Cfr. F. Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine,
reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, Torino, Einaudi, 1993, pp.
19-20.
594 ALESSANDRO GAUDIO [3]
Le poesie visive (e quelle riuscite non sono poi così numerose,
specialmente nel periodo successivo alla breve ma intensa esplosione
del fenomeno) si muovono su un’area concettuale comune molto
poco estesa (compressa nello spazio sempre più ridotto che separa
la parole dalle cose) che, proprio grazie alla sua misura ristretta,
riesce a conservare una certa stabilità e a tenere insieme il nuovo
composto di realtà. Ci riesce anche in virtù della compresenza in
essa di un doppio regime (verbale e visivo, si è detto, ma anche
corrente e inattuale, geometrico ed eteroclito, comune e privato), ma
che resta costantemente nel novero di ciò che è possibile pensare.
Ciò consente di dire che la vera virtù della Poesia Visiva è senz’altro
quella di non svilupparsi all’interno di uno spazio bianco, impensabile,
di alterità assoluta, esterno alla realtà e indefettibile (quale
potrebbe essere quello linguistico che, con la Poesia Visiva, perde
definitivamente la sua collocazione privilegiata) e di disporsi criticamente
(cioè nell’ordine dell’umano) nei confronti di un mondo e di
una storia che, anche se messi in discussione, restano comunque
nominabili, discutibili: tale nuova visione interstiziale, straniante,
presuppone, dunque, che a un ordine interno alle cose si sommi
l’ordine di chi le guarda; la distanza che separa i due ordini è
quello all’interno del quale opera (e funge da intermediaria) la Poesia
Visiva. Essa è chiamata a mostrare e ad analizzare questa duplice
forma di controllo, servendosi di una poetica che sia in grado
di disegnare liberamente il reticolo all’interno del quale operare,
non rinunciando, però, a identificare ordini diversi o migliori e a
lacerare quelli di cui non ci si serve più.
In questo saggio si studieranno i contributi di alcuni tra gli artisti
che si sono impegnati più e meglio nell’allestire lo spazio d’ordine
della Poesia Visiva in Italia, e cioè il campo epistemologico all’interno
del quale si è originata questa forma d’arte che comunque, ancora
oggi, continua a suscitare l’interesse di un selezionato gruppo
di critici e di cultori. Ci si concentrerà, in particolare, su alcuni poeti
visivi operanti tra il Veneto e la Lombardia, ma non per cercare in
un criterio regionalistico di identificazione un motivo caratterizzante,
intento lontanissimo dalle logiche della Neoavanguardia; bensì
perché il loro lavoro ha come punto di riferimento la casa editrice
factotum-art e la rivista «Lotta Poetica»: la prima stampata nel padovano
ma, come la seconda, operante a Verona. Gli approdi cui
sono giunti Sarenco, Franco Verdi e Giancarlo Pavanello (tutti presi
in esame dalla sensibile lente della semiologa Rossana Apicella),
infatti, pur nella loro eteronimia, non sono uniformabili a criteri del
[4] MAI BRUCIATI DALLA COSA 595
tutto dissimili da quelli cui sono pervenuti, ad esempio, i fiorentini
Eugenio Miccini, Luciano Ori, Lamberto Pignotti, né dalle maniere
espresse tra Torino e Genova da Arrigo Lora Totino e da Claudio
Costa (nato a Tirana nel 1942 e scomparso nel 1995) o in Sicilia dalle
Singlossie di Ignazio Apolloni. In tutti i modi, sembrerebbe lecito
tentare di isolare una fetta d’avanguardia che ha trovato nello sforzo
di comprensibilità, nella natura pubblica dell’atto poetico e nella
necessità di compromettersi col reale motivi caratterizzanti forti, ma
quasi immediatamente messi in discussione.
2. Un ruolo importante nel verificare sul piano teorico le istanze
care alla Poesia Visiva lo detenne, sin dal 1968, la semiologa Rossana
Apicella, nata a Maiori, in provincia di Salerno, nel 1926 e scomparsa
nel 1983. Suoi scritti comparvero su parecchi fascicoli di factotumbook,
che, negli anni Settanta e Ottanta, si abbinarono a «Lotta Poetica
» (fondata nel 1971 dai poeti visivi Sarenco – pseudonimo di
Isaia Mabellini –, Paul De Vree e Gianni Bertini e pubblicata, con
qualche intervallo, fino al 1987) e a «factotum-art» (diretta da Sarenco
e De Vree), riviste di riferimento per i cultori di Poesia Sonora, di
Poesia Visiva e, in genere, di concezioni scritturali alternative e che
affiancavano l’attività di una piccola, ma attivissima casa editrice,
ubicata a Calaone-Baone in provincia di Padova. Proprio dallo studio
dei testi e dei cataloghi pubblicati per le edizioni factotum-art è
possibile selezionare i concetti chiave (quali ‘singlossia’, ‘futurgappismo’,
‘oggetto attivo’, ‘polis’, ‘guerriglia semiologica’, ‘poesia
totale’) e i poeti (Sarenco, Miccini, Verdi, Ori, Pavanello e Michele
Perfetti, tra gli italiani più interessanti) che caratterizzarono maggiormente
quella stagione d’avanguardia.
Intorno a «Lotta Poetica» – che programmaticamente si poneva
come strumento di informazione e di scambio tra i vari operatori –
prendeva corpo il Gruppo internazionale di poesia visiva, completato
da artisti operanti in tutto il mondo. Tra i tanti che condivisero le
proprie realizzazioni sulle pagine delle pubblicazioni di factotumart
è opportuno citare almeno Alain Arias-Misson, belga di nascita,
ma americano e spagnolo d’adozione: fu l’iniziatore del Public Poem
(che prevede che l’atto poetico si faccia prassi) e il massimo esponente
della Poesia Visiva d’Oltreoceano; sempre negli Stati Uniti,
bisogna citare Dick Higgins; poi Bernard Aubertin, esponente francese
di spicco del Gruppo zero e conosciuto come l’artista del fuoco;
i tedeschi Joseph Beuys e Timm Ulrichs; Paul De Vree, il più interessante
poeta sperimentale fiammingo, nonché co-fondatore di
596 ALESSANDRO GAUDIO [5]
“Lotta Poetica”; e, infine, Jiri Kolar e Ladislav Novak, gli iniziatori
della poesia concreta in Cecoslovacchia3. L’elenco testimonia solo
marginalmente le origini e gli approdi eterocliti delle diverse etichette
affini alla Poesia Visiva (dalla Poesia Concreta, mallarmeana
e futurista, alla Poesia Tecnologica del Gruppo 70 di Miccini, Pignotti,
Ori e Marcucci, fino agli approdi più puri di Sarenco, Arias-Misson
e De Vree), le quali, tuttavia, presentano alcuni caratteri comuni:
apertura a nuove dimensioni, adesione al clima politico di critica
della società borghese, rinnovamento della scrittura e della poesia
(nei casi migliori, continuando a ricercare ancora una certa aderenza
all’aspetto semantico, oltre che tipografico e dunque meramente
estetico, del linguaggio verbale), accostamento alle ricerche limitrofe.
A questi si aggiunge la problematica presa di distanza (dichiarata
più che effettivamente compiuta) dalla Conceptual Art, un’arte
smaterializzata, che non ha un oggetto come residuo4.
Nel testo introduttivo del catalogo pubblicato in occasione di
Poesia visiva internazionale, mostra collettiva, tenutasi a Venezia nel
giugno del 1972, la Apicella ricostruisce sinteticamente le ascendenze
e le fratture di un movimento di neoavanguardia che, rispetto alle
operazioni messe in atto dal cartellone pubblicitario, dal cinema e
dal fumetto, avrebbe superato la tradizionale relazione didascalica
che si instaura tra parola e immagine, proponendo invece una
simbiosi di messaggio discorsivo e di messaggio visivo (che, nella
sua ambivalenza di lettura, diverrebbe «linguaggio di “polis”») e
che, rispetto a tutte le forme istituzionali e regolari di far poesia, si
sarebbe opposta (e avrebbe dovuto continuare a farlo) a qualsiasi
tentativo di regolarizzazione di stampo accademico; ciò le avrebbe
consentito di mantenere il suo carattere immediato, violento, folle,
popolaresco e sperimentale5. A detta dei suoi più accorti teorici, il
3 A quasi tutti gli artisti citati venne dedicato un fascicolo monografico di
factotumbook: il primo numero contiene un’antologia mondiale della poesia visiva
che si pone esplicitamente come «istruzioni per l’uso delle avanguardie»,
raccoglie riproduzioni delle opere e scritti apparsi dal 1971 al ’75 su «Lotta
Poetica» e presenta la mostra retrospettiva allestita ad Abano Terme, dedicata a
quella esperienza editoriale (cfr. Poesia e prosa delle avanguardie. Mostra retrospettiva
“Lotta Poetica 1971-75”, factotumbook 1, Calaone-Baone, factotum-art, ottobrenovembre
1978).
4 Cfr. V. Fagone, Una scheda per Lotta Poetica e G. Dorfles, La Poesia Visiva
e Lotta Poetica, in ibidem.
5 Cfr. R. Apicella, Poesia visiva degli anni 72, in Poesia visiva internazionale,
Galleria ‘Il Canale’, Venezia, dal 7 al 28 giugno 1972.
[6] MAI BRUCIATI DALLA COSA 597
nuovo modo d’intendere la poesia deve considerare con riguardo la
delicata questione della propria comprensibilità e, dunque, il riscontro
del fruitore che, il più delle volte, è chiamato a integrare l’opera
dell’artista. Questi, proprio per tale motivo, non può ostentare «disinteresse
nei riguardi della polis»6, limitandosi a un evasivo e
solipsistico culto di se stesso che tradirebbe i principi di apertura da
sempre cari alla Poesia Visiva.
3. Franco Verdi (1934-2009), pur nel suo isolamento e nelle sue
modalità operative semiprivate, – a detta dell’Apicella – avrebbe certamente
rinunciato al disimpegno, al «quieto godimento», al «provvisorio
assaporamento», servendosi efficacemente del mezzo della satira.
È il caso, ad esempio, della sua Poesia gastronomica, fatta da «barattoli
che contengono conchiglie, pezzi di meccanismi, giocattoli di
plastica, materiali fossili, di colori varî e accesi. Si tratta – continua la
semiologa – di comuni barattoli di marmellata, o da sottaceti, chiusi
da un coperchio a scatto e morsa, di una molla di ferro dolce: ma
sono remotissimi dalla pop-art, dai pollastrini artificiali su falsi spiedi,
dalla satira gastronomica al consumismo di serie, che vuole essere
la satira ad un costume e ad una civiltà». Il bersaglio dell’atto derisorio
di Verdi è costituito, piuttosto, dalla poesia come atto disimpegnato,
quella che «non partecipa del tempo, ma si infossa in barattoli, che
diviene gioco, passatempo, tecnica sillabica, preziosismo salottiero»7.
L’azione diretta dell’immagine è surrogata dalla ricchezza linguistica
ed espressiva dell’atto di parola che, dunque, rispetto alla prima, è
metaforico ma, nel modo qui precisato, non meno efficace8.
Verdi confermerà questa posizione all’interno di uno scritto dal
valore programmatico, pubblicato nel 1978 su «Quinta Generazione
», rivista che promosse un dibattito su Realtà e veggenza. I passaggi
più significativi della risposta di Verdi riguardano l’idea di compromissione
che – secondo il poeta – pervade ormai il rapporto tra
arte e critica, la necessità di accordare una funzione preminente
all’espressione e, soprattutto, la connessione tra le condizioni formali
di produzione e il contesto storico-politico9.
6 Ead., Publit-Eros, in F. Verdi, Waves, Walls, Stripes, Catalogo della mostra
personale tenutasi nel 1982, presso il Centro Verifica 8 + 1 di Venezia-Mestre
(Verona, factotum-art, 1982).
7 Ead., Poemi gastronomici, in ibidem.
8 Su posizioni simili M. D’Ambrosio, Waves, in ibidem.
9 Cfr. F. Verdi, [Risposte al questionario], in «Quinta Generazione», VI (novembre-
dicembre 1978), n. 53-54, pp. 100-106.
598 ALESSANDRO GAUDIO [7]
Per comprendere pienamente il modo in cui funzionano i processi
simbolici messi in atto dal poeta veronese, credo che valga la
pena insistere sull’assenza di discontinuità tra materia dell’opera e
immagine che caratterizza il suo lavoro, ma anche sulla contiguità
di immagine e parola (e, transitivamente, di parola e materia): si
prefigura, così, un tipo di oggetto che si potrebbe definire attivo, in
quanto è in grado di sollecitare tanto la percezione quanto, grazie a
un continuo processo di deformazione del segno, l’immaginazione
del fruitore: già nel ’67, Verdi aveva sentito come essa fosse insufficiente
e improduttiva nell’uomo di oggi: è quanto il poeta rivelava
nel primo punto di un decalogo, inserito nel catalogo dell’importante
esposizione internazionale di Poesia Visiva, denominata Segni
nello spazio, tenutasi a Castello di San Giusto10. Nel prosieguo del
suo scritto, il poeta veronese si concentrava su alcune contrapposizioni
fondamentali che avrebbero potuto trovare una risoluzione in
seno alla poesia sperimentale: la prima riguarda il conflitto tra le
idee e le relazioni complesse (che non troverebbero spazio nella
nuova poesia) e la concezione divisa dell’Io: «non causalità ma possibilità,
non monologo ma dialogo, non chiusura ma apertura»; la
seconda prevede la fusione (spesso inedita e, dunque, ancora una
volta complessa) di elementi verbali e visuali: il fatto grafico è
costitutivo del discorso poetico; la terza teorizza l’interdisciplinarità
della poesia sperimentale: «poetica, critica, estetica sono momenti
interdipendenti nell’operare artistico»; l’immaginazione (che deve
essere produttiva), nella quarta contrapposizione, è adeguata al tempo
storico e, se opportuno, pronta a rinegoziare i suoi fondamenti11.
È molto evidente negli scritti dei poeti visivi più accorti, e in
quelli di Verdi tra questi, la necessità di non trascurare la dimensione
teoretica del proprio lavoro: essa diviene indispensabile per distinguere,
in seno alla Neoavanguardia, coloro che nelle loro opere
versano un impianto di riflessioni (un criterio preliminare) coerente,
meditato e, dunque, motivato (e di solito ciò avviene in quei poeti
visivi che hanno alle spalle un passato da poeti), da chi invece (e
sono i più), privo di qualsiasi preoccupazione di ordine, propone
semplici imitazioni a un pubblico di critici e di mercanti, il più delle
volte, colpevolmente compiacenti. È quanto rileva lo stesso Verdi in
10 Id., Sulla poesia sperimentale, in Segni nello spazio, Catalogo edito dall’Azienda
Autonoma di Soggiorno di Trieste per l’esposizione internazionale “Segni
nello spazio” (Castello di San Giusto, 8-31 luglio 1967), p. 15.
11 Cfr. ivi, pp. 15-16.
[8] MAI BRUCIATI DALLA COSA 599
uno scritto del 1971, ribadendo il ruolo fondamentale che critica,
poetica ed estetica detengono nell’arte d’oggi e prendendo le distanze
dagli epigoni della Poesia Visiva: «per un Petrarca, – lamenta
l’artista – qualche centinaio di petrarcheschi, per un Mallarmé qualche
centinaio di poeti visivi o visuali od altro»12.
4. La capacità ironica, unita alla coscienza politica del fare poetico
che contrasta l’universo poetico borghese e neoborghese, sarebbe,
secondo Sarenco, una caratteristica peculiare di tutta la Nuova
Poesia; sigla che, sin dal 1963, comprende, oltre alla Poesia Visiva,
anche la Poesia Concreta e la Scrittura Simbiotica: a distinguersi in
questi tre campi, a parte il già citato Verdi, non è possibile non
citare l’austriaco Heinz Gappmayr e Rolando Mignani, cui è dedicato
il quarto fascicolo di factotumbook13, nonché lo stesso Sarenco
che, sempre nel ’63, a soli diciotto anni e mentre nasceva a Palermo il
Gruppo 63, si avvicinò già a una prima (quasi inconsapevole) intuizione
della parola visiva.
Fu ancora l’Apicella che, già intorno alla metà degli anni Settanta,
oppose il discorso poetico dell’artista bresciano alla grammatica
del Gruppo 63 (a suo parere, nient’altro che «una piedigrotta
milanesizzata delle più stanche poetiche novecentesche camuffate
da scapigliatura»)14 e che coniò i vocaboli singlossia15 e praxiglossia,
fondamentali per definire i caratteri di novità della proposta di
Sarenco. Si tratta di un artista che affianca alla cospicua produzione
artistica una costante riflessione sulla sua poetica: essa nasce – come
capì immediatamente la Apicella – dall’intuizione dei problemi di
spazio e di linguaggio prima che acquistino corposità, cioè prima
12 Id., Annotazioni a «Preliminari ad una lettura» di Hans G. Helms e «Notizie sul
testo visivo» di Ferdinand Kriwet e traduzione dei due saggi, «Il Cristallo», XIII
(1971), n. 1, p. 143.
13 Sarenco, Tre concezioni scritturali: Heinz Gappmayr, Rolando Mignani, Franco
Verdi, in Tre concezioni scritturali. Heinz Gappmayr, Rolando Mignani, Franco Verdi,
factotumbook 4, Calaone-Baone, factotum-art, ottobre 1978.
14 R. Apicella, Sarenco: l’evoluzione di una poetica, in Sarenco, Interventi,
Catalogo della mostra personale tenutasi nel febbraio del 1974 presso lo Studio
Brescia. Tutte le citazioni riportate all’interno di questo paragrafo sono, salvo
diversa indicazione, tratte dal testo della semiologa.
15 Sulla fortuna del vocabolo e del fenomeno a esso connesso e sulle differenze
che lo separerebbero dal testo visivo, si vedano i miei Dalla poesia alla
Singlossia. L’introduzione mai scritta alle ‘poesie impossibili’ di Ignazio Apolloni,
«Mosaico italiano», (aprile 2009), n. 64, pp. 37-40 e Ventura di singlossia, in
«Lingua nostra», LXX (settembre-dicembre 2009), n. 3-4, pp. 103-104.
600 ALESSANDRO GAUDIO [9]
che «divengano problemi di massa o di accademia». In questo caso
la ‘corposità’ è da considerarsi come ‘massa inerte’, alla quale si
sommerebbe lo spazio asettico e acronico in cui solitamente si muovono
gli studi eruditi; il concetto di ‘massa inerte’ evocherebbe anche
quel processo di canonizzazione forzata operato in seno all’accademia,
cui si contrappone drasticamente la dimensione dialettica e
costantemente in progress prediletta da Sarenco: quella di chi vive il
suo tempo e di chi costruisce «dolorosamente le condizioni per uno
spazio vitale»16. Secondo la semiologa salernitana, Sarenco è, dunque,
un ‘personaggio nel tempo’ che, sincronicamente alla stagione
umana e culturale che sta vivendo, arriva a precisare la forma creativa
ed espressiva della singlossia, strumento specifico della Poesia
Visiva, grazie alla quale si sarebbero potute superare le pastoie di
un linguaggio (monoglossico, vale a dire letterario, desueto, tradizionale,
antico e discronico, più che acronico) fondato sulla rigida
distinzione saussuriana di langue e parole. Lo strumento singlossico
viene definito dalla Apicella come punto d’incrocio del linguaggio
idosemantico (o iconico) con il linguaggio fonosemantico: verbum
più immagine, quindi, cui si dovrà aggiungere il momento dell’esecuzione
(in parte delegata al fruitore), dell’interpretazione visiva del
poema sonoro. La singlossia consentirebbe, inoltre, di sommare al
discorso condotto dalla poesia una riflessione cosciente sulla logica
poetica e, grazie alla sua immediatezza, consentirebbe la convergenza
di più tipologie di segno artistico.
La parte conclusiva dello scritto (molto apprezzabile perché consente
di valutare a pieno il modo in cui l’autrice porta a maturazione
concetti che, come si è visto, è possibile ritrovare in nuce in tanti
suoi lavori precedenti) è dedicata alla distanza che separerebbe la
poetica di Sarenco (impegnata pubblicamente, aperta alla storia e
dotata di una forte carica dissacratoria nei confronti del contesto
sociale) dalle possibili compromissioni con il capitale e, in particolare,
dalla poetica dell’assurdo e del disimpegno (che, secondo la
16 Sulla poesia di Sarenco come riconquista del proprio corpo e, in generale,
sulla concomitanza nella poesia visiva di evento poetico e accadimento fisico si
concentrerà anche Achille Bonito Oliva nella prefazione del catalogo dell’installazione
preparata in occasione della Biennale di Venezia del 2001 (cfr. A. Bonito
Oliva, Sarenco detto anche il poeta, Milano, Giampaolo Prearo, 2001, pp. 7-9). Sui
rapporti di Sarenco e altri poeti visivi con alcuni critici d’arte, si veda il mio
Futurgappismo. Il futuro mancato del futurismo in una parola, in I. Apolloni (a
cura di), Futurismo come attualità e divenire, Numero monografico della «Rivista
di Studi Italiani», XXVI (dicembre 2008, ma 2010), n. 2, in corso di stampa.
[10] MAI BRUCIATI DALLA COSA 601
Apicella, prevedrebbe il ricorso a finezze verbali, la decomposizione
sillabica, la propensione per lo sfogo clinico e l’estraneità alla problematica
del tempo) cara al Dadaismo e alla Pop-Art. Il salto di
qualità compiuto da Sarenco coincide proprio con la scoperta della
praxiglossia, che piega la singlossia «a una diversa significazione storica
e civica» e comporta il definitivo superamento della dimensione
ludica: il poeta pubblico partecipa alla storia e la sua creazione
artistica diviene «discorso di polis», azione civica e atto etico che si
rivolge con semplicità a «coloro che sono oscuramente protagonisti
della storia» e che si pone come «anticipazione del suo tempo».
È intorno a questo argomento che, mi sembra, sia possibile trovare
le ragioni che indussero la semiologa a segnalare, intorno alla
metà degli anni Settanta, una concettualizzazione più vicina alle
ragioni della sua parola sul versante delle Singlossie di Ignazio
Apolloni e dei vari ‘gruppi anti’ che sorgevano in quegli anni in
Sicilia e che facevano della ri-creatività, della denuncia e del rifiuto
opposto alle logiche assimilanti della grande editoria la loro bandiera;
da qui la predilezione per i testi ciclostilati e per il manifesto il
cui spirito estemporaneo, incontrollabile, esoeditoriale verrà poi ripreso
dalle Singlossie apolloniane17.
Ma, tornando alla Poesia Visiva, la Apicella usò il termine
singlossia anche nella prefazione del catalogo relativo all’opera di
Michele Perfetti, esponente pugliese del Gruppo 7018. Nella poetica
di Perfetti la semiologa individuava tre «strutture portanti»: la Poesia
monoglossica, la Poesia visivo-tecnologica e la Poesia visivooggettuale.
Proprio quest’ultima, contestando «il tentativo di chiudere
in formule fisse il linguaggio della singlossia» e opponendosi
alla Pop-Art «con i mezzi stessi usati dalla Pop-Art» e dal Neo-
Dadaismo praticato da Julius Evola, sarebbe l’invenzione «più
pregnante» dell’operatore qui presentato: Perfetti avrebbe, così, tro-
17 Sono tre gli scritti della semiologa che definiscono la Singlossia, il suo
campo d’azione e il suo sistema di reagenti ideologici, riadattandoli ai motivi
dell’Intergruppo di Apolloni: R. Apicella, La poesia come ricerca di nuovi strumenti,
in «Intergruppo», (luglio 1979), n. 13; Ead., Per una lettura semiologica della
singlossia, «Intergruppo», (ottobre 1980), n. 14; Ead., Per una visione attuale della
singlossia, in «Intergruppo», (luglio 1984), n. 17-18. A questi si può aggiungere
della stessa autrice il bel saggio sulle Sketch-Poesie scritto nel novembre del 1979
e poi inserito in I. Apolloni, Singlossie. 1979-1996, Palermo, Novecento, 1997,
pp. 103-105.
18 R. Apicella, Prefazione, in Michele Perfetti, Roma, Beniamino Carucci Editore,
agosto 1975, pp. XVII-XXI.
602 ALESSANDRO GAUDIO [11]
vato il modo di accordare al suo messaggio poetico una dimensione
non più individuale, «ma di denuncia di una civiltà, di un tempo, di
un costume». La studiosa distingueva poi, all’interno dell’opera
dell’artista in questione, due forme d’espressione: con la prima,
denominata poesia visiva singlossica, l’artista prende di mira le modalità
d’espressione; con la seconda, il romanzo visivo singlossico, il
bersaglio diventa il linguaggio nel suo divenire e, dunque, – dice la
Apicella – il personaggio: questi è una maschera dell’individuo strumentalizzato
dal sistema capitalistico e diventa il bersaglio vero e
proprio dell’ironia e della vis dissacratoria di Perfetti.
Con rigore strutturalista, la studiosa pone a chiusura del saggio
un breve glossario che credo che sia utile riproporre interamente.
Nel trascriverlo, ho normalizzato gli accenti ed emendato qualche
refuso.
Monoglossia. Si intende l’uso di un solo strumento espressivo sia
esso visivo (e pertanto da affidarsi alla verifica delle Arti Visive), sia
esso verbale (e quindi verificabile dalla cosiddetta Critica letteraria).
La monoglossia riguarda un’opera di Giotto (linguaggio visivo) come
il plurilinguismo di Pound (linguaggio verbale). In ambedue i casi,
si tratta di un medium espressivo unico.
Paraglossia. Linguaggi diversi posti in posizione parallela. Esempio
tipico è il poster liberty, quello di Dudovich, ad es.: eliminando
la scritta pubblicitaria, resta un’immagine piacevole a sé stante,
verificabile attraverso la critica delle Arti Visive. La paraglossia è
l’accostamento senza complementarità, di due o più linguaggi, nel
quale l’uno può essere eliminato senza la decodificazione dell’altro.
Singlossia. È lo specifico della Poesia Visiva. L’uno dei due linguaggi
non può essere eliminato senza la decodificazione del contesto.
È la totale rivoluzione delle Poetiche del secolo ventesimo. La
scoperta della singlossia elimina la possibilità di una verifica al di
fuori dell’area semiologica: ogni interpretazione prevalentemente
visiva o verbale, non tenendo conto dello specifico della singlossia, è
totalmente negativa ai fini di una verifica della Poesia Visiva come
scoperta di un linguaggio totalmente nuovo.
Antiglossia. Categoria interna nell’ambito della singlossia. Consiste
nell’urto di due elementi costitutivi che raggiungono la complementarità
attraverso l’incontro-scontro. L’importante è che esista un rapporto
singlossico degli elementi costitutivi del contesto.
La Apicella prova a convalidare l’inedita terminologia stabilendo,
per ciascun lemma, una definizione; il dizionarietto fornisce
[12] MAI BRUCIATI DALLA COSA 603
qualche spiegazione riguardo allo stato di una materia che, in quegli
anni, sembra che sia in continua evoluzione, che si stia adattando
progressivamente alla materia che designa. Appare significativa
l’assenza del lemma praxiglossia e, alla fine di questo scritto, se ne
comprenderanno i motivi.
5. All’interno di un volumetto di dodici pagine (non numerate e
non rilegate) scritto dall’Apicella, intitolato Il gruppo teatro itinerario
e stampato nel novembre del 1977, in formato ridottissimo (11 x
18,5 cm) e in tiratura limitata (500 copie), presso le Edizioni Teatro
Itinerario, ideate e dirette dall’eclettico poeta veneziano Giancarlo
Pavanello, viene precisata l’indole di un artista che – a detta della
stessa semiologa – resterà il solo in grado di portare avanti la dimensione
‘praxiglossica’ della Poesia Visiva.
Il Teatro Itinerario era un laboratorio fondato dallo stesso Pavanello
e conclusosi nello spazio di quattro mesi, dal settembre al dicembre
’77. Il gruppo si faceva promotore di un «Teatro Elementare» che –
diceva l’Apicella –, a patto che esista lo spazio scenico, «si può fare
con tutto: i gatti in gabbia, la Poesia Visiva, la Poesia Concreta, la
Poesia Manoscritta, i libri, i poeti che dicono le poesie, la pedana,
un tavolo, un albero, un manifesto». Questa forma di teatro (che
coinvolge al suo interno lo spettatore) si basa su un linguaggio che,
superando la monoglossia, arriva alla singlossia, incrocio – come si è
appurato – di linguaggio visivo e di linguaggio verbale e, nelle
parole della studiosa, «grande rivoluzione semiologica del secolo
ventesimo»: proprio perché, all’esperienza estetica (dettata dalla
Poesia Visiva, Concreta o Manoscritta), si affianca l’esperienza funzionale-
economica dell’affiche pubblicitario, del fumetto e del poster.
Nel punto di congiunzione delle due esperienze si troverebbe la
singlossia cinetica che introdurrebbe la dimensione del movimento
che «crea una diversificazione spazio-temporale». Completano il libriccino
alcuni grafici che aiutano a comprendere la nuova direzione
assunta dalla comunicazione singlossica.
Al manifesto del Teatro Elementare, intitolato Dalla Nuova Scrittura
al Teatro Elementare e redatto dallo stesso Pavanello nei mesi di
novembre e dicembre del 1977 (anche se poi pubblicato soltanto nel
gennaio del 1978 per le Edizioni Poesiateatro, altra sigla editoriale di
sua proprietà, sorta dalle ceneri del Teatro Itinerario), si rifarebbe la
mostra di oggetti denominata Il Tesoro (allestita a Udine e, poi, a
Trento sempre nel ’77), tra i primi esempi di esperienza singlossicocinetica.
Nel Manifesto si fa riferimento alla teorizzazione dell’Apicella
604 ALESSANDRO GAUDIO [13]
sulla singlossia, per ribadire il modo in cui essa sia fondamentale per
comprendere il modo in cui, sostiene Pavanello, la nuova poesia,
pur avvicinandosi alla vita, diventa sinfonia, paradossalmente «diventa
teatro». Ma non si tratterà di certo dell’ultimo paradosso
d’avanguardia: tanto che, nel gennaio del 2010, Pavanello inaugurerà
a Bologna una mostra personale di Poesia Visiva, intitolata proprio
Poesia in scena: testi poetici brevissimi su tavole chirografate,
fotografate, incollate, manoscritte e verbo-visive, da guardare e da
leggere percorrendo lo spazio espositivo19.
Dai primi anni Settanta in poi, Pavanello è passato attraverso la
poesia visualizzata, la poesia critica, la poesia figurata e la poesia laconica:
spesso il poeta raccoglieva le sue prove in opuscoli a tiratura limitatissima
(500 copie al massimo), ma particolarmente accattivanti sul
piano tipografico, il cui scopo era quello di sostituire il decoro del
quadro e arrivare a tutti i livelli sociali. In tal senso, molto interessanti
appaiono gli approdi della poesia laconica: si tratta di una poesia,
composta da una fino a tre parole, che sorge dal silenzio –
sostiene lo stesso Pavanello – e che cerca il massimo grado di concisione
in un neologismo (si segnalano, tra i tanti, traumazione, telestasi,
musicastenia, afonologo, psicanto, caleidanza, bionologo). Lo scopo di questa
poesia concisa, «composta come un disegno elementare, facile da
ascoltare, facile da imparare a memoria», consiste nell’avversare
l’«anti-poesia logorroica» e di ricercare «uno stile adatto al mondo»20.
La ricerca poetica deve, insomma, adattarsi al proprio tempo, ma
operando – a detta del poeta veneziano – in quella marginalità
estrema (frutto di una riflessione critica e autocritica), in grado di
lasciare un segno che sopravviva all’oblio: essa non deve produrre
oggetti sofisticati e decorativi (o «stanche riprove neoclassiche») o
frutto di regimi industrializzati e globalizzati; in più, non deve confondere
il vero impegno con la smargiassata goliardica. È in cerca
di un approdo autentico, anti-artistico, anti-nostalgico, che si pone
come avanguardia definitiva, perché postuma, mentale (ma non chiusa
in una torre d’avorio), legata alla complessità della coscienza e
dell’immagine interiore, ultimo ambito di libertà e realtà dell’intelligenza21.
Non deve sorprendere il fatto che, negli anni Settanta,
19 G. Pavanello, Poesia in scena, Milano, Ixidem, dicembre 2009.
20 Id., Avvertenza, in Id., Poesia laconica, Milano, Ixidem, dicembre 2000.
21 Cfr. Id., La poesia mentale, espressione di una realtà dissociata [affinché la poesia
sorgiva produca una poesia laconica] [2000], in Id., Ciclo, Milano, Ixidem, dicembre
2001, pp. 57-66.
[14] MAI BRUCIATI DALLA COSA 605
Pavanello pubblicò alcuni libri parzialmente asemantici: si tratta di
L PHLSPH DNS L BDR (gioco erudito che – come notò con prontezza
Rossana Apicella – nasconde una parodia della linguistica del
giovane de Saussure), di Oscar Wilde nel carcere di Reading e di Il
fantasma di Aubrey Beardsley, che però non possono essere annessi
(per la loro struttura e per i contenuti astratti e fantastici) al modello
caro alla Poesia Visiva22.
6. Si è accertato che la Poesia Visiva, nella sua fase iniziale,
cerchi il suo fondamento nella ricaduta sul reale. Le strade tentate
dai primi interpreti del movimento, non soltanto in Italia, convergono
verso la realtà seguendo, in fin dei conti, due strade principali,
segnate da alcune importanti esperienze artistiche, non sempre conformi,
però, a quell’impostazione anti-dadaista che sembravano voler
perseguire. La prima è praticata da artisti come Aubertin, Kolar, che
ho già citato, ma ha un suo ascendente obbligato in Daniel Spoerri
e, in Italia, nel work in regress di Claudio Costa; essa prevede il
recupero delle possibilità estetico-figurative di oggetti materiali di
varia natura. Aubertin compie esperimenti artistici realizzando quadri
viventi che uniscano l’energia fisica del fuoco (spesso innescata
dallo spettatore stesso) al valore simbolico dell’oggetto bruciato (elenchi
telefonici, libri), al fine di prendere le distanze dalla cultura
tradizionale. L’azzeramento della tradizione lascia spazio al niente,
a uno spazio virtuale, bianco, ideale che contrasta apertamente il
recupero dell’oggetto cui mirano i poeti visivi e finisce per ribadire
un concetto di arte fine a se stessa. Kolar è un rappresentante della
poesia evidente, sinonimo – secondo Sarenco – di poesia materiale: essa
consiste nel sottrarre o aggiungere a famosi dipinti alcuni elementi
(oggetti, individui, alberi) o nell’isolare vedute particolari di una
stessa opera e di giustapporre le sue diverse versioni così ottenute
in successione, come se fossero fotogrammi di una sequenza (o parole
che compongono una nuova frase) che, però, non si sa bene da
quale fotogramma (o da quale parola) abbia avuto inizio; tale principio
di destrutturazione del linguaggio è quello tipico della poesia
concreta e mira alla creazione di uno spazio attivo all’interno del
quale ogni fruitore (così come l’autore) può operare direttamente
sul senso dell’opera, seguendo tuttavia criteri di lettura non abitua-
22 R. Apicella, Alla scoperta della idoglossia semantica o pseudoasemantica, Pieghevole
della mostra personale omonima, Venezia, il Canale, 1977.
606 ALESSANDRO GAUDIO [15]
li. Credo che l’opera di Kolar sia per certi versi accostabile alla Eat
Art del rumeno Daniel Spoerri che, nel corso degli anni Sessanta,
aveva mosso un vero e proprio atto di sfida alla tranquilla civiltà
dell’immagine, mediante gli scherzi iconoclasti dei suoi Tableauxpiège
o dei Détrompe l’oeil: la tavola imbandita, i resti della colazione,
gli oggetti aggiunti a un ritratto anonimo, un’antica cornice si sostituiscono
alla tavolozza, capovolgendo esemplarmente il senso dell’iconografia
borghese23. Un’operazione che, come quella condotta
pochi anni dopo da Claudio Costa, c’entra poco con il passaggio
dall’oggetto alla sua definizione linguistica. Nel caso del Work in
regress di Costa non si può più parlare di tendenza a un uso ironico
o straniante dell’immagine, in quanto i suoi lavori mirano al recupero
della funzione ancestrale dell’oggetto materiale. Il tentativo di Costa,
che si rifà comunque al ready made duchampiano e fruisce degli
approdi dell’Arte Povera, è finalizzato al superamento dell’avanguardia
per l’avanguardia che, a partire dall’inizio degli anni Sessanta,
è piuttosto incline al work in progress. Restando nell’ambito dell’idea-
invenzione, inventando cliché fini a se stessi, essa non riuscirebbe
ad agganciarsi al tempo storico. La proposta dell’artista genovese
(ma, come detto, nato a Tirana), «pratica e coerenza di vita» e
invito a studiare il passato, consisterebbe in un tentativo di prendere
coscienza, attraverso il recupero dell’oggetto materiale (argilla,
legno, badili, picconi, madie per il pane, corni, letame), che esiste
un’origine delle idee, così come un’origine dell’uomo24.
La seconda strada è quella percorsa da Sarenco; mentre all’estero
è Alain Arias-Misson il principale interprete di questa vena artistica
che privilegia l’impiego della poesia visiva come messaggio politico.
I public poems dell’artista americano sono – secondo quanto sostiene
egli stesso – «enactment[s] of language-fluid, enmeshed in
the real street processes»25: di fatto, si tratta di sagome di lettere,
parole, segni d’interpunzione, simboli grammaticali grandi come
23 Per tutti i riferimenti agli autori citati in questa sezione si rimanda a
Bernard Aubertin, factotumbook 5, Calaone-Baone, factotum-art, settembre 1978,
Jiri Kolar, factotumbook 9, Calaone-Baone, factotum-art, ottobre 1978, Claudio Costa.
Work in regress, factotumbook 13, Calaone-Baone, factotum-art, gennaio 1979
e Daniel Spoerri. L’arte in trappola, factotumbook 29, Calaone-Baone, factotum-art,
marzo 1981.
24 Cfr. [Intervista di Sarenco a Claudio Costa, rilasciata a Genova il 22 dicembre
1978], in Claudio Costa, cit.
25 A. Arias-Misson, The Public Poem – Prologue, in Alain Arias-Misson. The
public poem book, factotumbook 11, Calaone-Baone, factotum-art, dicembre 1978.
[16] MAI BRUCIATI DALLA COSA 607
uomini che vengono trasportati lungo le strade da un poetry-team (e
interpretate dagli stessi passanti) e che sottolineano alcuni aspetti
del tessuto (o del testo) cittadino: attraverso essi, da virtuale che
era, il senso della città (anche quello potenziale) viene esplicitato,
portato a livello enunciativo, realizzato. I poemi pubblici rappresentati
tra la fine degli anni Sessanta e la metà del decennio successivo
nelle strade di Madrid, Bruxelles, Milano, Pamplona, Amsterdam,
New York, Bonn sono (un po’ paradossalmente) riprodotti nel fascicolo
citato di factotumbook ed è qui – come ammette lo stesso artista
– che si estingue la loro carica poetica poiché, precisa, nella città
essi dovevano fare i conti con la disattenzione e l’alienazione dei
cittadini e, dunque, non sono mai esistiti se non all’interno del libro
e tra questo e la strada sono destinati a oscillare.
Largamente esemplificativo delle convinzioni di Sarenco in fatto
d’arte è il concetto di futurgappismo26. All’interno del secondo numero
della rivista illustrata d’avanguardia «factotum-art» erano inseriti
quattro comunicati, cui avrebbero fatto seguito altri due presenti sul
numero successivo, uscito nell’agosto del ’78, che consentono di
definire il senso di futurgappismo e la portata di un fenomeno giocatosi
e subito esauritosi tra le convinzioni di Sarenco e le tante contraddizioni
di altri suoi interpreti; è indubbio, poi, che una tendenza
artistica che, per esprimere aspirazioni o velleità nuove, si nomina
con vocaboli risalenti a vari decenni addietro, non si può dire
che prometta bene. Il vocabolo campeggia ed è preponderante sia
sul piano concettuale sia su quello visivo su ciascuna delle sei circolari27.
Ogni intervento diventa, così, un manifesto di denuncia che
si oppone (già graficamente) alle logiche della grande editoria.
La parola risale, dunque, al 25 aprile 1978, data del primo aggressivo
comunicato, pubblicato da Sarenco sul numero 2 di «factotum-
art»: è lui stesso a spiegare l’etimologia della ‘parola-macedonia’
futurgappismo che, da sola, chiarisce lo spirito battagliero che
animava tutte le attività a essa connesse: si tratta di un composto a
doppia testa (futurismo gappista o gappismo futurista?) formato da
due sostantivi: futurismo, termine creato – com’è noto – da Marinetti
nel 1909 e qui inteso come «attacco culturale e fisico contro il
26 Sul movimento e la fortuna della parola, si veda anche A. Gaudio, Futurgappismo.
Il futuro mancato del futurismo in una parola, cit.
27 I manifesti vennero riprodotti sul fascicolo 21 di factotumbook, intitolato
Futurgappismo 1, curato da Vittore Baroni e Carlo Battisti e pubblicato nel giugno
del 1979.
608 ALESSANDRO GAUDIO [17]
“passatismo”, contro i critici d’arte, da considerare “inutili e dannosi”
», e gappismo, neologismo (nessun vocabolario storico lo registra)
derivato da gappista, a sua volta dall’acronimo GAP (sigla dei Gruppi
di Azione Partigiana, commandos costituiti da partigiani guidati
dal Partito comunista e subordinati a questo e alle Brigate Garibaldi)
e che rimanda alla guerra di resistenza condotta in città contro
nazisti e fascisti all’indomani della costituzione, nel settembre 1943,
della Repubblica Sociale Italiana; questa lotta era portata avanti
cercando di smuovere, servendosi di qualunque mezzo, l’opinione
pubblica e nella convinzione che ogni attendismo avrebbe prolungato
il dominio nazifascista.
Dal canto suo, Sarenco ripropone pressappoco il modello militare
della brigata (cui si stava rifacendo anche la “F.T. Marinetti
Brigade” di San Francisco, nonché altri gruppi di artisti operanti
negli Stati Uniti a New York, a Philadelphia e in California), per
minacciare un «attacco fisico contro i criminali fascisti, contro le
spie ed i delatori, da individuare e freddare nei loro giacigli familiari
». La linea propugnata da «factotum-art», pur cogliendo qualche
spunto terminologico dal Boccioni di «Lacerba», dal Carrà di
Guerrapittura o dai chimismi di Soffici, si sviluppava autonomamente
secondo problematiche prevalentemente visuali, sorte – come si è
già accennato – negli anni della seconda guerra mondiale e che
superavano di molto le ‘parole in libertà’ o l’’aeropoesia’28. Così, alla
base del Futurgappismo («sintesi di due “movimenti”»), sembra esserci
una marcata intenzione ossimorica (voluta o inconscia?): da un
lato, il futurismo, con tutto il suo rivoluzionarismo, che dal punto
di vista politico era ben di destra, tanto che si amalgamò benissimo
con il fascismo; dall’altro, il gappismo che, al contrario, era di sinistra.
Pur non disdegnando il riferimento anche frequente alla storia
dei movimenti artistici, esso (esplosiva conciliazione di opposti estremismi)
diventa «un modo di operare degli artisti rivoluzionari contro
le mafie culturali (chiara espressione del governo culturale nazionale)
per l’instaurazione della dittatura delle avanguardie artistiche
proletarie». Sarenco si schierava dalla parte di tutti gli artisti
marginali (ma non «così emarginati da ritenersi sconfitti») e, in
particolare, perorava la causa dei poeti visivi accomunati dallo spirito
battagliero del periodico che guidava: tra gli italiani, non è
possibile non citare Eugenio Miccini (alcune sue azioni “futurgap-
28 Cfr. C. Belloli, Poesia visuale, oggi, in Segni nello spazio, cit., p. 10.
[18] MAI BRUCIATI DALLA COSA 609
piste” comparvero sul quinto fascicolo di «factotum-art») e ancora
Franco Verdi, entrambi particolarmente dinamici nel proporre giustificazioni
teoriche al loro modo di intendere l’arte e valutazioni
mai compiacenti nei confronti degli operatori della Neoavanguardia
meno motivati e, soprattutto, dei mediatori della cultura di massa.
7. Questa panoramica sui motivi che caratterizzarono le origini
della Poesia Visiva in Italia può concludersi, così come era iniziata,
da un testo di verifica semiologica (ma non solo) dell’attentissima
Rossana Apicella. In un testo del 1979, pubblicato su un’altra rivista
molto sensibile ai lavori di cui ci si è occupati qui, la studiosa tira
le somme del movimento al termine di un decennio importantissimo
per le sorti delle Neoavanguardie: la Poesia Visiva, legata al
divenire dei tempi, appare, già nel ’79, frutto di una rivoluzione
(quella dadaista, esplosa col Maggio Francese) fittizia e inconcludente.
Dal 1977 in poi, infatti, sull’utopismo che ha caratterizzato
quella stagione prevarrebbe la realtà (che, a dire il vero, si era posta
sin dai primi anni Settanta come riferimento concettuale obbligato
degli esperimenti più consapevoli). In questa nuova fase, fattori
quali la morsa economica, il futuro incerto e la precarietà dei mezzi
di sussistenza e di benessere avrebbero indotto l’universalità della
rivoluzione a frantumarsi – sostiene la Apicella – «in una casistica
di sopravvivenza personale»29.
Con tutto ciò, sarebbe rimasto acceso un barlume di quell’impeto
di urto e di partecipazione: la Poesia Visiva, uscita dalla necessità
dell’engagement politico, ha potuto operare la rivoluzione più vera e
duratura, che la Apicella decreta debba coincidere con quella del
linguaggio poetico. Nel sostenere ciò, la semiologa ribadisce, comunque,
la necessità di non restare estranei al proprio tempo e
contrappone a una deprecabile parvenza di nuova poetica (quella, ad
esempio, propria del discorso di Pasolini sul recupero degli stilemi
dialettali, dei proverbi, del motto), che resta nell’ambito della confessione
privata, una auspicabile realtà di nuova poetica, che manterrebbe
una dimensione pubblica.
Il fattore che ha condotto alla fine della Poesia Visiva è legato
alla sua progressiva chiusura in un gruppo di potere che ha cercato
di spegnere ogni voce autonoma, ricadendo – secondo l’Apicella –
29 R. Apicella, Poesia Totale come nuovo sviluppo della singlossia, «Zeta. Rivista
internazionale di poesia», I (1979), n. 1, p. 12.
610 ALESSANDRO GAUDIO [19]
negli errori del metodo dei Novissimi30: la Poesia Visiva, superata la
sua fase di lotta di gruppo (che ha avuto nel futurgappismo il suo
stadio più aggressivo), deve dunque rifiutare qualsiasi implicazione
politica e realizzarsi nella Poesia per la Poesia, con lungimiranza
riconosciuto come ambito di riferimento per la nuova Scrittura Verbale.
Ma questa nuova rivoluzione si pone come superamento, che
mantenga in ogni caso rapporti con la temperie precedente, o piuttosto
come suo deciso rifiuto?
La Apicella sembra propendere per questa seconda ipotesi, anche
perché l’a-semanticità che caratterizza la Scrittura Verbale si
contrappone alla necessità di immediatezza e di chiarezza del tipo
di messaggio caro ai poeti visivi (un po’ strumento illuministicopopulistico,
un po’ propaganda politica). Si chiude la fase utopistica
e, con essa, il mito della praxiglossia: «i poeti – dichiara la studiosa –
non fanno altra storia che quella individuale, personale, autobiografica
»31. Lo scacco della Poesia Visiva coinciderebbe, insomma, con il
fallimento di tutta la Neoavanguardia, al quale sembra essere connessa
l’origine di una lunga fase di crisi dalla quale, ancora oggi, si
sta cercando di uscire: «la Scrittura Visuale nasce da questa crisi di
un mondo e di una ricerca, dalla disgregazione di una storia poetica
implicata da una storia civile»32.
Rossana Apicella ha colto con intelligenza la fase di mutamento
che si stava originando in quegli anni nella cultura occidentale;
tuttavia, avrebbe potuto essere maggiormente accorta nel decretare
la fine della Poesia «a messaggio aperto» (liquidata frettolosamente
come utopistica), liberando di fatto il campo a un tipo di scrittura,
«a messaggio chiuso», Poesia Totale, sì, ma nuovamente monoglossica,
e vicina agli echi del Futurismo, da un lato, e del Dadaismo
(definito, in più occasioni, negazione della storia, proposta di quiescenza,
gioco di carnevale, scherzo da seminario e commedia goliardica),
dall’altro, e che, seppur ancora lontana dai manierismi di
un decadentismo fatiscente, avrebbe perso la carica di azione, di
originalità e di senso che la Apicella stessa era stata così brava a
individuare nei lavori di Sarenco, di Verdi e di Pavanello (e di
pochi altri). Tutti artisti che, seppur consapevoli che sarebbe stato
inutile continuare sui binari di quel bios politikos che contraddistingueva
i momenti più eversivi della prima fase neoavanguardi-
30 Ivi, p. 16.
31 Ivi, p. 17.
32 Ivi, p. 18.
[20] MAI BRUCIATI DALLA COSA 611
stica, stavano sperimentando autonomamente la possibilità di opporsi
al conformismo sociale proprio della cultura italiana della fine
degli anni Settanta e – che è la medesima cosa – all’inutilità di una
poesia che indugi esclusivamente sulla parola o, ancora peggio, sul
segno insignificante e lo stavano facendo mediante una forma privata,
individuale, ma mai isolata o meramente contemplativa, di
prassi intellettuale.
Alessandro Gaudio
(Università della Calabria)
Giorgio Cavallini, Registri stilistici.
Da Dante a Pirandello e altri del Novecento,
Genova, Stefano Termanini
Editore, 2009, pp. 208.
Studioso e critico acuto e prolifico
della letteratura italiana, Giorgio Cavallini
raccoglie in volume i suoi interventi
degli ultimi anni (2008 –
2009) dedicati ad alcuni aspetti e figure
della nostra letteratura da Dante
all’età contemporanea. «È costume
ormai secolare» scrive Raffaele
Giglio nell’Introduzione al testo «che
ogni critico militante accolga in volume
periodicamente i suoi saggi,
sparsi in riviste o quotidiani, offerti
a lettori diversi, distribuiti negli angoli
più remoti di questo mondo» (p.
5), presentando, in questo modo, una
scelta dei temi che accompagnano
l’interesse di uno studioso.
Il titolo della miscellanea, Registri
stilistici, fa riferimento al modello
teorico proprio dell’Autore che si
traduce in un metodo d’indagine
testuale che, attraverso una scrittura
godibile e attenta, descrive, analizza,
ricostruisce storiograficamente
nell’intento di dar vita a interpretazioni
critiche capillari o di largo respiro
su aspetti centrali della letteratura
italiana. In questa silloge Cavallini
ci offre undici saggi di argomento
vario, dai due iniziali dedicati
alla poesia dantesca ad un dittico
goldoniano su La Locandiera ed
i Rusteghi, fino ad una riflessione sul
Poema paradisiaco di d’Annunzio, oltre
ad interventi su autori “minori”
come Mario Morasso, Michele Federico
Sciacca, Paolo Bertolani, Maria
Adelaide Raschini e Margherita
Faustini. I testi, che a volte si richiamano
a studi precedenti di Cavallini
sull’argomento e di cui i nuovi contributi
appaiono come “postille” ulteriori,
creano quel senso di fiducia
nell’esegesi di un «instancabile» (p.
5) critico che si traduce in un accrescimento
del significato degli scritti
stessi, dedicati con simpatia ad amici
e colleghi.
Tra i diversi exempla della metodologia
d’analisi dello studioso ne
scelgo alcuni paradigmatici del suo
stile critico relativi alla figura di Virgilio,
al linguaggio della Mirandolina
goldoniana e alla poesia di Margherita
Faustini.
Ad apertura del volume, Cavallini
propone una lettura della figura di
Virgilio nel VII canto del Purgatorio,
preceduta da un’analisi della strut-
Recensioni
RECENSIONI 613
tura dello stesso canto e dell’incontro
che Dante ed il poeta latino hanno
con il più celebre dei trovatori
italiani, Sordello da Goito. L’attenzione
dello studioso si focalizza sui versi
1-63 in cui Virgilio si presenta,
dichiarando il proprio nome («Io son
Virgilio», v. 7) e spiegando le ragioni
del suo risiedere nel primo cerchio
dell’Inferno, il Limbo, insieme a coloro
che non conobbero per tempo la
fede cristiana e ai «pargoli innocenti
| dai denti morsi de la morte avante
| che fosser da l’umana colpa essenti
» (vv. 30-33). Servendosi dei contributi
della più raffinata ed agguerrita
esegesi critica dantesca dall’Ottocento
ai giorni nostri, Cavallini affronta,
attraverso la malinconica condizione
di Virgilio, per sempre escluso dalla
salvezza divina «per non aver fé» (v.
8), il tema legato allo stato dei
limbicoli ed al conseguente «problema
della salvezza degli infedeli» (p.
20) che Dante risolve appunto relegando
questi ultimi in un luogo “sospeso”,
«indipendentemente dall’opinione
di teologi come san Tommaso
d’Aquino» (p. 20) che non contemperavano
per essi alcuna possibilità
di entrare a far parte dell’oltremondo
divino. A tal proposito Cavallini nota
come sia bene ricordare l’importanza
attribuita dal poeta medievale
all’«imperscrutabilità della giustizia
divina, tema centrale di alta dottrina
che troverà adeguato sviluppo nel
lungo discorso dell’Aquila […] di
fronte alla quale giustizia […] la
mente umana, a giudizio di Dante,
può soltanto inchinarsi umilmente
senza presumere mai di voler giudicare
» (pp. 20-21).
Il primo dei saggi che compongono
il dittico goldoniano è dedicato
all’analisi del linguaggio di Mirandolina,
il «personaggio femminile
forse più seducente e più intelligentemente
lucido del teatro comico goldoniano
» (p. 51), protagonista della
commedia La Locandiera (1753). Attraverso
l’individuazione di termini
e concetti ricorrenti nei dialoghi e
nei monologhi di Mirandolina, il
critico tende a ribadire e a rafforzare
la compattezza e la coerenza artistica
del personaggio, civettuolo e
concreto ad un tempo. A conferma
di ciò lo studioso mette in luce come
il verbo più ricorrente utilizzato
dalla bella locandiera sia «fare», ma
in un’accezione particolare: la donna,
infatti, non si accontenta «soltanto
di fare» ma riesce sempre a «far
fare agli altri ciò che essa desidera e
si prefigge di ottenere» (p. 52).
Come ben si sa, Mirandolina vuol
far innamorare di sé il Cavaliere di
Ripafratta, «nemico di tutte le donne
» (p. 54) per poi poter rendere
pubblico il proprio trionfo «a scorno
degli uomini presuntuosi e ad onore
del nostro sesso» (p. 53). Ebbene sul
concetto di «nostro» e di «sesso»
Cavallini basa la propria indagine: la
locandiera parla a nome di tutte le
donne (spesso utilizza il pronome
plurale «noi») e con la consapevolezza
propria di un’intelligenza
accattivante che sa porre l’immagine
femminile al di sopra della considerazione
del tempo: «voglio usar tutta
l’arte per vincere, abbattere e
conquassare quei cuori barbari e duri,
che son nemici di noi, che siamo la
miglior cosa che abbia prodotto al
mondo la bella madre natura» (p. 54).
Il secondo termine, invece, mette in
evidenza l’orgoglio dell’appartenenza
e la fedeltà ad una condizione di ge614
RECENSIONI
nere, in linea con un’istanza di rinnovamento
nei rapporti tra la donna e
l’uomo, in cui quest’ultimo rimane
«ancorato», come scrive Cavallini, «a
pregiudizi e privilegi destinati ormai
ad essere superati» (p. 53).
Una riflessione sul tempo è sviluppata
dal critico, infine, a proposito
dell’ultima raccolta poetica di
Margherita Faustini, Opposte preghiere,
il cui titolo «intende forse significare,
con implicito messaggio d’amore
rivolto a tutti gli esseri umani,
che le parole di chi prega, benché
possano nascere da esigenze e sentimenti
diversi o perfino opposti,
devono tendere sempre a fondersi»
(p. 191). Seguendo l’articolazione del
volume nelle tre sezioni che lo compongono,
«Tempo interiore», «Le
storie», «La Storia», Cavallini mette
in luce come la poetessa ligure tenti
un superamento dialettico fra «storia
» interiore e vicenda universale,
superamento che, attraverso una
palingenetica epifania del «noi»,
porta a comprendere una metafisica
nuova e pacificata. In questo modo,
l’urgenza del compimento del «noi»
è messa al riparo dal dolore della
minaccia del divenire e dalla forza
dell’amore (e proprio «amore», annota
Cavallini, risulta essere, all’interno
della raccolta, una delle parole
tematiche maggiormente ricorrenti).
Il tempo orizzontale, dunque, «il
passato (o il “tempo già compiuto”)
si conserva tuttora vivo nel ricordo
che il presente custodisce e continuamente
rinnova, p. 195) si innalza
e diviene verticale, proiettandosi
in un futuro che «si affaccia nell’amore
» (p. 195) e nell’immagine del
«seme» che condensa in sé l’«eternità
dell’essere» (p. 196), opponendosi
«a tutto ciò che […] è transeunte
» (p. 196).
Noemi Corcione
Vincenzo Caputo, La «bella maniera
di scrivere vita». Biografie di uomini
d’arme e di stato nel secondo Cinquecento,
Napoli, Edizioni Scientifiche
Italiane, 2009, pp. 290.
La nostra tradizione letteraria è
fortemente rappresentata dal genere
biografico, molto prolifico ad esempio
lungo un arco di tempo che va
dal De viris illustribus di Francesco
Petrarca sino all’opera di Gabriele
D’Annunzio, Vita di Cola di Rienzo
(1913). Pertanto, particolarmente
evidente risulta – sottolinea Caputo
– «la marcata distonia tra quantità e
qualità di testi biografici e riflessione
teorica su di essi» (p. 7), dal momento
che la scrittura di vita rappresenta
un genere letterario non di
facile articolazione, «sospeso tra realtà
storica e finzione retorica» (p.
7). Nonostante la scarsa attenzione
critica alle biografie cinquecentesche,
tuttavia è nella seconda metà del
XVI secolo che si è dibattuto su
quale fosse «la bella maniera di scrivere
vita» e su quali fossero le modalità
retoriche per poter elaborare
una biografia. Tale fu il “lavoro” di
Francesco Patrizi, Giovanni Antonio
Viperano e Torquato Malaspina, letterati
che si resero protagonisti di
tutta una serie di riflessioni teoriche,
costruendo un insieme di norme
o direttive da seguire per lo scrittore
di vite ed, inoltre, mostrandosi
consapevoli che per creare il canone
retorico, bisognava risalire a Petrarca,
Boccaccio e ai modelli classici di
RECENSIONI 615
Plutarco e Svetonio. Nel volume qui
in esame, Caputo ha focalizzato la
propria attenzione su un cospicuo
gruppo di opere, raggruppate in
base alla loro genesi temporale e
tipologica. Dal confronto si è evidenziato
il rapporto che le unisce e la
presenza di un dato modello con
temi e situazioni costanti, con lo
scopo altresì di «storicizzare eventi
e personaggi per comprendere le
problematiche portanti dei testi esaminati
» (p. 12). Certamente nello
scrivere una biografia si aderisce ad
un canone letterario, che si struttura
in una sintassi retorica ben precisa
articolantesi su un piano orizzontale
e su uno verticale. Si narrano, dunque,
dopo il proemio iniziale e il
richiamo alla nobiltà della famiglia
del biografato le azioni degne e le
sue virtù d’animo. Esemplarità e verità
della vicenda narrata sono i tratti
costanti delle dediche, in quanto
l’opera è ritenuta un exemplum da
emulare e degno di essere immortalato
dalla scrittura, ragion per cui si
deve «narrare sinceramente le cose
come furono», stando all’imperativo
di Giuseppe Orologgi nell’avvertimento
ai lettori premesso alla sua
Vita di Camillo Orsini. Utili e di giovamento,
le letture biografiche offrono
un profilo a tutto tondo del
personaggio d’arme o di stato, dall’infanzia
– passando per il “manifestissimo”
segno della futura grandezza,
la giovinezza – sino alla maturità,
quando si realizzano a pieno le attitudini
che il personaggio d’arme o
di stato ha mostrato di possedere in
precedenza. Dal punto di vista più
propriamente tecnico, esse poi permettono
di scandagliare le tecniche
retoriche e gli espedienti narrativi comuni
e da ritenere propri del genere
in questione. È possibile sottolineare,
inoltre, come questi testi accolgano,
al loro interno, ulteriori modalità
scrittorie, dall’epistola all’epigramma,
fino alla forma standardizzata dell’orazione
o dei mini-dialoghi per
registrare i maggiori momenti di
drammaticità narrativa, siano essi in
forma breve o caratterizzati dalla
«duale opposizione tra diversi punti
di vista con la relativa finale supremazia
della sagacia oratoria del personaggio
biografato» (p. 117). Tuttavia,
sempre dalla seconda metà del
XVI secolo non mancano polemiche
“biografiche”, portate avanti da letterati
insigni come Carlo Sigonio. A
tal proposito, Caputo ha cercato, nell’ultimo
capitolo del volume, di leggere
«storicamente» alcuni dati strutturali
emersi dalla sua indagine, attraverso
specifici casi esemplificativi:
l’epistolario di Giuliano Goselini (che
offre notizie su Ferrante Gonzaga),
Scipione l’Emiliano che è oggetto di
disputa tra Antonio Bendinelli e Carlo
Sigonio (quest’ultimo nel 1568 pubblicò
l’opera sull’Emiliano), nonché
testi su donne (es.: la discussa castità
della contessa Matilde di Canossa
motivo di scontro tra Domenico
Mellini e Benedetto Lucchini).
Fiorina Izzo
Leonardo Acone, La Sila dei briganti.
Sulle novelle di Biagio Miraglia, San
Cesario di Lecce, Pensa editore, 2009,
pp. 102
È un percorso a concentriche spirali
di approfondimento quello che,
di capitolo in capitolo, Leonardo Aco616
RECENSIONI
ne propone intorno ad una raccolta
di cinque novelle in prosa che Biagio
Miraglia pubblicò intorno alla metà
dell’Ottocento (Cinque Novelle Calabresi
precedute da un discorso intorno
alle condizioni attuali della letteratura
italiana, Le Monnier, Firenze, 1856).
Il primo capitolo, prendendo le
mosse dalla definizione di “romanticismo
naturale” del De Sanctis, delinea
lo sfondo culturale all’interno
del quale si colloca la produzione
del gruppo di letterati calabresi operanti
nel primo Ottocento (Pietro
Giannone, Vincenzo Padula, Giuseppe
Campagna, Domenico Mauro,
Biagio Miraglia, Vincenzo Gallo Arcuri,
Vincenzo Selvaggi) e tende a
definire i caratteri distintivi del romanticismo
calabrese rispetto a quello
napoletano, lombardo ed europeo.
Nel secondo l’attenzione si concentra
sulla novella in versi, genere
letterario ampiamente praticato sia
da Miraglia (Il Brigante, 1844) che
dagli altri maggiori scrittori calabresi,
soprattutto nel corso degli anni
Trenta e Quaranta: Giannone (Gli incogniti,
1832; Lauretta, 1839), Selvaggi
(Il vecchio anacoreta, 1841; Calabra
villanella, 1842), Mauro (Errico, 1843),
Padula (Il Monastero della Sambucina,
1842; Valentino, 1845), Gallo Arcuri
(Anselmo e Sofia, 1845; La Schiava
greca, 1845). Testi che vanno collocati
“nella grande famiglia della
narrativa” (L.M. Marchetti), anche se
furono realizzati in quell’ottava rima
che meglio sembrò tradurre sentimento
e fantasia in “onda armonica”
(F. De Sanctis).
Il terzo capitolo passa in rassegna
il Discorso su le condizioni attuali della
letteratura italiana che Biagio Miraglia
antepose alle cinque novelle
del 1856 e con il quale fornisce un
quadro della situazione letteraria dell’Italia
dell’Ottocento, soffermandosi
in particolare sulle differenze tra la
realtà settentrionale e quella meridionale.
Nel Piemonte di Vittorio Alfieri,
Miraglia individua l’epicentro
di un moto di rinnovamento culturale
fondato su una poetica che punta
a rafforzare il senso dell’identità
nazionale italiana, mentre altrettanto
non avviene nel Mezzogiorno.
Qui, secondo Miraglia, l’«“idea italiana”
[…] lampeggia qua e là, ed è
più confuso presentimento, che un
concetto chiaro e definito», poiché
la struttura socio-politica del reame
di Napoli e il sistema scolastico rigidamente
classicista cristallizzavano
anche gli spiriti migliori, spingendoli
a spaziare nel vasto mondo
dell’idea e a perdere di vista l’Italia.
Infine, nel quarto ed ultimo capitolo,
Acone polarizza la propria attenzione
sul gruppo di novelle in
prosa che Biagio Miraglia, realizzò
dopo il suo trasferimento a Torino
(1849): L’imeneo nella tomba, La vergine
pescatrice del Capo Colonna, Il rinnegato,
Le gemelle, Il re della Sila.
Esauritasi la stagione della novella
in versi, Miraglia tentò di coniugare
le esigenze di rinnovamento formale
della novella con la salvaguardia
dei contenuti sentimentali di una
natura eletta, luogo d’amore, di forti
passioni, di tradizioni e di brigantaggio,
inteso come ribellione ai soprusi
soprattutto quando calpestino
sentimenti fondamentali come l’amore
e il senso di giustizia. Un tentativo
riuscito soltanto in parte, poiché
il passaggio dalla visione teorica e
programmatica alla realizzazione
pratica non fu sempre facile e il letRECENSIONI
617
terato calabrese, pur avendo compreso
la direzione verso cui operava
la spinta culturale nazionale, si
rivela legato, per personale attitudine,
al terreno del racconto in versi.
Una ricostruzione attenta e puntuale
quella di Leonardo Acone, ricercatore
dell’Università di Salerno.
Ricostruzione che valorizza al meglio
la tradizione critica sedimentatasi
sulla novella romantica calabrese,
da De Sanctis fino agli studi più
recenti di Luigi Reina e Aldo Maria
Morace.
Raffaele Messina
Girolamo Rovetta, I disonesti. A
cura di Fabio Pagliccia, Lanciano,
Carabba, 2009.
La pubblicazione de I disonesti nel
1884, piccola gemma del realismo
tardottocentesco si inserisce nell’ambito
della fortuna di un teatro contemporaneo
imperniato sui temi della
fortuna del denaro e la rappresentazione
degli amori clandestini e
adulterini. La pubblicazione rovettiana
si muove nel milieu tardoromantico,
seguendo uno spartiacque
tra ultimi prodromi del naturalismo
e avvio del decadentismo, entro una
sensibilità orientata più alle cose che
alle idee. La molla ispirativa del
dramma è l’adulterio, come forma
di sfaldamento dell’ordine costituito
e la conseguente perdita di identità,
che getta il personaggio in una profonda
crisi esistenziale. La salvaguardia
della propria reputazione è al
centro di un dramma, che tra sovversione
e perbenismo insinua le
contraddizioni di una ribellione
anarcoide, unita a una logica di pentimento.
L’opera si allinea sulla
falsariga de La moglie ideale di Emilio
Praga, dell’Infedele nella
tematizzazione dell’amore e dell’onore.
Il passaggio di Milano da città
agricola al progresso industriale
pone in prima luce il dissesto provocato
dal denaro, entro un mutamento
sociale e politico. Nessun
mito si intravede nello squallore di
un’esistenza affidata alla banalità di
comportamenti, secondo una anticipazione
della commedia di Pirandello
Tutto per bene, con le contraddizioni
del perbenismo e di una falsa
onorabilità. Il rispetto dell’amore,
infatti, attiene nel dramma del Rovetta,
a una volontà di finzione, per
mascherare agli occhi degli altri la
propria vergogna, e dunque fugare
ogni dubbio sulla propria onorabilità.
All’edizione in volume, risalente al
1894, successero traduzioni all’estero,
che suscitarono insieme rilievi e
consensi. Il volume del Pagliaccia si
correda di una ampia Notizia biografica,
tra recensioni, studi critici e
monografici, biografie e commemorazioni.
Il testo è preceduto da una
dettagliata nota al testo, che ne tratteggia
i tratti filosofici, prima della
registrazione di un dramma, che le
moderne ricerche di archivio sulla
letteratura otto-novecentesca rendevano
senza dubbio accattivanti.
Valeria Giannantonio
Toni Iermano, Le ambiguità del moderno.
Identità e scritture nell’Italia fra
Otto e Novecento, Napoli, Liguori,
2009, pp. 338.
Questo nuovo volume di Toni Iermano
rappresenta una ulteriore, si618
RECENSIONI
gnificativa, tappa del cammino dell’autore
nell’ambito di una critica
che, pur collocandosi lungo il solco
dello “storicismo” desanctisiano, va
oltre, avvertendone i persistenti punti
di forza, ma, nel contempo, i limiti.
Iermano va precisando il suo metodo
critico, attraverso un “corpo a
corpo” serrato con i testi letterari,
senza visioni schematiche o aprioristiche.
Così supera la “rigidità” della
visione unitaria, “lineare”, della
letteratura italiana, propria, appunto,
del De Sanctis.
Sulla scorta degli studi compiuti
da Carlo Dionisotti, propende per
uno storicismo più concreto, che tenga
conto delle condizioni effettive in
cui i letterati hanno operato nelle
varie realtà, non solo storiche, economiche,
politiche, ma anche geografiche.
Acquista, dunque, importanza, per
la definizione del “paesaggio” letterario
italiano, oltre alla dimensione
del “tempo” (lo sviluppo cronologico
della letteratura), quella dello
“spazio” (le diverse aree in cui si è
sviluppata attraverso i secoli). La
visione critica di Iermano è, necessariamente,
dialettica, proprio perché
la letteratura italiana è caratterizzata
da un rapporto dialettico tra
forze e aspirazioni contrastanti, da
spinte centripete e forze centrifughe,
da “convergenze” e “divergenze”,
“concordanze” e “discordanze”, al
di sotto di quello che viene definito
“canone” e che cerca di sintetizzare,
seppur schematicamente, i tratti unitari
del fenomeno letterario, quale si
presenta in una determinata epoca.
Comprendiamo così il titolo del
presente volume di Iermano, L’ambiguità
del moderno, il cui significato
è ben racchiuso in poche parole riprodotte
nella quarta di copertina:
«L’identità del moderno è formata
da un rete complessa di linee divergenti
e da un insieme di alchimie
che nella scrittura e nelle parole trovano
un punto d’intersezione ma
anche la rappresentazione della propria
ambiguità».
Come dicevamo, il Nostro non fa
un’applicazione rigida, “scolastica”,
di schemi precostituiti. Perciò, se sottolinea
le “discordanze”, non si lascia
prendere la mano oltre misura
dal modello “spezzato e discontinuo”
di letteratura ch’egli intende
pur applicare. Così, quando è necessario,
mette in risalto le “concordanze”,
contrastando luoghi comuni
duri a morire. Ne abbiamo un
esempio a proposito dei saggi dedicati
nel libro a Salvatore Di Giacomo,
uno dei suoi autori preferiti, al
quale egli ha reso omaggio con studi
veramente innovativi. Di Giacomo
è stato rappresentato, anche da
autorevole critica, come scrittore
“spontaneo”, “selvaggio”.
Persino Nino Pino, fine studioso
di letteratura dialettale e anch’egli
poeta in vernacolo, vincitore, nel
1956, del Premio Viareggio per la
poesia dialettale siciliana, ha rappresentato
Di Giacomo come portatore
di un “verismo romantico”, proprio
della tradizione poetica napoletana.
Iermano dimostra, al contrario,
come il poeta partenopeo fosse,
innanzitutto, conoscitore delle teorie
desanctisiane della creazione letteraria,
come unità inscindibile tra
“reale” ed “ideale”, ch’egli richiama
in uno scritto su Goethe, nel quale
rileva come «la prima operazione
dell’artista fosse l’assorbimento […]
RECENSIONI 619
del mondo esterno; il quale poi il
poeta e il pittore, modificando e rifacendo
colla mescolanza dell’elemento
ideale che ha in sé, deve rimandar
fuori sotto forma di opere
d’arte». Di queste teorie Di Giacomo
fa applicazione, certo non pedissequa,
nelle sue opere narrative.
In secondo luogo, il poeta è tutt’altro
che rinchiuso dentro i confini
della tradizione letteraria napoletana.
Toni Iermano analizza l’influenza che
ha avuto su di lui la grande letteratura
europea, da Flaubert (basta qui
far riferimento al metodo flaubertiano,
che «crea un intimo legame tra
gli stati d’animo dei personaggi e una
scala delle temperature») a Maupassant
(si pensi alla «capacità a raccontare
le grandi miserie della piccola
gente, che lasciano nel lettore un senso
di malinconia e di dolore ma che
generano anche profonde tenerezze
e, talvolta, un nobile e persuasivo
senso di pietà»), da Baudelaire (basti
pensare ai «personaggi malinconici,
immersi nella solitudine di stanze
buie o appena illuminate da incerte
lucerne») a Victor Hugo, da Zola a
Bourget, a Dickens.
Iermano non si occupa solo delle
opere narrative (in particolare L’ignoto)
di Di Giacomo, ma anche delle
sue poesie e delle sue canzoni, per
le quali vale lo stesso metro di giudizio
usato per la narrativa. Anche
qui, «la complessità dell’elaborazione
va al di là della temperie napoletana
e delle rifrazioni socio-antropologiche
del contesto e si allarga nei
vasti possedimenti della poesia contemporanea
europea, di quella dialettale
italiana e dei modelli della
tradizione classica». Iermano propone
al lettore l’edizione critica di vari
testi digiacomiani: ’O funneco verde,
Zi’ munacella, A San Francisco.
Nella seconda sezione, che porta
il titolo di “Scritture dell’io”, l’autorevole
critico si occupa di due scrittori,
che, seppur considerati “minori”,
aprono la schiera dei “trasgressivi”
rispetto ad un presunto “canone”.
Il primo è Gioacchino Toma,
uno dei protagonisti della pittura
italiana del secondo Ottocento, del
quale Iermano riscopre e analizza un
aureo libretto autobiografico, Ricordi
di un orfano, «un meraviglioso
racconto picaresco, una storia avventurosa
vissuta da un giovanissimo
vagabondo simpatico e coraggioso
contro la durezza, i soprusi e l’insensibilità
del mondo», ma che costituisce,
nel contempo, «un documento
esemplare della formazione
e della vita sociale di un artista anticonformista
». Il secondo è Guido
Nobili, autore di Memorie lontane,
un’opera che potrebbe apparire prodotto
tipico del memorialismo ottocentesco
(si guardi, come modello,
a I miei ricordi del D’Azeglio), ma
che, ciò nonostante, imbocca percorsi
già novecenteschi. Siamo in presenza
di due scrittori la cui trasgressività
riguarda la sfera dell’“io”.
Nella terza sezione del libro, intitolata
significativamente Nel labirinto
delle inquietudini novecentesche,
Iermano si occupa di altri scrittori
italiani, la cui “trasgressività” rispetto
al “canone” letterario del loro
tempo, seppur investa la sfera soggettiva,
è emblematica di una condizione
più generale, di un’“inquietudine”
più diffusa, spesso generazionale,
la quale, ciò nonostante, non
trova riscontro nella letteratura “ufficiale”.
Cesare Zavattini, attraverso
620 RECENSIONI
la tecnica sottile del “non sense”, si
fa beffa della retorica fascista e, poi,
di quella che, in linea di continuità
col regime mussoliniano, domina il
potere nel secondo dopoguerra. Cesare
Pavese oppone il mito dell’America
allo stato di illibertà in cui
vive la sua generazione durante il
“ventennio”.
La sua “poesia-racconto” segna
una svolta, anche sul piano linguistico,
con la retorica dannunziana,
la “bella pagina” rondista, la parola
“innamorata di se stessa” degli ermetici.
Le sue opere in prosa non
rispondono ad un presunto “canone”
neorealista. Scrive Iermano: «Il
dato realistico si offre infatti solo a
un primo livello di lettura, che rimanda
a un secondo livello simbolico
in cui il fatto e la cronaca perdono
qualunque carattere documentario
[…] e assurgono a metafora di
una condizione esistenziale personale
e universale insieme».
Luigi Compagnone rompe con la
tradizionale “omertà” degli scrittori
napoletani, ma non solo (si pensi,
ad esempio, al filone della letteratura
siciliana, che, a partire da I Beati
Paoli di Luigi Natoli, esalta la mafia,
sin dai suoi “prodromi”; filone, quest’ultimo,
interrotto tardivamente da
Leonardo Sciascia), nei confronti
della malavita organizzata. Così, in
poche righe, Toni Iermano riassume
il messaggio lanciato da Compagnone:
«Vent’anni prima di Gomorra
di Roberto Saviano e di tanta e varia
letteratura dedicata alla camorra,
Luigi Compagnone (Napoli, 1915-
ivi, 1998), uno scrittore geneticamente
incapace di vivere l’ansia di
conformismo, affronta senza reticenze
il tema dei rapporti tra associazione
camorristica e società napoletana tra
Otto e Novecento e scrive un libro,
nel senso pasoliniano del termine,
luterano, tragicamente contemporaneo,
dissacrante e ironico, rivolto a
smascherare le ipocrisie, i compromessi,
le certezze senza verità, l’atonia
morale, convinto che gli intellettuali
hanno il compito di combattere
i luoghi comuni, l’insincerità, la
corruzione della politica, il potere
dei forti e persino quello degli oppositori
di mestiere». Un messaggio che
ci ricorda da vicino quello di Leonardo
Sciascia.
Anche Paolo Volponi è un “outsider”,
perché, descrivendo l’alienazione
dell’operaio di fabbrica, si contrappone
al mito del “progresso infinito”,
che ha animato pure tanta
parte della sinistra italiana. L’operazione
letteraria da lui realizzata presenta,
inevitabilmente, dei limiti. Ad
esempio, uno dei suoi personaggi,
Albino Saluggia, nel linguaggio, nella
descrizione dei problemi psicologici
che sta vivendo, assomiglia più
all’intellettuale Volponi che ad un
operaio “standard”. A partire dalla
metà degli anni Sessanta nascerà in
Italia una “letteratura di fabbrica”
prodotta dagli stessi operai: Ferruccio
Brugnaro, Tommaso Di Ciaula,
Francesco Currà.
Toni Iermano conclude il suo volume
con un omaggio ad Antonio
Palermo e ai suoi studi sulla vita
letteraria a Napoli tra Otto e Novecento
e con una disamina sulla Sardegna
letteraria, nella sua doppia
dimensione dell’“isolamento” e del
rapporto dialettico con il resto della
letteratura nazionale.
Antonio Catalfamo
RECENSIONI 621
Roberto Salsano, Scrittori critici,
Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia,
2009.
Scrittori critici (Salvatore Sciascia
Editore, 2009) di Roberto Salsano è
una densa e appassionata raccolta
di saggi che, sin dal titolo, preannuncia
l’intento dell’autore di condurre
un’indagine sul legame inscindibile
tra arte e critica, tra il valore puramente
estetico dell’opera letteraria e
le sue implicazioni teoriche e gnoseologiche.
Secondo Salsano, che vede
il testo in posizione sempre oscillante
fra il piacere di raccontare e la
volontà di comunicare qualcosa che
sta al di là della pura parola letteraria,
ogni scrittore è anche critico, così
come ogni critico è anche scrittore.
In realtà l’indagine critico-letteraria
sa andare ben oltre gli stessi intenti
autoriali, giacché il valore aggiunto
del volume consiste proprio nel non
fermarsi al «tema del realismo o della
sua crisi o della diversa sua riproposizione
» (pp. 5-6), né «al tema
della specificità dell’operazione letteraria
e della sua cittadinanza» (p.
6). La complessa struttura di questa
raccolta di saggi consente al lettore
di superare i limiti imposti dalla
pagina e di proseguire la navigazione,
di andare oltre. Termini, questi
ultimi, che tornano con frequenza
all’interno del libro: il secondo, in
particolare, può essere individuato
quale Leitmotiv dell’indagine operata
dagli scrittori otto-novecenteschi,
ma anche, ad un livello ulteriore, come
filo conduttore seguito dall’autore
per comprendere l’opera di tali
scrittori. ‘Navigazione’, significativamente,
caratterizza invece le pagine
conclusive del volume (in particolare
l’intervento su Tabucchi), quasi a
voler sancire il valore innanzitutto
conoscitivo di una quest di ascendenza
ulissiaca.
Il risultato delle applicazioni dello
studioso non è l’evidenziazione
di una mappatura, tendenzialmente
completa, dell’universo letterario
moderno e contemporaneo, per ammissione
dello stesso autore non
costituendo ciò il fine della silloge,
quanto, piuttosto, la individuazione
di uno sfondo di coordinate longitudinali
e latitudinali significative
del mondo creativo tra Otto e Novecento.
In questo è riscontrabile uno
dei pregi del volume, perché Salsano
fornisce gli strumenti necessari e
indica i possibili orizzonti interpretativi,
agevolando così il lettore nell’intraprendere
consapevolmente il
proprio viaggio. Orizzonti, peraltro,
mutevoli in linea con la «peregrinazione
conoscitiva mai appagata da
una meta» (p. 152) del romanzo di
Tabucchi Il filo dell’orizzonte.
Il ventaglio degli scrittori analizzati
è davvero ampio e copre un
arco temporale che va dalla fine dell’Ottocento
ai nostri giorni: De Sanctis,
Capuana, Cantoni, Pirandello,
Rosso di San Secondo, Quasimodo,
Morante, Pontiggia, Campailla, Bonaviri.
Di scrittura letteraria in atto
si può senza dubbio parlare a proposito
di questo volume, che non fa
mai semplicemente critica letteraria,
anche in virtù di uno stile prezioso
e ricercato (mai fine a se stesso), un
periodare ampio e coinvolgente che,
a tratti, crea una sorta di suspense
alla maniera delle grandi opere citate
in queste pagine. Ciò rende la lettura
piacevole oltre che interessante;
e l’interesse scaturisce anche dal622
RECENSIONI
la capacità di Salsano di porre e indagare
istanze non puramente artistiche,
ma sociali, culturali, esistenziali
e filosofiche.
Nella prima parte del volume prevale
l’interesse per il binomio opera
d’arte-realismo sulla scia della fortunata
espressione pirandelliana letteratura
di cose/letteratura di parole.
Nella seconda parte, invece, è ravvisabile
una maggiore attenzione per
i riflessi individuali nell’opera d’arte
che assumono carattere critico nel
rapporto, spesso tormentato e problematico,
con la realtà.
Il suggestivo confronto tra autoricritici
diversi per formazione e intenti
artistici conduce Salsano all’individuazione
di sottili corrispondenze, che
tracciano un reticolato entro cui collocare
scrittori come De Sanctis,
Capuana, Pirandello e Cantoni. Proprio
Cantoni è sottoposto a un’operazione
di riscoperta e di rivalutazione
che fa dell’autore mantovano una voce
originale dell’arte moderna, capace di
esprimere nella forma e nel contenuto
della sua opera «la crisi oggettiva
del naturalismo» (p. 26). Ecco allora
che una scrittura, come quella del
Cantoni, frettolosamente etichettata
come ottocentesca, diventa emblema
di una letteratura moderna nel segno
del superamento delle istanze realistiche
del Naturalismo e del Verismo.
E Cantoni costituisce, anche, un esempio
importante del connubio tra arte
e critica, dell’«incontro tra fantasia e
pensiero» (p. 27), che lo colloca (pirandellianamente)
all’interno della schiera
degli «scrittori filosofi» (p. 31). Dunque,
scrittori critici, critici scrittori e
scrittori filosofi.
Sulla scorta della riscoperta cantoniana
si colloca l’intervento su Rosso
di San Secondo, nel quale, secondo
Salsano, appare già consolidata
la «vocazione metaletteraria della
poetica novecentesca» (p. 43). L’intreccio
arte-critica sembra rafforzarsi
ulteriormente nell’intervento su
Quasimodo, quando, a proposito del
saggio quasimodiano Discorso sulla
poesia, si afferma che la «posizione
critica, quella esistenziale, quella
espressiva […] si mescolano e reciprocamente
si potenziano» (p. 55).
Certo, Quasimodo è di per sé uno
scrittore impegnato, tuttavia Salsano
evidenzia come la militanza critica
dello scrittore siciliano non scaturisca
da «programmi idealistici o schematicamente
politici», ma sia il frutto
di una «responsabilità umana e
sociale di posizioni relazionali, cioè
fenomenologico-esistenziali assunte
verso il mondo e l’Altro» (p. 63).
Ecco perché anche un discorso sulla
poesia diventa discorso sull’esistenza,
e lo «stile d’una critica […] diventa
scrittura» (p. 56).
Allo stesso modo un discorso sul
romanzo, come quello fatto dalla
Morante (Sul romanzo), è un discorso
che investe il senso stesso dell’esistenza
umana: il romanzo inteso
come espressione del rapporto dell’uomo
con la realtà, forma di scrittura
in cui soggettività, immaginazione
e realtà portano al «superamento
del mero rispecchiare» (p. 72).
La teoria romanzesca della Morante
acquista «le forme di un parlare insieme
fabuloso e filosofico» (p. 77),
confermando il cortocircuito arte-critica-
vita.
La fantasia costituisce addirittura
lo strumento critico privilegiato per
Pontiggia, che ne I contemporanei del
futuro applica una vera e propria
RECENSIONI 623
«metodologia di interpretazione creativa
» (p. 103). Il viaggio intrapreso
da Pontiggia è condotto attraverso un
dialogo costante tra autore e classici,
non un monologo, ma un incontro
partecipato, dal momento che Pontiggia
«espone spesso il suo io, in
prima persona, nell’avvicinare questo
o quell’autore» (p. 98). Qui Salsano
individua un’altra «pregnante» maniera
di scrittura critica, «perché
l’esperienza critica, quando partecipata
al punto di impegnarsi come
scrittura, non può non dire qualcosa
di ulteriore» (p. 94): tornano l’oltre,
l’altro, l’esigenza di raccontare e di
raccontarsi anche attraverso gli altri.
E l’altro, sintomaticamente, campeggia
nel titolo dello studio di Campailla
sulla letteratura siciliana: Mal
di luna e d’altro. La tensione di Campailla
verso qualcosa che sta al di là
del puro dato oggettivo nel segno
di una rivelazione epifanica e, nello
stesso tempo, verso un’interpretazione
creativa (alla Pontiggia), una «critica
come racconto» (p. 113), è colta
da Salsano nell’individuazione dell’immagine-
chiave con cui visionariamente
il saggio si apre: «la rievocazione
di una Sicilia dall’alto di un
aereo, a suggerire la plausibilità di
una chiave di lettura in termini non
esclusivamente scientifici ma narrativi
e di poetica» (p. 109).
L’intervento su Bonaviri, infine, potrebbe
apparire in parte extravagante
dal momento che Salsano riflette qui
su un’opera squisitamente fantastica,
che non sembrerebbe avere implicazioni
critiche. In realtà l’autore
rovescia i termini del discorso, partendo
questa volta da una raccolta
di fiabe (E il verde ramo oscillò), opera
di una creatività peculiare, quella
dei malati di mente, mediata tuttavia
da un’architettura attuata dallo
scrittore consapevole, per individuare,
attraverso un caso limite, gli
aspetti propriamente teorici della
scrittura creativa e dimostrare, una
volta di più, la reciproca compenetrazione
tra riflessione critica e immaginazione
poetica. Nei racconti
immaginifici dei dementi Salsano
scorge un rapporto carnevalesco tra
scrittura e realtà, in direzione «d’uno
stupendo gioco come disimpegno
intellettuale ed eversione sociale» (p.
145), ma che comunque esprime un
rapporto, per quanto doloroso, con
l’universo e con la società. D’altra
parte questa condizione di straniamento
e di alterità è il segno tangibile
della problematicità dell’individuo
moderno, il riflesso di una follia
pirandellianamente intesa. E dal
momento che Pirandello è spesso
citato, è lecito affermare che Salsano,
al più celebre e abusato assioma pirandelliano
«la vita o si vive o si
scrive», predilige il meno conosciuto
ma altrettanto significativo «la
vita si vive e si scrive»: critica et letteratura
appunto, piuttosto che critica
aut letteratura.
Michelangelo Fino