Anno XLVI (2018) Fasc. IV, N. 181

Anno XLVI (2018) Fasc. IV, N. 181

  1. Saggi
    • ALESSANDRA MANTOVANI

      Il carteggio Fontanini-Muratori (1699-1716): storia di un’amicizia – pp. 653-686

      Il carteggio Fontanini-Muratori rappresenta un capitolo significativo del dibattito culturale che, dalla
      fine del XVII ai primi decenni del XVIII secolo, animò la ‘repubblica delle lettere’ tra Italia ed Europa.
      Il rinnovamento metodologico dell’indagine storica ed erudita, l’attenzione filologica alla pubblicazione
      delle fonti documentarie medievali, l’impegno etico e civile per la modernizzazione della cultura italiana
      in una prospettiva multidisciplinare sono i fili conduttori di una conversazione colta e amichevole, animata
      da una passione intellettuale a lungo condivisa.
      ★ The correspondence between Fontanini and Muratori constitutes a significant chapter in the cultural debate
      that, from the end of the seventeenth century to the early decades of the eighteenth century, enlivened the
      republic of Letters in Italy and Europe. The methodological renewal of historical and erudite studies, the
      philological interest in the publication of medieval documentary sources, an ethical and civic engagement
      aimed at modernising Italian culture in a multidisciplinary perspective form the core of a cultivated and
      friendly conversation animated by a long-shared intellectual passion.

    • VALTER BOGGIONE

      Dante e l’altezza d’ingegno – pp. 635-652

      Il contributo discute l’interpretazione letterale di If II, 7-9 e Pg I, 1-3, soffermandosi in particolare
      sui concetti di ingegno, mente e memoria e sul termine navicella, per spiegare il quale si giova non solo
      del riferimento ormai invalso a Pd II, 3, ma soprattutto di un puntuale confronto con la fonte properziana
      (III, 3), nota ma non adeguatamente sfruttata.
      ★ This essay discusses the literal interpretation of If II, 7-9 and Pg I, 1-3, focusing in particular on the
      concepts of ingegno, mente and memoria and on the term navicella, which is explained not only by the usual
      reference to Pd II, 3, but above all through a close comparison with the Propertian source (III, 3), to date
      insufficiently studied.

    • SILVIA TATTI

      La Repubblica delle Lettere in Italia dall’Arcadia a Foscolo – pp. 687-702

      In Italia, la repubblica delle Lettere settecentesca ha una declinazione particolare che si lega
      strettamente alla storia dell’Accademia dell’Arcadia e all’affermazione di un codice letterario comune e che
      convive con i condizionamenti dovuti alla divisione politica del paese e alla centralità della res publica
      christiana. Il contributo ricostruisce alcuni momenti emblematici di tale organismo dal punto di vista
      soprattutto dei letterati, fino alla fine del secolo, quando gli eventi storici e lo sviluppo di un nuovo
      rapporto con il lettore riducono la forza rappresentativa di una comunità cosmopolita di letterati.
      ★ In Italy, the eighteenth-century republic of Letters takes a peculiar form, closely connected to the
      history of the Accademia dell’Arcadia and the establishment of a common literary code and, furthermore,
      influenced by the political division of the country and the centrality of the res publica christiana. This
      study reconstructs various emblematic moments of the organism in question, above all from a literary
      standpoint, up until the end of the century, when historical events and the development of a new
      relationship with the reader diminished the representative force of a cosmopolitan literary community.

    • GIANMARCO GASPARI

      Il romanzo tra narrazione e storia: aggiornamenti sul caso Manzoni – pp. 703-716

      Il recente dibattito sulla storia come “narrazione” o “retorica”, tra Arthur C. Danto e Hayden White, ha
      avuto in Italia interlocutori di alto livello, da Arnaldo Momigliano a Carlo Ginzburg. un esame attento
      della riflessione manzoniana sulla narrazione storica consente di restituire al romanzo un ruolo fondativo
      nella ricostruzione della “verità”: è quanto sta iniziando a fare una nuova fase critica, dimostrando come
      anche la ricerca teorica di Manzoni sia stata decisiva per l’approdo a esiti così diversi dal realismo
      coevo.
      ★ The discussion between Arthur C. Danto and Hayden White concerning the nature of history (storytelling or
      rhetoric?) has found some highly qualified spokesmen in Italy, such as Arnaldo Momigliano and Carlo
      Ginzburg. A critical analysis of Manzoni’s insight into historical narrative testifies to the groundbreaking
      role of his novel in the debate about the recollection of “truth”. recent studies have been showing that
      Manzoni’s theoretical search on the subject was crucial in attaining some key points of his poetics,
      definitely divergent from coeval realism.

    • ROSANNA POZZI

      Ipazia e la parola – pp. 717-724

      Il presente intervento intende sviluppare la centralità della parola e della sua comunicazione nel dramma
      teatrale Ipazia di Mario Luzi, evidenziandone il valore d’opera di svolta nel percorso poetico di Mario
      Luzi, svolta preparata e gradualmente affermatasi a partire da Nel magma e Su fondamenti invisibili. La
      continuità del percorso è attestata dalla presenza di alcuni termini e temi ricorrenti, così come da brevi
      frammenti autografi dell’autore, di recente riemersi grazie a Stefano Verdino.
      ★ The present essay looks at the centrality of the word and its communication in Mario Luzi’s drama Ipazia.
      It shows how the work marks a turning point in Luzi’s literary career, one prepared for and gradually
      established from Nel magma and Su fondamenti invisibili onwards. Luzi’s internal coherence is demonstrated
      by several recurring terms and themes, as well as by short handwritten fragments recently re-emerged thanks
      to Stefano Verdino.

    • FABIO MOLITERNI

      Dar fuoco alle polveri. Sciascia e il barocco – pp. 725-740

      Al di là delle occorrenze testuali disseminate nella scrittura di Sciascia e riferibili al barocco, si può
      sostenere che tutta la sua opera risente di quella «nevrosi da ragione, di una ragione che cammina sull’orlo
      della non ragione» di cui egli stesso parlava nel libro-intervista La Sicilia come metafora. Isolando alcuni
      passi ritagliati e frammenti-campione, cogliendo certe microscopie stilistiche diffuse capillarmente nel
      tessuto della scrittura di Sciascia, l’obiettivo di questo saggio consiste nell’individuare tra i suoi testi
      alcuni specifici passaggi che meglio di altri sono in grado di reagire con il termine e con il significato
      più profondi del barocco.
      ★ Leaving aside textual occurrences in Sciascia’s writing related to the baroque, it may be stated that his
      entire literary output mirrors that “neurosis of sense, of a sense that tiptoes on the edge of nonsense”
      mentioned by the author in his book-interview La Sicilia come metafora. Isolating particular passages and
      sample fragments, focusing on certain stylistic details strewed within Sciascia’s writing, this essay aims
      at identifying specific passages that are especially well suited to the term and deepest meaning of the
      baroque.

  2. Meridionalia
    • DONATO SPERDUTO

      Dalla lotta per il matrimonio al convento: Per Monaca di Matilde Serao e Albert Savarus di Balzac
      – pp. 741-750

      Matilde Serao fu una grande ammiratrice dello scrittore francese Honoré de Balzac. Lo citò in vari suoi
      libri e riprese alcune importanti tematiche presenti nella Commedia umana. Nella novella Per Monaca, la
      Serao evoca il romanzo balzacchiano Albert Savarus – contenente vari riferimenti autobiografici – non
      solamente con l’intento di mettere l’accento su temi come la lotta per il matrimonio ed il convento, ma
      altresì per inveire contro chi ostacola le fanciulle (in questo caso le madri).
      ★ Matilde Serao was a great admirer of the French writer Honoré de Balzac. She quotes from him in various
      books and takes over several important themes to be found in La Comédie humaine. In her short story Per
      Monaca Serao evokes Balzac’s novel Albert Savarus – containing various autobiographical references – not
      simply in an effort to highlight themes such as the battle for marriage and the convent, but also in order
      to lash out against people who stand in the way of girls (in this case, their mothers).

  3. Contributi
    • Paolo Rigo

      Dante e la retorica del gesto. Primi appunti – pp. 751-769

      Nelle sue opere Dante racconta diversi “gesti”, i quali sono atti a manifestare, di volta in volta,
      maestosità, paura, sfida, amore e via dicendo. Le silenziose azioni descritte dall’autore sono state spesso
      tralasciate dalla critica. Eppure, la retorica medievale non è estranea alla codificazione retorica del
      gesto: nella fattispecie Boncompagno da Signa dedica alcune parti delle sue opere alla normalizzazione dei
      vari gesti e atti consoni al dettato poetico. Scopo di questo contributo è: 1. ricondurre il gesto e la
      gestualità al campo retorico 2. Verificare se le situazioni rappresentate da Dante abbiano o meno una
      valenza retorica.
      ★ In his works Dante writes about different “gestures”, used to manifest, from time to time, majesty, fear,
      challenge, love and so on. The silent actions described by the author have often been overlooked by the
      critics. Yet, the medieval rhetoric is not stranger to the rhetorical codification of the gesture: in
      particular Boncompagno da Signa dedicates some parts of his works to the normalization of the various
      gestures and suitable actions to the poetic dictated. Purpose of this paper is: 1. To bring back the gesture
      to the rhetorical field 2. To verify wether the situations represented by Dante have or do not have a
      rhetorical value.

    • DORA MARCHESE

      Filippo Tommaso Marinetti e l’arte degenerata – pp. 771-780

      L’antipassatismo di Marinetti e degli altri esponenti del Futurismo decanta l’estetica del brutto e vuole
      creare una frattura di senso e di immagine tra il corpo umano perfetto, armonico e bello, espressione del
      vecchio, e il corpo umano tecnologico e ibridato, espressione del nuovo. Questo procedimento lo avvicina
      all’Espressionismo tedesco perché l’esaltazione futurista del “corpo degenerato” è la medesima delle
      avanguardie che realizzarono la mostra Entartete Kunst (Arte Degenerata) contro la cui damnatio
      Marinetti si scagliò violentemente e polemicamente.
      ★ The anti-conventionalism of Marinetti and the other Futurists extols an aesthetic of ugliness and aims to
      create a fracture of sense and image between the perfect, harmonic and beautiful human body, deemed an
      expression of oldfashionedness, and the technological and hybrid human body, an expression of modernity.
      Such an approach likens it to German Expressionism in as much as the Futurist exaltation of the “degenerate
      body” is the same as that of the avantgarde movements that organised the exhibition Entartete Kunst
      (“Degnerate Art”) against whose damnatio Marinetti battled violently and polemically.

    • CRISTIANO BEDIN

      Un’«incursione» occasionale nel territorio della memoria: L’entrata in guerra di Italo Calvino come
      testimonianza del trauma e della crescita
      – pp. 781-802

      Il saggio cerca di definire alcune caratteristiche della scrittura autobiografica del Calvino. Si
      sottolinea l’importanza delle vicende storiche e del trauma a esse collegato nella rappresentazione della
      figura del giovane Calvino, immortalato nel critico passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Si giunge
      alla conclusione che questo esile libro segna un momento di transito della narrativa calviniana che
      approderà al progetto editoriale delle Fiabe italiane.
      ★ The article aims to define some characteristics of Calvino’s autobiographical writing. The importance of
      historical events and of the related trauma is emphasized in the representation of the figure of the young
      Calvino, caught in the critical passage from adolescence to adulthood. It is possible to conclude that this
      thin book marks a moment of transition in Calvino’s narrative that will ultimately result in the editorial
      project of the Italian Folktales.

  4. Note e discussioni
    • ANTONIO LUCIO GIANNONE

      Ricordo di Donato Valli – pp. 803-812

      Nel presente articolo viene ricordato Donato Valli, a lungo docente di Storia della letteratura italiana
      moderna e contemporanea presso l’università degli Studi di Lecce, a un anno dalla scomparsa. In particolare,
      si passa in rassegna la sua attività scientifica che comprende numerosi e importanti studi sulla poesia
      italiana del Novecento, sull’ermetismo, sul “frammento” e la “prosa d’arte”, nonché sulla cultura letteraria
      salentina dell’Otto-Novecento.
      ★ A year after his passing, the present article commemorates Donato Valli, a longterm professor of History
      of Modern and Contemporary Italian Literature at the university of Lecce. In particular, it examines his
      academic activity which includes numerous and important studies on twentieth-century Italian poetry,
      Hermeticism, the “fragment” and “artistic prose”, as well as on nineteenth- and twentieth-century Salento
      literary culture.

  5. Recensioni
    • Valentina Gallo

      Alviera Bussotti, Forme della virtù. La rinascita poetica da Gravina a Varano, Alessandria 2018
      pp. 813-814

    • Raffaele Manica

      Giuseppe Gioachino Belli, I sonetti, edizione critica e commentata a cura di Pietro Gibellini, Lucio
      Felici, Edoardo ripari, Torino 2018
      – pp. 814-818

    • Giulio Di Fonzo

      Igino Ugo Tarchetti, Disjecta Frammenti lirici. Edizione critica, introduzione e commento a cura di
      roberto Mosena, Lanciano 2017
      – pp. 818-820.

    • Paola Trivero

      Beatrice Alfonzetti, Pirandello. L’impossibile finale, Venezia 2017 – pp. 820-822

    • Francesca Farina

      Pasquale Tuscano, Federigo Tozzi, narratore dell’alienazione dei sentimenti e della ragione, Soveria
      Mannelli 2018
      – pp. 822-825

    • Fabio D’Astore

      Vittorio Bodini fra Sud ed Europa (1914-2014). Atti del Convegno Internazionale di Studi (Lecce, Bari;
      3-4, 9 dicembre 2014), a cura di Antonio Lucio Giannone, Nardò (Lecce) 2017
      – pp. 825-828

    • Giuseppe Andrea Liberti

      Franco Fortini, Foglio di via e altri versi. Edizione critica e commentata a cura di Bernardo De Luca,
      Macerata 2018
      – pp. 828-831

    • Floriano Romboli

      Costanza Geddes da Filicaia (a cura di), Leopardismi del Novecento, Macerata 2016 – pp. 831-833

Saggi
Valte r Boggione
Dante e l’altezza d’ingegno
Il contributo discute l’interpretazione letterale di If II, 7-9 e Pg I, 1-3, soffermandosi
in particolare sui concetti di ingegno, mente e memoria e sul termine navicella,
per spiegare il quale si giova non solo del riferimento ormai invalso a Pd II,
3, ma soprattutto di un puntuale confronto con la fonte properziana (III, 3),
nota ma non adeguatamente sfruttata.

This essay discusses the literal interpretation of If II, 7-9 and Pg I, 1-3, focusing
in particular on the concepts of ingegno, mente and memoria and on the term
navicella, which is explained not only by the usual reference to Pd II, 3, but
above all through a close comparison with the Propertian source (III, 3), to date
insufficiently studied.
Il primo verso dell’invocazione alle Muse contenuta nel proemio
dell’Inferno ha spesso destato perplessità e imbarazzo negli interpreti:
O muse, o alto ingegno, or m’aiutate;
o mente che scrivesti ciò ch’io vidi,
qui si parrà la tua nobilitate.
(If II, 7-9)
La lettura più immediata, quella che intende per «alto ingegno»
l’ingegno del poeta, è sembrata inaccettabile a molti commentatori
moderni, per svariate ragioni: perché presupporrebbe un atto di presunzione
o di superbia da parte di Dante; perché è «illogico invocare
qualcosa che già si possiede» (Fosca)1; perché «Chi aveva bisogno d’a-
Autore: Università degli Studi di Torino; professore ordinario di Letteratura
italiana; valter.boggione@unito.it
1 Il commento di Nicola Fosca è disponibile on-line sul sito del Dartmouth
Dante Project all’indirizzo https://dante.dartmouth.edu/search_view.php?doc=2
00351020070&cmd=gotoresult&arg1=0.
Saggi
636 valter boggione
iuto per l’arduo compito che gli si presentava, era proprio il suo ingegno,
e sarebbe strano che Dante lo invocasse come datore di aiuto»
(Porena)2.
In realtà, i commentatori antichi o non si pongono il problema o
sono concordi nel riferire il sintagma all’ingegno del poeta. Mi limito
a pochi esempi. Ottimo: «Ingegno cioè discretione. Muse, inventione.
Mente, memoria. Qui persuade l’auctore sé medesimo provocando
la sua inventione, la sua discretione e la sua memoria»3. Vellutello:
«le invoca tutte [le Muse], a ciò che la diversa lor proprietà favorisca
in tutte le parti la simil qualità de la materia di che intende
voler trattare; e così ancora il suo alto ingegno, che li fu mezo a quella
poter investigare; e la sua mente, che la cosa investigata seppe
ritenere»4. Tasso: «Invoca l’ingegno e la mente sua medesima, ad
imitazione forse d’Orfeo che invocò l’intelletto nell’Argonautica, e
di Platone che introduce all’invocarla memoria» (ma poi prosegue,
con grave confusione, identificando l’ingegno con l’intelletto: «L’ingegno
intende per l’intelletto, mente prende per la memoria, di cui è
proprio ritener le imagini portele dai sensi»)5. Boccaccio (e con lui
molti altri) non esplicita l’identificazione, ma la presuppone, nel
momento in cui scrive «È lo ’ngegno dell’uomo una forza intrinsica
dell’animo»6.
Soltanto Pietro di Dante, nella prima redazione del suo commento,
sembra pensarla diversamente, anche se le sua spiegazione
è tutt’altro che perspicua: «Secundum invocat altum ingenium in
generali et abstracto; quod ingenium est extentio intellectus ad incognitorum
cognitionem»7. Ma nelle redazioni successive, nota
con delusione Mazzoni,
«si accosterà da ultimo all’opinione dei
2 La Divina Commedia. Inferno, commentata da Manfredi Porena, Bologna,
Zanichelli, 1954, p. 20.
3 L’ultima forma dell’Ottimo commento: chiose sopra la Comedia di Dante Alleghieri
fiorentino tracte da diversi chiosatori. Inferno, edizione critica a cura di Claudia Di
Fonzo, Ravenna, Longo, 2008, p. 67.
4 Alessandro Vellutello, La Comedia di Dante Aligieri con la nova esposizione,
a cura di Donato Pirovano, Roma, Salerno, 2006, vol. I, p. 224.
5 La Divina Commedia di Dante Alighieri postillata da Torquato Tasso, a cura di
Giovanni Rosini, Pisa, Didot, 1830, vol. I, p. 11.
6 Giovanni Boccaccio, Esposizioni sopra la Comedia di Dante, a cura di Giorgio
Padoan, Milano, Mondadori, 1965, p. 102. Mio il corsivo.
7 Pietro Alighieri, Il Commentarium, nelle redazioni ashburnhamiana e ottoboniana,
trascrizione a cura di Roberto Della Vedova e Maria Teresa Silvotti, nota
introduttiva di Egidio Guidibaldi, Firenze, Olschki, 1978, p. 60.
[ 2 ]
dante e l’altezza d’ingegno 637
più»8. Foscolo, da parte sua, pensa che il sintagma alluda a Virgilio9.
Due sono state le soluzioni proposte. Chimenz per primo ha avanzato
dubitativamente l’ipotesi che i due termini costituiscano un’endiadi,
e dunque Dante invochi l’alto ingegno delle Muse10. La stessa
interpretazione è stata poi proposta senza più dubbi da Pézard, ripresa
con entusiasmo e sostenuta da Mazzoni, e accolta da moltissimi
commentatori moderni (tra gli altri, Giacalone e Bosco-Reggio)11. Più
recentemente Hollander12, seguito da Nicola Fosca (da cui è tratto il
sintetico ma efficace riassunto dell’argomentazione dello studioso
americano), ha sostenuto invece che «alto ingegno» sia una perifrasi
per indicare Dio stesso, e che dunque le Muse rappresentino «la capacità
tecnica di esprimere le verità che per altra via (per speciale ispirazione),
l’ingegno (divino) può fornire»13. Così facendo, il critico americano
ha sviluppato un’intuizione di Ludovico da Castelvetro, del resto
esplicitamente citato («O alto ingegno: più alto che non è l’umano o
il mio»)14, già fatta propria in precedenza da numerosi commentatori,
8 Guido Mazzoni, Saggio di un nuovo commento alla Divina Commedia: Inferno,
canti 1-3, Firenze, Sansoni, 1967, p. 176. In realtà, mi pare che, prima di ritenere in
contrasto le definizioni presenti nelle due redazioni (quella posteriore suona: «Dicitur
namque ingenium vis animi, naturaliter insita, per se valens, ac extensio intellectus
ad incognitorum cognitionem»; P. Alighieri, Il Commentarium…, cit., pp.
59-60), sarebbe necessario almeno un supplemento di indagine.
9 Ugo Foscolo, Commedia di Dante Alighieri, in Studi su Dante, parte II, a cura
di Giorgio Petrocchi, Firenze, Le Monnier, 1981, p. 10.
10 La Divina Commedia. Inferno, a cura di Siro A. Chimenz, Torino, UTET, 1962,
p. 123: «probabilmente Muse e alto ingegno costituiscono una endiade, da intendere
“Muse, alte intelligenze ispiratrici di poesia”, oppure “alta intelligenza delle Muse”
»
11 Dante Alighieri, Oeuvred completes [1965], traduzione e commento di André
Pezard, Paris, Gallimard, 1979, p. 890: «je crois […] que le poète par endiadys,
veut dire “haut esprit des Muses”»; G. Mazzoni, Saggio…, cit., p. 177; La Divina
Commedia. Inferno, a cura di Giuseppe Giacalone, Firenze, Signorelli, 1967, p. 21;
La Divina Commedia. Inferno, a cura di Umberto Bosco e Giovanni Reggio, Firenze,
Le Monnier, 1979, p. 21.
12 Robert Hollander, Inferno, II, in Lectura Dantis. Inferno, a cura di Allen
Mandelbaum, Anthony Oldcorn, Charles Ross, Berkley, University of California
Press, 1998, pp. 27-29; e si veda ora anche La Commedia. Inferno, con il commento
di Robert Hollander, traduzione e cura di Simone Marchesi, Firenze, Olschki,
2011, p. 16.
13 https://dante.dartmouth.edu/search_view.php?doc=200351020070&cmd=
gotoresult&arg1parte=2.
14 Lodovico Castelvetro, Sposizione a XXIX Canti dell’Inferno dantesco, a cura
di Giovanni Franciosi, Modena, Soliani, 1886, p. 31.
[ 3 ]
638 valter boggione
tra cui in particolare Porena15. Ritorno qui sull’argomento per dimostrare
– spero – come l’attitudine a evocare problemi che non esistono
porti talvolta a veri e propri fraintendimenti, anche nel caso di un
sommo dantista come Hollander.
La Chiavacci Leonardi, che sola tra i commentatori degli ultimi decenni
sostiene con vigore la tesi tradizionale («il poeta invoca, oltre le
Muse, il proprio ingegno»)16, fonda la sua convinzione su tre argomenti:
la ripresa di un topos classico (per cui, sulla scorta di Curtius17,
rimanda a Met. I, 1 e Phars. I, 67); «la forma triplice dell’invocazione (O
muse, o… ingegno, o mente)»; e «il senso di altissimo impegno» che il
discorso dantesco presuppone. Gli ultimi due si possono condividere
senz’altro, anche se a proposito della misura ternaria occorre riconoscere
onestamente che Dante stacca in maniera netta muse e ingegno da
una parte e mente dall’altro, e che dunque il valore probante dell’osservazione
ne risulta decisamente sminuito. Qualche perplessità suscita
invece il richiamo ai modelli classici. Sia in Ovidio sia in Lucano,
infatti, per quanto oggetto del discorso sia la complessità e l’eccezionalità
del tema affrontato, si parla di animus, termine ben difficilmente
comparabile con il dantesco ingegno: anche perché l’animus è lì il movente
interiore (difficile precisare esattamente se pensiero razionale,
stato d’animo emotivo o inclinazione) che spinge il poeta ad affrontare
il proprio complesso lavoro18, non uno strumento che possa aiutarlo
nell’impresa.
Ma ci sono numerosi altri elementi che valgono a sostenere tale
posizione. Innanzi tutto, il fatto che la mente, senza ulteriori precisazioni,
sia senz’altro quella di Dante, rende assai probabile che anche
l’ingegno appartenga al poeta: in una sequenza improntata a un evidente
parallelismo, in cui tutti i termini sono accompagnati dall’interiezione
(«O muse, o…ingegno, […] / o mente»), una simile asimmetria
riuscirebbe imprevedibile, e finirebbe per pregiudicare la stessa
possibilità di comprensione da parte del lettore. Del resto, se Dante si
rivolge direttamente ad una parte di sé, del proprio essere, la mente,
15 La Divina Commedia. Inferno, commentata da M. Porena, cit., p. 20: «secondo
alcuni è quella mente divina ispiratrice di poesia, simboleggiata dalle Muse. Secondo
altri, il suo proprio ingegno. Sto coi primi».
16 Commedia. Inferno, con il commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi,
Milano, Mondadori, 1991, p. 47.
17 Ernst Robert Curtius, La littérature européenne et le Moyen Age latin, Paris,
Presses Universitaires de France, 1956, p. 284.
18 Ovidio, Met. I, 1-2: «In nova fert animus mutatas dicere formas / corpora»;
Lucano, Phars. I, 67: «Fert animus causas tantarum expromere rerum».
[ 4 ]
dante e l’altezza d’ingegno 639
secondo un uso del resto diffuso nella poesia duecentesca (si pensi
anche soltanto alla ballatetta dell’amico Guido Cavalcanti), non si vede
perché non possa rivolgersi anche all’ingegno. Se davvero l’ingegno
fosse quello delle Muse, poi, l’uso del singolare in relazione ad
una pluralità di individui sarebbe per lo meno inconsueto.
Ma ancora più significativa è la simmetria con gli incipit del Purgatorio
e del Paradiso. Se il confronto tra le tre cantiche evidenzia un chiaro
movimento ascensionale, dalle muse infernali alle «sante muse» del
Purgatorio, fino ad Apollo, mi sembra difficile non pensare ad un’analoga
ripresa e a un analogo movimento per la serie «alto ingegno»,
«navicella del mio ingegno», «nostro intelletto». Come per descrivere
il viaggio attraverso l’Inferno e il Purgatorio sono sufficienti le Muse,
seppure innalzate – nel passaggio dalla prima alla seconda cantica –
alla dimensione religiosa del sacro, ma per il Paradiso si rende necessaria
l’assistenza e l’ispirazione di Dio, così la facoltà esclusivamente
terrena dell’ingegno deve lasciare il posto a quella dell’intelletto, direttamente
creata da Dio e che partecipa dell’immagine e somiglianza
divina. Il problema, semmai, sarà quello di stabilire l’esatto rapporto
tra l’«alto ingegno» del II dell’Inferno e la «navicella» dell’ingegno
purgatoriale: ma di questo discuteremo più avanti.
Piuttosto, mi pare meriti attenzione il fatto che si passi dalla dimensione,
fortemente individuale, dell’ingegno, alla dimensione collettiva
dell’intelletto: l’«alto ingegno» dell’uomo Dante, «la navicella
del mio ingegno»; ma «nostro intelletto». E a questo punto non ci si può
più esimere dal definire esattamente che cosa l’ingegno sia, anche in
relazione (e in parziale opposizione) all’intelletto19. Conviene partire
dalla definizione che ne dà Guglielmo di Conches nelle Glosae super
Platonem, prol. IX: «Ingenium est vis naturalis ad aliquid cito intelligendum
unde dicitur ingenium quasi “intus genitum”»20. L’ingegno,
dunque, è l’insieme delle doti intellettive presenti nell’individuo fin
dal momento della generazione, in accordo del resto con l’etimo (fondamentalmente
corretto: da in- illativo e gignere) del vocabolo. L’ingegno
si riferisce alla conoscenza nella sua dimensione terrena; non per
nulla fa la sua comparsa, in un contesto fortemente limitante e in opposizione
alla mente, nel canto XXVI dell’Inferno, il canto di Ulisse e
19 U n’analisi delle occorrenze dantesche della voce è in Paul Arvisu Dumol,
The Metaphysics of Reading Underlying Dante’s Commedia: the Ingegno, New York,
Lang, 1998.
20 Citata da Vincenzo Valente sub voce nell’Enciclopedia dantesca, Roma, Istituto
della Enciclopedia Italiana, 1970-78, vol. III, p. 442.
[ 5 ]
640 valter boggione
dei limiti della scienza umana (e si ricordi, allora, che per Pietro di
Dante il Citerone e Dioniso rappresentano la scienza e l’Elicona e
Apollo la sapienza)21: «Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio / quando drizzo
la mente a ciò ch’io vidi, / e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio,
/ perché non corra che virtù nol guidi» (19-22). Di fronte alla contemplazione
delle anime dell’ottava bolgia, Dante sente la necessità di
mettere a freno l’ingegno, per evitare di cadere nella superbia e nella
pretesa dell’autosufficienza intellettuale; mentre rivolge verso l’alto e
acuisce la mente, che non è solo la memoria, ma l’«ultima e nobilissima
parte de l’anima» (Conv. III, ii, 16), la dimensione razionale dell’anima,
nelle sue tre potenze fondamentali, «memoria, intelligenza [cioè
intelletto] e volontade» (Pg XXV, 82). Anche l’intelletto, dunque, pertiene
alla sfera della conoscenza: ma nella sua dimensione più sublime,
fondata in Dio e raggiungibile da ultimo e in maniera completa
dall’uomo soltanto attraverso la rivelazione.
L’ingegno è diverso da uomo a uomo («mio ingegno»): le doti intellettuali
e dunque la possibilità di conoscere, in termini terreni, variano
da individuo a individuo. L’intelletto, che è diretta creazione e
dono di Dio, è comune a tutti gli uomini («nostro intelletto», appunto):
la visio Dei, la rivelazione ultima del mistero di Dio, è possibile per
tutti, e in forma completa. È per questo che l’ipotesi di Hollander, che
parla di «alto ingegno» come ingegno divino, mi sembra inaccettabile:
Dio è intelletto supremo, non ingegno, anche soltanto perché è ingenerato,
laddove l’ingegno è relativo all’ambito della generazione. Ma
anche pensare a un ingegno comune a tutte le Muse, come l’ipotesi
dell’endiadi presuppone, è per lo meno discutibile, se il carattere fondamentale
dell’ingegno è quello di essere individualmente determinato.
Dante invoca le muse perché gli diano la capacità tecnica, l’insieme
delle doti poetiche necessarie per rappresentare la voragine infernale;
e invoca il proprio ingegno perché sappia garantirgli gli strumenti intellettuali
richiesti per dar corpo a tale visione, assolutamente eccezio-
21 Pietro Alighieri, Super Dantis ipsius genitoris Comoediam Commentarium, a
cura di Vincenzo Nannucci, Firenze, Piatti, 1845, pp. 547-548: «Ejus [Parnassi] duo
juga figurant sapientiam et scientiam, quae insurgunt ex doctrina […]. Ad propositum
igitur hucusque auctor tractando de his, quae inferius sunt, habuit satis de
jugo Cithaeronis et de Baccho, idest de scientia rerum mundanarum. […] At nunc
oportet eum tractare mathematice, metaphysice et theologice, ubi requiritus sapientia,
et intellectus eget de novo hoc alio jugo Heliconio, idest sapientia, quae
respicit contemplationem aeternae veritatis. Item eget Apolline».
[ 6 ]
dante e l’altezza d’ingegno 641
nali rispetto a quelli solitamente necessari per la composizione di
un’opera letteraria (per quanto – si badi bene – del tutto inadeguati
per esprimere il mistero ultimo di Dio). L’ingegno è in grado di comprendere
l’organizzazione dell’Inferno e, almeno in parte, quella del
Purgatorio; è assolutamente inadeguato per il Paradiso, dove scompare
e lascia il posto al solo intelletto. Allo stesso modo, del resto, Virgilio
accompagna Dante per i primi due regni, ma lascia il posto a Beatrice
nel terzo. L’ingegno, la conoscenza in termini terreni, è in grado
di intervenire ed operare nella rappresentazione degli aspetti etici
dell’aldilà. Ma oltre non va. Oltre è necessario l’intelletto, che è potenza
della mente.
Dopo l’invocazione alle «muse» e all’«alto ingegno», allora, Dante
passa alla mente: «o mente che scrivesti ciò ch’io vidi, / qui si parrà la
tua nobilitate». Si tratta, a mio parere, di due versi quasi sempre malamente
spiegati. L’invocazione di Dante all’ingegno perché lo aiuti è
profondamente diversa dal richiamo alla mente di cui «si parrà» la
nobiltà: nel primo caso, infatti, si tratta di chiamare in causa le proprie
doti intellettuali per metterle alla prova; nel secondo quella prova è
già stata superata. La contrapposizione tra muse e ingegno da una
parte e mente dall’altra è la contrapposizione tra due facoltà da cui
Dante molto si ripromette, ma che ancora debbono dimostrare le loro
capacità, durante la composizione della Commedia e in particolare
dell’Inferno (donde la necessità di invocarle per chiederne l’aiuto) e
una facoltà che invece ha già dimostrato la propria sublime eccellenza,
fondata in Dio, nel corso del viaggio. In altre parole, e usando la metafora
dantesca22: la mente ha già scritto ciò che Dante agens ha visto,
mentre Muse e ingegno ancora debbono aiutare Dante auctor a comporre
il proprio poema.
Nello scrivere, poi, la mente ha dimostrato fino in fondo, con assoluta
evidenza, la propria nobiltà: del resto è noto che il verbo parere
significa in Dante ‘manifestarsi, apparire con piena evidenza’. Nella
capacità di accompagnare Dante attraverso il suo viaggio ultraterreno
e di conservare il ricordo di quell’esperienza la mente ha messo a frutto
appieno le sue doti eccezionali (giacché nobiltà è «perfezione di
propria natura in ciascuna cosa», Conv. IV, xvi, 4), che si fondano sulla
compartecipazione con la mente divina che l’ha creata; e la Commedia
22 La distinzione è già stata sottolineata da Hollander (La Commedia. Inferno,
con il commento di R. Hollander, cit., p. 16): «della “mente” si dice semplicemente
che è riuscita brillantemente a registrare i fatti del viaggio (e […], soprattutto,
non è certo ‘invocata’, come si evince chiaramente dalla lettera del testo».
[ 7 ]
642 valter boggione
sarà la testimonianza visibile a tutti di quelle sublimi potenzialità.
Muse (non ancora sante) e ingegno sono facoltà terrene, proprie dello
scrittore; la mente è facoltà che partecipa del divino, che ha reso possibile
il cammino del viaggiatore e ne ha fatto tesoro scrivendolo nella
memoria. Del tutto fuori luogo, allora, le parafrasi di «qui si parrà la
tua nobilitate» offerte da Mazzoni, «verrà messa al paragone»23, da
Bosco-Reggio, «si vedrà ciò che vali»24, e peggio ancora da Pietrobono:
«si dimostrerà se hai la nobiltà che si richiede»25. E discutibile anche
quella della Chiavacci Leonardi: «apparirà […] la tua eccellenza nel
ricordare»26, perché lascia intendere che l’eccellenza sia dovuta al fatto
che la mente di Dante sia migliore rispetto alla mente degli altri uomini,
che il poeta abbia doti mnemoniche fuori del comune, anziché alla
natura divina della mente, in opposizione ai limiti dell’ingegno, alto
ma pur sempre umano. «Qui si parrà la tua nobilitade» significa dunque
piuttosto che nell’opera letteraria in cui Dante rappresenta il suo
viaggio nell’aldilà la mente, quella «mente che non erra» del v. 6, dimostrerà
appieno le proprie straordinarie doti, apparirà in evidenza la
sua natura divina27, anche perché sulla mente – in quanto anima, e non
soltanto memoria – quel viaggio è necessariamente fondato.
Per quanto meno grave, allora, non è del tutto corretto neppure
parafrasare, come la quasi totalità dei commentatori e come anche
l’Enciclopedia dantesca fa28, mente con ‘memoria’. Già Benvenuto da
Imola avvertiva, sulla scorta di un passo di sant’Agostino, che mente
e memoria non coincidono, e che il non errare della mente non deve
essere ridotto semplicemente alle sue doti mnemoniche: «Notanter
dixit mente, potius quam memoria; nam mens simpliciter et proprie loquendo
de se semper est bona; memoria vero potest esse prava»29.
23 G. Mazzoni, Saggio…, cit., p. 178.
24 La Divina Commedia. Inferno, a cura di U. Bosco e G. Reggio, cit., p. 21.
25 La Divina Commedia. Inferno, commentata da Luigi Pietrobono, 4ª ed. interamente
rifatta, Torino, Società Editrice Internazionale, 1953, p. 16.
26 Commedia. Inferno, cit., p. 48.
27 Come del resto già intendeva Giacomo Poletto (La Divina Commedia. Inferno,
con commento del prof. Giacomo Poletto, Roma-Tournay, Tipografia liturgica di
San Giovanni Evangelista-Desclée, Lefebvre e C., 1894, p. 32):«Conv., IV, […] 16:
“Per questo vocabolo nobiltà s’intende perfezione di propria natura in ciascuna
cosa: onde non pur dell’uomo è predicata, ma eziandio di tutte le cose:” dunque è
quanto a dire: in questa narrazione si dimostrerà la tua bontà e perfezione».
28 Alfonso Maierù, Mente, in Enciclopedia dantesca, cit., vol. III, p. 904.
29 Benvenuto da Imola, Comentum super Dantis Aldigherii Comoediam, a cura
di Giacomo Filippo Lacaita, Firenze, Barbera, 1887, vol. III, p. 77.
[ 8 ]
dante e l’altezza d’ingegno 643
Dante è sempre estremamente preciso nelle proprie scelte lessicali, e
lo è in particolare nel caso di vocaboli di portata concettuale quali
quelli qui in discussione. La mente non è, tout court, la memoria, ma la
memoria è una delle potenze della mente. La mente non dimostra la
sua nobiltà soltanto nella capacità di Dante di ricordare il proprio
viaggio, ma anche nell’averlo reso possibile e accompagnato. Un’altra
delle potenze della mente, l’intelletto, si è profondata tanto, è giunta là
dove neanche la memoria ha potuto seguirlo. Ma qui, nell’Inferno, una
simile distinzione sarebbe stata superflua, in quanto la capacità razionale
e la facoltà del ricordo sono giunte allo stesso, sommo grado.
Quando Dante usa mente in un contesto che pare riferirsi in maniera
esclusiva alla memoria, lo fa perché nell’atto di cui parla, accanto al
ruolo prevalente della memoria, è implicita anche una componente di
interpretazione razionale, di comprensione intellettuale, divinamente
fondata.
Nella prospettiva sin qui percorsa, faccio fatica anche a credere alla
spiegazione, ormai quasi universalmente accettata, del Pagliaro, secondo
cui l’aggettivo «alto detto dello ingegno non costituisce con esso
un nesso stabilizzato come oggi l’avvertiamo, ma lo connota nella sua
attività, “ingegno” che tende a cose alte»30. Peraltro già l’Anonimo fiorentino
aveva ritenuto che l’aggettivo non implichi una dichiarazione
di eccellenza poetica, ma vada inteso in relazione alla materia del poema:
«Alto ingegnio, non alto quanto in sé, ma alto per rispetto delle
cose che ha a trattare, che sono alte et maravigliose»31.
La contiguità, pure spesso rilevata, con l’«altezza d’ingegno» attribuita
da Cavalcante de’ Cavalcanti congiuntamente allo stesso Dante
e al figlio Guido (If X, 59) rende per lo meno improbabile una simile
ipotesi interpretativa; e lo stesso si può dire dell’affinità con l’altro sintagma
«alta fantasia» (Pd XXXIII, 142), quale che ne sia l’esatto significato,
tuttoggi oggetto di vivaci discussioni. Il fatto che Cavalcante attribuisca
anche a Dante altezza d’ingegno, poi, è ulteriore motivo, oltre
a quelli già indicati, per pensare che l’«alto ingegno» invocato nella
protasi della cantica sia proprio quello del poeta. Né vale, a mettere in
dubbio tale convinzione, il fatto che non l’altezza d’ingegno, ma il dono
gratuito della grazia abbia consentito a Dante il suo viaggio nell’aldilà
(«Da me stesso non vegno», If X, 61): giacché qui non delle condi-
30 Antonino Pagliaro, Ulisse. Ricerche semantiche sulla Divina Commedia, Firenze,
Le Monnier, 1966, vol. I, p. 77, n. 2.
31 Commento alla Divina Commedia d’Anonimo Fiorentino del secolo XIV, a cura di
Pietro Fanfani, Bologna, Romagnoli, 1866-74, vol. I, p. 33.
[ 9 ]
644 valter boggione
zioni del viaggio si tratta, ma della rappresentazione letteraria di uno
specifico segmento del viaggio stesso, quello attraverso il regno infernale
(e semmai merita attenzione il fatto che così può sembrare a Cavalcante,
perché, essendo la sua prospettiva limitata alla dimensione
materiale della vita e ai confini dell’Inferno, altro non può vedere oltre
l’ingegno, oltre le doti individuali). Anche la memoria virgiliana sottesa
già secondo Vellutello32 al passo dantesco, «magnam […] mentem»
(Aen. VI, 11), induce a pensare che alto determini ingegno, anziché connotarlo
nella sua attività; e così l’altro legame, indiscutibile, con la purgatoriale
navicella dell’ingegno. Come che si voglia spiegare il suffisso
diminutivo, anche «navicella», infatti, costituisce una determinazione
del successivo complemento di specificazione:
Per correr miglior acque alza le vele
omai la navicella del mio ingegno
che lascia dietro a sé mar sì crudele.
(Purg. I, 1-3)
Ma che cosa significa, esattamente, la metafora della navicella
dell’ingegno? Che valore ha il suffisso diminutivo? La questione ha
suscitato poco interesse tra gli interpreti, sia antichi sia moderni, con
un paio di eccezioni che vedremo: e dire che si tratta di una delle metafore
fondanti della Commedia e siamo in uno dei punti cruciali del
poema. Verrebbe da pensare, di primo acchito, alla volontà dantesca
di sminuire tale facoltà, unicamente umana, in relazione ad una materia
più elevata (le «miglior acque») rispetto al mare crudele dell’Inferno.
L’ingegno di Dante, che ben poteva essere alto, pienamente adeguato,
nell’affrontare e rappresentare le anime morte alla grazia, e che
obiettivamente è alto, a confronto di quello della maggioranza degli
uomini, è comunque una navicella, uno strumento appena appena
sufficiente ora che si tratta di percorrere le acque del Purgatorio, dove
accanto ai problemi di carattere etico sempre più spesso si affacciano
quelli di carattere teologico (donde le tante soluzioni parziali, che necessiteranno
di ulteriore approfondimento, come quelle del problema
del libero arbitrio o del significato dell’amore).
L’ipotesi non manca di una sua logica; eppure non mi convince
pienamente. Il movimento che si ha dalle Muse alle sante Muse ad
Apollo è un movimento ascensionale; e ascensionale dovrebbe essere
anche il movimento dall’«alto ingegno» alla «navicella» dell’ingegno
32 A. Vellutello, La Comedia di Dante Aligieri, cit., vol. I, p. 224.
[ 10 ]
dante e l’altezza d’ingegno 645
all’intelletto che «si profonda tanto». In più, i diminutivi sicuramente
tali, nel Purgatorio, si contano sulla punta delle dita di una mano; e gli
altri due termini con suffisso diminutivo che compaiono nello stesso
canto I hanno certamente valore intensivo (sono, è noto, le fiammelle
del v. 25, che sono fiamme vividissime; e l’isoletta del v. 100, che è l’isola
del Purgatorio, tutt’altro che piccola: e sarà dunque l’isola più lontana
rispetto al continente, e magari anche quella di dimensioni maggiori).
In maniera analoga, la navicella dell’ingegno potrebbe essere una
nave particolarmente agile e adatta alla navigazione: tanto più che un
analogo ricorso al diminutivo si incontra, per di più a breve distanza,
nella rappresentazione di un’altra imbarcazione. Mi riferisco al «vasello
snelletto e leggero» di Pg II, 41, che designa il vascello, l’imbarcazione
agilissima e velocissima, che naviga a fior d’acqua, guidata dall’angelo
nocchiero senza far ricorso ad «argomenti umani». Lì il suffisso è
applicato all’aggettivo: ma la somiglianza resta notevole. In questo
caso, il significato sarebbe esattamente opposto, rispetto a quello prima
postulato: la nave agilissima dell’ingegno di Dante, fuor di metafora
il suo ingegno acutissimo e penetrante, sta per affrontare la nuova
fatica letteraria. Tuttavia anche vasello, cioè vascello, è costruito con
suffisso diminutivo, dal lat. vasculum: e si potrebbe allora pensare che
la navicella indichi, piuttosto che una nave particolarmente agile e veloce,
una nave particolare, dotata di specifiche caratteristiche.
Tutte le diverse possibilità erano già state avanzate con acume,
seppure senza adeguata giustificazione argomentativa e senza che si
operasse una scelta tra l’una e l’altra, da Benvenuto da Imola:
La navicella del mio ingegno, idest, ingenium meum, quod est tanquam
navicula; et dicit diminutive navicula ratione honestatis et humilitatis,
quia pervenit ad materiam humilem. Nam secundo capitulo Inferni
faciens invocationem suam dixit satis superbe: o alto ingegno, vel respexit
metaphoram magis propriam, quia navicula velocius currit per
aquam, et nihil velocius est ingenio, quod percurrit universum cito, et
multa complectitur. Navicula etiam facilius penetrat aquam, et ita ingenium
acutum materiam. Vel dicit navicula, quia postea navigabit
cum magna navi armata aquam paradisi, ubi dicit secundo capitulo,
dietro al mio legno che cantando varca33.
Recentemente Illiano ha scartato il valore diminutivo in considerazione
della collocazione del sintagma all’interno di quella che chiama
33 Benvenuto da Imola, Comentum super Dantis Aldigherii Comoediam, cit., vol.
III, pp. 2-3.
[ 11 ]
646 valter boggione
la «flottiglia dell’ingegno», ricostruendo un sistema di relazioni prezioso
e pienamente condivisibile:
La chiosa dell’Ottimo, secondo cui «nello Inferno passa con barca, quasi
ogni ingegno sia sufficiente a quello; nel Purgatorio introduce navicella,
che è maggiore che barca e minore che nave» non dovrebbe indurre
a una lettura in senso diminutivo di un termine-emblema destinato
a rimaner vincolato all’uso dantesco proprio perché s’inserisce in
quella prodigiosa gradatio della flottiglia dell’ingegno che, salpando
prima con la nave che alza solo l’artimone della ragione (Conv. II, i) e
poi con l’agile e propizia consorella purgatoriale che alza tutte le vele
ma non ancora per distanziare le barchette, si adornerà del «legno che
cantando varca», troppo rapido per quelli della «piccioletta barca» ma
non per quelli del «navigio» atto a tener dietro al «mio solco» (Par. II),
[…] per navigare infine, virando e potenziando la prora delle Georgiche
(IV 117), con l’orgoglio dell’«ardita prora» che fende mari interdetti a
«picciola barca» (Par. XXII 68 e 67)34.
Mi sembra importante, a questo punto, ricordare la fonte dell’immagine
dantesca, mai sottaciuta dai commentatori, ma mai neppure
adeguatamente tenuta in considerazione e analizzata nelle sue importanti
implicazioni metaletterarie: l’elegia terza del terzo libro di Properzio,
dov’è ricordata l’ingenii cymba dell’autore. Ma leggiamo una
più ampia porzione del testo, indispensabile per capire:
Visus eram molli recubans Heliconis in umbra,
Bellerophontei qua fluit umor equi,
reges, Alba, tuos et regum facta tuorum,
tantum operis, nervis hiscere posse meis;
parvaque tam magnis admoram fontibus ora,
(unde pater sitiens Ennius ante bibit,
et cecinit Curios fratres et Horatia pila […],
cum me Castalia speculans ex arbore Phoebus
sic ait, aurata nixus ad antra lyra:
«Quid tibi cum tali, demens, est flumine? Quis te
carminis heroi tangere iussit opus?
Non hinc ulla tibi speranda est fama, Properti:
mollia sunt parvis prata terenda rotis,
ut tuus in scamno iactetur saepe libellus,
34 Antonio Illiano, Purgatorio I 1-31, in Miscellanea di studi danteschi in memoria
di Silvio Pasquazi, a cura di Alfonso Paolella, Vincenzo Placella, Giovanni
Turco, Napoli, Federico & Ardia, 1993, p. 452, dove – a p. 451 – giustamente si
ironizza sul fatto che «la navicella dell’ingegno purgatoriale» è «vanamente inseguita
dalle barchette degli annotatori più sensibili alla tenerezza del diminutivo».
[ 12 ]
dante e l’altezza d’ingegno 647
quem legat exspectans sola puella virum.
Cur tua praescriptos evecta est pagina gyros?
Non est ingenii cymba gravanda tui.
Alter remus aquas, alter tibi radat harenas:
tutus eris; medio maxima turba mari est».
Le analogie tra il testo properziano e quello dantesco sono numerose
ed evidenti. Nell’uno e nell’altro caso siamo di fronte ad una riflessione
metaletteraria, relativa alla scelta della materia e dello stile
che saranno impiegati nella nuova sezione dell’opera che il poeta si
accinge ad affrontare (le cosiddette elegie romane per Properzio, il
Purgatorio per Dante). Come Properzio, Dante ricorre alla metafora
acquea per indicare la materia dell’opera letteraria e a quella dell’imbarcazione
per indicare le forze messe in atto per la composizione
dell’opera, e segnatamente l’ingegno. Più avanti nel testo latino, rispetto
ai versi citati, compare anche la figura di Calliope («E quarum
numero me contigit una dearum / (ut reor a facie, Calliopea fuit)»,
37-38), per la cui comparsa nella Commedia, allora, si dovrà ricordare
anche il precedente properziano, accanto a quelli abitualmente segnalati
di Virgilio (Aen. IX, 525) e Ovidio (Met. V, 338).
Il sistema di immagini, insomma, è lo stesso: ben diverso, però, è il
modo in cui queste sono poste in relazione tra di loro e il significato che
assumono. Come sempre in questi casi, più che le analogie sono significativi
gli scostamenti, per comprendere appieno la strategia messa in
atto dal poeta cristiano. Cominciamo dalla fine, da Calliope. La musa
properziana prende per mano il poeta, lo accompagna alla fonte, vi
attinge l’acqua di Filita e con essa bagna le sue labbra. Fuor di allegoria,
Properzio avanza l’idea di una poesia perfetta (Calliope è la più
importante tra le Muse, quella deputata tradizionalmente al genere
epico) anche nella rinuncia alla materia alta delle armi e degli eroi e
allo stile tragico: «Nec tibi sit rauco praeconia classica cornu / flare nec
Aonium tingere Marte nemus» (41-42). È il modello callimacheo, del
resto poco avanti esplicitamente richiamato in apertura dello stesso libro
terzo (III, i, 1: «Callimachi Manes et Coi sacra Philitae»), che comporta
la rinuncia al poema epico: ma con l’ulteriore riduzione del passaggio
dalla misura dell’esametro a quella del distico elegiaco, dall’epillio
all’elegia. Dante riporta Calliope al poema, per altro lasciando fin
d’ora intuire, con l’introduzione dell’avverbio alquanto («e qui Caliopè
alquanto surga»), che ci sarà un livello più alto rispetto al modello classico,
in cui Calliope rappresenta il vertice, quello del Paradiso e del «poema
sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra» (Pd. XXV, 1-2).
[ 13 ]
648 valter boggione
Ma anche l’immagine del viaggio per acqua subisce una significativa
riscrittura. Apollo rimprovera Properzio per aver affrontato un
viaggio eccessivamente difficile rispetto ai mezzi di cui dispone, e lo
invita a rinunciare a traversate per mare che non potrebbero concludersi
che con il naufragio. Dante si appresta a correre acque migliori
con una navicella che nulla lascia intuire come inadatta all’impresa
alla quale il poeta si accinge. Anche attraverso la memoria properziana,
allora, si affaccia nel prologo del Purgatorio il ricordo di un viaggio,
simmetrico e opposto, rispetto al viaggio di Dante, che è quello di
Ulisse, poi più chiaramente alluso nel finale dello stesso primo canto.
Fallimentare, il viaggio di Ulisse, come fallimentare sarebbe stato
quello di Properzio, se il poeta latino lo avesse affrontato; coronato da
successo quello di Dante. Di follia si macchierebbe Properzio («demens
»), secondo Apollo, se affrontasse il grande fiume del poema epico;
folle è il volo di Ulisse «per l’alto mare aperto» (If. XXVI, 100). Il
canto I del Purgatorio si apre e si chiude sull’immagine di un mare
placido che evoca per contrasto quella di un mare minaccioso e procelloso:
l’inizio, con l’opposizione tra le «miglior acque» e il «mar sì
crudele», è incentrata sull’auctor e sulle sue scelte poetiche, ed è condotta
a parte artifici; il finale, con la descrizione della marina tremolante
sotto la luce mattutina, che è però anche il «lito diserto / che mai
non vide navicar sue acque / omo, che di tornar sia poscia esperto»
(130-132), il luogo del «turbo» che ha inghiottito il legno di Ulisse, riguarda
l’agens. Il nesso tra il I del Purgatorio e il XXVI dell’Inferno è
sottolineato dalla ripresa della perifrasi «com’altrui piacque» per indicare
Dio (rispettivamente ai vv. 133 e 141, in entrambi i casi quasi in
chiusura di canto) e della rima esperto:aperto, su cui ha fermato l’attenzione
Maria Corti35. Si potrebbe aggiungere, a proposito della perifrasi,
che nei due luoghi è piegata a significati antitetici, perché nell’episodio
infernale esprime una volontà opposta e irriducibile rispetto a
quella dell’eroe, mentre in quello purgatoriale documenta la docile
accettazione di quella stessa volontà, così dando ulteriore evidenza
all’umiltà di Dante a fronte della presunzione di Ulisse36; e a proposito
del sistema delle rime, che sarebbe bene considerare anche la terza ri-
35 Maria Corti, La “favola” di Ulisse, in Percorsi dell’invenzione, Torino, Einaudi,
1993, pp. 141-142.
36 Sono consapevole che negli ultimi anni molti interpreti ritengono il fallimento
dell’ultimo viaggio di Ulisse frutto non di colpa, ma di fatalità, di necessità;
ma non ultima questa simmetria mi induce a credere ancora alla superbia dell’eroe.
[ 14 ]
dante e l’altezza d’ingegno 649
ma, quella divergente tra i due passi, con un cambiamento che da solo
basta a suggerire il significato ultimo dei due episodi. Nell’Inferno, abbiamo
infatti esperto:aperto:diserto, nel Purgatorio, discoverto:diserto:esperto:
da una parte sta l’immensità di un mare aperto e senza approdo,
dall’altra la scoperta di una nuova terra, solitamente preclusa agli uomini.
Del resto, l’umiltà in antitesi rispetto alla superbia – la superbia
punita delle Pieridi che hanno sfidato le Muse, l’umiltà di Catone che
si offre come vittima sacrificale per la salvezza del mondo intero37, la
riconquistata umiltà, dopo la superbia del peccato e della ribellione a
Dio, di Dante che docile si piega alla volontà divina e all’arte di Virgilio
– costituisce il nodo fondante dell’intero canto, quello che unifica i
tre momenti apparentemente staccati tra loro della protasi, dell’incontro
con Catone, di Virgilio che pulisce con la rugiada le guance di Dante.
Numerosi studi38 hanno dimostrato che nell’ottica dantesca Catone
è figura Christi: e Cristo, l’agnello di Dio che si è offerto in sacrificio per
la salvezza degli uomini, è il supremo esempio di umiltà. È sull’umiltà
che si fonda la salvezza e la resurrezione, come dimostra l’episodio
del giunco strappato da Virgilio per cingerne la fronte di Dante, che
mette capo a una prodigiosa rinascita: «Quivi mi cinse sì com’altrui
piacque: / oh meraviglia! ché qual elli scelse / l’umile pianta, cotal si
rinacque / subitamente là onde l’avelse» (I, 133-136). La rinascita del
giunco ripete, nel proprio carattere incomprensibile e prodigioso («oh
meraviglia!»), la salvezza misteriosamente concessa da Dio a Catone a
dispetto del suicidio: che dunque non è da intendersi come atto di
superbia e protervia, ma come gesto di umiltà, sacrificio e offerta di sé
per la salvezza di tutti gli uomini. Dante è ben consapevole di aver
stupito i suoi lettori: e con le ultime righe del canto indirizza quello
stupore in una precisa direzione. L’acqua che ha travolto il legno di
Ulisse facendolo inabissare e che non permetterebbe a nessun’altra
pianta «che facesse fronda / o indurasse» di sopravvivere (I, 103-104),
è la stessa acqua di fronte a cui il giunco si piega docile senza riportar-
37 Sull’argomento mi permetto di rinviare al mio La custodia, la vera libertà, la
colpa, la pena. Ancora sul Catone dantesco, in «Giornale storico della letteratura italiana
», CXXXIX (2012), pp. 321-353.
38 R icordo almeno Ezio Raimondi, Rito e storia nel canto I del Purgatorio, in Metafora
e storia. Studi su Dante e Petrarca, Torino, Einaudi, 1970, p. 82; Robert Hollander,
Allegory in Dante’s Commedia, Princeton, Princeton University Press, 1969,
p. 127; e Giorgio Barberi Squarotti, Ai piedi del Monte: il prologo del Pugatorio, in
L’ombra d’Argo. Studi sulla Commedia, Torino, Genesi, 1992, p. 272.
[ 15 ]
650 valter boggione
ne danno alcuno, anzi dimostrando una prodigiosa capacità di rinascita.
Che ruolo ha, in questo sistema, la navicella dell’ingegno? Non
può non aver ragione Illiano quando sostiene che il termine non sopporta
una lettura in senso diminutivo e restrittivo: sennò non si capirebbe
la divergenza con la fonte properziana. Del resto, anche in Properzio
l’immagine della cymba non vuole esprimere tanto la limitatezza
dell’ingegno (Calliope bagna comunque le labbra del poeta), quanto
l’inadeguatezza rispetto al genere; e nel Purgatorio è una navicella
anche la Chiesa (XXXII, 129: «O navicella mia com’ mal se’ carca»), che
è universale e certamente non inadeguata a condurre l’umanità alla
salvezza. L’ingegno è necessariamente acutissimo e capace di supportare
il viaggio, che viene affrontato e non eluso, a differenza di Properzio,
né si conclude con un naufragio, come quello di Ulisse. Il fallimento
del viaggio di Ulisse, del resto, è già implicito nell’imbarcazione
impiegata, un’imbarcazione a remi spinta da un manipolo di uomini,
una galea, del tutto inadatta alla navigazione oceanica39. Ma è altrettanto
vero che, nella gerarchia ascensionale tra le tre cantiche, la
navicella deve essere un’imbarcazione di rango inferiore rispetto al
«legno che cantando varca» di Pd II, 3: quell’imbarcazione che i lettori
che sono in «piccioletta barca» (in una barca decisamente piccola,
troppo piccola per affrontare un simile viaggio: e siamo di nuovo,
dunque, di fronte a un suffisso che ha valore intensivo e non diminutivo)
non debbono neppure attentarsi a seguire. Il legno è in grado di
affrontare il mare aperto; le acque che si accinge a percorrere la navicella
sono acque migliori, non tempestose.
A questo punto, allora, non è più in gioco l’agilità e la rapidità
dell’imbarcazione, come implicitamente suggerisce Illiano («l’agile e
propizia consorella purgatoriale», il «legno che cantando varca, troppo
rapido»), fuor di metafora l’acutezza dell’ingegno: ma il tipo di viaggio
che si ha da fare, e dunque il tipo di imbarcazione da impiegare.
Già ho osservato che il sistema delle immagini è lo stesso di Properzio:
ciò che muta sono le relazioni. Ma allora la navicella dantesca è la
cymba properziana: in altri termini, un’imbarcazione adatta alla navigazione
fluviale o al massimo sotto costa («Alter remus aquas, alter
tibi radat harenas»), certamente non al mare aperto. Tale mi pare an-
39 Sugli aspetti “tecnici” relativi alla navigazione nell’episodio di Ulisse ha
scritto pagine puntualissime Claudio Sensi, Dante, Ulisse, l’uomo, la libertà, in Parole
di fuoco, parole di gelo. Tre saggi sull’Inferno, Torino, Trauben, 2011, pp. 21-78 (si
vedano in particolare le pp. 27-48).
[ 16 ]
dante e l’altezza d’ingegno 651
che il significato del termine a If XVII, 100, quando a una navicella che
sta manovrando per uscire di porto è paragonato Gerione: «Come la
navicella esce di loco / in dietro in dietro […]» (e prima, quando aveva
visto il mostro per la prima volta, Dante l’aveva paragonato a un
burchio: un’imbarcazione da carico, decisamente più grande di una
semplice barchetta, ma adatta soltanto ad essere impiegata su fiumi,
laghi e lagune, non certo nel mare aperto).
Entro questi limiti, la navicella dell’ingegno è solida e agile quanto
serve, in sommo grado efficace; ma certamente non in grado di affrontare
l’ultima parte del viaggio, fondata sull’intelletto. Non per nulla,
alla cymba, alla nave che procede sottocosta, subentra nel Paradiso il
«legno che […] varca», che affronta cioè la traversata dell’«alto sale».
Non mi nascondo che una simile interpretazione – pienamente coerente
fin che si mettono in relazione i prologhi delle tre cantiche – offre
il destro a una facile obiezione. In questo sistema di immagini, il
viaggio attraverso il Purgatorio è un viaggio condotto sottocosta: ma
il viaggio durante il quale Ulisse fa naufragio è «per l’alto mare aperto
», attraversa l’oceano. Si potrebbe rispondere che siamo di fronte a
due diversi ordini di discorso poetico: l’uno metaforico-allegorico,
l’altro reale. Ma sarebbe una risposta poco dantesca. La Commedia è un
sistema, un tutto coerente, dove il piano figurato e quello reale si corrispondono,
giusta il principio della natura polisema dell’opera enunciato
nell’epistola XIII. Ma c’è forse un altro modo di rispondere all’obiezione,
più fondato nell’opera e criticamente più fertile. Non dimentichiamoci
che, se il viaggio di Dante e quello di Ulisse mettono capo
allo stesso approdo, la spiaggia del Purgatorio, hanno seguito rotte
diverse, oltre ad essere fondato l’uno sulla grazia divina e l’altro sulle
sole forze dell’ingegno umano. Il viaggio di Ulisse è un viaggio che
sfida l’oceano, nella sua dimensione di assoluta alterità rispetto agli
uomini, ai loro luoghi e alle loro cose. A dispetto dell’ardore a divenire
esperto «de li vizi umani e del valore», della dimensione etica dell’esistenza,
l’eroe greco lascia la civiltà e l’umanità: «ma misi me per l’alto
mare aperto». E questo, senza entrare nei dettagli di quel passo, che ci
porterebbero troppo lontani dal nostro discorso, mi pare il significato
principale della promessa fatta da Ulisse ai compagni, e tanto dibattuta
dalla critica con soluzioni opposte e contrastanti, di fare «esperienza,
/ di retro al sol, del mondo sanza gente» (Inf. XXVI, 116-117). Ulisse
si illude che un’esperienza di tipo gnoseologico, l’approdo alla conoscenza,
sia possibile a prescindere dalla dimensione etica. Fino alla
fine del Purgatorio, il viaggio dantesco è un viaggio fluviale o sottocosta,
che si tiene ben attaccato e ai vizi umani e al valore: non per nulla,
[ 17 ]
652 valter boggione
ha per guida Virgilio, che è ragione umana inviata da Dio in soccorso
di Dante, ma non illuminata dalla grazia. Unico è l’approdo dei due
viaggi, ma diversa la rotta: e in questa diversità, anche, si fonda il diverso
esito.
Anche in virtù di queste ultime considerazioni, faccio fatica a credere
che la scena che ha luogo nel finale del canto, con Virgilio che
prima pone «ambo le mani in su l’erbetta sparte» (124) e poi le passa
sulle guance lacrimose di Dante, facendo «tutto discoverto / quel color
che l’inferno» (128-129) aveva nascosto, possa essere intesa – come
di solito si fa – come un rito lustrale in senso religioso. Ben altri rituali
di purificazione dovrà subire Dante attraverso le sette cornici, fino
all’ultimo nel Paradiso Terrestre, ai quali sono ministri creature beate,
gli angeli e Beatrice. Non dimentichiamo che Virgilio è un’anima del
limbo, è la ragione umana nelle sue più alte potenzialità ma anche con
tutti i suoi limiti: né mi pare senza significato, allora, che nell’episodio
ricorra il termine arte («io, che fui accorto di sua arte», 126), che indica
quell’insieme di precetti e tecniche attraverso cui l’ingegno (di cui Virgilio
è sommo esempio) trova realizzazione. Siamo sempre in una dimensione
tutta umana, terrena ancora: e il gesto andrà inteso allora
come il superamento del male in virtù della ragione umana e del pensiero
filosofico, il recupero dell’umanità dopo la degradazione nel vizio
(il colore del volto di nuovo visibile). Atto preventivo e necessario
rispetto alla cancellazione delle sette P dalla fronte di Dante e al gustare
le acque del Letè e dell’Eunoè, atto che quelli figuralmente anticipa,
come la letteratura pagana prefigura le Sacre Scritture: ma non vero e
proprio rito di penitenza e purificazione, che renderebbe superflui
quelli che avverranno dopo (e di fatto l’intero percorso lungo le pendici
della montagna).
Valter Boggione
Università di Torino
[ 18 ]
ALESSANDRA MANTOVANI
Il carteggio Fontanini-Muratori (1699-1716):
storia di un’amicizia
Il carteggio Fontanini-Muratori rappresenta un capitolo significativo del dibattito
culturale che, dalla fine del XVII ai primi decenni del XVIII secolo, animò la
‘repubblica delle lettere’ tra Italia ed Europa. Il rinnovamento metodologico
dell’indagine storica ed erudita, l’attenzione filologica alla pubblicazione delle
fonti documentarie medievali, l’impegno etico e civile per la modernizzazione
della cultura italiana in una prospettiva multidisciplinare sono i fili conduttori
di una conversazione colta e amichevole, animata da una passione intellettuale
a lungo condivisa.

The correspondence between Fontanini and Muratori constitutes a significant
chapter in the cultural debate that, from the end of the seventeenth century to
the early decades of the eighteenth century, enlivened the Republic of Letters in
Italy and Europe. The methodological renewal of historical and erudite studies,
the philological interest in the publication of medieval documentary sources,
an ethical and civic engagement aimed at modernising Italian culture in a multidisciplinary
perspective form the core of a cultivated and friendly conversation
animated by a long-shared intellectual passion.
Nella lettera del 10 maggio 1704, a commento delle osservazioni
che andava annotando in margine al manoscritto della Perfetta poesia
italiana, Giusto Fontanini1 si rivolgeva a Lodovico Antonio Muratori
nei toni di una consolidata e affettuosa consuetudine epistolare che
affiancava l’ammirazione devota alla confidenza autorevole di un dialogo
alla pari, per quanto mai dimentico del prestigio dell’interlocutore:
«Io ci ho notate alcune cose a parte, conforme mi venivano quando
andava leggendo il libro, le quali non istimo nulla e ancora voi farete
Autore: Alma Mater Studiorum – Università di Bologna; prof. a contratto;
alessandra.mantovan3@unibo.it.
1 Per Giusto Fontanini cfr. Dario Busolini, Fontanini, Giusto, in DBI, Istituto
della enciclopedia italiana, 1997, 48, pp. 747-752; Maria Teresa Molaro, Giusto
Fontanini e la sua biblioteca, «Quaderni guarneriani», XXIII (1993), n. 13, pp. 11-59.
654 alessandra mantovani
il medesimo»2. Non siamo di fronte ad una semplice formula di cortesia,
codificata da un galateo largamente condiviso fra i membri di
un’élite studiosa, solidale nell’impegno erudito e nelle profonde consonanze
culturali3, ma alla tonalità dominante di un carteggio iniziato
nel 1699 e che, con differente frequenza ma senza sostanziale soluzione
di continuità, procede fino al 1709 con qualche sporadico contatto
ancora nel 17164, dunque ben oltre lo spartiacque del 1708 che segna
una rottura insanabile tra i due corrispondenti.
La rivendicazione dei diritti imperiali ed estensi sulla città di Comacchio
contro la Santa Sede5, una controversa e dibattuta questione
giuridica e giurisdizionalistica che ha inizio proprio in quell’anno, è
probabilmente l’episodio più noto del rapporto tra Fontanini e Muratori,
che li vede schierati su posizioni opposte, in una polemica feroce
che deborda dai limiti della controversia politica e diplomatica e finisce
per investire il campo comune della ricerca storica ed erudita, in
un confronto senza esclusione di colpi che, soprattutto dalla parte di
Fontanini, raggiunge punte di acredine e crudeltà vendicativa inaudite,
fino all’accusa di eresia rivolta all’avversario. Ma se questa vicenda
si è imposta, anche per la durata pluridecennale, come l’elemento
decisivo di una relazione intellettuale del tutto emblematica di
quei rapporti «di concorrenza, di consonanza e di frizione»6 ben dif-
2 Lettera di Fontanini del 10.V.1704. Le lettere di Giusto Fontanini a Muratori
sono conservate presso la Biblioteca Estense Univesitaria di Modena, Archivio
Muratoriano, filza 64, fasc. 20. Il carteggio Fontanini sarà edito a cura di chi scrive
in Lodovico Antonio Muratori, Carteggi con Filippini…Furnò, Edizione Nazionale
del Carteggio di L. A. Muratori, vol. 18.
3 Cfr. Aldo Andreoli, Nel mondo di Lodovico Antonio Muratori, Bologna, Il Mulino,
1972; Michele Monaco, I rapporti di L.A. Muratori con i «letterati» romani del
suo tempo, in Muratori e la cultura contemporanea. Atti del Convegno Internazionale
di Studi Muratoriani, Modena 1972, Firenze, Olschki, 1975, I, pp. 57-100.
4 Il carteggio si compone di 56 lettere così distribuite negli anni: 1699: 2; 1700:
3; 1701: 6; 1702: 8; 1703: 11; 1704: 9; 1705: 1; 1706: 2; 1707: 6; 1709: 6; 1716: 2.
5 Sulla questione di Comacchio e il ruolo sostenuto dal Muratori nella controversia
si vedano, anche per l’ampia bibliografia riportata, Sergio Bertelli, Erudizione
e storia in Ludovico Antonio Muratori, Napoli, Istituto italiano per gli studi
storici, 1960; Fabio Marri, Agli albori del filogermanesimo di Muratori: documenti inediti
sulla questione comacchiese, in Il Settecento tedesco in Italia. Gli italiani e l’immagine
della cultura tedesca nel XVIII secolo, a cura di Giulia Cantarutti, Stefano
Ferrari, Paola Maria Filippi, Bologna, Il Mulino, 2001, pp. 15-59; Matteo Al
Kalak, «La provvidenza deciderà». Comacchio, Paolo Segneri e i dilemmi di Muratori,
«Rivista di Storia del Cristianesimo», XI (2014), n. 1, pp. 115-140;
6 Lodovico Antonio Muratori, Carteggi con Mabillon…Maittaire, a cura di
Corrado Viola, Firenze, Olschki, 2016, p. 85. È detto del rapporto tra Scipione
[ 2 ]
il carteggio fontanini-muratori (1699-1716): storia di un’amicizia 655
fusi fra i letterati nella stagione di passaggio tra ancien régime ed epoca
dei Lumi, essa resta di fatto esclusa dallo scambio di missive e responsive
che la precedono e per un breve tratto l’accompagnano: una
lunga conversazione nella quale i due interlocutori non si spogliano
mai dei ruoli che rivestono l’uno rispetto all’altro, di quella «immagine
di sé»7 costruita a garantire un dialogo fin quando questo appare
possibile, anche se le circostanze intorno cominciano irreversibilmente
a mutare8.
Il carteggio tra Fontanini e Muratori è stato d’altro canto più volte
tangenzialmente esplorato da ricerche che hanno messo in luce il ruolo
di sodale e consulente prestigioso sostenuto da Fontanini, introdotto
nella laboriosa officina creativa del suo già illustre corrispondente a
discuterne fin dalla genesi i progetti più ambiziosi, soprattutto nella
stagione del dibattito militante per il rinnovamento della cultura e
della letteratura nazionale tra i Primi disegni della repubblica letteraria
d’Italia e il trattato Della perfetta poesia italiana9. Resta vero però che
l’insieme del carteggio, ad oggi inedito nella sua interezza, merita una
lettura più sistematica e auspicabilmente completa proprio perché
consente di delineare in un’ottica di «rete», ovvero di relazioni, letture,
contatti pazientemente costruiti, un panorama d’insieme; quell’ampiezza
di «interconnessioni» da cui emerge un «contesto»10, ovvero il
dibattito culturale che negli anni tra la fine del XVII secolo e i primi
decenni del Settecento si svolge tra Milano, Firenze, Modena e Bologna
da una parte e Roma dall’altra, sempre però rapportandosi alla
Maffei e Muratori, ma appare del tutto applicabile anche alla vicenda Fontanini-
Muratori.
7 Corrado Viola, Introduzione a Le Carte vive. Epistolari e carteggi nel Settecento,
a cura di Corrado Viola, Roma, Edizioni di storia e lettertura, 2011, p. XVIII.
8 Impegnato a confutare le posizioni di Giacomo Laderchi in merito alla pubblicazione
dei Mémoires di Tillemont, nella lettera dell’8.IV.1708 Fontanini prega
Domenico Passionei di non divulgare la notizia che è proprio lui l’autore della
memoria difensiva a favore di Tillemont e diretta al Papa, che invece «quella bestia
di Muratori voleva adesso far stampare». Cfr. Alberto Caracciolo, Domenico
Passionei tra Roma e la repubblica delle lettere, Roma, Edizioni di storia e letteratura,
1968, p. 65.
9 Dell’ampia bibliografia esistente sulle opere citate, si fa riferimento unicamente
ai saggi in cui siano state riprodotte in parte o per intero lettere di Fontanini
al Muratori: Giorgio Boccolari, Muratori, Fontanini e la ‘Perfetta poesia’, «Muratoriana
», V (1955), n. 4, pp. 34-43; A. Andreoli, Nel mondo di Lodovico Antonio Muratori,
cit., 143-171; Alfredo Cottignoli, Muratori teorico. La revisione della Perfetta
poesia e la questione del teatro, Bologna, Clueb, 1987.
10 C. Viola, Introduzione, cit., p. XIX.
[ 3 ]
656 alessandra mantovani
più ampia dimensione europea della «repubblica delle lettere»11. Converrà
dunque procedere con un’analisi – per così dire – in orizzontale,
che restituisca la pluralità dei temi affrontati nelle lettere, tradotti concretamente
in relazioni e incontri reali o a distanza, sempre mediati da
libri, manoscritti e documenti letti, prestati, recensiti, copiati o comunque
condivisi. Da questa ricognizione estensiva potranno in prospettiva
emergere alcuni fili conduttori, grandi direttrici di una riflessione
a due o più voci, da individuare con maggiore chiarezza nello svolgimento
verticale della diacronia, all’interno della quale i problemi affrontati
si legano a precise fasi cronologiche da cui scaturisce il disegno
riconoscibile di un segmento di storia della cultura.
Nel 1699, all’epoca dei primi contatti espistolari documentati tra
Fontanini e Muratori, quello dell’allora bibliotecario responsabile
dell’Ambrosiana di Milano era un nome già piuttosto noto e stimato
sia in Italia che in Europa: l’eco suscitata della pubblicazione dei due
volumi degli Anecdota Latina, tra 1697 e 1698, lo aveva posto a diretto
contatto con il mondo dell’erudizione cattolica fiamminga e francese,
dai Bollandisti ai padri benedettini di San Mauro. Allievo del p. Benedetto
Bacchini, l’amico e corrispondente del Mabillon presso il quale,
negli anni dell’apprendistato modenese, da studioso esordiente si era
formato ai principi di una storiografia ecclesiastica metodologicamente
aggiornata in nome della filologia e di una rinnovata scienza diplomatica12,
Muratori corrispondeva in margine ai temi affrontati negli
Anecdota, magari per il tramite di Antonio Magliabechi, con Papenbroeck
e Mabillon, ma anche con Jean Boivin ed Étienne Baluze13, affrontando
i problemi che una lettura impregiudicata dei documenti poneva
alla coscienza di un uomo colto e di fede14.
Fu probabilmente per il tramite indiretto del Magliabechi e diretto
di Apostolo Zeno15 che Muratori entrò in contatto con Fontanini, il
11 Cfr. Hans Bots, Françoise Waquet, La repubblica delle lettere, Bologna, Il
Mulino, 2005, pp. 11-36.
12 Per la formazione culturale del Muratori resta fondamentale il riferimento a
Ezio Raimondi, I lumi dell’erudizione, Milano, Vita e pensiero, 1989, in particolare
per i saggi I padri maurini e l’opera del Muratori, pp. 3-77, e La formazione culturale del
Muratori, pp. 99-124.
13 Cfr. L.A. Muratori, Carteggi con Mabillon, cit. pp. 252-253 e p. 266.
14 S. Bertelli, Erudizione e storia, cit. pp. 38-43.
15 Il 1.IV.1698 Fontanini aveva scritto a Magliabechi di aver saputo dallo stesso
Zeno che questi aveva inviato a Magliabechi il suo Ragionamento delle masnade, cfr.
L.A. Muratori, Carteggi con Mabillon, cit., p. 266, mentre Magliabechi dà conto al
Muratori di aver ricevuto l’opera, cfr. Ivi, pp. 370-371. A sua volta Muratori scrive
[ 4 ]
il carteggio fontanini-muratori (1699-1716): storia di un’amicizia 657
quale si rivolgeva a lui come a uno storico esperto in quella lettera che
inaugurava il loro carteggio e che vale la pena ricordare, soprattutto
perché ci introduce ai temi e agli oggetti intorno ai quali si va consolidando
un’amicizia nata all’interno di una rete di relazioni comuni:
È lungo tempo che io mi dinoto ammiratore del merito di V. S. Illustrissima,
e come ché desiderassi più volte di renderla consapevole del mio
rispetto, contuttociò non ebbi tanto ardire senza qualche opportunità.
Ma ora, che questa ventura mi viene offerta dal compitissimo sig. Federico
Rostgaard, io son necessitato non solamente a lasciare ogni pusillanimità,
ma son posto in debito di correre con tutta prontezza a riverirla,
e a renderle pienissime grazie dell’incomodo che ha preso nel
rivedere quel manoscritto delle Leggi longobarde, come io l’avevo
pregata col mezzo del sopraccennato signore […]. Dedico dunque alla
sua gentilezza la mia divozione, siccome già l’ho dedicata alla sua virtù;
e benché il non esserle per anco arrivato il mio Ragionamento delle
masnade sia piuttosto mio vantaggio, poiché mi si prolunga il pericolo
di perdere quel nulla che io mi sono presso lei; nulladimeno io bramo
che lo vegga acciocché abbia indi occasione di moderar in avvenire il
concetto che le è piaciuto formar delle mie debolezze: e se saprò che
non lo abbia ricevuto all’arrivo della presente, cercherò io stesso il modo
di farlene giunger uno16.
Accanto al nome di Frederik Rostgaard, lo studioso danese impegnato
nella ricerca delle lettere inedite del Libanio, già ospite del Muratori
all’Ambrosiana e in viaggio in quel momento tra Firenze e
Roma,17 compariva dalla parte del Muratori quello di Nicolas Bellotte,
canonico della cattedrale di Laon, già raccomandatogli dal Mabillon18,
che il modenese chiedeva a Fontanini di introdurre ai protagonisti
della cultura romana «li sigg. abati Zacagna, Bianchini o Bonarotti,
come anche presso il cav. Prospero Mandosio»19. Nella responsiva di
Fontanini, l’assenso alla richiesta muratoriana, fra le rituali espressioni
di modestia, appariva quasi un atto dovuto nei confronti del Bellotallo
Zeno: «Ho letto in fretta la dissertazione del dottissimo sig. Fontanini e la lettera
pure a lei diretta. Mi favorisca ella di dirgli in mio nome che senza timor d’adulazione
egli è un valoroso letterato e che mi stimerò sommamente felice in avvenire
s’egli mi comanderà con tutta libertà e mi porrà nel numero de’ suoi amici».
Cfr. Lodovico Antonio Muratori, Epistolario, a cura di M. Campori, Modena,
Società tipografica modenese, 1901, II, n. 320, p. 370, 28.I.1699.
16 Lettera di Fontanini del 6.II.1699.
17 L.A. Muratori, Carteggi con Mabillon, cit., p. 218.
18 L.A. Muratori, Carteggi con Mabillon, cit., pp. 10-11.
19 L.A. Muratori, Epistolario, cit., n. 357, p. 408, 20.IX.1699.
[ 5 ]
658 alessandra mantovani
te «essendo [Bellotte] venuto a trovarmi co’ monaci di S. Mauro, nostri
comuni amici»20.
La cornice entro la quale si collocava questo scambio di cortesie,
una sorta di orizzonte comune definito non solo dai problemi ma dal
metodo e dallo stile della ricerca che emerge fin dalle lettere più antiche,
era dunque quella del secondo iter italicum dei padri maurini, il
p. Montfaucon e il p. Brioys che percorrevano l’Italia tra il 1698 e il
170121, alla ricerca dei tesori manoscritti della storia ecclesiastica medievale
conservati nelle biblioteche e negli archivi. Quella tra Fontanini
e Muratori si configurava dunque come una conversazione tra studiosi
che si sentivano a tutti gli effetti protagonisti della renovatio studiorum
che investiva le discipline storiche ed erudite tra la fine del
XVII secolo e gli inizi del Settecento; voci non provinciali di quella
«internazionale cattolica della cultura»22, impegnata sul doppio fronte
della battaglia contro l’eccellenza storico-filologica del mondo protestante
e le istanze potenzialmente sovversive del nuovo razionalismo
filosofico.
Così, mentre le lettere successive al ritorno di Muratori a Modena
come bibliotecario ducale – «in così riguardevole e nobil posto come è
quello che le ha conferito cotesto Serenissimo di Modana»23 – si arricchivano
di riferimenti alle ricerche che impegnavano Fontanini anche
sul fronte della storia del suo Friuli e ne evidenziavano il legame con
i nomi allora tra i più illustri della cultura veneta, da Apostolo Zeno a
Filippo Del Torre, vescovo di Adria24, non stupisce che egli facesse
direttamente riferimento anche ai conflitti che travagliavano il mondo
20 Lettera di Fontanini del 26.XII.1699.
21 Cfr. E. Raimondi, I padri maurini, cit., pp. 23 ed anche S. Bertelli, Erudizione
e storia, cit., pp. 73-74. Il primo iter italicum, di cui erano stati protagonisti il p. Mabillon
e il p. Germain, si era svolto tra il 1685 e il 1686.
22 Ezio Raimondi, Ragione ed erudizione nell’opera del Muratori, in Id., I lumi
dell’erudizione, cit., p. 79. La definizione è tratta da Gall Heer, Johannes Mabillon
und die Schweizer Benedektiner. Ein Beitrag zur Geschichte der historischen Quellenforschung
im 17.18. Jahrhundert, Verlag Leobuchhandlung, St. Gallen, 1938, p.
426, dove Mabillon viene definito «Muster eines international denkenden Gelehrten,
für den es in der Wissenschaft so wenig nationale Grenzen gab, wie in der allumfassenden
Weltkirche».
23 Lettera di Fontanini del 8.IX.1700.
24 Nella lettera del 8.IX.1700 si legge: «Abbiamo fuori un altro libro, ma nobile
assai del sig. abbate della Torre mio paesano e commensale pieno di molta erudizione
antica; e anco in quest’opera si parla di V.S. Illustrissima. Il libro è intitolato
Monumenta veteris Antij etc. 4.to». Su Filippo Dal Torre e i suoi rapporti con il Muratori,
cfr. M. Al Kalak, «La provvidenza deciderà», cit., pp. 115-120.
[ 6 ]
il carteggio fontanini-muratori (1699-1716): storia di un’amicizia 659
della erudizione sacra su aspetti metodologici che aprivano a spinose
difficoltà dottrinali:
Il p. Gianningo mi scrive d’Anversa che a primavera daranno al pubblico
il 3o tomo di Giugno e ristamperanno il 2o per esser periti gli
esemplari. Gli spiacerà intendere che qui sia stato proibito il Propileo,
perché io lo consolo, potendosi sperare che si sia qui sfogata la malignità
di chi faceva contro a tutta l’opera, la quale finalmente non riceve
danno dall’esclusione del Propileo, che non entra nella serie dell’Acta
sanctorum25.
Questo rapido passaggio sottintendeva il riferimento ad una questione
lungamente dibattuta, sollevata dal bollandista p. Papenbroeck
che, nel Propylaeum antiquarium circa veri ac falsi discrimen in vetustis
membranis, premesso all’edizione di Aprile degli Acta sanctorum del
167526, aveva messo in discussione l’autenticità di quasi tutti i diplomi
medievali di età merovingia, inficiando la possibilità stessa di un accertamento
dei fatti storici di epoca altomedievale e la ricostruzione
fondata delle vicende della chiesa in quei secoli. Questa posizione di
estremo scetticismo, discussa e confutata dagli eruditi della scuola
maurina e, tra gli altri, dallo stesso Mabillon del De re diplomatica
(1681), uno dei testi su cui Muratori si era formato alla scuola del Bacchini,
aveva suscitato una vasta polemica, seguita dall’accusa di eresia
a carico del Papenbroeck e dalla messa all’Indice del Propylaeum. E proprio
al bollandista p. Janninck, citato da Fontanini e autore di una apologia
del Papenbroeck27, il Muratori degli Anecdota aveva dedicato la
Notula oleorum, una dissertazione che insieme alla Disquisitio de reliquis
lo aveva introdotto a pieno titolo nel compromettente dibattito sul
culto medievale delle reliquie, banco di prova della filologia sacra.28
Dietro ad una notizia che si presentava come un aggiornamento
bibliografico, stava quindi uno dei nodi cruciali affrontati da una cultura
cattolica che avvertiva la necessità di essere moderna e di non rinunciare
all’accertamento rigoroso dei fatti, ma anche di sapersi avvalere
della ragione per salvaguardare la fede insieme ai valori della
25 Lettera di Fontanini del 12.II.1701.
26 Daniel Van Papenbroeck, Propylaeum antiquarium circa veri ac falsi discrimen
in vetustis membranis, in Acta sanctorum Aprilis, II, Antverpiae, 1675, cfr. S. Bertelli,
Erudizione e storia, cit. pp. 64-65, dove si dà conto dello svolgersi della trentennale
polemica.
27 Cfr. A. Andreoli, Nel mondo, cit., p. 82.
28 Cfr. S. Bertelli, Erudizione e storia, cit., p. 43.
[ 7 ]
660 alessandra mantovani
tradizione. Un’idea in cui l’abate Fontanini e il giovane studioso modenese
potevano a questa altezza concordemente riconoscersi, animati
entrambi da un’istanza di rinnovamento culturale e di rigenerazione
spirituale che delle inquietudini del rigorismo giansenista condivideva
più lo stile di ricerca e di pensiero che un’opzione di fede29. Di
qui l’attenzione anche per il dibattito religioso che si riscontra nelle
lettere del biennio 1699-1700, nelle quali Fontanini metteva a disposizione
di Muratori una sintesi delle proposizioni condannate dal clero
gallicano, traendone copia da un esemplare della Censura et declaratio
cleri gallicani congregati in materia fidei avuto in prestito dal p. Montfaucon30;
così come lo aggiornava sulla polemica che vedeva coinvolti i
Gesuiti intorno alla vexata quaestio dei cosiddetti ‘riti cinesi’:
Intorno alle cose di Confuzio, la questione s’è avanzata tant’oltre fra’
Gesuiti e gli altri missionari francesi che non manca altro se non che
vengano alle coltella o che combattano con le bombe e con l’artiglierie.
Si hanno scritti l’un contra l’altro infiniti libri, temperati di quell’acrimonia
che ella si può figurare. Ultimamente sono entrati di mezzo anco
i Domenicani e il p. Alessandro ha dati fuora due grossi libri ne’
quali pretende mostrar l’idolatria de’ Gesuiti. E questi libri sono stati
voltati in Italiano e stampati nascostamente a Napoli e il Generale della
Minerva gli va dispensando pubblicamente. Venne poco fa a Roma
il p. de’ Combe gesuita, che è stato nella China, e si credeva che dall’animo
di questo dipendesse la risoluzione di tutto nel S. Uficio; ma poi
sopravvenuta la morte del Papa, anche questi rumori han preso sonno,
per non risvegliarsi fino al nuovo Pontefice, il quale non si crede che
possa succedere così presto per la gran difficoltà che è nell’accordarsi
de’ cardinali. […] Ultimamente i Gesuiti diedero alle stampe una lettera
del p. Le Combe al Duca di Mena sopra le cose di Confuzio,31 che fu
pubblicata in Lione. Se V. S. Illustrissima a caso non l’avesse veduta,
mi avvisi che procurerò di trovarne una per mandargliela32.
Si trattava di un dibattito ormai pluridecennale, nato all’interno
29 Sull’ambiente romano e le supposte simpatie gianseniste di Fontanini e
dell’abate Domenico Passionei, a sua volta corrispondente del Muratori, cfr. A.
Caracciolo, Domenico Passionei, cit., pp. 50-51 e M. Monaco, I rapporti di L.A.
Muratori, cit., pp. 61-63 e 76-78.
30 Lettera di Fontanini del 6.XI.1700.
31 Sull’uso della grafia Confuzio, analoga alle forme Confutio/Confuzo utilizzate
da Matteo Ricci, e Confuso, forma utilizzata dal Bartoli, e la loro polarizzazione
culturale d’area italiana, cfr. Bruno Basile, Bartoli e Confucio: il primo profilo di Confucio
nella letteratura italiana, «Filologia e critica», VIII (1983), n. 1, pp. 24-38.
32 Lettera di Fontanini del 6.XI.1700.
[ 8 ]
il carteggio fontanini-muratori (1699-1716): storia di un’amicizia 661
della Compagnia di Gesù già all’indomani della morte di Matteo Ricci
(1610)33, che aveva progressivamente coinvolto, su posizioni spesso
divergenti, anche i missionari francescani e domenicani in Cina: ci si
era interrogati e divisi sul fatto che fosse legittimo – e se sì, in quale
misura – tollerare la pratica millenaria del culto tributato agli antenati
e a Confucio facendone un veicolo per la diffusione e l’assimilazione
della religione cristiana. Alla posizione di apertura dei Gesuiti, che
riconoscevano nell’adeguamento alle differenti consuetudini culturali
dei popoli la via maestra dell’evangelizzazione e per questo ribadivano
la natura eminentemente civile più che religiosa dei riti cinesi, si
opponeva la posizione di chiusura degli altri ordini missionari attivi
in Oriente, più inclini a sottolineare il rischio di idolatria sotteso a queste
forme di ibridazione culturale e religiosa.
Provenendo da quella Roma in cui, dai tempi della China illustrata
(1667) del gesuita Athanasius Kircher, la tensione missionaria e universalistica
del cattolicesimo si era espressa anche nell’interesse filosofico
e artistico per un simbolismo esotico concepito come linguaggio
spirituale universale34, la missiva di Fontanini era contemporaneamente
segno di curiosità intellettuale e di consapevolezza della dimensione
europea del dibattito. La questione era stata infatti nuovamente
deferita al Santo Uffizio, dopo le recenti prese di posizione dei
missionari Gesuiti in Cina: nella lettera si faceva preciso riferimento
– nonostante l’ortografia dei nomi appaia fuorviante – alla Dichiarazione
sopra gli onori che i Chinesi fanno a Confusio ed a’ Morti del p. Le Gobien,
dedicata al Duca di Maine, ed alla Apologia de’ padri Domenicani
missionarii della China (1699)35, la responsiva pubblicata anonima, ma
di cui l’autore era in realtà il p. Alexandre Noël, il «p. Alessandro»
indicato dal Fontanini che dunque sulla vicenda appariva molto ben
informato.
33 Cfr. Michela Catto, L’ateismo dei Cinesi in Matteo Ricci e Niccolò Longobardo.
La strategia missionaria della Compagnia di Gesù in Cina, www.giornaledistoria.net,
18/2015, pp. 1-14.
34 Cfr. Valerio Rivosecchi, Esotismo in Roma barocca. Studi sul padre Kircher,
Roma, Bulzoni, 1982, pp. 79-88. Dell’opera di Kircher si segnala la recente edizione
e traduzione a cura di Biagio Santorelli, Athanasius Kircher, Le meraviglie della
Cina, Bologna, Bononia University Press, 2015.
35 Cfr. Apologia de’ padri Domenicani missionarii della China, overo Risposta al libro
del P. Tellier Giesuita intitolato Difesa de’ Nuovi Cristiani ed alla Dichiarazione del
Padre le Gobien della medesima Compagnia, ‘Sopra gli onori che i Chinesi fanno a
Confucio e ai morti’ di un Religioso Dottore e Professore di Teologia dell’Ordine de’
Predicatori, in Colonia, appresso gli Heredi di Cornelio d’Egmond, MDCXCIX.
[ 9 ]
662 alessandra mantovani
L’Apologia confutava l’affermazione del Le Gobien, il quale «ardisce
dire che il maggior numero de’ Domenicani, i più dotti e i più illuminati,
sono stati costantemente de’ medesimi sentimenti de’ pp. Giesuiti,
circa le cerimonie Chinesi e che hanno riguardato gli honori, che
si fanno nella China a Confusio, ed a i morti, come consuetudini di un
culto puramente civile, e non come cerimonie di un culto religioso»36;
per questa ragione al Muratori che lo sollecitava a tenerlo informato
sulla «idolatria chinese»37, Fontanini precisava che «il Papa ha comandato
che dalle parti si concordi il fatto, avanti di venire alla diffinizione
della causa; e questo è stato un ottimo ripiego per non precipitar la
sentenza sul fondamento di relazioni appassionate da una parte e
dall’altra»38. Nelle lettere successive Fontanini dava notizia della pubblicazione
di «una bella risposta, per quanto dicono, contra l’Apologia
del p. Alessandro intorno al Confucio. L’autore era un tal «p. de Benedictis
gesuita napoletano che scrisse contra Cartesio e Lionardo da
Capua con poca felicità»39, riprendendo poi la notizia e specificando
che «Quello che ha scritta la difesa dicono essere il p. de Benedictis
gesuita, che sotto nome di Benedetto Aletino scrisse altre molte contra
Cartesio e il Capua»40.
Con l’accenno agli opuscoli editi a Roma in difesa dei Gesuiti e
della loro attività missionaria tra il 1700 e il 1702 dal p. De Benedictis41,
Fontanini mostrava di essere un osservatore autorevole o comunque
informato e ben introdotto negli ambienti della Curia e di questa vicenda
dava conto in modo puntuale al suo corrispondente modenese,
ma senza prendere posizione esplicitamente42. Peraltro nemmeno da
parte di Muratori vennero altre considerazioni nel merito e il suo interesse
per la questione dei riti del confucianesimo va probabilmente
ricondotto, al di là dell’urgenza del problema dottrinale e della sua
sensibilità di religioso, alla viva curiosità verso universi culturali anche
lontani e radicalmente altri rispetto a quello europeo. D’altro canto
prima di cimentarsi, in un’epoca più tarda, in una relazione tra
storico-etnografica ed epidittica sul Cristianesimo felice nelle missioni de’
36 Ivi, p. 5.
37 L.A. Muratori, Epistolario, cit., n. 446, p. 499, 5.II.1701.
38 Lettera di Fontanini del 12.II.1701.
39 Lettera di Fontanini del 9.IV.1701.
40 Lettera di Fontanini del 4.VI.1701.
41 Cfr. Luigi Pezzella, Benedetto Aletino. Un gesuita a Napoli contro i «Moderni»,
Avellino, Il Terebinto, 2017.
42 Cfr. D. Busolini, Giusto Fontanini, cit., pp. 747-752 e A. Caracciolo, Domenico
Passionei, cit., pp. 40-42.
[ 10 ]
il carteggio fontanini-muratori (1699-1716): storia di un’amicizia 663
padri della Compagnia di Gesù nel Paraguay (1743)43, Muratori aveva
espresso fin dai Primi disegni della repubblica letteraria d’Italia (1704), in
anni sostanzialmente coevi al carteggio con Fontanini, la sua idea fiduciosa
e progressiva di un mondo sempre più aperto e dominato
dalla pluralità delle culture, là dove scriveva che «forse un giorno avverrà
che l’Europa tutta ritorni nel buio dell’ignoranza e che nel tempo
stesso, o la sola Cina, o altre parti dell’Asia, o l’America stessa fioriscano
per la coltura dell’arti e delle scienze».44
In quel momento però la conversazione all’interno del carteggio
intorno alle cose cinesi portava in una direzione diversa, foriera di ben
altri sviluppi, in uno scambio in cui le considerazioni dei due corrispondenti
lasciavano intravedere un dibattito allargato, dove la rete
delle relazioni nasceva da incontri vissuti come opportunità straordinarie:
Io lascerò di parlar delle prime due [lettere] per essere troppo vecchie,
e dirò sol della terza, la quale mi ha cagionato un grandissimo piacere
nel farmi pensare a quello che ella avrà goduto col nostro p. Montfaucon,
il quale mi figuro a quest’ora molto avanzato nel viaggio per Francia,
ove darà fuori le gioie raccolte in Italia, di dove per avarizia de’
principi giacevan sepolte. Quando io penso all’abbandonamento delle
lettere in Italia e del poco pregio in che si tengono i nostri ingegni, che
in giudicio e in acutezza avanzano di molto gli stranieri, mi vien talento
d’andar di là dall’ultima Tule per iscordarmene affatto. Egli è vero
che è nostra confusione il vedere gli oltramontani a levarci quello che
potrebbe far onore a noi, ma pure siam loro tenuti, mentre stampano le
cose nostre, che per altro si perderebbono. Si è conceputa speranza che
questo Papa abbia a protegger le lettere perché le proteggea da privato;
ma i tumulti del mondo, e specialmente dell’Italia, lo tengono tutto
occupato e distratto, e Dio sa quando si darà fine alle tragedie che si
veggono ormai preparare. Da Anversa mi avvisa il p. Gianningo di
aver pubblicato il tomo 3 di Giugno. Il p. Mabillon ristampa il libro De
re diplomatica con aggiunte, e qui non si vede altro che libricciuoli
contro a’ Gesuiti e a Confuzio45.
43 Cfr. L.A. Muratori, Opere, a cura di Giorgio Falco e Fiorenzo Forti, Milano-
Napoli, Ricciardi, 1964, pp. 964-1013.
44 Ivi, p. 280. In margine alle considerazioni sulla specificità e identità delle
diverse lingue, l’idea della differenza tra le culture veniva ripresa anche nelle pagine
della Perfetta poesia italiana proprio con un riferimento ai riti cinesi e alle polemiche
suscitate intorno ad essi, cfr., Ivi, pp. 69-70.
45 Lettera di Fontanini 4.VI.1701. Un accenno alla questione dei riti cinesi si
trova di nuovo nella lettera del 14.I.1702 in cui si fa riferimento al documento re-
[ 11 ]
664 alessandra mantovani
Il tema della decadenza culturale italiana, della perdita di un primato
o per lo meno di un ritardo rispetto al resto d’Europa, in particolar
modo alla Francia, attraversa quasi tutte le lettere del biennio 1700-
1701 che si sono esaminate fino ad ora e si possono leggere anche seguendo
questa traccia: in esse infatti si discuteva e si scambiavano
informazioni su opere di critica letteraria e pubblicazioni recenti, su
progetti editoriali in cui Fontanini e Muratori si dichiaravano rispettivamente
impegnati e che, in diversa misura, apparivano riconducibili
a un’ambizione di rinnovamento e di rinascita della cultura e della
letteratura nazionali.
Il 7 Settembre 1700 Magliabechi raccomandava a Muratori come
«libro eruditissimo» L’Aminta di Torquato Tasso difeso e illustrato da Giusto
Fontanini46, segnalandogli che in quelle pagine veniva fatto il suo
nome come autore di una «difesa» dei poeti italiani dalle malaccorte
stroncature della critica francese47 e, proprio il giorno successivo, Fontanini
scriveva a Muratori di sentirsi «molto consolato ancora in leggere
l’idea del lavoro che ha per le mani»48. Il «lavoro» che Muratori
aveva «per le mani» coincideva probabilmente proprio con la «difesa»
dei poeti italiani preannunciata dal medesimo Fontanini nelle pagine
del suo Aminta difeso e identificabile con il primo abbozzo di intervento
nella polemica suscitata dal trattato De la manière de bien penser dans
les ouvrages d’esprit del p. Bouhours. Si trattava del progetto muratoriano
a cui, nello scambio epistolare tra Muratori e Giovanni Gioseffo
Orsi del marzo di quell’anno, si faceva riferimento con il titolo provvisorio
«Il genio della poesia toscana»49.
Sul fatto che quelle pagine, nate come corollario e in parallelo alla
datto dai Gesuiti sull’identità dei riti controversi e, da ultimo, nella lettera del 8.
III.1709.
46 L.A. Muratori, Carteggi con Mabillon, cit., p. 390; il ringraziamento di Muratori
per la notizia nella lettera a Magliabechi del 24.IX.1700, cfr. Ivi, p. 391.
47 Giusto Fontanini, L’Aminta di Torquato Tasso difeso e illustrato da Giusto Fontanini,
a cura di Andrea Gareffi, Manziana, Vecchiarelli Editore, 2000, p. 160.
48 Lettera di Fontanini del 8.IX.1700.
49 Cfr. Lettera del 30.III.1700 di G. G. Orsi a Muratori in L.A. Muratori, Carteggio
con Giovan Gioseffo Orsi, a cura di Alfredo Cottignoli, Firenze, Olschki,
1984, p. 53: «Essendo qui capitato il signor abbate Alessandro Guidi l’habbiamo
goduto due sere in compagnia de’ signori Malisardi, Manfredi, Martelli e Bernardoni,
e sempre si è fatta onorata commemorazione della persona e delle virtù di V.
S. eccellentissima. Singolarmente ha mostrato genio d’intendersi con lei sopra
cert’opera ch’il sig. Bernardoni suppone voler ella intitolare: Il genio della poesia toscana
».
[ 12 ]
il carteggio fontanini-muratori (1699-1716): storia di un’amicizia 665
redazione della Vita di Carlo Maria Maggi50, fossero l’incunabolo del
più tardo trattato Della perfetta poesia italiana e che «nelle more del progetto
muratoriano»51 sarebbe poi stato l’Orsi ad assumerne in prima
persona l’iniziativa, in un rapporto di «osmosi»52 intellettuale in cui
Muratori rimase tuttavia la vera coscienza critica, non mette conto soffermarsi
perché sono circostanze troppo note. Quello che invece importa,
rispetto a questa corrispondenza, è la modalità di un confronto
che si dava come discussione su libri scritti e poi dati in lettura o scambiati
in segno di omaggio, di considerazione e anche di autopromozione.
Donare i propri libri, nella logica di comunicazione e condivisione53
che ispirava l’ideale della res publica litteraria, voleva dire entrare
da protagonisti in un circuito prestigioso, in una rete di relazioni amicali
e di dibattiti che mettevano in contatto città come Roma e – ancor
più di Modena – Bologna, veri e propri laboratori d’avanguardia del
progetto di rinnovamento della letteratura e della cultura italiane, elaborato
nelle nuove accademie letterarie e scientifiche54. E non è senza
significato che i libri, anche nel caso di Fontanini e Muratori, fossero
poi affidati alla mediazione di persone in cui appare agevole riconoscere
i nomi di punta della nuova cultura, a cominciare dal bolognese
Eustachio Manfredi, a cui Fontanini aveva scritto affinché gli facesse
la cortesia di trasmettere al Muratori una copia dell’Aminta difeso55.
L’edizione muratoriana delle Rime del Maggi, e della Vita che faceva
ad esse da introduzione, rappresentava la prima vera assunzione
di una posizione pubblica da parte del Muratori sia rispetto all’auspicata
riforma della poesia italiana e all’idea di un nuovo legame tra
«l’esercizio letterario e un più consapevole impegno civile»56, che
50 L.A. Muratori, Opere, cit., p. 59.
51 Alfredo Cottignoli, Introduzione a L.A. Muratori, Carteggio con Giovan
Gioseffo Orsi, cit., p. 7.
52 Cfr. Andrea Battistini, La «querelle des anciens et des modernes» attraverso il
carteggio tra Orsi e Muratori, in Da Dante al Novecento. Studi in onore di Alfredo
Cottignoli, a cura di Sebastiana Nobili et alii, Bologna, Pàtron, 2014, p. 106; cfr. A.
Andreoli, Nel mondo, cit., pp. 42-46.
53 H. Bots, F. Waquet, La repubblica delle lettere, cit., p 165.
54 Cfr. Andrea Battistini, Le accademie nel XVI e XVII secolo, in Storia di Bologna
3. Bologna nell’età moderna. II. Cultura, istituzioni culturali, Chiesa e vita religiosa,
a cura di Adriano Prosperi, Bologna, Bononia University Press, 2008, pp. 197-
205; Accademie e cultura. Aspetti storici tra Sei e Settecento, Firenze, Olschki, 1979, pp.
95-128; A. Andreoli, Nel mondo, cit., pp. 129-142.
55 Lettera di Fontanini del 6.XI.1700.
56 Martino Capucci, Lettura del Maggi lirico, in Id., Una «savia empiria erudita».
Saggi di letteratura italiana tra Sei e Ottocento, Pisa, Pacini, 2015, p. 104.
[ 13 ]
666 alessandra mantovani
all’attacco scatenato dalla critica francese non solo contro gli eccessi
del cattivo gusto barocco, ma contro l’intera tradizione letteraria nostrana57.
E dunque donare quel libro poteva rappresentare la risposta
più opportuna a quanto Fontanini aveva già esposto nella difesa del
Tasso, a integrazione del giudizio lusinghiero espresso nella lettera
con cui Muratori aveva risposto all’omaggio del suo corrispondente58.
Mentre il dialogo si allargava al Crescimbeni e dunque al côté romano
dell’Arcadia59, l’annuncio di un’opera in difesa della poesia e
della letteratura italiana suonava come un auspicio di speranza. Partito
il Montfaucon, nelle preoccupazioni della «guerra imminente»,
mentre in Olanda ferveva un’attività editoriale ad altissimo livello di
specializzazione filologica, si guardava all’opera annunciata da Muratori
come ad un segno di riscossa e rinascita nazionale: «Anch’ella ci
dia qualche bell’opera e faccia vedere che l’Italia non cede alle provincie
straniere»60. Così nello svolgersi dei progetti, con il maturare delle
idee e il lento circoscriversi delle questioni, la conversazione epistolare
tra Fontanini e Muratori dell’autunno del 1701 ci introduce direttamente
nel laboratorio di quello che sarà il saggio sulla Perfetta poesia
italiana in una delle sue parti più approfondite, discusse e rimaneggiate
a più mani: la dissertazione sulla musica nel teatro antico.
La genesi dei capitoli IV-VI del libro III del trattato muratoriano
sulla poesia, dedicati alla disamina della condizione del teatro italiano
e alla polemica contro la moda dei drammi per musica responsabili,
nella lettura che ne dava il Muratori, della corruzione del gusto e della
moralità del pubblico contemporaneo, è stata da tempo studiata con
rigore filologico da Alfredo Cottignoli e ricostruita in modo puntuale
in tutte le fasi costitutive dell’avantesto61. L’ampia Dissertazione musi-
57 Cfr. Fiorenzo Forti, Maggi e la riforma letteraria del Muratori, in L.A. Muratori
e la cultura contemporanea, cit., pp. 25-47.
58 L.A. Muratori, Epistolario, cit., n. 446, pp. 498-499, 5.II.1701.
59 Lettera di Fontanini del 12.II.1701: «Domattina a S. Pietro dirò al sig. Crescimbeni
la stima che ella ha di lui e so che ne avrà contento, siccome l’ebbe mercoledì
quando gli dissi che nella Vita del Maggi lo avea nominato».
60 Lettera di Fontanini del 9.IV.1701.
61 Cfr. A. Cottignoli, Muratori teorico, cit., pp. 13-35, dove si trovano le indicazioni
sui materiali manoscritti e sulla loro collocazione archivistica. Indicazioni
meno complete e precise, ma con qualche riferimento in più alle lettere di Fontanini
sulla revisione del manoscritto della Perfetta poesia in G. Boccolari, Muratori,
Fontanini, cit., pp. 34-36, dove si rimanda a Tommaso Sorbelli, Spigolature dai carteggi
di alcuni corrispondenti di L.A. Muratori, in Miscellanea di studi muratoriani, Modena,
Società tipografica modenese, 1933, p. 204.
[ 14 ]
il carteggio fontanini-muratori (1699-1716): storia di un’amicizia 667
cale che, elaborata in due fasi distinte e documentate, occupava le cc.
559-606 del testo manoscritto e coincideva originariamente con i capitoli
V-VII del libro III, sottoposta a puntuale revisione da parte di Orsi,
Salvini e Fontanini, fu – com’è noto – integralmente espunta dalla redazione
definitiva della Perfetta poesia, perché il problema della presenza
o meno della musica nella totalità della tragedia antica rimaneva,
nella diversità delle opinioni a confronto, un’aporia irrisolvibile.
Era stato proprio Fontanini a sconsigliare Muratori di «lasciare la cosa
problematica», perché «nelle cose di fatto e storiche» appariva più opportuno
evitare «lo scetticismo, mentre una sola proposizione deve
essere vera»62; d’altro canto Muratori, prima di rinunciare definitivamente
alla Dissertazione63, aveva anche accarezzato il disegno «di ridurla
in un dialogo»64 che avesse quali interlocutori Anton Maria Salvini,
Orsi e lo stesso Fontanini e poter così dare conto, senza essere
costretto ad un’opzione univoca, della pluralità delle tesi e dello scrupolo
scientifico profuso nella ricerca e nell’analisi delle fonti.
Le lettere del carteggio Fontanini-Muratori del periodo Settembre
1701 – Gennaio 170265 rappresentano di fatto il punto d’avvio di questa
complessa e alla fine irrisolta riflessione e come tali ad esse si accenna
negli studi che qui si sono richiamati senza però che ne sia riportato
mai direttamente il contenuto, anche se dal confronto tra i testi si evince
che, all’altezza della stesura definitiva del trattato muratoriano, i
riferimenti che vi si conservano sul tema della musica nei drammi
antichi, a introduzione della requisitoria sul melodramma moderno,
derivano direttamente da quelle lettere e non dalla Dissertazione. Dunque
conviene soffermarsi su alcuni frammenti di questa corrispondenza
che si presenta come un saggio erudito, arduo da seguire nei
62 Cfr. Le annotazioni di Giusto Fontanini alla ‘Perfetta poesia’, in A. Cottignoli,
Muratori teorico, cit., p. 143.
63 Cfr. L.A. Muratori, Della perfetta poesia italiana, a cura di Ada Ruschioni,
Milano, Marzorati, 1971, II, p. 573: «Quanto curiosa a trattarsi, tanto diffcile a sciogliersi
è una quistione assai dibattuta, cioè se le tragedie e le commedie antiche
non solamente ne’ cori, ma ancora negli atti si cantassero interamente e con Musica
vera. Ciò che possa dirsi o conghietturarsi in proposito, io l’ho sposto in una lunga
dissertazione, la quale non ha potuto aver luogo nella presente opera».
64 L.A. Muratori, Epistolario, cit., n. 711, pp. 775-776, 25.VII.1705. Ma al progetto
del dialogo Muratori aveva accennato a Salvini già nella lettera n. 642,
20.VI.1704, cfr. Ivi, pp. 703-705.
65 Si tratta delle lettere di Fontanini del 16.IX.1701; 8.X.1701; 14.I.1702 in risposta
alla lettera muratoriana n. 480 del 3.IX.1701 e n. 484 del 28.IX.1701, cfr. L.A.
Muratori, Epistolario, cit., pp. 528-529 e 531-533.
[ 15 ]
668 alessandra mantovani
suoi tecnicismi, nel quale Fontanini metteva a disposizione del suo
interlocutore una vasta bibliografia, che spaziava da preziose edizioni
commentate di testi classici greci e latini alla trattatistica di età tardorinascimentale
e barocca.
Era stato Muratori a interpellare Fontanini sul significato di un celebre
passo della Poetica di Aristotele «secondo la divisione del Castelvetro
», domandandogli se, poiché Aristotele considerava «la melodia
o sia μέλος ἤ μελοποιία come parte di qualità della tragedia», bisognasse
dedurne che «tutta la tragedia la contenesse». La difficoltà consisteva
nello stabilire che cosa fosse quella melodia e Muratori si diceva incline
a pensare che essa fosse «un’armonia, e un tuono di voce alquanto
musicale, ma non lontano dal recitare degli oratori»66.
Della circostanziata risposta del Fontanini vale la pena leggere
qualche passaggio perché in essa si definivano il tono della discussione,
sempre rispettoso del diverso punto di vista dell’interlocutore, e
soprattutto lo stile e la metodologia di un’indagine in presa diretta
sulle fonti. Le auctoritates citate erano sia classiche che moderne: Luciano,
Cicerone, Terenzio, Dionigi d’Alicarnasso da una parte; Tarquinio
Galluzzi, André Dacier, Claude-François Ménestrier, Giovanni
Battista Doni, Vincenzio Galilei, Isaac Vossius dall’altra. Entro questo
ricchissimo repertorio bibliografico, che Muratori riceveva con sincera
gratitudine67, vi era la notizia attribuita a Dionigi d’Alicarnasso con
cui Fontanini confutava l’opinione del Dacier68. A Muratori che, pur
senza mutare parere, ammetteva a quel punto la propria difficoltà legata
ad un accesso incompleto al testo di Dionigi nell’edizione in greco
curata dal Silburg69, Fontanini rispondeva con una indicazione precisa,
la segnalazione di un’accessibile traduzione latina e una dettagliata
esegesi del passo controverso:
Le dico per tanto che il trattatello di Dionigi Alicarnasseo sopra la composizione
o sia collocazione delle parole fu voltato in Latino da Simone
Birconio, nella cui versione sotto il num. 33 e alla pagina X del testo
greco del Silburgio, ragionando Dionigi del concento del verso e di
quel della prosa, dice che questo secondo si misura per lo più con una
distanza detta diapente, che i nostri musici chiamano la quinta, laddove
l’altro si serve di più distanze. […] Indi soggiugne: “Dictiones vero
concentibus supponere aequum est, non concentus dictionibus, quare
66 L.A. Muratori, Epistolario, cit., n. 480, p. 528-29, 3.IX.1701.
67 L.A. Muratori, Epistolario, cit., n. 484, p. 531, 28.IX.1701.
68 Lettera di Fontanini del 16. IX.1701.
69 L.A. Muratori, Epistolario, cit., n. 484, p. 531-532, 28.IX.1701.
[ 16 ]
il carteggio fontanini-muratori (1699-1716): storia di un’amicizia 669
ex multis quidem alijs cognoscitur, sed maxime ex Euripidi modulationibus,
quas finxit Electram in Oreste cantare ad chorum: Σίγα, σίγα,
λευκὸν ʾίχνος, ἀρβάλης/Τιθεῖτε, μὴ κτυπεῖτε, /Ἀπὸ πρόβατ’ἐϰεῖσ’ ἀπόπροθι
κοίτας/ Tace, tace: candidum vestigium solea/ Ponite, non strepitet/
Procul abite hinc, procul a lecto”. I quai versi oggi si leggono alquanto
diversamente in Euripide. Io duro però fatica in credere che Elettra non
per altro cantare che per essere allora diventata personaggio del coro;
imperciocché non so se si possa sostenere che gli attori entrassero mai
a far parte del coro, non dico del cantante ma né meno del favellante, il
quale non faceva altro uficio che di personaggio istrionico e come tale
per lo appunto si dee considerare dove parla la medesima Elettra70.
Tutta l’analisi di Fontanini sul problema che gli era stato proposto
da Muratori si svolgeva secondo queste modalità di severa e puntuale
erudizione. E la sintesi di storia del dramma in musica che egli aveva
proposto in quelle lettere, e che qui di seguito riportiamo, era quanto
sarebbe stato riutilizzato quasi puntualmente nei rapidi passaggi presenti
nel testo definitivo della Perfetta poesia, suddivisi tra il capitolo IV
e V del III libro71:
Inquanto alla musica de’ moderni drami, detti forse non senza ragione
dal Dacier groteschi della poesia, e groteschi tanto più insopportabili
quanto si pretende fargli passare per opere ben regolate, non credo che
ad alcuno possa venire in mente che ella abbia simiglianza con la musica
antica che era tutta grave e scientifica; e come pure ci fosse qualcuno
che lo credesse, ei potrà di leggieri sgannarsi in leggendo le opere
mentovate del Galilei e del Doni. Questo è quanto mi è sovvenuto di
scrivere intorno alle dotte dimande di V. S. Illustrissima e se in ciò ho
ecceduto il termine di una lettera, ella dee attribuirlo non ad altro che
al desiderio che ho di servirla in qualche modo. Non sarebbe però stato
mestieri per avventura, che io le avessi disteso il parer mio quando
fossero stampate le opere seguenti del Doni che da’ suoi figliuoli si
conservano manoscritti in Firenze; uno de’ quali il sig. abate Angelo mi
disse tempo fa che le voleva pubblicare con molte altre. Queste sono
Tre lezioni sopra la musica scenica, Discorso del modo tenuto dagli antichi nel
rappresentare le tragedie e le commedie, Lezione se le azioni dramatiche si
rappresentano in musica in tutto o in parte. Mi resta a dire che il primo che
70 Lettera di Fontanini del 8.X.1701. Simone Birconio, poeta laureato originario
di Lemno, aveva tradotto in latino nel 1604 il trattato di Dionigi.
71 La sequenza «Inquanto alla musica…del Galilei e del Doni» apre il capitolo
V presentando la citazione diretta delle parole di Giusto Fontanini; la sequenza
«Mi resta a dire…primiero autore della poesia teatrale», leggermente rielaborata,
viene riportata in chiusura del capitolo IV. Cfr. L.A. Muratori, Della perfetta poesia,
cit., p. 573 e p. 570.
[ 17 ]
670 alessandra mantovani
in Italia tornasse a rappresentare tragedie in musica, il che accadè in
Roma nel 1480 fu il Sulpizio72 ed egli medesimo lo attesta nella Dedicatoria
delle sue Note a Vitruvio presentate al card. Riario, Camerlingo
di Santa Chiesa e nipote di Sisto IV. Indi Bergonei Botta73, avendo accolto
in casa sua in Tortona Galeazzo, duca di Milano e la sposa di lui
Isabella d’Aragona, figliuola di Ferdinando, re di Napoli, gli trattenne
con certa rappresentazione per musica quale venne descritta da Tristano
Calchi74. Ma perché queste cose non avevano molta sembianza di
drami, ne’ tempi a noi più dappresso, Ottavio Rinuccini si può chiamare
il primiero autore della poesia teatrale, oggigiorno così dilatata per
l’Italia e fuori, mentre egli in Firenze cominciò ad accordare con la musica
i suoi drami, che furono la Dafne, l’Euridice, l’Aretusa e l’Arianna;
di che egli si pregia nel dedicare a Maria de’ Medici, reina di Francia,
l’Euridice75.
Diverso sarebbe stato l’esito della lettera del gennaio 1702 con cui
si chiudeva temporanemente la conversazione su questo segmento
monografico così significativo dell’opera da scrivere, dove Fontanini
proponeva una dettagliata descrizione del Carnevale romano. Il resoconto
sulle «Giudiate» sarebbe stato utilizzato, questa volta quasi integralmente,
nella Dissertazione musicale, là dove si parlava del carro di
Tespi e dell’origine delle rappresentazioni drammatiche76. Di quella
notizia invece non è rimasta traccia nelle pagine definitive della Perfetta
poesia, da cui il valore documentario della lettera fontaniniana e
l’opportunità di riportarla per esteso:
Ricevo con gran piacere il cortesissimo foglio di V.S. Illustrissima per
vedermi onorato de’ suoi comandi, benché io sia maladdatto a servirla,
come richiede il suo merito. Inquanto però alla notizia dei carri, che
qui si fanno il Carnevale, le dirò che le contrade di Roma sogliono far
partitamente un carro per ciascheduna, sopra il quale formano una
certa foggia di scena rozza e ridicola, ed aggiustatisi quattro o cinque,
rappresentano una commedia plebea e senz’arte, quale può aspettarsi
dal volgo ignorante; ma più goffa e piena di spropositi che ella è, tanto
più ottiene il suo fine che è di eccitare il riso. I personaggi che sogliono
72 Giovanni Sulpizio da Veroli, attivo a Roma tra gli anni ’70 e ’90 del XV secolo,
autore di tragedie che era solito rappresentare all’aperto, in luoghi suggestivi di
Roma.
73 Bergonzio Botta (1454-1504) fu tesoriere generale del Ducato di Milano.
74 Tristano Calchi o Calco, storico milanese, fu a capo della biblioteca ducale di
Pavia nel 1478 poi di Milano nel 1496.
75 Lettera di Fontanini del 16.IX.1701.
76 Cfr. A. Cottignoli, Muratori teorico, cit., p. 103.
[ 18 ]
il carteggio fontanini-muratori (1699-1716): storia di un’amicizia 671
introdurvisi sono uno dall’Aquila, che chiamano l’Aquilano, un Milanese,
che fa da facchino, perché i facchini di Roma sono quasi tutti
dello Stato di Milano, un Giudeo, una Giudea etc. onde si chiamano
Giudiate, perché in esse dileggiano i Giudei che il volgo romano chiama
Giudii. Non si può rappresentare niuna di queste Giudiate se prima non
si fa avanti il palazzo del Governatore di Roma; indi vanno per la città
avanti le case d’alti personaggi, dove si fermano a far la commedia a
lumi accesi, mentre gli spettatori la riguardano dalle finestre de’ palazzi,
di dove sogliono mandar dieci e quindici scudi di mancia, chi più e
chi meno. Ho detto a lumi accesi perché queste feste si fanno di notte.
La commedia suol essere in verso recitativo, intersecato di quando in
quando da certe canzoni accompagnate dall’aria del paese di colui che
parla. Il tutto egli è verso ma verso che si può dir peggiore della prosa.
Il carro è tirato da buoi ed è grande smisuratamente, che pare una casa
portabile. Al verso recitativo danno pure certa armonia e vanno frapponendo
al fine delle parlate il suono della tiorba. Ancor’io spesse volte
ho detto che questi carri sono una reliquia dell’antichità perché, oltre
ad Orazio che scrive aver Tespi condotti i poemi (cioè le scene come
spiega il Luisino77), su’ carri, Servio nel 3 della Georgica afferma che le
scene erano di due sorte, cioè versatili e duttili (per usare la voce latina),
che si guidavano sopra i tavolati, quali appunto sono questi de’
carri di Roma. Dopo avere scritto sino a qui mi è avvenuto di trovare
due di queste Giudiate fatte l’anno addietro, le quali mando a V.S. Illustrissima
perché se le vegga. Il dialetto è proprio di colui che ragiona,
come sappiamo aver fatto gli antichi, specialmente Aristofane78.
In quella stessa lettera, dopo questo excursus di storia del costume,
la conversazione riprendeva su un tema completamente nuovo e di
grande interesse per quanto nella corrispondenza successiva non se
ne faccia più cenno: la questione era quella del dibattito sulla riforma
del calendario gregoriano rispetto alla quale – scriveva Fontanini –
tutto appariva bloccato, avendo il Papa «voluto sospendere ogni correzione
» mentre erano «divisi i pareri della Congregazione». La polemica,
che sarebbe divampata proprio nel corso del 1702, vedeva schierati
su posizioni conservatrici i Gesuiti di Trévoux e vari esponenti
delle alte gerarchie cattoliche, molto influenti negli ambienti romani;
tra costoro si guardava con sospetto alle convergenze tra scienziati
italiani tra i quali il Bianchini e il Noris, che si trovavano appunto ai
77 Francesco Luigini (Udine 1523 – Parma 1568), maestro e segretario di Alessandro
Farnese, autore di un commento all’Arte poetica di Orazio, cfr. Fiammetta
Cirilli, Luigini, Francesco, in DBI, Istituto della enciclopedia italiana, 2006, 66, pp.
502-503.
78 Lettera di Fontanini del 14.I.1702.
[ 19 ]
672 alessandra mantovani
vertici della congregazione istituita da Clemente XI per valutare l’opportunità
della riforma, e voci prestigiose del mondo protestante, prima
fra tutte quella di Leibniz79.
Per quanto ci è dato comprendere, non essendoci giunta la lettera
in cui Muratori chiedeva informazioni sulle «giudiate» romane e forse
anche su questo argomento di scottante attualità, l’interesse per l’argomento
era frutto, da una parte, della sua stessa formazione, che il
magistero del Bacchini aveva orientato da subito a un’idea di cultura
intrinsecamente ‘galileiana’, intesa come dialogo interdisciplinare tra
erudizione e scienza e regolata dal primato dell’accertamento rigoroso
dei fatti e della filologia80; dall’altra vi erano i suoi legami con il mondo
delle accademie bolognesi dedite alle scienze sperimentali81, tra cui
l’Accademia degli Inquieti della quale l’amico Eustachio Manfredi,
matematico e atronomo, era in quegli anni il principale animatore.
Il Manfredi si era schierato in quel dibattito a fianco del Bianchini,
il quale aveva formulato la sua proposta riformatrice per ottenere una
definizione stabile del ciclo pasquale in rapporto alle fasi lunari e alla
determinazione univoca dell’equinozio di primavera proprio in collaborazione
con Gian Domenico Cassini82, l’astronomo editore di Galileo
che all’ambiente bolognese era – come è noto – legatissimo e a cui
Fontanini si riferiva non senza un sottinteso polemico:
Quanto agli affari del calendario, Nostro Signore ha voluto per ora sospendere
ogni correzione essendosi scoperto che era più un vano impegno
del Cassini che quel sommo errore che si spacciava nell’epatta.
Il Cassini ha fatto un calendario detto da lui Luigiano e vorrebbe introdurci
quello e di qui procede tutto il rumore contro il Clavio83 aggrandito
ancora di più per lo esser questi gesuita, benché egli non è autore
del calendario, ma solo difensore e spositore.
Il tono di Fontanini era quello di chi appariva diffidente del cambiamento
e propenso a ridurre la portata innovativa della proposta
79 Meri Bego, Cultura e accademie a Bologna per opera di Anton Felice Marsigli e di
Eustachio Manfredi, in Accademie e cultura, cit., p. 109.
80 E. Raimondi, I lumi dell’erudizione, cit., pp. 83-89.
81 Sulle accademie bolognesi fondate da Anton Felice Marsili cfr. A. Battistini,
Le accademie, cit., pp. 203-204; A. Andreoli, Nel mondo, cit., pp. 129-138.
82 Per Gian Domenico Cassini, cfr. Augusto De Ferrari, Cassini, Gian Domenico,
in DBI, Istituto della enciclopedia italiana, 1978, 21, pp. 484-486.
83 Cristoforo Clavio (Bamberga 1538 – Roma 1612), gesuita, matematico e
astronomo tedesco, corrispondente di Galileo, è ricordato per il suo contributo alla
definizione del calendario gregoriano.
[ 20 ]
il carteggio fontanini-muratori (1699-1716): storia di un’amicizia 673
scientifica dei riformatori, mostrandosi più incline a sottolinearne la
dimensione ‘politica’. Diversa fu la posizione del Manfredi che avrebbe
voluto coivolgere Muratori nella pubblicazione a stampa della sua
difesa del Bianchini, pubblicazione che però venne bloccata anche a
Modena dal veto dell’Inquisizione84. Fontanini si era mostrato dunque
molto accorto in quella sua comunicazione ostile, anche se apparentemente
non schierata, come d’altronde accadrà in anni molto più tardi
allo stesso Muratori quando, con diplomatica reticenza, ricorderà
quella tormentata vicenda nelle pagine degli Annali d’Italia dedicate al
pontificato di Gregorio XIII85.
Con l’eccezione di questa lettera del gennaio 1702, così densa di
notizie significative, nel corso di quell’anno e per tutto quello successivo
il carteggio tra Fontanini e Muratori proseguì rimanendo per entrambi
– se così si può dire – ai margini dei progetti maggiori e sviluppandosi
come una conversazione tra studiosi che, in un rapporto di
confidenza crescente, toccavano spesso i temi di una quotidianità feriale,
angustiata da inevitabili contrattempi e da una situazione economica
certamente non florida. Lettere smarrite o ricevute con molto
ritardo rendevano i contatti difficoltosi e problematico il confronto
delle opinioni86.
Fontanini era in quel momento impegnato nella ricerca di manoscritti
inediti di letterati di area veneta e friulana, tra i quali Romolo
Amaseo e altri membri della sua famiglia. Si trattava di documenti
conservati presso la Biblioteca Ambrosiana per cui era stata sollecitata
la mediazione di personaggi influenti del mondo erudito romano, dall’
«abate Zacagni» a «mons. Archinto»87, ed era stato precedentemente
coinvolto lo stesso Muratori ma senza particolare esito nell’immediato,
se poi Fontanini si era dovuto direttamente rivolgere ad Antonio
84 M. Bego, Cultura e accademie, cit., p. 110, dove si fa riferimento alle lettere del
Manfredi al Muratori su questo argomento.
85 L.A. Muratori, Opere, cit., p. 1384.
86 Cfr. H. Bots, F. Waquet, La repubblica delle lettere, cit., p. 184-185 dove si descrivono
come tipiche della circolazione epistolare tra i dotti le difficoltà elencate
da Fontanini e Muratori: la necessità di sfruttare la posta diplomatica o la generosità
di un mecenate; gli imprevisti legati alle difficoltà incontrate dai corrieri e
l’entità delle spese postali; l’opportunità di affidare le proprie lettere ad amici che,
in viaggio per ragioni proprie, possano avere l’occasione di incontrare il destinatario.
87 Lettera di Fontanini del 29.IV.1702 e del 7.IV.1703. L’abate Lorenzo Alessandro
Zaccagni era in quegli anni Prefetto della Biblioteca Vaticana; mons. Gerolamo
Archinto (1688-1720) fu nunzio apostolico a Firenze, Colonia e in Polonia.
[ 21 ]
674 alessandra mantovani
Albuzio88, già Prefetto dell’Ambrosiana. Muratori restava tuttavia un
interlocutore prezioso sia perché con la scoperta dell’apologia di Giovanni
Battista Goineo, originario di Pirano e allievo dell’Amaseo89, le
ricerche riconducevano alla storia dell’ambiente universitario bolognese
che poteva essere, in qualche modo, di sua più diretta competenza;
sia perché sarebbe forse stato nelle condizioni di dispensare
qualche consiglio sulla possibilità di far trascrivere a buon prezzo quei
documenti, tenendo conto anche delle limitazioni economiche di Fontanini90.
Il tema delle ristrettezze finanziarie appare una sorta di costante in
questa parte della corrispondenza: e se, con malcelata soddisfazione,
Fontanini comunicava a Muratori che il papa «in due volte ha dato
spontaneamente 70 scudi di pensione, i quali mi vanno, per così dire,
in carta e in lettere»91, lo informava anche che si sarebbe prodigato
insieme a Domenico Passionei92, il cui nome compariva per la prima
volta nel carteggio proprio in questa circostanza, per far «destinare»
all’amico una «pensione», considerando che «il terzo tomo degli
Anecdoti sarebbe proporzionatissimo al Papa»93. Dunque l’impegno
erudito andava di pari passo con esigenze – per così dire – di produttività
scientifica, di nuove opere da scrivere e dare alle stampe per
acquisire credibilità e prestigio e poter proseguire studi e ricerche.
Preoccupazioni d’ordine materiale facevano da contrappunto anche
alla negoziazione oculata in merito all’acquisto dei libri, al reperimento
di novità bibliografiche con cui i due corrispondenti alimentavano
la loro passione studiosa, cercando il contatto con i nomi più
prestigiosi della cultura antiquaria europea94. Da questo punto di vista
appare ben comprensibile che mentre Fontanini si impegnava a repe-
88 Lettera di Fontanini del 7.IV.1703. Antonio Albuzio fu VII Prefetto della Biblioteca
Ambrosiana dal 2 Dicembre 1695 al 5 Ottobre 1705. Per i suoi rapporti con
il Muratori negli anni milanesi e successivamente, cfr. L.A. Muratori, Carteggi con
Aa…Amadio Maria di Venezia, a cura di Gianni Fabbri e Daniela Gianaroli, 1997,
pp. 293-316.
89 Lettera di Fontanini del 14.VII.1703. Per Giovan Battista Goineo autore della
Defensio pro Romuli Amasaei auditoribus adversus Sebastiani Corradi calumnias del
1537 cfr. Silvana Cavazza, Goineo, Giovan Battista, in DBI, Istituto della enciclopedia
italiana, 2001, 57, pp. 562-565.
90 Lettera di Fontanini del 28.IV.1703.
91 Lettera di Fontanini del 27.I.1703.
92 Su Domenico Passionei e le circostanze che lo portarono a essere introdotto
a Muratori, cfr. A. Caracciolo, Domenico Passionei, cit. p. 36.
93 Lettera di Fontanini del 22.XI.1703.
94 Lettera di Fontanini del 28.IV.1703.
[ 22 ]
il carteggio fontanini-muratori (1699-1716): storia di un’amicizia 675
rire per conto del Muratori presso il Corvo, libraio in Roma, i testi
fondamentali della nuova erudizione sacra tra storia ecclesiastica e
agiografia filologica, dal Ducange al Tillemont, dal Rinaldi al Martène,
dal Millet al Perizonio95, lo smarrimento dei libri a causa della difficoltà
dei trasporti o dell’inaffidabilità degli spedizionieri costituiva certo
una perdita culturale, ma in primis un danno economico paventato
con ansiosa preoccupazione96.
Sullo sfondo di tutte quelle conversazioni rimaneva, quasi nella
forma di un progetto collettivo da portare avanti a più mani, il problema
della riflessione critica sulla letteratura italiana, concepita sia quale
esigenza di rinnovamento e riforma sia come risposta alle polemiche
francesi. Fontanini aggiornava dunque il suo corripondente delle
novità sul fronte dell’Arcadia romana, gli segnalava i progressi di Giovan
Mario Crescimbeni di cui allegava, a un certo punto, la copia a
stampa del frontespizio dei Comentarij sopra l’istoria della volgar poesia97,
mentre gli faceva da intermediario con lo Zappi «il quale se non
le ha mandata la canzona bisogna che creda di non averne a mano
qualcheduna a proposito»98. Intanto, procedendo nella lettura delle
Considerazioni sopra un famoso libro franzese dell’Orsi – «Ho letti i tre
primi dialoghi del sig. marchese Orsi, i quali mi son molto piaciuti. Ha
mandato anche il quarto, il quale però io non ho ancora veduto»99 –
egli ragionava anche sul nuovo progetto muratoriano, sollecitandone
cortesemente l’invio magari per il tramite del bolognese Filippo Maria
Monti100, personaggio ben introdotto a Roma nell’influente cerchia intellettuale
che gravitava intorno alla corte pontificia e il cui nome fa la
sua comparsa in queste lettere in concomitanza con i riferimenti all’opera
in progress ormai prossima alla conclusione.
Il disegno muratoriano godeva già, a detta di Fontanini, di una risonanza
internazionale e suscitava attese e qualche diffidenza:
Nel Giornale di Trévoux del Maggio passato pag. 894 si racconta che V.
S. Illustrissima per via del Boivin ha offerto di dedicare alla moglie del
Dacier una difesa degli Italiani contra il Bours, la quale prima di accet-
95 Lettera di Fontanini del 27.I.1703 e del 3.XI.1703.
96 Lettera di Fontanini del 14.VII.1703 e del 11.VIII.1703.
97 Lettera di Fontanini del 29.IV.1702 e del 27.V.1702.
98 Lettera di Fontanini del 6.XII.1702.
99 Lettera di Fontanini del 7.IV.1703.
100 Lettera di Fontanini del 6.XII.1702 e del 27.I.1703. Per Filippo Maria Monti,
cfr. Maria Pia Donato, Monti, Filippo Maria, in DBI, Istituto della enciclopedia
italiana, 2012, 76, pp. 248-251.
[ 23 ]
676 alessandra mantovani
tarla ha voluto saper come si tratta il detto Padre, che è stato suo amico.
I Giornalisti dicono che gli Italiani non potevano esser difesi da un
uomo più dotto di lei, e che gli amici del Bours non lasceranno l’opera
senza replica, senza però che si diminuisca la stima verso lei. Aggiungono
che ella ha in punto un altro trattato diverso dal sopraddetto,
cioè sopra il buon gusto della nostra poesia. Ho stimato bene di accennarle
questi particolari, supponendo che non abbia veduto il Giornale101.
È però solo nei mesi da febbraio a luglio dell’anno 1704 che il carteggio
ci conduce nel vivo della discussione sul testo muratoriano: le
otto lettere del Fontanini al Muratori sono state in parte già richiamate
negli studi che hanno ricostruito la genesi del trattato sulla Perfetta
poesia e i dibattiti che, stratificandosi all’interno del testo o restandone
a margine come commentari linguistici e tematici, hanno contribuito a
definirne la versione definitiva, a partire dal titolo102. Sembra tuttavia
di un qualche interesse soffermarsi di nuovo su alcuni passaggi del
carteggio Fontanini, sia perché di essi non è mai stato dato conto direttamente
e per esteso, sia perché in quelle lettere va riconosciuto l’avantesto
delle osservazioni «notate a parte» che, annunciate al corrispondente
modenese con una perentorietà appena attenuata dalle ripetute
attestazioni di stima103, rappresentano la componente più conosciuta
del contributo fontaniniano all’opera del Muratori.
Come si è già avuto modo di osservare riguardo alla trattazione
sulla musica nel dramma antico, le lettere riportano una riflessione
più diffusa e articolata rispetto alle Annotazioni, alle quali va riconosciuta
non solo una «natura rapsodica»104, ma anche di sintesi rapida
che richiama un già detto di obiezioni e suggerimenti condivisi, dato
in qualche modo per acquisito. I passaggi iniziali della corrispondenza
evidenziano che Muratori sollecitava e attendeva con una certa ansia
il giudizio degli interlocutori romani sul suo manoscritto che il
Fontanini sarebbe stato l’ultimo a leggere, entrando però subito nel
vivo dei problemi aperti, in primo luogo il titolo del trattato su cui
dichiarava «qualche difficoltà»105. L’approccio ben più conservativo e
101 Lettera di Fontanini del 14.VII.1703.
102 Ci si riferisce agli studi già più volte richiamati di A. Cottignoli, G. Boccolari
e A. Andreoli.
103 Lettere di Fontanini del 10.V.1704; 24.V.1704; 11.VI.1704.
104 A. Cottignoli, Muratori teorico, cit., p. 25.
105 Si veda la lettera di Fontanini del 23.II.1704, dove si illustra il passaggio del
manoscritto tra i diversi lettori: «Ho parlato al Crescimbeni, il quale avendo il capo
[ 24 ]
il carteggio fontanini-muratori (1699-1716): storia di un’amicizia 677
classicistico di quello del Muratori rispetto al processo di rinnovamento
necessario alla letteratura italiana, che lo portava a valorizzare
la tradizione e a riconoscersi comunque nel principio dell’autorizzamento,
lo induceva a sottolineare che nell’opporsi alla «corrutela» sarebbe
stato opportuno «mostrare che la poesia non è stata mai riformata,
ma che la perfetta ed eccellente è stata sempre la medesima
presso gli intelletti sani e che quella che non è tale non merita il nome
di poesia e vien riformata dal contrapposto alla vera poesia, di cui intendete
di ragionare nell’opera vostra»106.
Il tema veniva più volte ripreso e ad esso si aggiungevano, in forma
dettagliata, le considerazioni di ordine linguistico e grammaticale
sull’uso degli articoli con i nomi propri degli scrittori:
Inquanto al titolo di riforma, non li acconsento in niuna maniera, benché
altri l’approvino. Voi sapete quanto il Noris ha maltrattato il Riccioli
per avere pubblicata la Cronologia riformata etc.? e poi chi sono
questi Ingegni Italiani che hanno fatta la riforma? e se essi l’han fatta,
perché volete voi farla di nuovo? Così diranno i lettori del libro; oltrechè
sembrerà che innanzi che si facesse questa riforma, non ci fosse
nulla di buono. […] Inquanto gli articoli, vi dirò brevemente che si
danno agli autori dei libri non come a persone, ma come a soprannomi
dei medesimi libri: così diciamo il Petrarca, il Dante, il Macchiavello,
volendo significare non la persona propria dell’autore, ma il nome e il
cognome del libro. Quando poi io tralascio l’articolo e dico Virgilio,
Dante, allora intendo sempre della persona, nella quale senza bisogno
d’altro cognome per esser già in tal guisa noti, basta quel soprannome.
Si dice dunque ottimamente il Tasso, cioè il libro del Tasso, e quell’uomo,
ch’ebbe nome Torquato, e cognome Tasso, ma non si dirà mai bene
il Torquato Tasso, perché quell’articolo è superfluo mentre il nome, o
vogliam dir prenome, stà in vece d’articolo; onde si conclude che i soprannomi
dei libri, ed anco delle persone, vogliono l’articolo107.
pieno di oviles arcadici, credo che sia poco da sperare per la lettura del manoscritto.
Gli ho detto che lo dia al Leonio, il cui parere potrà bastare in caso che abbiate
fretta; ed io lo leggerò dopo lui con la dovuta sollecitudine, mentre già lo scorsi,
come ne diceva nella lettera smarrita». Oltre al Crescimbeni e al Leonio alla lettura
risultava compartecipe anche il Guidi, cfr. lettera di Fontanini del 10.V.1704.
106 Ibidem.
107 Lettera di Fontanini del 8.III.1704. Il cardinale Noris aveva confutato le tesi
del gesuita Giovanni Battista Riccioli (Ferrara 1598-Bologna 1671), scienziato e
astronomo, esposte nell’opera Chronologia reformata, pubblicata a Bologna nel 1669,
nell’ambito del dibattito sull’ipotesi di riforma del calendario gregoriano di cui già
si è detto. Su questo cfr. Eustachio Manfredi, Elementi della Cronologia con diverse
scritture appartenenti al calendario romano, Bologna, Stamperia Lelio Dalla Volpe,
MDCCXLIV, p. 49.
[ 25 ]
678 alessandra mantovani
Confutando le obiezioni del Muratori108 che proponeva una rettifica
solo parziale del titolo, Fontanini sembrava poi contestargli un approccio
eccessivamente filosofico e speculativo:
In quanto al titolo che avete riformato, egli mi soddisferebbe assai più
se si potesse trovar modo di tor via quel rinnovata dagli ingegni italiani,
perché pare che si sia messo acciocché non si creda che l’abbiano rinnovata
i Francesi, i Tedeschi o altre nazioni. Oltreché il dire la perfetta poesia
spiegata su i principi del buon gusto poetico non mi finisce di piacere;
ed io, ovvero se stesse a me, vi porrei questo titolo: Della perfetta poesia
italiana dimostrata esaminata e spiegata in varie osservazioni da o per etc.
La voce dimostrata mi pare che porti seco tutte le regole e i primi principij
che si possono immaginare. Quel buon gusto poetico mi pare superbo
e superfluo, poiché ognuno suppone che si spiegherà la perfezione
della poesia sulle regole e sui principi del buon gusto poetico e
non d’altro gusto; senzaché il titolo del libro dovendo essere semplice,
breve, chiaro e significante, pare che quel buon gusto sul bel principio
abbia del mal gusto per essere una frase moderna e metafisica. Quel
varie mi pare che calzi assai più di alcune, perciocché veramente le vostre
osservazioni non sono alcune, ma sono varie per numero e per qualità.
Ci porrei la voce italiana perché non si credesse che voi trattaste
della poesia latina o della greca, come hanno fatto tanti altri. Voi direte
che io sono troppo stitico e superstizioso. Vi confesso che egli è vero e
però mi rimetto al vostro giudicio che io stimo infinitamente e io non
sono di coloro che sposano le proprie opinioni per impegno109.
Questa antologia delle lettere è funzionale al confronto con il dettato
delle Annotazioni110 che, oltre a rappresentarne la sintesi, perdono
ovviamente il vivace carattere dialogico e di confronto con l’interlocutore
reale che ci viene invece restituto dal carteggio in cui tutto appare
più esplicito, ma anche confidenzialmente approssimativo. Ben consapevole
di partecipare ad uno scambio di opinioni più vasto, giacché
oltre alla corrispondenza ordinaria giungevano a Muratori osservazioni
sistematiche anche da parte dell’Orsi e del Salvini, Fontanini sottoponeva
le proprie note a una specie di censura, di prudente autocontenimento
rispetto alle lettere, che appariva del tutto evidente laddove
si esprimevano giudizi sull’attualità letteraria:
108 Sulle difficoltà di Muratori a cedere su questo punto, cfr. A. Andreoli, Nel
mondo, cit., pp. 179-182.
109 Lettera di Fontanini del 11.VI.1704.
110 Per il testo delle Annotazioni, cfr. A. Cottignoli, Muratori teorico, cit., pp.
141-142.
[ 26 ]
il carteggio fontanini-muratori (1699-1716): storia di un’amicizia 679
Mi resta a dirvi che mi pare che si lodino troppo il Maggi e il Lemene,
i quali tuttoché sieno grand’uomini non credo che niun di loro abbia
mai pensato né preteso di riformare la Poesia, né di esser proposti per
idea. Il vero sarà che hanno voluto poetare a modo loro e che si sono
compiaciuti dello stile rimesso, morale etc., onde come coltivatori di
questi caratteri io gli loderei. I due secoli felici della canzone del Guidi
sopra il sepolcro della Reina di Scozia, sono il passato per aver avuta la
reina e il futuro perché avrà il sepolcro. In qualche luogo pare che il
discorso sia un poco troppo verboso anziché no, del resto il libro mi
sembra commendabilissimo da per tutto111.
Le obiezioni e la differenza anche marcata dei punti di vista non
sembrano tuttavia pregiudicare in nessun modo la consuetudine di un
rapporto amicale e di colleganza basato sulla molteplicità degli interessi
condivisi. In quelle stesse missive del 1704 facevano come sempre
da corollario alla discussione sulla Perfetta poesia aggiornamenti
bibliografici, notizie erudite dalla Francia e dall’Europa, progetti intrapresi
e richieste di pareri che contribuivano a conservare il tono
abituale di una conversazione di lavoro in cui i risultati individuali
apparivano come momenti di un progredire comune. Così Fontanini
richiamava il lavoro muratoriano degli Anecdota latini, a suo avviso
ancora da promuovere in Roma in attesa della pubblicazione di un
ulteriore volume di inediti greci112; e, segnalando al Mabillon la lacuna
presente nel volume VIII degli Annali benedettini di quell’anno in cui
non si dava conto della pubblicazione muratoriana dell’opuscolo De
fide del Bachiario113, si mostrava paladino sollecito dei meriti dell’amico,
a cui poi assicurava che lo stesso Mabillon gli «aveva renduta giustizia
fuori di luogo per essergli giunto il vostro libro tardi»114.
Fontanini si schierò in seguito risolutamente a fianco del Muratori
anche rispetto alla polemica suscitata dai Primi disegni della repubblica
letteraria d’Italia, per quanto i riscontri all’interno del carteggio appaiano
circoscritti ad un’unica lettera del 28 febbraio 1705 e a qualche ac-
111 Lettera di Fontanini del 24.V.1704. Si veda invece il testo delle Annotazioni:
«Pare che siate troppo affezionato al Maggi, e al Pallavicino, i quali sono stati è
vero due grand’uomini, ma però non sono stati i maggiori del mondo, né due
Santi Padri», in A. Cottignoli, Muratori teorico, cit., p. 142.
112 Lettera di Fontanini del 2.II.1704 e del 8.III.1704.
113 Lettera di Fontanini del 11.VI.1704. Il Bachiario fu un monaco e teologo di
origine galiziana, vissuto nel IV sec. Per confutare l’accusa di eresia, probabilmente
tra il 383 e il 384 scrisse a Roma il Libellus fidei, l’opuscolo a cui Fontanini si riferisce.
114 Lettera di Fontanini del 16.VIII.1704.
[ 27 ]
680 alessandra mantovani
cenno sporadico ancora nell’anno successivo. L’appello muratoriano
per il rinnovamento della cultura italiana muoveva dall’auspicio di
un progetto riformatore interdisciplinare che, ispirato ai princìpi del
Giornale del Bacchini, spaziasse dalla letteratura all’erudizione, dalla
storia alle scienze e trovasse finalmente il proprio spazio operativo
condiviso in «adunanze più utili e sode»115. Un’idea che venne subito
accolta con favore da Fontanini, il quale intervenne quando il rifiuto
da parte di Francesco Bianchini di assumerne la direzione finì per segnare
una brusca battuta d’arresto dell’intera proposta:
Mons. Bianchini non solamente ricusa di ritenere i ricordi degli associati,
ma biasima apertamente l’idea e il pensiero quantunque tutti lo
lodino generalmente e in particolare fra gli altri il sig. Ambasciadore di
Venezia, tenendo la cosa facilissima a riuscire e per degna di lode. Io
vedo però che si è inciampato, come si dice, sull’uscio, eleggendo lui
per depositario, quando non ci vuol essere: e per rimediare a questo
errore bisognerebbe farne un altro, sopra di che il sig. abate Passionei
scrive qualche cosa al sig. marchese Orsi. L’idea ha preso fuoco da per
tutto e per darle vita non manca altro che unione fra gli ingegni; la
quale io veggo difficile perché chi vuol regnar solo; chi vuole il monopolio
delle lettere; chi teme che, risorgendo le lettere, cadrebbe l’ignoranza
e molte cornacchie resterebbero ridicole e senza piume: onde chi
per una cosa, chi per un’altra, tira le linee lontane dal vero centro, senza
badare all’util pubblico ed alla gloria comune. La quale scorgo che
è molto a cuore al sig. marchese Orsi ed egli solo meriterebbe d’avere
in mano la volontà di tutti gli altri116.
La ricezione dei Primi disegni era stata favorevole in quella Roma
che vedeva in Fontanini, ma più ancora in Domenico Passionei i protagonisti
di una cultura ambiziosamente cosmopolita, pronta ad accogliere,
pur con la moderazione necessaria al contesto e ai tempi, le
suggestioni di un razionalismo prudente, aperto al mondo europeo e
percorso da inquietudini religiose e simpatie gianseniste. L’ambiente
era quello del circolo del Tamburo117, operante in casa Passionei, animato
da una volontà di critica desiderosa di scuotere e svecchiare un
establishment tacciato di conservatorismo passatista, ma largamente
115 L.A. Muratori, Opere, cit., p. 179.
116 Lettera del Fontanini del 28.II.1705. La lettera è stata pubblicata, priva tuttavia
dei necessari riferimenti cronologici, da Aldo Andreoli all’interno del saggio
Due mondi: Francesco Bianchini e il Muratori, che dà conto della ricezione ‘romana’
dei Primi disegni, leggendola attraverso un interessante profilo della personalità del
Bianchini e della sua fama europea, cfr. A. Andreoli, Nel mondo, cit., pp. 143-178.
117 A. Caracciolo, Domenico Passionei, cit., pp. 37-41.
[ 28 ]
il carteggio fontanini-muratori (1699-1716): storia di un’amicizia 681
influente presso la curia pontificia e incarnato di volta in volta dai
Gesuiti o dal Sant’Uffizio. Per questo motivo nelle lettere indirizzate a
Salvini, Magliabechi, Zeno, Gatti e Mezzabarba118, nel momento in cui
esprimeva una sorta di mortificato stupore di fronte alla reazione ostile
del Bianchini119, Muratori poteva affermare che a Roma si operava
«per incamminar meglio la faccenda» che godeva comunque del favore
generale dei «Príncipi»120. Infatti ancora nel 1706 Fontanini comunicava
a Muratori che, in margine alla pubblicazione della sua nuova
opera, probabilmente il trattato della Perfetta poesia, il «Tamburo risuonerà
di voi»121.
Riconducibile all’ambito di azione del circolo del Tamburo e a Passionei
fu anche l’interessamento prodigato da Fontanini alla pubblicazione,
fieramente osteggiata in Roma, del Liber Pontificalis di Agnello
Ravennate da parte del Bacchini, un’edizione ispirata ai princìpi della
storiografia critica e filologica della scuola di Mabillon122; e in varie
lettere di quel biennio Fontanini segnalava con orgoglio come quel
testo fosse stato «ben servito contra quattro fiere censure»123.
A ben vedere, alla medesima temperie culturale va ascritta anche
una battaglia in cui Fontanini si impegnò con una vis polemica indistinguibile
da un’intemperanza caratteriale che si riverberò fin dentro
la conversazione con Muratori. Già nel 1705 Fontanini informava il
suo corrispondente di essere «vicino a stampare il mio libro in materia
diplomatica contra il p. Germon e questa notte spero di ricopiarlo in
pulito»124. Si trattava delle Vindiciae antiquorum diplomatum adversus
Bartholomaei Germonii disceptationem, un’aspra requisitoria contro il gesuita
Bartolomeo Germon, il quale aveva messo in discussione la metodologia
e i principi enunciati nel De re diplomatica di Mabillon. Fu
una polemica con lunghi strascichi e alla fine controproducente, che
guadagnò a Fontanini l’ostilità dei Gesuiti francesi e italiani e coinvol-
118 Si tratta delle lettere dalla n. 681 alla n. 686, scritte tra il 12.II.1705 e il 12.
III.1705, cfr. L.A. Muratori, Epistolario, cit., pp. 746-751.
119 La lettera muratoriana di invito al Bianchini è del 31.I.1705; la risposta del
Bianchini è del 7.II.1705, per cui cfr. L.A. Muratori, Carteggi con Bertagni…Bianchini,
a cura di Ennio Ferraglio e Fabio Marri, Olschki, 2014, Edizione Nazionale
dei Carteggi muratoriani, pp. 409-412.
120 L.A. Muratori, Epistolario, cit., n. 687, pp. 750-751, lettera a Giovanni Antonio
Mezzabarba del 10.III.1705.
121 Lettera di Fontanini del 1.XII.1706.
122 Cfr. E. Raimondi, I padri maurini, cit., pp. 12-13.
123 Lettera di Fontanini del 17.IV.1706 e del 1.XII.1706.
124 Lettera di Fontanini del 28.II.1705.
[ 29 ]
682 alessandra mantovani
se corrispondenti e amici comuni suoi e di Muratori. In quella circostanza
Fontanini sembrò rimproverare a Muratori una sorta di prudenza
reticente, come si evince dalla lettera in cui, accennando a quella
vicenda, esprimeva appieno un risvolto della sua indole che evidentemente
non risultava gradito a Muratori, il quale ne avrebbe
presto sperimentato su di sé le conseguenze malevole:
Voi mi chiamate troppo coraggioso; crediatemi che non ho occasione di
aver paura più che tanto di alcuno quando io non operi male; del che
prego Dio che mi guardi. Io non son solito assalir nessuno, benché però
quando si tratta di difendere il vero io non usi molte cerimonie, come
fanno alcuni politici. Posso pregiarmi che contra l’insolenza altrui gli
amici mi difendano assai meglio che non farei io stesso; e questo mi
basta, benché anche senza tante difese io non ci perderei molto. Se credono
quei bravi censori di essere gli ultimi a scrivere, s’ingannano certo,
perché questa volta hanno urtato nel duro assai125.
Già in queste battute si intravedeva uno stile argomentativo, un
modo di entrare nei dibattiti per sostenere il proprio punto di vista
molto lontano dall’attitudine composta del Muratori, sempre sostenuta
da una tensione riflessiva solidamente fondata su dati fattuali, ma
mai dimentica di quella norma di «carità»126 che dovrebbe, nello spirito
dell’erudito cristiano, informare il rapporto con il prossimo e mantenerlo
lontano dalla aggressività che inevitabilmente accompagna le
«anticipate opinioni»127.
Quanto al resto, la conversazione proseguiva secondo la consuetudine
di una quotidianità scandita dagli aggiornamenti sui risultati
raggiunti, sulle nuove scoperte, sui progetti in essere. L’anno 1707 trascorreva
così tra l’annuncio della pubblicazione da parte di Fontanini
del De antiquitatibus Hortae coloniae Etruscorum128, a cui facevano da
contorno l’allusione maliziosa alle critiche portate al Maggi da Scipione
Maffei – «Mi sono scordato di chiedervi cosa dicevate di quel giudicio
del Maffei contra il Maggi»129 – e la segnalazione che le «annotazioni
intere del Muzio al Petrarca, una porzione delle quali ristampò il
125 Lettera di Fontanini del 12.III.1707.
126 L.A. Muratori, Opere, cit., p. 319.
127 Ivi, p. 230.
128 Lettera di Fontanini del 12.III.1707.
129 Lettera di Fontanini del 2.VII.1707. Sulla decisa reazione del Maffei alla ‘canonizzazione’
del Maggi, cfr. L.A. Muratori, Carteggi con Mabillon, cit., p. 85 e
Corrado Viola, Maffei e l’Arcadia veronese, in Id., Canoni d’Arcadia. Muratori Maffei
Lemene Ceva Quadrio, Pisa, ETS, 2009, pp. 81-110.
[ 30 ]
il carteggio fontanini-muratori (1699-1716): storia di un’amicizia 683
Tassoni, si trovano nelle Battaglie di esso Muzio»130; una indicazione
questa con cui Fontanini mostrava di essere al corrente del progetto
muratoriano dell’edizione delle Rime del Petrarca già largamente definito
in quell’anno131.
La corrispondenza proseguì con regolarità per tutto il 1709132 senza
lasciar presagire nessun mutamento nella relazione tra i due corrispondenti,
anzi svolgendosi con la consueta amabilità. Vi era però nel
carteggio anche un elemento di novità: le lettere si aprivano, proprio
come nei primi anni della corripondenza, anche alla contemporaneità
storica seppure con qualche cautela, tant’è che l’impegno di Muratori
su Petrarca suggeriva a Fontanini di utilizzare le parole stesse della
letteratura per commentare la fine della guerra:
Intanto abbiamo la pace, o come dicea il Petrarca, pace, pace, pace.
Non resta però che i Francesi non minaccino molto peggio di quello
che provavamo innanzi, cioè a dire scismi, disubbidienza e cose simili,
quod Deus avertat133.
Nel 1708, con l’occupazione di Comacchio da parte dell’Imperatore
Giuseppe II e la rivendicazione dei diritti imperiali ed estensi su quei
territori, aveva avuto inizio la controversia che avrebbe visto schierati
Muratori e Fontanini in campi contrapposti e avrebbe segnato, insieme
alla fine della loro amicizia, l’interruzione della loro corrispondenza134.
L’unico riferimento da parte di Fontanini a quel difficile passaggio,
prima che ogni possibilità di dialogo venisse meno, si ritrova in una
lettera del marzo 1709:
Circa il desiderio che avete che qui si faccia giustizia a chi vi è Padrone,
io non posso dubitare che non si abbia da fare. Intanto preghiamo Dio
130 Lettera di Fontanini del 12.XI.1707.
131 L’edizione delle Rime del Petrarca, corredata dalle annotazioni di Alessandro
Tassoni e Gerolamo Muzio e dalle Osservazioni del Muratori era sostanzialmente
conclusa nel 1707, ma fu pubblicata solo nel 1711, cfr. L.A. Muratori, Opere,
cit., p. 286. Sull’edizione del Petrarca Fontanini interviene di nuovo nelle lettere
del 23.I.1709 e del 26.X.1709.
132 Per l’anno 1708 sembra esservi una lacuna nella corrispondenza: probabilmente
le lettere sono andate smarrite, in alcuni casi non furono mai ricevute, come
fa pensare anche un accenno che troviamo nella lettera di Fontanini del 23.I.1709:
«Mi spiace di intendere dalla vostra de’ 7 lo smarrimento della mia lettera, benché
non contenesse cosa da esser celata a chi ché sia».
133 Lettera di Fontanini del 23.I.1709.
134 Sulla ben nota vicenda si rimanda alla bibliografia riportata alla nota 5 di
questo saggio.
[ 31 ]
684 alessandra mantovani
benedetto che dia la pace alla Cristianità e specialmente all’Italia, non
donna di provincie, ma bordello135.
La pubblicazione nel 1712 da parte di Muratori della Piena esposizione
dei diritti imperiali ed estensi sopra la città di Comacchio in risposta
alla difesa di Fontanini136 e alla accusa di eresia che questi gli rivolgeva137
segnò un punto di non ritorno nei loro rapporti: il lungo silenzio
che seguì allo scambio di lettere del 1709 ne è l’indizio più eloquente.
Le ultime due missive inviate da Fontanini al Muratori nel 1716
appaiono infatti, rispetto all’intero carteggio, come un’appendice isolata:
esse conservano formalmente i tratti dell’antica cortesia, ma si
limitano a scarni aggiornamenti circa amici, conoscenti e colleghi comuni,
da Vignoli a Bacchini a Passionei, i rapporti con il quale, come
si lasciava intendere con sottaciuto rammarico, erano andati raffreddandosi138.
Solo un indizio ci avverte che una nuova polemica si stava
preparando, più sottile ed insidiosa di quella politica e giurisdizionalistica
legata alla questione comacchiese, ma sua diretta conseguenza
rispetto agli umori risentiti e alla nuova rivalità insorta tra i due. Confinata
ad un poscritto, nei modi di una comunicazione puramente referenziale,
cominciava sotto traccia la battaglia di Fontanini sulla più
recente opera del Muratori, quel De ingeniorum moderatione in religionis
negotio che, pubblicato in Francia nel 1714, avrebbe spostato il loro
scontro su un piano più scopertamente dottrinale: «Il Battelli ebbe il
vostro libro e lo avrà anche il Tolommei139 dopo uscito del conclave».140
A Giovan Cristoforo Battelli, segretario dei brevi pontifici, Muratori
aveva in animo di rivolgersi, come in effetti poi avrebbe fatto, essendogli
giunta voce che il De ingeniorum moderatione stava per essere
denunciato all’Indice; egli sapeva bene che proprio il Fontanini era
autore di quelle Osservazioni sul suo libro che circolavano manoscritte
in Roma e dalle quali muovevano le accuse di eterodossia che non
potevano non allarmarlo, tacciandolo queste di scarso rispetto per
l’autorità della Chiesa, di affermazioni lesive dell’autorità del pontefi-
135 Lettera di Fontanini del 8.III.1709.
136 Cfr. L.A. Muratori, Opere, cit., pp. 421-423.
137 Cfr. M. Al Kalak, «La provvidenza deciderà», cit. pp. 120-124.
138 Cfr. Lettera di Fontanini del 12.VI.1716 ed anche Caracciolo, Domenico
Passionei, cit., p. 31.
139 Giovanni Battista Tolomei (1653-1726), gesuita e teologo, insegnò filosofia
al Collegio Romano. Nominato cardinale nel 1702 da Papa Clemente XI, partecipò
ai conclavi che portarono all’elezione di Innocenzo XIII e Benedetto XIII.
140 Lettera di Fontanini del 23.I.1716.
[ 32 ]
il carteggio fontanini-muratori (1699-1716): storia di un’amicizia 685
ce e di atteggiamento irriverente nei confronti del dogma e dei culti
dei santi. La risposta di Muratori a tali gravissime illazioni sarebbe
rimasta a lungo inedita, proprio perché quelle accuse non ebbero diffusione
ufficiale141.
L’atteggiamento rancoroso e vendicativo del Fontanini nei suoi
confronti fu la cifra permanente di un rapporto antagonistico che continuò
a distanza per decenni e perfino oltre la morte dei protagonisti,
protraendosi ancora nella parzialità appassionata dei nipoti biografi.
Ma questa è un’altra storia, quella di una battaglia così aspra e furente
che non avrebbe più ritrovato la strada del dialogo epistolare e del
confronto diretto e sarebbe stata perciò inevitabilmente destinata a rimanere
fuori dai confini e dalla possibilità stessa della scrittura.
Alessandra Mantovani
Università di Bologna
141 Cfr. Muratori, Opere, cit., pp. 326-330, dove si ricostruisce la vicenda e si
possono leggere, oltre alla lettera difensiva del Muratori al Battelli del 2.III.1717,
parte della replica alle Osservazioni del Fontanini. Queste pagine vennero stampate
solo nel tomo II del volume X delle Opere di Muratori nell’edizione aretina a cura
di Michele Bellotti, pubblicata postuma a partire dal 1767.
[ 33 ]

SILVIA TATTI
La Repubblica delle Lettere in Italia
dall’Arcadia a Foscolo
In Italia, la Repubblica delle Lettere settecentesca ha una declinazione particolare
che si lega strettamente alla storia dell’Accademia dell’Arcadia e all’affermazione
di un codice letterario comune e che convive con i condizionamenti
dovuti alla divisione politica del paese e alla centralità della Res publica christiana.
Il contributo ricostruisce alcuni momenti emblematici di tale organismo
dal punto di vista soprattutto dei letterati, fino alla fine del secolo, quando gli
eventi storici e lo sviluppo di un nuovo rapporto con il lettore riducono la forza
rappresentativa di una comunità cosmopolita di letterati.

In Italy, the eighteenth-century Republic of Letters takes a peculiar form, closely
connected to the history of the Accademia dell’Arcadia and the establishment
of a common literary code and, furthermore, influenced by the political
division of the country and the centrality of the Res publica christiana. This
study reconstructs various emblematic moments of the organism in question,
above all from a literary standpoint, up until the end of the century, when historical
events and the development of a new relationship with the reader diminished
the representative force of a cosmopolitan literary community.
Lo sviluppo di un pensiero critico e libero nell’Europa del Settecento
aveva unito una comunità cosmopolita di letterati che si riconosceva
nella formula di grande e duraturo successo di Respublica literaria;
in Italia questo era avvenuto con tempi e modalità particolari, ancora
in parte da ricostruire1, legati alla specificità della situazione ita-
Autore: Sapienza Università di Roma; professore associato; silvia.tatti@uniroma1.
it
1 La storia della repubblica letteraria in Europa è stata ampiamente studiata
negli ultimi anni; per una sintesi cfr. Françoise Waquet, Hans Bots, La République
des lettres, Paris, Belin-Bruxelles, De Boeck, 1997; Marc Fumaroli, La République
des lettres, Paris, Gallimard, 2015. Per l’Italia cfr. F. Waquet, Le modèle français et
l’Italie savante. Conscience de soi et perception de l’autre dans la République des lettres
(1660-1750), Roma, École française de Rome, 1989; una trattazione non sistematica
688 silvia tatti
liana. Va innanzitutto considerato il problema del rapporto tra la costruzione
di una rete internazionale e la frammentazione politica del
paese; la divisione dell’Italia infatti, se da un lato può funzionare come
uno stimolo a superare le frontiere che trova nella struttura del cosmopolitismo
intellettuale settecentesco un elemento di forza, più volte
esplicitato ad esempio nei giornali di ambito letterario2, dall’altro può
alimentare anche delle tensioni che minano i presupposti stessi di una
rete solidale di letterati potenzialmente apolidi. Si veda, come esempio
emblematico, quanto aveva influito nei rapporti personali e anche
nelle relazioni culturali il caso, nel primo decennio del Settecento,
dell’attribuzione del territorio di Comacchio, che vide la contrapposizione
di due figure significative, al centro di una rete nazionale di intellettuali,
come Lodovico Antonio Muratori e Giusto Fontanini che
intendevano fare valere reciprocamente le ragioni del casato estense e
della Santa Sede relativamente al possesso del territorio contestato.
Collegato al precedente, esiste un altro elemento specifico del sistema
italiano che riguarda l’esistenza di tradizioni e culture locali unite sì in
una rete nazionale attraverso il sistema accademico, soprattutto arcadico,
la pubblicazione di giornali, i carteggi, i viaggi, la diplomazia e
la massoneria, ma caratterizzate anche da una forte componente linguistica
e letteraria cittadina e regionale e implicate in dinamiche locali
che interagiscono con la prospettiva europea. Infine la presenza in
Italia del papato aggrava la non facile convivenza, a tratti conflittuale
e a tratti più accomodante, tra respublica literaria e res publica christiana3,
un tema che non è né solo romano né solo italiano e nemmeno soltanto
settecentesco, ma che ancora nel XVIII secolo condiziona profondasull’argomento
ma che affronta alcune problematiche ad esso legate è La Repubblica
delle Lettere, il Settecento italiano (e la Scuola del secolo XXI), Atti del Congresso
Internazionale, Udine, 8-10 aprile 2010, a cura di Andrea Battistini, Claudio
Griggio, Renzo Rabboni, Pisa-Roma, Fabrizio Serra, 2011. Sugli ambienti intellettuali
italiani tra Sei e Settecento cfr. Naples, Rome, Florence: une histoire comparée des
milieux intellectuels italiens (XVIIe-XVIIIe siècle), sous la diréction de Jean Boutier,
Brigitte Marin, Antonella Romano, Roma, École française de Rome, 2005.
2 U n esempio è il «Giornale de letterati d’Italia» che comincia le pubblicazioni
nel 1710 e che fin dal titolo ambisce ad unire in una comunità nazionale i letterati
italiani. Cfr. Il «Giornale de’ Letterati d’Italia» trecento anni dopo. Scienza, storia, arte,
identità (1710-2010), Atti del Convegno (Padova, Venezia, Verona 17-19 novembre
2010), a cura di Enza Del Tedesco, Pisa-Roma, Fabrizio Serra, 2012.
3 Su queste problematiche cfr. F. Waquet, L’espace de la République des lettres, in
Commercium litterarium. La forme de la communication dans la République des lettres,
Amsterdam & Maarsen, APA-Holland University Press, 1994, pp. 175-206.
[ 2 ]
la repubblica delle lettere in italia dall’arcadia a foscolo 689
mente le relazioni tra i letterati sia a Roma, sia oltre i confini dello
Stato della Chiesa.
Attorno a quest’ultimo nodo era di fatto maturata la prima crisi di
una via italiana alla repubblica dei letterati nel Settecento. I Primi disegni
della Repubblica letteraria di Muratori, pubblicati nel 1703, avevano
posto subito la questione del rapporto tra l’Italia e l’Europa; Muratori
poneva le basi di una unione tra letterati fondata in prima istanza su
una prospettiva nazionale, che doveva unire le Accademie italiane in
modo da rendere più «utili e sode» le adunanze, che avrebbero dovuto
trattare materie più «luminose», scienze e erudizioni e non solo
«bagattelle canore»4. Muratori, come è noto, auspicava che tale consorzio
di forze intellettuali fosse posto sotto la protezione di principi
(egli aveva individuato i cinque garanti nei governi di Roma, Firenze,
Venezia, Modena e Parma) e assegnava la funzione di prima guida al
papato. Al di là dell’auspicio di un maggior rilievo civile delle accademie,
l’indicazione di Muratori di una rete nazionale facente capo a dei
protettori politici e quindi relazionata al territorio e alle istituzioni anche
politiche italiane confliggeva con l’assenza di confini che era uno
dei presupposti della Repubblica europea dei letterati votata al cosmopolitismo,
non solo requisito essenziale a una declinazione in
chiave laica della repubblica letteraria, ma anche attributo fondamentale
dell’idea di universalità professata dalla chiesa cattolica.
L’entità del confronto appare esplicitamente nel rifiuto dello scienziato,
bibliofilo, antichista e poi cardinale Francesco Bianchini di assumere
il ruolo di Arconte che Muratori, sempre usando lo pseudonimo
di Lamindo Pritanio, gli aveva assegnato; nella lettera con la quale5, in
modo netto e tale da compromettere ogni rapporto con Muratori negli
anni a seguire, egli rifiutava la nomina ad Arconte, Bianchini contrapponeva
l’aspirazione all’universalità presupposto della respublica christiana
alle rivendicazioni nazionali di Muratori6. La questione si può
4 Ludovico Antonio Muratori, Primi disegni della Repubblica letteraria d’Italia,
in Dal Muratori al Cesarotti, t. 1, Opere di Lodovico Antonio Muratori, [La letteratura
italiana. Storia e testi, 44, 1], a cura di Giorgio Falco e Fiorenzo Forti, Milano-
Napoli, Ricciardi, p. 178.
5 Lettera di Francesco Bianchini a Lodovico Antonio Muratori, datata Roma, 7
febbraio 1705, in L. A. Muratori, Carteggi con Bertagni … Bianchini, a cura di Ennio
Ferraglio e Fabio Marri. Con la collaborazione di Chiara Curci e Patrizia
Devilla, Centro di studi muratoriani, [Edizione Nazionale del carteggio di LudovicoAntonio
Muratori], vol. 7, Firenze, Olschki, 2014, pp. 409-411.
6 «Onde, io non posso acconsentire all’inventore che si debba entrare in lega
letteraria di nazione contro nazione, cioè, senza metafore, in picca d’ingegno con
[ 3 ]
690 silvia tatti
ricostruire nel dettaglio dal carteggio di Muratori non solo con Bianchini,
ma anche con Giovan Gioseffo Orsi7 che appare molto partecipe
dell’impresa e con gli altri corrispondenti del bibliotecario modenese
coinvolti nella costruzione di una rete di letterati; lo stesso biografo di
Crescimbeni, Mancurti, pubblica una lettera che accompagnava l’invio
dei Primi disegni in cui si chiede a Crescimbeni di intercedere presso
Bianchini, presentato come il depositario dei voti della Repubblica8.
L’intento riformatore di Muratori era ripreso anche dal conte Giovanartico
di Porcia che rivolgeva l’invito ai letterati italiani9 di scrivere la
loro autobiografia intellettuale e mostrava la volontà di consolidare,
attraverso la costruzione di una narrazione autorappresentativa basata
su criteri comuni, la presenza di una comunità compatta, che doveva
sancire la transizione a nuove forme del sapere e a nuove modalità
associative; i dubbi che molti ventilarono, a partire dallo stesso Muratori
che pure accolse l’invito di Porcia a scrivere la sua Vita10, confermano
la presenza di resistenze, di natura in questo caso soprattutto
religiosa, che condussero al parziale fallimento del progetto, orientato
in senso antigesuitico.
Anche il confronto conflittuale con la Francia11, che aveva segnato
il dibattito primo settecentesco raccolto attorno alla polemica Orsioltramontani
in materia di lettere, o con oltramarini, o con gli stessi Indiani o Cinesi,
non più di quello che debba entrare la nostra età con le antecedenti o con le
future», ivi, p. 410. Muratori rispose puntualmente alle accuse di Bianchini nella
Lettera apologetica a i generosi e cortesi letterati d’Italia che diffuse la discussione in
tutta Italia: Lamindo Pritanio [L. A. Muratori], Lettera apologetica a i generosi e
cortesi letterati d’Italia, in Giovanni Francesco Soli Muratori, Vita del proposto
Lodovico Antonio Muratori, Venezia, Pasquali, 1756, appendice VI, pp. 254-262.
7 L. A. Muratori, Carteggio con Giovanni Gioseffo Orsi, a cura di Alfredo Cottignoli,
Centro di studi muratoriani, [Edizione Nazionale del carteggio di LudovicoAntonio
Muratori], vol. 32, Firenze, Olschki, 1984.
8 Francesco Maria Mancurti, Vita di Gio. Mario Crescimbeni maceratese arciprete
della Basilica di S. Maria in Cosmedin di Roma, e Custode generale d’Arcadia. Scritta
da Francesco Maria Mancurti imolese, col racconto de’ fatti più memorabili della Ragunanza
degli Arcadi, Roma, Antonio de’ Rossi, 1729, pp. 53-54.
9 Sul Progetto ai Letterati d’Italia di scrivere le loro Vite, scritto da Porcia nel 1721,
cfr Cesare De Michelis, L’autobiografia intellettuale e il “Progetto” di Giovanartico di
Porcia, in Vico e Venezia, a cura di C. De Michelis e Gilberto Pizzamiglio, Firenze,
Olschki, 1982.
10 Ermes Dorigo, Il “Progetto ai Letterati d’Italia di scrivere le loro Vite” di Giovanni
Artico di Porcia (1721) e le Vite di L. A. Muratori, G. Vico, B. Bacchini, «Rivista di
studi italiani», XXX (2012), 1, pp. 46-134.
11 Su questo aspetto cfr. anche Daniel Roche, Histoire des idées, histoire de la
culture, expériences françaises et expériences italiennes, in Il coraggio della ragione. Fran-
[ 4 ]
la repubblica delle lettere in italia dall’arcadia a foscolo 691
Bouhours, interferiva con la libera circolazione di saperi e di uomini
che è uno dei presupposti del concetto stesso di repubblica letteraria,
tanto che Scipione Maffei in una lettera non datata a Muratori, rifiutava
di ammettere dei colleghi francesi all’interno della italiana Repubblica
delle lettere, sancendo una contrapposizione nazionale che confligge
con l’idea stessa di repubblica letteraria: «Quanto agli oltramontani
io non li ammetterei benché fissi in Italia, quando non avessero
acquistato in essa il sapere; altrimenti dirassi allora oltra i monti che li
hanno mandati ad ammaestrarci, come l’Huet e molti altri dicono che
mandammo noi San Tomaso, e gli altri di quel tempo ad imparar lettere
in Parigi per cominciar ad iscuotere la nostra barbarie»12.
Tale ordine di problemi e questioni è all’origine d’altronde anche
di reazioni e risposte che denotano la specificità di una via italiana
alla respublica literaria. Un elemento che assume un indubbio rilievo
nella declinazione italiana della Repubblica dei letterati, soprattutto
all’interno dell’Arcadia che riveste in questo ambito una posizione
centrale, riguarda la riflessione sulla poesia come modo espressivo e
comunicativo qualificante, in grado di svolgere un ruolo centrale anche
nelle nuove modalità di elaborazione e diffusione del sapere. La
Repubblica dei letterati che Crescimbeni delinea nella lettera dedicatoria
premessa all’edizione del 1700 dell’Istoria della volgar poesia rivolta
al cardinale Pietro Ottoboni pone l’accento su un elemento centrale
del sistema accademico arcadico: è la comunicazione letteraria che
qualifica l’appartenenza alla repubblica e alla poesia deve essere riconosciuta
una posizione centrale nel sistema della politica culturale ecclesiastica.
Dopo aver fittiziamente presentato la «volgar poesia» come
«un’arte riputata incapace d’essere riguardata da principi a gran
cose applicati», Crescimbeni intende dimostrare che la protezione accordata
da Ottoboni ai cultori delle belle lettere non lo distoglie dagli
incarichi e dalle opere pie nelle quali è impegnato; anzi il titolo di
«Padre de’ letterati» gli conferisce un ulteriore «fregio, mercé il quale
il nostro secolo v’acclama come singolare»13. Nell’Italia della prima
co Venturi intellettuale e storico cosmopolita, a cura di Luciano Guerci e Giuseppe
Ricuperati, [Annali della Fondazione Luigi Einaudi], Roma, Carocci, 1998.
12 Scipione Maffei, Epistolario (1700-1755), a cura di Celestino Garibotto,
Milano, Giuffrè, 1955, pp. 140-142.
13 Giovan Mario Crescimbeni, La bellezza della volgar poesia spiegata in otto
dialoghi da Giovan Mario de’ Crescimbeni, custode d’Arcadia, con varie Notizie e col Catalogo
degli Arcadi, all’emintissimo e reverendissimo Principe Pietro Ottoboni, cardinale
Vicecancelliere di Santa Chiesa, Roma, Giovan Francesco Buagni, 1700.
[ 5 ]
692 silvia tatti
Arcadia questa difesa della poesia, che Crescimbeni persegue in tanti
scritti in modo sistematico, denota una vera e propria battaglia culturale:
il custode considera poesia ed eloquenza le espressioni più alte
della comunicazione culturale14, attraverso le quali la socialità erudita
settecentesca poteva trovare una forma in grado di esprimerla e rappresentarla.
Nell’Arcadia infatti la poesia svolgeva un ruolo essenziale
di percorso di conoscenza e di veicolo di comunicazione sociale.
Basti pensare alle ricorrenze come i Giuochi olimpici, che spesso diedero
origine sotto il custodato di Crescimbeni a pubblicazioni di raccolte
poetiche15. Qui si affermava che l’eroismo arcadico si misurava in
termini di eccellenza poetica dal momento che alle contese fisiche dei
tradizionali giochi olimpici si sostituivano delle contese poetiche; i
vincitori, i nuovi eroi olimpici, erano tali in virtù della padronanza del
linguaggio poetico che si candidava ad essere quindi l’espressione più
qualificata della socialità settecentesca, strumento fondamentale e
qualificante della Repubblica letteraria, veicolo di costruzione e comunicazione
di tutti gli ambiti del sapere.
È un primato che Metastasio, le cui certezze non erano minate dal
nuovo gusto che si andava diffondendo a partire dalla metà del secolo,
non esitava a difendere, nell’ambito artistico-culturale che gli compete.
Ecco cosa scrive nella lettera al Chevalier de Chastellux scritta a
Vienna il 29 gennaio 1766, difendendo l’ideale della supremazia della
poesia dal concorso equanime di tutte le arti:
Vorrebbe ella che, siccome si dice la repubblica delle lettere, si dicesse
ancora la repubblica delle arti; e che per conseguenza la poesia, la musica
e le altre loro sorelle vivessero amichevolmente in perfetta indipendenza.
Io, per confessare il vero, non sono repubblichista; non intendo
perché questa, a preferenza delle altre forme di governo, abbia a
vantar sola la virtù per suo principio; mi pare che tutte siano soggette
ad infermità distruttive; mi seduce il venerabile esempio della paterna
suprema autorità; né trovo risposta all’assioma che le macchine più
semplici e meno composte sono le più durevoli e meno imperfette.
14 Silvia Tatti, L’Arcadia di Crescimbeni e il trionfo della poesia: l’incoronazione in
Campidoglio del 1725, in Settecento romano. Reti del Classicismo arcadico, a cura di Beatrice
Alfonzetti, Roma, Viella, 2017, pp. 273-290.
15 Ead., I Giuochi olimpici in Arcadia, «Atti e memorie dell’Arcadia», 2012 (I), pp.
63-80. I giochi furono praticati in Arcadia fin dal 1693; la prima edizione dei testi
declamati in occasione dei giochi, a cura di Crescimbeni, si ebbe a Roma nel 1701:
I Giuochi Olimpici celebrati dagli Arcadi nell’Olimpiade DCXX in lode della Santità di N.
S. Papa Clemente XI e pubblicati da Gio. Mario de’ Crescimbeni custode d’Arcadia, Roma,
Stamperia di Gioseppe Monaldi, 1701.
[ 6 ]
la repubblica delle lettere in italia dall’arcadia a foscolo 693
Nulla di meno non v’é cosa ch’io non facessi per esser seco d’accordo.
Eccomi dunque, già che ella così vuole, eccomi repubblichista; ma ella
sa che i repubblichisti medesimi i più gelosi, quali erano i Romani,
persuasi del vantaggio dell’autorità riunita in un solo, nelle difficili
circostanze eleggevano un dittatore, e che quando sono incorsi nell’errore
di dividere cotesta assoluta autorità tra Fabio e Minucio han corso
il rischio di perdersi.16
La valorizzazione della poesia come espressione comunicativa privilegiata
diffusa nel Settecento italiano non solo arcadico mostra anche
che la produzione di circostanza, che è indubbiamente la componente
più significativa almeno quantitativamente della poesia primo
settecentesca, va rivalutata proprio nell’ottica di una considerazione
della produzione letteraria come modalità di scambio e di relazione,
come linguaggio standard della comunicazione, piattaforma comune
di riconoscimento che qualifica l’appartenenza a una comunità indipendentemente
dal ruolo effettivo dei suoi membri che può essere
quello di scienziati, bibliotecari, membri delle gerarchie ecclesiastiche,
eruditi.
Il sistema complessivo della ritualità e della cerimonialità della dimensione
accademica e in primo luogo di quella arcadica dovevano
quindi essere asservite alla costruzione di un linguaggio della poesia
e dell’eloquenza comune e condiviso, espressione di una socialità culturale
che doveva avere un riconoscimento istituzionale attraverso in
primo luogo l’Accademia dell’Arcadia che si iscriveva all’interno della
cornice più ampia della repubblica letteraria.
A questa rete accademica così definita, mossa da elementi di contrasto
interni ed esterni e da una tensione, specifica del quadro arcadico,
verso la rivendicazione della centralità dell’eloquenza e della poesia,
si affianca attorno agli anni centrali del secolo una dimensione più
radicata nella società, che modifica dall’interno anche la vita delle accademie
nella direzione di un più stretto e diretto rapporto con la realtà
civile e che comporta una diversa connotazione del letterato. Nella
seconda metà del XVIII secolo si diffonde anche presso i letterati
italiani il topos dell’intellettuale utile che fa orientare la rete della repubblica
letteraria verso il riconoscimento di un’attività più pragmatica
e funzionale dell’uomo di lettere.
16 Pietro Metastasio, Lettera al Chevalier Giovanni de Chastellux, datata Vienna,
29 gennaio 1766, in Tutte le opere di Pietro Metastasio, a cura di Bruno Brunelli,
Milano, Mondadori, 1951, vol. IV, Lettere.
[ 7 ]
694 silvia tatti
Nel suo Discorso sulla felicità Pietro Verri esplicita chiaramente il
processo in atto, insistendo proprio su una diversa interpretazione
dell’identità del letterato membro della Repubblica delle lettere la cui
funzione, articolata in attività ben precise, è strettamente legata al progresso
civile visto non solo come segno indistinto del progresso delle
nazioni ma come strumento per acquisire la pubblica felicità:
La repubblica delle lettere sparsa per tutta l’Europa, se per lo passato
era considerata come una società di curiosi che si occupavano di oggetti
indifferenti per il ben essere della società, ora ha cambiato aspetto.
L’astronomo t’insegna ad attraversare con sicurezza il vasto mare.
L’ottico ti prepara uno stromento con cui tu vedi oggetti lontani perfettamente.
Il fisico ti perfeziona il magnetismo, e ti addita anche fra le
tenebre la strada. Il macchinista ti suggerisce la miglior forma delle
navi e gli stromenti i più maneggevoli e sicuri. Il chimico ti ammaestra
a cavar profitto delle miniere, e a preparare le manifatture co’ più raffinati
colori. L’agricoltura, le finanze, il commercio, l’arte di governare
i popoli, questi sono gli oggetti che occupano gli uomini di studio. La
stampa e le poste, comunicando da una all’altra estremità dell’Europa
le scoperte, danno una vera esistenza a questo corpo di pensatori dispersi.
Questi oggetti non furono giammai, dacché la storia ci ha trasmesso
i racconti, conosciuti a tal segno; nè le cognizioni e gli studj
così in alto portati, nè mai tanta connessione vi fu tra gli studj e la felicità
delle nazioni quanta al dì d’oggi; e se al ceto de’ pensatori fa torto
la ciarlataneria di alcuni che abusano di un misterioso linguaggio per
arrogarsi una considerazione non meritata, i principi attenti ai veri loro
interessi, e i popoli illuminati non perciò lasciano di promovere e
incoraggire la luce universale, al lampeggiare di cui sarà forza che anche
i paesi più torbidi d’Europa si scuotano, a meno che l’estrema loro
decadenza non tolga in prima loro la vita. Tale è il moto adunque che
in questo secolo ha l’Europa, onde con fondamento prevede il saggio
che la libertà civile delle nazioni dovrà dilatarsi.17
Verri propone, in un contesto in cui risulta fondamentale, in un’ottica
riformistica, sottolineare la distanze dalla tradizione, una diversa
formulazione dell’idea di sapere, intrisa anche di spirito massonico, in
cui lo spazio della cultura umanistica tradizionale risulta ridimensionato
rispetto a un’idea di cultura utile, di immediata spendibilità, in
una dimensione di progresso che coinvolge l’intero continente.
17 PietroVerri, Discorso sulla felicità, in Discorsi del conte Pietro Verri dell’Instituto
delle scienze di Verona sull’indole del Piacere e del Dolore, sulla Felicità e sulla Economia
politica, riveduti ed accresciuti dall’autore, Milano, Giuseppe Marelli, 1781, pp.
174-5.
[ 8 ]
la repubblica delle lettere in italia dall’arcadia a foscolo 695
Il cambiamento di prospettiva riguarda, come già era avvenuto
all’inizio del secolo con i Primi disegni di un’Accademia letteraria italiana
che promuovevano una diversa concezione della socialità erudita, anche
le Accademie, la cui istituzione e gestione invitava a ripensare i
termini dell’impegno e della funzione degli uomini di cultura. Il filologo
e grecista Cristofano Amaduzzi nel suo Discorso filosofico sul fine e
utilità delle accademie, pronunciato in Arcadia nel 1776, si interrogava
sul ruolo dell’eloquenza nel nuovo sistema culturale e riconosceva,
nel tentativo di conciliare la tradizione umanista con le prospettive
utilitariste e pragmatiche della modernità, che nel Rinascimento i Letterati
«seppero preparare coll’eleganza delle parole il secolo delle cose,
le quali senza le prime non si sarebbero mai potute veramente
enunciare»18. Amaduzzi tesse poi la storia dei progressi scientifici ottenuti
in tutta Europa grazie anche alle Accademie e in ultimo fa la
lode della filosofia che deve perseguire la verità e la lotta all’errore e
conclude il suo Discorso abbozzando una storia dell’Arcadia, la cui
produzione letteraria deve adeguare lo stile in funzione della propagazione
delle nuove idee; è la filosofia che modifica dall’interno le
strutture del discorso e spinge «il sacro fuoco dei poeti» e lo sa «soggettare
all’impero filosofico»19.
Il ruolo dell’eloquenza è ancora argomento centrale del dibattito
contemporaneo; se assegniamo all’eloquenza il ruolo politico strategi-
18 Giovanni Cristofano Amaduzzi, Discorso filosofico sul fine ed utilità delle
Accademie dell’abate Giovanni Cristofano Amaduzzi professore di greche lettere
nell’archiginnasio della Sapienza, fra gli arcadi Biante Didimeo da lui recitato nella
generale adunanza tenuta nel reale serbatoio d’Arcadia il dì 23 settembre 1776,
Livorno, per i torchi dell’Enciclopedia, 1777, p. 11. Sulla posizione di Amaduzzi
cfr. Marina Caffiero, Maria Pia Donato, Antonella Romano, De la catholicité
post-tridentine à la République romaine. Splendeurs et misères des intellectuels courtisans,
in Naples, Rome Florence, cit., pp. 203-205.
19 G. C. Amaduzzi, Discorso filosofico, cit., p. 30. Su Amaduzzi cfr. quanto scrive
Françoise Waquet: «Commedans le texte de Gonzaga, ce qui frappe ici est l’explicitation
claire du lien letterato/citoyen. À travers ce lien, Amaduzzi assignait au
letterato un rôle actif et moteur, qui lui conférait une fonction désormais toute
politique de défense des droits et des libertés individuels contre toute forme d’arbitraire
despotique et absolutiste. Cette fonction ne différait en rien de celle que les
intellectuels du XVIIIe siècle prétendaient assumer dans les différents États européens
plus ou moins engagés dans les Lumières»: F. Waquet, L’Académie de l’Arcadia:
de l’otium literatum à la réforme des lettres dans l’Italie du XVIIIe siècle, in Le loisir
lettré à l’âge classique, a cura di M. Fumaroli, Philippe-Joseph Salazar, Emmanuel
Bury, Genève, Droz, 1996, pp. 287-306.
[ 9 ]
696 silvia tatti
co che le riconosce Marc Fumaroli20 considerandola come il tratto distintivo
dell’élite parlamentare francese del XVII secolo che proprio
sul terreno dell’eloquenza giocava la sua identità culturale e sociale, ci
rendiamo conto della battaglia parallela che, con le dovute differenze,
qualche decennio più tardi i letterati italiani svolgono per mantenere
un legame tra la tradizione umanistica e la tensione innovativa del
Settecento, volto alla ricerca di un rapporto più funzionale con la realtà
contemporanea. Si trattava di conservare ai modelli associativi delle
accademie e della repubblica dei letterati un ruolo di coordinamento,
in grado di mantenere una centralità sociale alla prospettiva letteraria.
Nella Dissertazione sull’utilità e inutilità delle Accademie, Saverio
Mattei svolge una riflessione sul destino del letterato, risalendo alla
fondazione delle accademie rinascimentali e tracciando una storia
della poesia nei secoli di impronta vichiana; egli parte dalla considerazione
che «La poesia è forse la sola che ingentilisce i costumi, che
dirozza il popolo e che illumina le tenebre del secolo in cui si vive» e
che tuttavia «la sua impressione sull’animo è in ragione contraria della
cultura di una nazione»21. Mattei giunge alla conclusione che la fondazione
di una nuova accademia poetica a Napoli deve avvenire con
la protezione del governo; il profilo del poeta contemporaneo si deve
comporre secondo Mattei di eloquenza, scienza e filosofia; quindi non
solo poesia ma «tutto ciò che può ingentilirsi, e rendersi popolare con
l’eloquenza» sarà ammesso nell’Accademia «senz’aria didascalica o
pedantesca»22; rilevante è la valorizzazione dell’eloquenza come modo
per comunicare gli sviluppi del progresso scientifico.
Nel frattempo la dimensione cosmopolita, uno dei più significativi
indicatori della Repubblica letteraria e uno degli elementi volti a costruire
il profilo del letterato del Settecento nonostante la particolarità
già evidenziata della situazione italiana, aveva dominato anche a livello
di scelte biografiche un’intera stagione culturale; ne derivava
che nella seconda metà del secolo, più che nella prima, l’idea di repubblica
letteraria assumeva i confini europei che appartengono alla natura
della forma associativa, pronta a confrontarsi con gli eventi politici
di fine secolo. Letterati come Giambattista Casti, Filippo Mazzei, Giu-
20 M. Fumaroli, L’Âge de l’éloquence. Réthorique et “res literaria” de la Renaissance
au seuil de l’époque classique, Genève, Droz, 1980.
21 Saverio Mattei, Dissertazione sull’utilità o inutilità delle Accademie, in Saggio
di poesie latine, ed italiane con tre dissertazioni ed una raccolta di iscrizioni di Saverio
Mattei, Napoli, Giuseppe Maria Porcelli, 1780, t. 3, pp. 180-202: 185.
22 Ivi, p. 196.
[ 10 ]
la repubblica delle lettere in italia dall’arcadia a foscolo 697
seppe Gorani e anche prima Francesco Algarotti e Giuseppe Baretti,
avevano attraversato l’Europa, complice anche la diplomazia che aveva
svolto un ruolo essenziale nella costruzione di una rete europea;
molti si erano poi trovati direttamente coinvolti negli eventi rivoluzionari.
Ippolito Pindemonte e Vittorio Alfieri, per richiamare due fra i
più rilevanti protagonisti di questa fase, avevano assistito assieme alla
presa della Bastiglia, avevano esaltato gli ideali libertari e, nelle loro
reazioni di entusiasmo e palinodia di fronte allo sviluppo degli eventi
rivoluzionari, avevano sperimentato la difficoltà di collocarsi in una
realtà la cui dimensione di socialità e di interazione con il mondo non
solo politico doveva essere radicalmente ripensata, così come le circostanze
rendevano necessaria una ridefinizione dello statuto del letterato.
In questo contesto, gli eventi di fine secolo avevano accelerato una
frattura all’interno del sistema della repubblica letteraria, che aveva
come fondamento un interesse parziale per la politica e anzi, nella sua
declinazione più comune e generale, la propensione ad appoggiare
l’assolutismo che garantiva all’erudito la libertà di pensare.23 La diffusione
delle idee libertarie richiedeva una riflessione proprio sul ruolo
storico del letterato in una direzione che in Italia si incrocia strettamente
con il movimento indipendentista e risorgimentale.
In questo quadro qual è dunque la tenuta dell’istituzione della Repubblica
dei letterati? qual è la sua eredità concettuale sullo sfondo
del contesto storico attraversato dagli eventi rivoluzionari? e come si
coniuga con il nazionalismo e patriottismo che dominano dalla Rivoluzione
francese in poi il quadro italiano?
Alla fine del secolo e nel Primo Ottocento comincia a diffondersi
un’immagine negativa della Repubblica delle lettere come comunità
di letterati privi di una vera e propria identità comune, divisi da questioni
politiche, da conflitti determinati anche da un nuovo rapporto
più commerciale con l’editoria e dalla fine del mecenatismo. Già
Giambattista Casti, letterato cosmopolita che è per il suo profilo un
esponente quasi esemplare della Repubblica dei letterati, protetto da
mecenati che gli garantiscono anche una disinvolta libertà di pensiero,
abituato a rivolgere i suoi scritti a un destinatario comune nel quale si
identifica proprio un sistema collettivo di alleanze intellettuali, aveva
sperimentato con il trasferimento a partire dal 1798 nella Parigi napo-
23 Cfr. F. Waquet, Condorcet et les idéaux de la République des lettres, «Mélanges
de l’école française de Rome. Italie et Méditerranée», 1996 (108), 2, pp. 555-569.
[ 11 ]
698 silvia tatti
leonica la difficoltà di ricalibrare sul nuovo sistema il proprio statuto
di letterato, in un contesto dominato dalle regole del commercio e del
profitto, molto lontano dai meccanismi di circolazione del prodotto
intellettuale interni alla Repubblica letteraria24. Ma anche un letterato
apparentemente periferico dal punto di vista della socialità letteraria
come Giacomo Leopardi, nello Zibaldone ragiona in termini agonistici
e evidenzia la frattura che si è creata all’interno della repubblica letteraria:
«Nella repubblica letteraria come presso le donne, e come nelle
conversazioni, bisogna innalzarsi sopra il corpo degli altri, bisogna
farsi largo, calunniare i rivali, motteggiarli, farsi dintorno una gran
piazza vota, cacciandone chi la occupa, cogli artifizi e le malvagità che
si esercitano co’ rivali in amore ec. (24. Nov. 1821.)»25.
Se anche lo stesso Monti, sicuramente più implicato nella socialità
letteraria del suo tempo, ironizzava sulla «bella Repubblica delle lettere
» 26, presentata come una comunità conflittuale più che come una
struttura inclusiva di riferimento, tra i letterati contemporanei è però
Foscolo, per il suo profilo e per le vicende della sua vita, ad essere investito
in pieno da questa interrogazione relativa allo statuto del letterato;
egli è anzi uno dei più significativi interpreti del passaggio dalla
crisi già conclamata della Repubblica delle lettere a una nuova forma
di autorappresentazione dell’uomo di lettere, poeta vate, poeta soldato
militante partecipe delle lotte risorgimentali, individuo-autore proiettato
direttamente su un lettore indefinito, oltre che testimone e partecipe
degli eventi rivoluzionari e risorgimentali.
Foscolo stabilisce una continuità con le modalità settecentesche
perché fa nuovamente virare sul piano letterario l’immagine dell’intellettuale
che deve avere un ruolo utile, come auspicato da Pietro
Verri, ma che non deve rinunciare al valore essenziale della poesia e
24 R invio a Silvia Tatti, Le tempeste della vita. La letteratura degli esuli italiani in
Francia nel 1799, Paris, Champion, 1999.
25 Giacomo Leopardi, Zibaldone, a cura di Rolando Damiani, Milano, Mondadori,
1997, t. 1, p. 1421.
26 «Un altro pensiero mi ha dato molta faccenda; ed è l’affare della mia pensione
sulla cassa della Corona col titolo di Istoriografo. La cosa è ridotta a tal termine
che il Governo, volendo esser giusto (come lo è), non può più contrastarmene l’intera
rintegrazione. E questa è ben altra cura che quella del Giornale, al quale non
avrei pelo che ci pensasse, se il suo proemio non portasse in fronte il mio nome; e
sappi bene che in quel proemio non v’è sillaba che sia caduta dalla mia penna. E
così vanno le cose nella bella repubblica delle lettere»: Vincenzo Monti, Lettera a
Giulio Perticari, luglio 1816, in Epistolario raccolto, ordinato e annotato da Alfonso
Bertoldi, Firenze, Le Monnier, 1929, vol. IV, p. 306.
[ 12 ]
la repubblica delle lettere in italia dall’arcadia a foscolo 699
dell’eloquenza, strumenti di civilizzazione e di comunicazione: «Se
dunque l’eloquenza è facoltà di persuadere, come mai potrà dipartirsi
dalle umane passioni, e come la ragione e la verità staranno disgiunte
dall’eloquenza?» scriveva nell’orazione inaugurale delle Lezioni pavesi27.
Da un lato egli quindi si colloca all’interno del dibattito settecentesco
sui rapporti tra le arti riportando l’attenzione sulla comunicazione
letteraria e trasformando il ruolo del letterato, anche quello
volto all’“utile” del secondo Settecento, in quello di militante e di poeta
vate, interprete della realtà del suo tempo proprio grazie alle potenzialità
dell’eloquenza, elemento strategico di mediazione culturale;
dall’altro considera la struttura associativa dei letterati dell’ancien
régime un involucro vuoto, visto in modo a tratti sarcastico, una forma
ormai inutilizzabile come elemento di riconoscimento identitario. In
un sistema della comunicazione letteraria profondamente rinnovato
l’interlocutore principale di Foscolo, il vero giudice della qualità del
suo lavoro di scrittore è il lettore, al quale l’autore si rivolge già nel
giovanile Sesto tomo dell’io e con il quale instaura un rapporto diretto
in molti suoi scritti, dal Ragguaglio d’un’adunanza de’ Pitagorici fino alle
Lettere scritte dall’Inghilterra. La trasformazione della lettura tramite la
quale lo scrittore si rivolge a un pubblico più ampio, ma anche a un
lettore che pratica quella lettura silenziosa28 che stabilisce un rapporto
diretto tra l’autore e il suo pubblico, influisce ovviamente anche in
modo significativo sull’autorappresentazione del letterato, che assume
una nuova coscienza di sé come diretto interlocutore del mondo
dei lettori, dove il ruolo identitario e di mediazione svolto nel passato
dall’istituzione della Repubblica dei letterati è fortemente ridemensionato.
Foscolo quindi già ai suoi esordi di scrittore, nel Proemio al Sesto
tomo dell’io, costruisce una sorta di singolare paratesto che evidenzia
immediatamente il diverso significato che assume la scrittura personale,
momento fortemente introspettivo e intimo, da rivolgere eventualmente
a un lettore complice, proiezione dell’autore stesso, ma non
destinato alla dimensione impersonale e volta a una comunicazione
diffusa della Repubblica dei letterati:
27 Ugo Foscolo, Dell’origine e dell’ufficio della letteratura, in Opere, II, Prose e
saggi, edizione diretta da Franco Gavazzeni, con la collaborazione di Gianfranca
Lavezzi, Elena Lombardi e Maria Antonietta Terzoli, Torino, Einaudi-
Gallimard, 1995, p. 523.
28 Per una sintesi cfr. almeno Storia della lettura nel mondo occidentale, a cura di
Guglielmo Cavallo e Roger Chartier, Roma-Bari, Laterza, 1995.
[ 13 ]
700 silvia tatti
Rispetto alla dedica del libro, io la offro a me stesso. Ed è questo, dacchè
mi son posto a cucire la mia odissea, l’unico pensiero veramente
commodo, e pronto. Non mi costa un minuto di sì, di no, di ma; e mi
risparmia la fatica e il rossore di scrivere una dedicatoria. Ond’io posso
dal mio canto risparmiare e al mecenate e al lettore due pagine per lo
meno di noia. Le cose tra me e me si passano in confidenza. D’altronde
de’ miei avi, bisavi, e proavi non saprei che mi dire; non li conosco.
Potrei rimediare a questa ignoranza e al vuoto della carta col mio panegirico:
ma non si può nè si deve, e l’ipocrisia lo proscrive assolutamente;
e poi… chi crederebbe? Biasimiamoci. Progetto nuovo e in salvo
dalle mentite. – Ecco per altro violate le regole, e la mia dedicatoria
non sarebbe più una dedicatoria.
Nondimeno bisogna confessare che il libro è mutilato.
Vittoria, lettore! m’alzo a mezzo il pranzo per non lasciarmi scappare il
più bel pensiero del mondo. La dedica sarà scritta o dall’editore, o dallo
stampatore, o dal libraio, o da un amico, o da qualche letterato, o
da… – Odore di rancidume!
E l’impostura farà sempre mercato di voi, vergini muse ? Non è poco
se talvolta la ricchezza offre sprezzantemente un tozzo di pane al vostro
sacerdote?
Lettore, finiamola; tu m’hai fatto tastare una certa corda… – ed io non
ci vo’ più pensare; non ci pensar nemmen tu.
In questo contesto la Repubblica letteraria sfuma come organismo
di aggregazione, soprattutto perde la centralità seppure problematica
di cui godeva nel Settecento e si deve confrontare con un pubblico
diverso e articolato. Così se Foscolo deve ammettere in Dell’origine e
dell’ufficio della letteratura che «L’alta letteratura riserbasi a pochi, atti a
sentire e ad intendere profondamente», emerge il problema di un pubblico
allargato e non selettivo, formato da «que’ moltissimi che per
educazione, per agi e per l’umano bisogno di occupare il cuore e la
mente sono adescati dal diletto e dall’ozio tra’ libri, denno ricorrere a’
giornali, alle novelle, alle rime; così si vanno imbevendo dell’ignorante
malignità degli uni, delle stravaganze degli altri, del vaniloquio de’
verseggiatori; così inavvedutamente si nutrono di sciocchezze e di vizi,
ed imparano a disprezzare le lettere.»29 Ad essi, al pubblico allargato
dei «concittadini» il letterato deve rivolgersi con il fine di essere
utile alla patria e alla concordia comune.
In questo quadro il letterato come membro che si identifica con il
paradigma della Repubblica dei letterati risulta inattuale e la presa di
distanza di Foscolo è subito evidente dal contesto ironico delle opere
29 U. Foscolo, Dell’origine e dell’Ufficio della letteratura, cit., cap. XV, p. 535.
[ 14 ]
la repubblica delle lettere in italia dall’arcadia a foscolo 701
in cui il sintagma è inserito: di Repubblica letteraria si parla infatti
nelle Notizie intorno a Didimo Chierico («Oltre ai tre manoscritti raccomandatimi,
serbava parecchi suoi scartafacci; ma non mi lasciò leggere
se non un solo capitolo di un suo Itinerario lungo la Repubblica Letteraria.
In esso capitolo descriveva “un’implacabile guerra tra le lettere
dell’abbiccì, e le cifre arabiche, le quali finalmente trionfarono con accortissimi
stratagemmi, tenendo ostaggi l’a, la b, la x che erano andate
ambasciadori, e quindi furono tirannicamente angariate con inesprimibili
e angosciose fatiche”»)30, nell’Hypercalipseos («alter, qui a scriptore
commentarioli appellatur: Itinerario a’ confini della repubblica letteraria,
titulo caret; hanc modo praefert ex Phaedro inscriptionem: Ioculare
tibi videtur et sane leve: dum nihil habemus maius, calamo
ludimus»)31, nel Ragguaglio d’un’adunanza dell’Accademia de’ Pitagorici
(«Il contro Presidente. – Alto, accademici; poiché con le prove geometriche
del nostro Presidente troviamo cose incredibili, troviamo anche
una grandezza che s’alzi tanto da difendere con l’ali e con l’ombra una
picciolezza di spropositi sparsa su tutto il territorio della repubblica
delle lettere»)32 e infine nelle Lettere scritte dall’Inghilterra («Gazzettino
del bel mondo n. 3. Notizie. Incomincia la Prefazione all’uso moderno
che tratta principalmente del bon ton della Repubblica Letteraria – Lettori
d’oggi – Ostilità nelle Università Tedesche, e ne’ Teatri d’Italia.
Volendo io, Contino lettore mio, che voi possiate da’ miei Gazzettini
dedurre alcune regole generali le men metafisiche e le più praticabili
che si possa mai del bon ton; e perciò mi bisognerà penetrare nell’erudizione
recondita delle mode si che dagli usi de’ popoli e ceti e secoli
diversi e principalmente della Repubblica Letteraria, la quale o drizza
o storce tutte le teste europee, voi dessumiate esse regole»)33.
È significativo che anche in un testo come il Ragguaglio, emblematico
proprio per l’intento di discreditare la modalità associativa
dell’Accademia, costruito come un resoconto di una riunione di letterati
da pubblicare in un giornale, l’autore si rivolga più volte direttamente
al lettore che costituisce un osservatorio alternativo ed esterno
dal quale considerare le dinamiche interne al gruppo di letterati.34
30 Id., Notizia intorno a Didimo Chierico, in Opere, II, Prose e Saggi, cit., p. 350.
31 Id., Hypercalypseos liber singularis, ivi, p. 366.
32 Id., Ragguaglio d’un’adunanza dell’Accademia de’ Pitagorici, in Lezioni, articoli di
critica e di polemica: 1809-1811, a cura di Emilio Santini, Firenze, Le Monnier, 1933
[Edizione Nazionale delle opere di Ugo Foscolo, vol. 7], p. 260.
33 Id., Lettere scritte dall’Inghilterra, in Opere, II, Prose e saggi, cit., p. 479.
34 «Imploro dal candido lettore di perdonarmi s’io non ho registrata prima
[ 15 ]
702 silvia tatti
La storia secolare della Repubblica dei letterati esaurisce quindi la
sua spinta propulsiva con la fine dell’Ancien Régime, quando subentrano
altre modalità di autorappresentazione e di associazione degli intellettuali.
Tra i fattori che comportarono l’indebolimento della vitalità
associativa della Repubblica dei letterati, che aveva pur dimostrato
una grande capacità di rinnovamento nel contesto culturale settecentesco,
sicuramente giocò un ruolo di rilievo la trasformazione della
lettura e la complicità con un lettore sul quale proiettare aspettative
individuali e in virtù del quale muta anche l’autorappresentazione del
letterato. Inoltre le implicazioni politiche che già nel primo Settecento
avevano minato in Italia i fondamenti della Repubblica dei letterati
diventano un nuovo fattore centrale di aggregazione e di identità che
sostituisce la ritualità associativa tradizionale e che nel caso italiano,
proiettato verso le battaglie risorgimentali, modifica radicalmente i
rapporti interni e le relazioni tra i letterati.
Silvia Tatti
Sapienza – Università di Roma
d’ora…», in Id., Ragguaglio d’un’adunanza dell’Accademia de’ Pittagorici, cit., p. 260:
«il lettore, che nel principio di questo libro avrà veduto l’elenco dell’accademia e il
carattere più o meno svegliato di ciascheduno de’ membri…», ivi, p. 275.
[ 16 ]
GIANMARCO GASPARI
Il romanzo tra narrazione e storia:
aggiornamenti sul caso Manzoni
Il recente dibattito sulla storia come “narrazione” o “retorica”, tra Arthur C.
Danto e Hayden White, ha avuto in Italia interlocutori di alto livello, da Arnaldo
Momigliano a Carlo Ginzburg. Un esame attento della riflessione manzoniana
sulla narrazione storica consente di restituire al romanzo un ruolo fondativo
nella ricostruzione della “verità”: è quanto sta iniziando a fare una nuova fase
critica, dimostrando come anche la ricerca teorica di Manzoni sia stata decisiva
per l’approdo a esiti così diversi dal realismo coevo.

The discussion between Arthur C. Danto and Hayden White concerning the
nature of history (storytelling or rhetoric?) has found some highly qualified
spokesmen in Italy, such as Arnaldo Momigliano and Carlo Ginzburg. A critical
analysis of Manzoni’s insight into historical narrative testifies to the groundbreaking
role of his novel in the debate about the recollection of “truth”. Recent
studies have been showing that Manzoni’s theoretical search on the subject was
crucial in attaining some key points of his poetics, definitely divergent from
coeval realism.
Non c’è dubbio sul fatto che le scelte di Manzoni impongano al suo
pubblico, fin dagli esordi, una dimensione assolutamente europea: è
la sua opera a riaprire quel dialogo internazionale che proprio a Milano
era nato, e che, anche grazie all’opera del nonno, Cesare Beccaria,
aveva riscattato la città da una posizione a lungo subalterna, per farvi
convergere l’interesse dell’intera Europa dei Lumi. Ed è dato da assumere
a priori, sia per quanto concerne i riferimenti culturali presenti a
Manzoni, lungo l’arco di tutta la sua lunga esistenza, che per quanto
ha a che fare con l’elaborazione, l’interpretazione e la ricezione dell’intera
sua opera. Esemplare, ovviamente, il caso del romanzo, a partire
appunto dalla decisione, assunta con la piena consapevolezza di tutte
Autore: Università degli Studi dell’Insubria; prof. associato; gianmarco.gaspari@
uninsubria.it
704 gianmarco gaspari
le difficoltà che comportava, di cimentarsi con un «genere proscritto»
dalle nostre lettere1. Ma si tratta, a ben vedere, di una consapevolezza
presente già nel Manzoni ventenne, quello che a Parigi, nel 1806, appena
conosciuto Claude Fauriel, si mostrava in grado di avviare una
riflessione tutt’altro che banale circa la mancata sintonia che agli scrittori
italiani tocca registrare nei confronti del loro pubblico (anche, come
messo in rilievo fin dalla preliminare ricerca delle cause, per ragioni
politiche), dovendo essi «assolutamente disperare di un effetto immediato
»; per cui la stessa valenza pedagogica dell’opera letteraria
(che, come ben sappiamo, per Manzoni rimarrà centrale anche nell’opzione
romanzesca) è di fatto ridotta a elemento accessorio, quando
non di fatto azzerata:
Per nostra sventura, lo stato dell’Italia divisa in frammenti, la pigrizia
e l’ignoranza quasi generale hanno posta tanta distanza tra la lingua
parlata e la scritta, che questa può dirsi quasi lingua morta. Ed è
perciò che gli Scrittori non possono produrre l’effetto che eglino
(m’intendo i buoni) si propongono, d’erudire cioè la moltitudine, di
farla invaghire del bello e dell’utile, e di rendere in questo modo le
cose un po’ più come dovrebbono essere. Quindi è che i bei versi del
Giorno non hanno corretti nell’universale i nostri torti costumi più di
quello che i bei versi della Georgica di Virgilio migliorino la nostra
agricoltura2.
E teniamo pure conto, ancora sul piano della formazione, la fase,
cioè, in cui l’autore è ancora alla ricerca di sé, di quella che si potrebbe
definire (per lasciare a margine termini più espliciti) un’esigenza programmatica
di “sperimentalismo”: con scelte che vedono tentate ed
esaurite, in rapida e spesso sovrapposta sequenza, le prove del carme,
dell’idillio, dell’ode, dell’inno sacro e della tragedia. Da cui discende
forse inevitabilmente che il «novo intatto sentier» che il giovane Man-
1 Alessandro Manzoni, Introduzione a Fermo e Lucia, in Tutte le opere, vol. II, a
cura di Alberto Chiari e Fausto Ghisalberti, Milano, Mondadori, 19684, t. I, p.
5. Con la specificazione, a sottolineare la volontà precisa del confronto, e il senso
assunto da tale confronto a proposito della «novità» tentata dall’autore: «E benché
questa non sia la sola gloria negativa di questa nostra letteratura, pure bisogna
conservarla gelosamente intatta, al che ben provvedono quelle migliaja di lettori e
di non lettori i quali per opporsi a ogni sorta d’invasioni letterarie si occupano a
dar se non altro molti disgusti a coloro che tentano d’introdurre qualche novità»
(Ibidem).
2 Alessandro Manzoni – Claude Fauriel, Carteggio, a cura di Irene Botta,
Milano, Centro Nazionale Studi Manzoniani, 2000 (Edizione Nazionale delle Opere
di A. Manzoni, 27), pp. 4-5.
[ 2 ]
il romanzo tra narrazione e storia 705
zoni preconizzava per sé nel celebre sonetto del 18023 potesse nel
séguito volgere «nientemeno che a un romanzo». E, per quanto sia
stato fatto di recente in questa direzione d’indagine, restituendo dignità
a un laboratorio a lungo tenuto in ombra da critici e storici, resta
difficile pensare che sollecitazioni decisive potessero derivare a Manzoni
dall’esangue tradizione italiana dei Chiari e dei Piazza, o dallo
stesso Alessandro Verri delle pur fortunate Avventure di Saffo, piuttosto
che da quel che alla sua onnivora fame di lettore poteva offrire la
Francia degli anni Dieci e Venti: anche per quanto è dell’investimento,
che lo scrittore non poteva non giudicare tra le ragioni prioritarie di
una tale scelta, sulla popolarità del genere (ragione sufficiente ad escludere
dal confronto non solo Verri e compagni, ma lo stesso Foscolo
dell’Ortis). E, visto che s’è già fatto il nome di Fauriel, merita anche
osservare come il credito riconosciuto alle osservazioni che ne contrassegnarono
la lettura dell’abbozzo autografo del Fermo e Lucia discende
sicuramente, agli occhi attenti di Manzoni, anche dalle competenze,
assolutamente eccezionali nel panorama europeo, che appunto
lo studioso francese aveva esibito nelle recensioni alla Histoire littéraire
d’Italie di Ginguené, alla Caduta dell’impero romano di Gibbon e all’Indische-
Bibliothek di August Schlegel, ancor prima di farsi editore, tra
1824 e ’25, degli Chants populaires de la Grèce moderne, o di misurarsi
pure per la prima volta, attento a quella che oggi si direbbe la “ricezione”,
con le origini dell’epopea medievale4.
Potrà anche sorprendere, ma la partita con l’Europa, e in primo
luogo, naturalmente, con la Francia, poteva ammettere allora anche
dei crediti, come ci ricordano le parole che Augustin Thierry indirizzava
nel 1824 allo stesso Fauriel: «Se Manzoni fosse nato in Francia,
farebbe forse la rivoluzione che nessuno di noi ha il coraggio di avviare
». Manzoni stava in quei mesi concludendo la revisione del Fermo e
Lucia (la cui struttura, con la divisione in quattro parti, denuncia la
convinta adesione al modello scottiano), per avviare, da luglio, la
stampa della nuova forma del romanzo. Thierry non dubitava del fatto
che Manzoni riuscisse a realizzare la sua rivoluzione in Italia. «Ma
chi la farà per noi?» chiedeva alla fine al suo interlocutore. La domanda
aveva un senso preciso nella Francia del 1824, quando l’astro na-
3 Alessandro Manzoni, Poesie prima della conversione, a cura di Franco Gavazzeni,
Torino, Einaudi, 1992, p. 83.
4 Decisivo l’aggiornamento offerto ora, anche per il dialogo con Manzoni, da
Elena Maiolini, Claude Fauriel. Alle origini della comparatistica, Firenze, Franco Cesati,
2014.
[ 3 ]
706 gianmarco gaspari
scente della narrativa romantica, Victor Hugo, era ancora noto – ed è
un parallelismo che mi pare poco o nulla forzato – piuttosto per le sue
odi che per i suoi esordi narrativi (Bug-Jargal e Han d’Islande, usciti in
rivista nel 1820, ripresi in volume a qualche anno di distanza). E si
trattava di una domanda tesa a ribaltare – credo vada sottolineato – la
prospettiva tradizionale, che ancora a lungo sarebbe rimasta ben radicata
in entrambi i paesi, dell’indiscusso primato culturale della Francia
dalla fine del Rinascimento, primato che lo stesso Manzoni sarebbe
stato ben disposto a sottoscrivere5.
Ma, come è evidente, un tale primato avrebbe presto comportato
più oneri che onori, tanto che valutare oggi, al di fuori della cerchia
isolata degli specialisti, l’esito di quei confronti, non è certo consolante,
come ci hanno ammoniti qualche tempo fa, discutendo appunto
della fortuna di Manzoni in Francia, Jacques Goudet e Luca Badini
Confalonieri, secondo i quali la presenza di indici positivi «non significa
certo che Manzoni viva nella cultura francese; significa soltanto
che in Francia esiste qualche insegnamento di italiano»6.
Su tutt’altro piano, questa assenza (che ovviamente si registra tanto
più evidentemente in aree linguistiche meno prossime alla nostra),
in parte da imputare anche alla pigra e provinciale gestione dei nostri
beni culturali, è segnata da rimpianti più incisivi, come per esempio
da qualche clamoroso incontro mancato. Merita segnalarne almeno
un paio tra i più recenti. Il primo emerge dal percorso messo a fuoco,
tra riflessione filosofica e narratologia, nell’opera del filosofo americano
Arthur C. Danto, che nel suo Narration and Knowledge dedica i due
capitoli conclusivi al rapporto che la lingua e la logica della narrazione
stabiliscono con la lingua e la logica della storia7: tema arduo, e che
nel nuovo millennio si proietta con tutto il peso del dibattito in corso
sulle testimonianze dei genocidi e delle stragi di massa, ma che nel
discorso manzoniano Sul romanzo storico riconosce una prima e già
matura riflessione, con esiti che, se intercettati per tempo, sarebbero
5 Per un inquadramento generale, Gianmarco Gaspari, Manzoni e il mito della
Francia, in Manzonis Europa – Europas Manzoni. L’Europa di Manzoni – Il Manzoni
dell’Europa, a cura di Angela Oster, Francesca Broggi, Barbara Vinken,
München, Herbert Utz Verlag, 2017, pp. 45-71.
6 Jacques Goudet, Fortuna e sfortuna di Manzoni in Francia, «Quaderni francesi
», I (1970), pp. 457-482; Luca Badini Confalonieri, Manzoni en France, in Id., Les
régions de l’aigle et autres études sur Manzoni, Bern-Berlin-Bruxelles, Peter Lang,
2005, pp. 281-292.
7 Arthur C. Danto, Narration and Knowledge, New York, Columbia University
Press, 2007, pp. 298-363.
[ 4 ]
il romanzo tra narrazione e storia 707
stati dirompenti sullo sviluppo del genere, e non solo in Italia (è anche
per questo che non sorprende constatare come la distanza da Manzoni
dei suoi successori, nel tempo, non abbia fatto che crescere).
Oppure, e questa volta ci avviciniamo direttamente agli statuti costitutivi
del romanzo manzoniano, si pensi all’azzeramento dell’idea
di «evento storico» tentato, ormai da più di un trentennio, da Hayden
White, sulla scia della delegittimazione del concetto di realtà trasmissibile
mediante il linguaggio, che condurrebbe all’ipotesi di una narrazione
della storia «fittiva» per sua propria natura, abolito il «tabù
che riguarda la commistione tra fatto e fantasia». Lo smantellamento
«del concetto di evento come oggetto di un genere prettamente scientifico
di conoscenza», in particolare, emerge per White appunto con la
storiografia sugli «olocausti» (al plurale) del Novecento, manifestazioni
di fatti assolutamente inimmaginabili per la storiografia dei secoli
passati8. Ma non è perfettamente omologabile agli «eventi» decisivi
elencati da White (dalla Grande Depressione alle armi nucleari
all’esplosione demografica), in un secolo altrettanto tragicamente connotato,
la sequenza dei flagelli biblici – la guerra, la carestia, la peste
– su cui fa perno la narrazione manzoniana? E non avrà qualche senso
il fatto che una delle voci più autorevoli nella costruzione del concetto
stesso di olocausto (al singolare) che tutti condividiamo, Primo Levi,
abbia riconosciuto un riferimento imprescindibile, oltre che nell’Inferno
dantesco, nel romanzo manzoniano, proprio per la rappresentazione
di «eventi» che impongono alla narrazione storica un costante interrogarsi
sui propri mezzi e fini, se non addirittura sulla propria ragion
d’essere9?
Per White, resta vero quanto Arnaldo Momigliano, pur tributando
8 Hayden White, Forme di storia. Dalla realtà alla narrazione, Roma, Carocci,
2006, pp. 103-107. Da osservare però, e proprio in relazione alle teorie di White,
come il nome di Manzoni sia già stato speso da uno storico illustre, deciso a restituire
alla narrativa dell’Ottocento una funzione determinante nell’affermazione di
nuovi moduli interpretativi: «[…] c’è voluto un secolo perché gli storici cominciassero
a raccogliere la sfida lanciata dai grandi romanzieri dell’Ottocento – da Balzac
a Manzoni, da Stendhal a Tolstoj – affrontando campi d’indagine precedentemente
trascurati con l’aiuto di modelli esplicativi più sottili e complessi di quelli tradizionali
» (Carlo Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero, falso, finto, Milano, Feltrinelli, 2006,
pp. 307-308; per un primo intervento in tema si veda anche Id., Rapporti di forza.
Storia, retorica, prova, Milano, Feltrinelli, 2001, pp. 51-52). Su tutto ciò, Manzoni a
parte, cfr. la lucida sintesi di Giuliana Benvenuti, A proposito del dibattito sulla
narrazione della storia, «Intersezioni», xxix (2009), pp. 131-148.
9 Dati esaustivi sull’attenzione di Levi per Manzoni offre ora Andrea Rondini,
Manzoni e Primo Levi, «Testo», xxxi (2010), pp. 49-86.
[ 5 ]
708 gianmarco gaspari
al collega la dovuta ammirazione, rilevava in uno studio del 1981: il
fatto di considerare gli storici, «al pari di tutti gli altri narratori», come
«retori che si possono caratterizzare per i loro modi di discorso» − la
riduzione, cioè, della narrazione storica a retorica – elimina il compito
fondamentale dello storico, cioè «la ricerca della verità». Agli storici,
precisa Momigliano,
[…] si chiede di essere scopritori della verità. Non c’è dubbio che, per
poter essere chiamati storici, essi debbono volgere la loro ricerca in una
qualche forma di storia. Ma le loro storie devono essere vere10.
E ancora:
[…] ciò che infine ha distinto la scrittura storica da ogni altro tipo di
letteratura è il fatto che essa è, nel suo complesso, sottoposta al controllo
dei dati. La storia non è epica, la storia non è letteratura narrativa, la
storia non è propaganda, perché in questi generi letterari il controllo
dei dati è facoltativo, non obbligatorio11.
Ma ci può interessare di più il passaggio successivo, quando Momigliano
fa incontrare lo White di Metahistory con The Shape of Time di
Peter Munz. Munz, che si professa esplicitamente debitore di White,
opera una distinzione tra “narrazioni” (stories) e “storie” in senso proprio
(histories), per affermare che «alcune narrazioni sono vere nel senso
che tutti i singoli avventimenti che contengono si possono dire realmente
accaduti. Tali narrazioni sono storie (histories), sono non-immaginarie
». Ciò che Momigliano acutamente postilla:
Io non sono riuscito a scoprire i criteri attraverso i quali Munz decide
che gli avvenimenti si possono dire realmente accaduti. A un certo
punto egli elabora due criteri – di sufficiente varietà e sufficiente specificazione
– per decidere quale interpretazione più persuasiva; ma questi
criteri sono egualmente applicabili a eventi immaginari e non aiutano
a stabilire se i fatti sono fatti12.
Stiamo andando troppo lontano, rispetto a Manzoni? Non credo,
se solo muoviamo alla conclusione cui Momigliano giunge immediatamente,
riconoscendo come la teoria di Munz integri perfettamente
10 Arnaldo Momigliano, La retorica della storia e la storia della retorica: sui tropi
di Hayden White, in Id., Sui fondamenti della storia antica, Torino, Einaudi, 1984, pp.
465-476; la cit. dalla p. 466.
11 Ivi, p. 467.
12 Ivi, p. 473.
[ 6 ]
il romanzo tra narrazione e storia 709
l’asserto di White, secondo cui non si darebbe differenza «tra una storia
vera e una storia immaginaria»:
Io rimango dunque della mia convinzione iniziale che né White né
Munz mi sanno dire la differenza fra la Chartreuse de Parme di Stendhal
e la Vie de Jésus di Renan (e sto ponendo la questione nei temini più
favorevoli per White e Munz!). Devo di conseguenza anche insistere
nel dire che la domanda se Stendhal riporti qualcosa che è accaduto è
una domanda facoltativa – e forse irrilevante – mentre la domanda se
Renan riporti qualcosa che è accaduto è una domanda obbligatoria e
decisiva13.
Tra Stendhal e Renan, dove si collocherebbe Manzoni? Davvero
anche per il suo romanzo sarebbe «facoltativo» chiedersi se quanto vi
descrive è davvero accaduto, o no? Per ipotizzare una risposta, lasciamo
pure da parte la Chartreuse, e scegliamo invece un altro contemporaneo
di Manzoni, che più di Stendhal ha piantato la sua bandiera ben
in vista sulla strada maestra del realismo. Nel cap. XLII del Circolo
Pickwick, Dickens conduce il protagonista a Londra, nella zona di Fleet
Street, tra tribunali e carceri, in visita al reparto per poveri di una prigione
per debitori. Dato che il vitto del carcere va pagato direttamente
dal prigioniero o dai suoi familiari, i poveri sono destinati alla morte
per fame, se non li soccorra la carità pubblica. Per questo, un tempo,
«una specie di gabbiotto di ferro incastrato al muro esterno della Fleet
» esponeva ai passanti «un uomo dall’aria affamata che ogni tanto
scuoteva un bussolotto e invocava con voce lamentosa “Fate la carità
ai poveri debitori”»14. All’epoca di Pickwick, quell’uso era stato abolito,
ma «la condizione di quegli infelici è rimasta la stessa, misera e
disperata». Il tempo presente collega dunque la narrazione alla contemporaneità,
ed è parlando ai propri contemporanei che Dickens
stigmatizza la durevole ferocia della legislazione inglese:
13 Ibidem. Va ricordato, rimanendo a Manzoni, che i termini empiricamente utilizzati
da White erano in qualche modo presenti al dibattito sull’uso strumentale
della retorica che aveva impegnato Angelo R. Pupino nel suo “Il vero solo è bello”.
Manzoni tra retorica e logica, Bologna, il Mulino, 1982. Per quanto invece è di Stendhal,
sulla «plausibilità» dei suoi istituti narrativi e in ispecie sull’aspetto «rivoluzionario
» della descrizione dei personaggi, sia pur limitatamente a Le Rouge et le
Noir, è da vedere quanto annota nella propria autobiografia, The Summing up, un
buon intendente come William Somerset Maugham: La resa dei conti, a cura di
Paola Faini, Roma, Lucarini, 1988, pp. 53-55.
14 Charles Dickens, Il Circolo Pickwick, a cura di Lodovico Terzi, Milano,
Adelphi, 20014, p. 753.
[ 7 ]
710 gianmarco gaspari
Noi non permettiamo più che si rivolgano alla carità e alla compassione
del passante, alle porte della prigione; ma lasciamo ancora intatta
nelle pagine del nostro codice, per la reverenza e l’ammirazione delle
età che verranno, la giusta e provvida legge che vuole il malfattore
nutrito e vestito, e il debitore senza un soldo abbandonato a morire di
freddo e di fame. Questa non è letteratura. Non passa settimana senza
che alcuni di questi uomini, in ciascuna delle nostre prigioni per debitori,
non si trovino sul punto di morire lentamente per le torture della
fame, se non vengono aiutati dai loro compagni di reclusione15.
«Questa non è letteratura»: il minimo ma incisivo intervento declaratorio
di Dickens suona al lettore dei Promessi sposi e della Colonna
infame di una violenza inaudita, quasi si trattasse di farsi perdonare,
come un’uscita improvvida, quella riduzione del realismo della narrazione
a una gerarchia subalterna alla realtà, e di cui il pubblico vada
reso cosciente. Un paio di casi analoghi, nella direzione di una “attualizzazione”
non cifrata dell’iter narrativo, offriva per esempio l’Ettore
Fieramosca di Massimo d’Azeglio, come mi è capitato di dimostrare
rilevando, in quell’opzione, un discrimine di notevole rilevanza rispetto
al modello manzoniano16. Modello che pure esclude di annettersi
quei «segnali di finzionalità» che Umberto Eco sottolinea come
parte decisiva del patto con il lettore, «dalla parola “romanzo” sulla
copertina, a inizi come “c’era una volta”», fino alle false o eccessive
determinazioni di veridicità, fermo restando che «la verità della finzione
romanzesca supera la credenza sulla verità o falsità dei fatti
narrati»17: ma, anche qui, quanto per Manzoni è applicabile il criterio
lineare di verità e falsità, indipendentemente dalla resa assoluta al
“reale” della narrazione storica che siglerà il discorso Sul romanzo storico?
Si è così tornati, sia pure cursoriamente, su un altro tema, quello
della riflessione teorica sulla propria opera, che, insieme con l’altrettanto
strenua (ma più lunga e sofferta) riflessione sugli strumenti stessi
dell’operare – la lingua –, caratterizza in modo decisivo l’eccezionalità
dell’esperimento manzoniano. Ma Manzoni ben sapeva, diversamente
da Dickens, che l’istanza pedagogico-morale del romanzo, così
15 Ibidem. Mio il corsivo.
16 Gianmarco Gaspari, Armi ed eroi. La Lega Lombarda e il tema del riscatto, in
Id., Il mito della “Scuola di Milano”. Studi sulla tradizione letteraria lombarda, Firenze,
Franco Cesati, 2018, pp. 227-228.
17 Umberto Eco, I luoghi romanzeschi e le loro verità, in Id., Storia delle terre e dei
lughi leggendari, Milano, Bompiani, 20162, pp. 437-440.
[ 8 ]
il romanzo tra narrazione e storia 711
connessa al suo peculiare realismo, sarebbe stata annullata proprio
quando venisse resa esplicita (in questo senso, anche se non in questo
solo, va letta la rimozione dell’introduzione «teorica» del Fermo e Lucia),
e si tiene perciò ben lontano dalle scelte in questa direzione, che
saranno anche quelle di un James o di un Forster, come anche dalla
tentazione di “difendere” la propria opera (il che toccò necessariamente
di dover fare allo stesso Flaubert). Anzi, la determinazione con
cui Manzoni sceglie, per l’edizione definitiva, una équipe di illustratori
popolari, sul modello dei Gavarni e dei Daumier (e di questa editoria
era particolarmente ricca, come sappiamo dagli studi di Fernando
Mazzocca, la biblioteca della seconda moglie, Teresa Stampa)18,
cela perfettamente la complessità dell’operazione, che punta piuttosto
verso l’accentuazione della funzione didascalica del paratesto illustrativo:
per cui sarebbe da riconoscergli un balzo in avanti, anche in
questo caso, dalla fase dell’illustrazione accessoria al testo a quella
implicata e funzionale alla sua interpretazione, caso di cui riesce difficile
cogliere analogie nel contesto europeo, almeno prima del Thackeray
di Vanity Fair: dove l’illustratore, altro caso eccezionale, era l’autore
stesso.
Una breve riflessione aggiuntiva: da qualche anno alcuni editori
dei Promessi sposi hanno inaugurato una sorta di feticismo dell’ultima
volontà dell’autore, che non solo si appunta, com’è giusto, sugli esiti
testuali, ma addirittura sul paratesto. A essere in causa sono, ovviamente,
appunto le vignette della Quarantana, per le quali Manzoni
fornì agli illustratori indicazioni puntigliose fino al dettaglio, tanto
nelle lettere quanto nel manoscritto noto come Motivi delle vignette dei
“Promessi sposi”, in più casi stabilendone anche le proporzioni e la precisa
collocazione entro la gabbia della pagina. Impensabile, dunque,
ristampare oggi I Promessi sposi senza le illustrazioni, è la nuova parola
d’ordine. Che, a ben vedere, dovrebbe imporre anche il rispetto del
loro assetto nella pagina, e, ovvio, quello delle stesse dimensioni originali;
e in aggiunta a ciò, posta la non comune perizia tipografica
dell’autore (che amava scegliere da sé, come forse è meno noto, tipo e
forma dei caratteri di stampa)19, la necessità di servirsi degli stessi font
e insomma di riprodurre la pagina tale quale. Il rispetto assoluto
18 Fernando Mazzocca, Quale Manzoni? Vicende figurative dei “Promessi sposi”,
Milano, Il Saggiatore, 1985.
19 Si veda il mio Manzoni e i suoi editori, in Milano nell’età della Restaurazione
(1814-1848). Studi letterari, linguistici e filologici, a cura di Alberto Cadioli e
William Spaggiari, Roma, Bulzoni, 2015, pp. 127-139.
[ 9 ]
712 gianmarco gaspari
dell’ultima volontà dell’autore parebbe dunque potersi realizzare solo
con la ristampa anastatica o fotografica (lo sanno bene gli editori francesi
e tedeschi, che affidano alla neutralità un po’ pilatesca della riproduzione
digitale anche i manoscritti e i postillati: questi ultimi ripresi
per intero, naturalmente, persino nelle pagine di stampa dove postille
non se ne vedono, altrimenti si tratterebbe di un’indebita selezione:
ma per quella ci sono appunto i filologi).
Da qui giungiamo infine a un altro fatto pure assai poco presente
nelle bibliografie, e cioè la dedica che Edward Bulwer-Lytton indirizzò
a Manzoni nel suo Rienzi. L’ultimo dei tribuni, il romanzo (reso poi
celebre dalla musica di Wagner) con cui nel 1835 tentava di replicare il
successo degli Ultimi giorni di Pompei. Che l’erede riconosciuto di Walter
Scott tributasse entro la sua saga italiana un omaggio all’autore dei
Promessi sposi presentandolo come il «genius loci» (così la dedica)20 di
un paese che, confuso ma risoluto a muovere verso la propria autodeterminazione,
poteva sollecitare il richiamo alla fase aurorale di quel
percorso, segnata appunto dalla figura di Cola di Rienzo, è ciò che
dice come meglio non si potrebbe dell’avvenuta liquidazione, e ben
prima dell’edizione illustrata, degli stereotipi che segnavano l’Italia
del Grand Tour (chi direbbe che i celebri Italian banditti di Washington
Irving escano a stampa contemporaneamente alla redazione della “seconda
minuta”, nel 1824?), e insieme del riconoscimento del valore
fondativo, mai abbastanza sottolineato, che per la nascente identità
italiana aveva assunto agli occhi dell’Europa il romanzo manzoniano:
da qui la necessità e anzi l’urgenza di una sua lettura anche politica,
come era nelle intenzioni dell’autore, che anche a questa prospettiva
riesce ad adeguare il suo pur innegabile realismo.
Un’occasione notevole per restituire all’opera di Manzoni il suo
ruolo decisivo nell’epopea risorgimentale si è naturalmente presentata
con il centocinquantesimo anniversario dell’Unità, quando molti
sono stati gli interventi che ne hanno messo in rilievo il valore addirittura
paradigmatico21. Ma va pure salutata come si conviene la nuova
20 Edward Bulwer-Lytton, Rienzi. L’ultimo dei tribuni, Milano, Stella, 1836, 4
voll.; la dedica («Ad Alessandro Manzoni / siccome / genio del luogo / sono dedicati
/ questi frutti / raccolti / nel suolo onde viene / questa italiana novella») è
tradotta alla fine della premessa Ai leggitori del vol. I, firmata da Gaetano Barbieri
21 Cito almeno, per le implicazioni con la prospettiva che qui interessa, Francesco
Sberlati, Filologia e identità nazionale. Una tradizione per l’Italia unita (1840-
1940), Palermo, Sellerio, 2011; Matilde Dillon Wanke, L’ombra di Manzoni, in
L’Italia verso l’unità: letterati, eroi, patrioti, a cura di Beatrice Alfonzetti, Roma,
Edizioni di Storia e Letteratura, 2011, pp. 61-76; Gianmarco Gaspari, Unità nazio-
[ 10 ]
il romanzo tra narrazione e storia 713
attenzione che gli studiosi, specie i più giovani, stanno dedicando a
temi che a lungo si sono voluti credere passati in giudicato, e ad alcuni
dei quali è occorso qui sopra di far rapido cenno. A partire dal riesame,
evidentemente imprescindibile, del rapporto con il romanzo storico
europeo e con il modello scottiano: penso a uno studio recente di
Matteo Sarni, che punta proprio sul rapporto con Scott22, e alla raccolta
di saggi promossa da Salvatore Bancheri Manzoni and the Historical
Novel, dove non stupirà che l’etichetta apparentemente restrittiva possa
ospitare un saggio dedicato alla Topografia manzoniana, nel quale
Harald Hendrix discute (come dichiara il sottotitolo) de Il romanzo
storico fra turismo letterario e culto della memoria, come non stupirà che,
nella stessa sede, di uno degli ambiti del manzonismo “perdente”,
quello deteriore dei pur popolarissimi sequel del romanzo, si possa
ormai tentare una lettura ideologica (Ann Peters, Le “continuazioni” in
prosa dei “Promessi sposi”: un approccio storico-politico)23. E sullo stesso
tema della topografia è ora agli atti, recentissima, un’utile sintesi di
Flavio Lucchesi, che insiste sul realismo descrittivo del romanzo in
ambito naturalistico e paesaggistico, in evidente funzione oppositiva
rispetto ai già richiamati stereotipi del Grand Tour24.
Più lungo sarebbe naturalmente il discorso sulle interpretazioni in
chiave analitica e sociologica, come di quelle che è invalso definire “di
genere”: ma in questo settore è una ben strutturata monografia di
Alessandro Bosco25 a offrire un nuovo approccio a modelli narrativi
che credevamo esauriti nelle loro valenze funzionali, dal Diderot della
Religieuse al Richardson di Pamela e Clarissa, ricordandoci salutarmente,
anche sulla scorta dei lavori di Homer Brown, come sia stata appunto
l’energica ramazza di Walter Scott, nell’Inghilterra di inizio Ottocento,
a spazzar via gli schemi alternativi del romanzo “contemponale
e identità di popolo: il ruolo di Manzoni, in La letteratura degli italiani. Atti del
Convegno del XIV Congresso Nazionale degli Italianisti (Genova, settembre 2010),
a cura di Alberto Beniscelli, Quinto Marini, Luigi Surdich, Genova, Città del
Silenzio, 2011, pp. 211-228.
22 Matteo Sarni, Il segno e la cornice. I “Promessi sposi” alla luce dei romanzi di
Walter Scott, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2013.
23 Manzoni and the Historical Novel, a cura di Salvatore Bancheri, New York,
Legas, 2009.
24 Flavio Lucchesi, “Il lago giaceva liscio e piano”. Paesaggi geo-letterari riflessi
nelle acque lariane, in Laghi e paludi. Prospettive geografiche e letterarie, a cura di Elena
Ogliari e Giacomo Zanolin, Milano-Udine, Mimesis, 2017, pp. 79-108.
25 Alessandro Bosco, Il romanzo indiscreto. Epistemologia del privato nei “Promessi
sposi”, Macerata, Quodlibet, 2013.
[ 11 ]
714 gianmarco gaspari
raneo” settecentesco alla Defoe, e come proprio grazie alla formula
scottiana si sia resa possibile, per il romanzo contemporaneo, una decisiva
rifondazione.
Alla complessa casella della teoria narratologica, infine, intorno
alla quale, come s’è visto, si affollano sorprendenti incognite e, insieme,
accertamenti decisivi circa la legittimità stessa della narrazione
storica, fa ora capo un ampio studio di Federica Alziati, che ha tra
l’altro il merito di anticipare la riflessione manzoniana «sulla materia
dei romanzi storici» all’indomani della Ventisettana, sulla base degli
stimoli giunti all’autore dalla lettura che delle tragedie prima, e del
romanzo poi, fece Goethe26. E cade qui l’opportunità di associare al
nome di Goethe quella formidabile officina che fu la cultura di lingua
tedesca tra la fine del Settecento e l’inizio del nuovo secolo, che, come
ha da ultimo documentato esemplarmente Monica Bisi, non fu
affatto secondaria a Manzoni nella ricerca della propria autonomia
estetica, e, conosciuta in qualche caso di prima mano, risultò anzi
fondamentale alla scelta iniziale della poesia idillica e al suo successivo
superamento27.
Con tutto ciò, resta senz’altro l’eccezionale risonanza dell’esperimento
romanzesco, dalla Russia di Puškin alla Danimarca di Andersen28,
a indurci a credere che la restituzione dell’Italia all’Europa, quella
che tanto stava a cuore a Madame de Staël (e come però, ben prima
di lei, era nei voti di più di un adepto delle lumières, da Algarotti a
Pietro Verri), proprio con il romanzo di Manzoni si poté dire, almeno
per qualche tempo, giunta a compimento. E del resto, per l’opera di
Manzoni così non poteva non essere, tra la sua assunzione nel pantheon
dell’ideale Weltliteratur goethiana e il progetto, pur mai portato a
compimento, che Mary Shelley annotò nel suo carteggio, di volerne
tradurre il romanzo, progetto sul quale ci ha da poco ragguagliati Alice
Crosta29. Buone ragioni, come è evidente, per desiderare che questi
26 Federica Alziati, “Invenzioni che somigliassero a qualche cosa di umano”. Manzoni
tra verosimile e verità, Pisa, ETS, 2017 (sulla teorizzazione del romanzo storico
si veda in particolare il cap. V, pp. 189-249).
27 Monica Bisi, Manzoni e la cultura tedesca. Goethe, l’idillio, l’estetica europea,
Pisa, ETS, 2016.
28 Renzo Rabboni, Puškin e Manzoni (con Alfieri, Foscolo e Pindemonte), «Giornale
storico della Letteratura italiana», clxxxv (2008), pp. 321-370; Federico Zuliani,
Manzoni in Danimarca, Norvegia e Islanda. “Il matrimonio sul lago di Como” di
Andersen, «Annali manzoniani», n.s. VI (2005), pp. 169-224.
29 Alice Crosta, Alessandro Manzoni nei paesi anglosassoni, Bern-Berlin-Bruxelles,
Peter Lang, 2014.
[ 12 ]
il romanzo tra narrazione e storia 715
studi proseguano, e si continui così a far luce su temi come pochi altri
decisivi nella costruzione della nostra identità, sempre in precario
equilibrio tra la provincia e l’Europa.
Gianmarco Gaspari
Università dell’Insubria
[ 13 ]

ROSANNA POZZI
Ipazia e la parola
Il presente intervento intende sviluppare la centralità della parola e della sua
comunicazione nel dramma teatrale Ipazia di Mario Luzi, evidenziandone il valore
d’opera di svolta nel percorso poetico di Mario Luzi, svolta preparata e
gradualmente affermatasi a partire da Nel magma e Su fondamenti invisibili. La
continuità del percorso è attestata dalla presenza di alcuni termini e temi ricorrenti,
così come da brevi frammenti autografi dell’autore, di recente riemersi
grazie a Stefano Verdino.

The present essay looks at the centrality of the word and its communication in
Mario Luzi’s drama Ipazia. It shows how the work marks a turning point in
Luzi’s literary career, one prepared for and gradually established from Nel
magma and Su fondamenti invisibili onwards. Luzi’s internal coherence is
demonstrated by several recurring terms and themes, as well as by short handwritten
fragments recently re-emerged thanks to Stefano Verdino.
Sulla traccia degli studiosi Silvio Ramat1, Giovanni Raboni2, Gian-
Autore: Università degli Studi dell’Insubria; cultrice della materia; pozzi.rosanna@
virgilio.it
1 Silvio Ramat in un articolo pubblicato sulle pagine del «Corriere del Ticino»
il 10 febbraio del 1972, intitolato Per una storia di Luzi, paragonava l’illusione ellenica
rappresentata dal personaggio di Ipazia con l’illusione del platonismo rinascimentale
che originò Il Cortegiano di Baldassar Castiglione, al quale Luzi aveva dedicato
un saggio intitolato Un’illusione platonica e altri saggi. Ramat sottolineava il
fascino esercitato su Luzi dal platonismo de Il Cortegiano, dalla sua sublime assolutezza,
e contestualmente segnalava per primo lo scarto e il cambiamento in atto
nel dramma teatrale Ipazia, con il quale si verifica nella poetica luziana l’abbandono
di quel mondo ideale e perfetto a favore dell’occasione empirica, della prassi,
del relativo integrale. Ramat coglieva, inoltre, la linea di svilupo o dell’andamento
sermonale, in senso oraziano, da Nel magma a Il libro di Ipazia e individuava nella
caoticità di Alessandria il perdurare della fase magmatica.
2 Anche Giovanni Raboni in un articolo intitolato Ipazia cade sbranata dai barbari
cristiani, pubblicato su «La Stampa» il 21 ottobre del 1978, oltre ad evidenziare
718 rosanna pozzi
carlo Quiriconi3, Roberto Palazzi4, Antonio Ulivi5, Anna Panicali6 e
Stefano Verdino7 si può mettere in evidenza la linea di sviluppo contiil
grande valore stilistico e formale di questo poemetto per i suoi «versi prosastici
e solenni, cauti e balenanti» evidenziava come in Ipazia si coagulassero in «un parlato
ritmico alto, densissimo e incalzante» le inquietudini e le tensioni dialogiche
già rintracciabili a partire da Nel magma.
3 Giancarlo Quiriconi con l’articolo intitolato E un messaggero venne a Ipazia,
pubblicato sulla rivista «Libri oggi» il 6 ottobre del 1978, si soffermava a sua volta
sullo stretto legame, la consequenzialità tra la forma dialogata di Su fondamenti invisibili
e il testo teatrale in esame; isolava inoltre nei due personaggi principali, Ipazia
e Sinesio, i simboli complementari della necessità e della speranza. Vi tornava poi a
distanza di dieci anni, nel 1988, per indagare Origini e senso di una esperienza teatrale,
con una riflessione pubblicata in Omaggio a Mario Luzi (Comune di Scandicci), nella
quale affermava che l’esperienza teatrale di Luzi nasce da un lungo lavoro di indagine
e di riflessione sul senso del tragico nella contemporaneità, ben distinto e non
riconducibile agli archetipi e alle tipologie della classicità, fondate sullo scontro
grandioso di forze contrapposte e irriducibili. Ribadiva poi la continuità tra il dialogo
dell’io poetico con l’altro da sé, della pluralità di voci e del serrato domandare
presenti in Nel magma e Su fondamenti invisibili con l’esordio teatrale di Luzi, nel
quale l’io poetico si eclissa per dare voce all’altro da sé, per individuare oltre la linearità
del tempo umano (la storia), una verticalità intrinseca ad ogni dato della realtà.
4 Roberto Palazzi nell’articolo apparso sul «Corriere della sera»il 26 luglio
del 1979, inserendosi nella linea critica dei sopracitati studiosi, salutava con entusiasmo
l’approdo di Luzi al teatro, titolando appunto Quando il poeta diventa drammaturgo,
e ne coglieva l’aspetto di naturale sviluppo di una linea poetica da lungo
tempo attiva e caratterizzata da un «gusto naturale per il recitativo» e dalla tendenza
ad «un teatro interiore».
5 Antonio Ulivi nel 1988 segnalava fin dal titolo, Mario Luzi dalla poesia al teatro,
l’importanza di tale passaggio in un articolo pubblicato in «Quaderni di città
di vita», nel quale lo studioso collegava l’esigenza teatrale del poeta toscano con il
suo rovello religioso, la sua fede «agonica». Individuava l’origine di tale passaggio
nella crisi di insufficienza e di inadeguatezza della poesia, che dapprima diventa
invocazione di significato per poi diventare dialogo, tensione alla verità, incontro
con l’Altro nelle opere teatrali. Per Ulivi l’azione scenica è immersione nel reale, è
rapporto, comunicazione e conoscenza diretta nei confronti dell’Essere, del Logos,
di Dio, in altri termini è Rivelazione. Alla base di tale ipotesi genetica, per Ulivi, sta
il dialogo tra Ipazia e Una voce, dove Una voce rappresenta l’oggettività del Divino
che irrompe a dare significato.
6 Anche A. Panicali in un capitolo del suo Saggio su Mario Luzi del 1991, nella
sezione intitolata Un luogo della mente, indicava il teatro di Luzi come una continuazione
del discorso poetico polifonico, dialogico, interrogativo, svolto con la
contrapposizione di più «personae», già avviato in Nel magma e Su fondamenti invisibili.
Definiva poi il teatro di Luzi un «luogo della mente», nel quale si raccolgono
ed esprimono dubbi e riflessioni, il pensiero nel suo farsi ed esprimersi in parola.
7 Stefano Verdino, Poesia dovunque. Analisi di Nel magma, «Nuova Corrente»,
XXXVII, Genova, Tilgher, 1990, pp. 3-38.
[ 2 ]
ipazia e la parola 719
nuativa e la forte sintonia tra questa prima opera teatrale e le due raccolte
poetiche precedenti: Nel magma (1961-’63) e Su fondamenti invisibili
(1960-’70). Temi, situazioni ed elementi comuni si delineano e si
declinano, infatti, in maniera diversa: nella prima, Nel magma, è presente
una spiccata vocazione dialogica, la «polifonia di voci» già evidenziata
dai suddetti critici, si organizza e si esprime in incontri tra
persone precise e in luoghi ben definiti, caratterizzati da una spiccata
vocazione scenica; nella seconda raccolta, invece, il dialogo concreto
diventa ansia di significato, grido di domanda, dialogo ideale tra
mente, cuore, memoria e persone care, la vocazione scenica sparisce,
le coordinate temporali e spaziali tendono a sfuocarsi, a confondersi
in una dimensione onirica. Il sermomerus oraziano, dichiarato in calce
a Nel magma, si evolve in uno stile nitido, contratto ed essenziale alla
Rebora nei Tre temi per poi assumere un andamento poematico nei Tre
poemi, in una poesia narrativa, che ricorda i Fours Quartes di T.S. Eliot
e I mari del Sud di Pavese8. In Ipazia, infine, trova compimento «la forza
drammaturgica che si sprigiona dalla contesa per l’appropriazione
della materia, tra la rappresentazione in obietco e l’affabulazione
poematica»9, per dirla con Luzi stesso, così come si esprimeva nel primo
dialogo teatrale, pubblicato postumo, Pietra oscura, secondo quanto
evidenziato di recente dallo studioso Daniele Piccini10 in occasione
del convegno presso l’Università Cattolica di Milano in occasione del
centenario della nascita del poeta. Gli elementi tematici di continuità
tra Ipazia e le due raccolte poetiche, Nel magma e Su fondamenti invisibili,
che tra l’altro nella loro fase ideativa e compositiva risultano da invertire
cronologicamente rispetto all’ordine di pubblicazione, dato
8 Mario Luzi, Il valore ciclico di una autobiografia dei sentimenti, in Desiderio di
verità e altri scritti inediti e rari, «istmi», 33, 2014, pp. 77-78. È emerso da questo articolo
scovato da Stefano Verdino tra le pagine della rivista «Libri nuovi. Bimestrale
Einaudi di informazione libraria e culturale», I, 3, dicembre 1968, p. 4, che Luzi fu
lettore postumo delle lirica di Pavese, pertanto non sussiste la possibilità di un
influsso del verso lungo del poeta piemontese su quello del poeta toscano. Vi si
legge in apertura: «Per quanto possa considerami quasi suo coetaneo, la mia conoscenza
dell’opera di Pavese è tutta a posteriori. Non che a suo tempo non avessi
letto almeno qualche suo libro, ma anche per l’inesistenza di rapporti personali –
impensabili del resto, è quasi ovvio – il senso della sua figura mi sfuggiva, sebbene
ne avvertissi frammentariamente l’intensità. Sono anche io un lettore postumo».
9 M. Luzi, in Il purgatorio. La notte lava la mente, Genova, Costa&Nolan, 1990,
p. 75.
10 Daniele Piccini, Sull’elaborazione di Nel magma, in Mario Luzi. Un viaggio
terrestre e celeste, a cura di P. Baioni e D. Savio, Roma, Edizioni di letteratura, 2014,
pp. 3-19.
[ 3 ]
720 rosanna pozzi
non trascurabile in un discorso di indagine circa l’evolversi del discorso
poetico luziano dalla monodia alla polifonia fino al dialogo e al teatro,
sono numerosi e vari, come di seguito si riporta.
Il primo elemento comune, emergente con viva drammaticità, è
appunto la struttura del dialogo, un incontro doloroso tra un uomo e
una donna, tra il poeta e una figura femminile, dialogo che, non a caso,
costituisce anche il primo nucleo della genesi testuale del dramma
Ipazia, come afferma Luzi stesso in Fu così che11, nell’introduzione alla
pièce teatrale. Passando in rassegna le liriche12si trova, infatti, come
tema ricorrente da In due: «– Aiutami – e si copre con le mani il viso /
tirato, roso da una gelosia senile, / che non muove a pietà come vorrebbe
ma a sgomento e a orrore»; «L’amore snaturato, l’amore infedele
al suo principio», «Perché difendere un amore distorto dal suo fine,
/ quando non è più crescita / né moltiplicazione gioiosa d’ogni bene
/ ma limite possessivo e basta». In Pensiero fluttuante della felicità si
legge inoltre: «Tu che avevi in me il tuo bene», così come nel dramma
Ipazia ritorna con parole poco variate il tema di una felicità conclusa,
di un bene finito: «Ma avevi in me, dicevi, la misura della vita, /trovavi
in me la giustezza dei tuoi pensieri. /Ti piaceva la mia solidità di
donna che ti richiamava al vero»; oppure «se n’è andata: Con il suo
destino infido che l’ha giocata, / con il trabocchetto d’amore irreparabilmente
possessivo in cui è caduta»; «Il nodo infatti…Talora diventa
un cappio che ci stringiamo addosso / con i nostri movimenti d’annegati
»; e ancora «Mi rimproveri il mio amore? Ti fa paura? / Non dico
questo, dico: non tramutarlo in una rete / dove guizzano in cattività
come pesci moribondi». Si riscontra una notevole vicinanza tematica
tra questi ultimi versi citati tratti dal dialogo tra Jone e Sinesio e la
poesia In due da Nel magma, nella quale sono a confronto, dialoganti,
al limite del non dialogo, dell’incomprensione due voci, una maschile
e l’altra femminile, proprio come nel «doloroso contrasto», con probabili
risvolti autobiografici, dei due personaggi della piéce teatrale. Sul-
11 M. Luzi, Fu così che, in Libro di Ipazia, Milano, Rizzoli, 1978, a pagina 41 si
legge: «Inopinatamente buttai giù alcune frasi di un dialogo e questo dialogo con le
sue alternanze di ritmo andò fino in fondo: due persone parlavano del loro amore
e della trasformazione non equanime e non uniforme che aveva subito: un doloroso
contrasto in cui si esprimevano nella loro voce rispettiva e subito inconfondibile
due persone, due esistenze con le loro ragioni […] fatto sta che all’improvviso furono
le voci di Sinesio e di Jone e queste trascinarono nel loro diverbio le voci di altri
che riconoscevo come figure storiche o possibili che si dibattevano intorno a loro».
12 Per tutte le citazioni delle liriche di Luzi si fa riferimento a Luzi. L’opera poetica,
a cura di S. Verdino, Milano, Arnoldo Mondadori, 1988.
[ 4 ]
ipazia e la parola 721
la casistica del dialogo in Nel magma e sulle sue declinazioni all’insegna
dell’agonismo, dell’antagonismo, dell’intesa, della dimensione
privata, politica o civile, si rimanda al già citato saggio di Stefano Verdino
dedicato all’analisi di Nel Magma e vi si scopre, per dirla con l’italianista
genovese, «nell’articolazione dello spazio, nell’impegno
narrativo e anche drammatico» di questa raccolta poetica, gli elementi
primi e fondanti di Ipazia. Ad esempio, la varietà tipologica dei dialoghi
di Nel magma evidenziati da Verdino (politico e civile Presso il
Bisenzio, privato Il giudice, ideale Tra notte e giorno, la crisi di coppia In
due, l’alterco Tra quattro mura e anche gli incontri D’intesa, Ménage, Nel
caffè, Prima di sera) si ritrova scena per scena in Ipazia e poi ne Il messaggero:
il tema politico, infatti, attraversa le parole del prefetto Oreste, di
Gregorio e successivamente quelle di alterco di Demetrio e Dionigi; il
dialogo privato si trova nel diverbio tra Jone e Sinesio, nell’incontro
tra gli amici Sinesio e Gregorio, nell’affettuoso addio tra Ipazia e il
discepolo; infine il dialogo ideale è presente nella funzione meditativa
affidata al Prologo e all’Epilogo e nelle riflessione pensosa di Sinesio,
in apertura de Il messaggero, e più in generale nel tono di autoanalisi
del secondo tempo drammatico. A conferma della Stimmung persistente
tra Nel magma e Su fondamenti invisibili e l’opera drammatica in
questione (inevitabile anche per motivi cronologici sincronici di stesura)
è il ricorrere, in maniera simile, sempre variata ed accresciuta dal
tempo, dal dolore e dall’esperienza, di alcune costanti tematiche ben
individuabili: la mancanza d’amore, che si tramuta inevitabilmente in
violenza e nella necessità di un messaggio e di una testimonianza di
più amore; la denuncia e l’autodenuncia dell’errore della fissità del
giudizio, solitamente affiancata alla tensione drammatica al mutamento,
al lasciare sempre aperta la possibilità del riscatto, per non cadere
nell’inferno, che è per dirla con Luzi «il luogo e il tempo in cui la
speranza è definitivamente delusa»13; il tema della divisione e della
tensione all’unità, all’armonia, insieme a quello della continua metamorfosi
del farsi e disfarsi del reale e del suo tendere ad un grumo
oscuro, misterioso ed enigmatico: l’origine continua, la sorgente perenne.
Da segnalare è inoltre anche il tema del sogno, di immagini tra
sonno e veglia, tra notte ed alba, di confusione labirintica in cui si
manifesta un dono inopinato, una Voce «antica / più umana dell’uomo
», «una fonte di Grazia inesauribile–ad matutinum, au Cristus venit
», come si legge in calce a Il pensiero fluttuante della felicità.
13 M. Luzi, in L’inferno e il limbo, Il Saggiatore, Milano, 1964, p. 19.
[ 5 ]
722 rosanna pozzi
Di una certa importanza è inoltre, in linea con il titolo del presente
convegno, il tema della comunicazione di parole e della Parola attraverso
la voce, una voce probabilmente Altra che si rivela in modo inatteso
in alcuni elementi naturali; da Nel magma si legge significativamente:
«Il fiume allora ha una voce sola / o vitale o mortale chi l’ascolta
/ ha un cuore solo o grave o tempestoso. / Tu che tieni stretto il filo
/ di rete nel labirinto / dove sei che si scinde in tante voci / la voce
che mi guida – esclamo io / compagno fedele o ombra» (Il fiume); oppure
voce che si comunica di primo mattino tra sonno e veglia e invocata:
«Voce che trasale dal sonno / dai dedali del risveglio… / Dammi
tu il mio sorso di felicità prima che sia tardi / mi chiedo io tra il sonno
non sapendo altro di lei / se non oscuramente che un dolore antico
quanto l’uomo / l’incalza e l’accompagna / e avverto intanto la notte
nel suo ultimo, / più frenetico balzo verso l’alba… / E vedo di lì a
poco, mentre un po’ dormo e un po’ penso, / un’acqua meravigliosa
…» (Pensiero fluttuante della felicità). Anche in Ipazia, nella didascalia
della terza scena, intitolata non a caso «dormiveglia di Ipazia», il lettore-
spettatore è introdotto nel bel mezzo di una rivelazione: Una voce
la esorta al sacrificio totale di sé perché la verità sia comunicata,
testimoniata nel mondo. Ipazia, infatti, ha il compito di comunicare la
verità con la luminosità e l’ardore del fuoco della sua predicazione in
Alessandria: «Niente si addice alla parola più che la temperatura del
fuoco», perché è consapevole che «il pensiero senza parola è niente /
la verità non comunicata s’inaridisce e si corrompe». Con il suo sacrificio
Ipazia comunica ad Irene, altro personaggio femminile della
piéce, un’eredità importante: «Solo una lunga vita matura la parola /
e solo la prova la giustifica». Significativa in tal senso è la nota che
Stefano Verdino ha scritto per presentare la pubblicazione di un appunto
inedito di Mario Luzi su Ipazia14, nel quale si evidenzia in forma
di brevissimo autocommento come il percorso poetico di Luzi si delinei,
per dirla con Verdino, a partire da una «fase ermetica, con un linguaggio
dall’effetto convulso e visionario, antirealistico, fino ai passaggi
successivi di un recupero di un linguaggio di comunicazione
non più di proprietà individuale»15. Una parola condivisa, una parola
da comunicare, da gettare come un seme e da diffondere è infatti il
compito lasciato da Ipazia a Sinesio ne Il messaggero. Ecco che Ipazia,
personaggio femminile identificabile con Cristina Campo, studiosa
14 M. Luzi, Appunto inedito su Ipazia con una nota di Stefano Verdino, in Figure di
Ipazia, Roma, Aracne, 2014, pp. 159-163.
15 Ivi, p. 161.
[ 6 ]
ipazia e la parola 723
per la quale fu fondamentale il «sapore massimo di ogni parola»16, con
la sua morte rappresenta il sacrificio della poesia ermetica, della «perfetta
geometrica del suo pensiero», della parola filosofica pura del platonismo
e del logos greco, a favore di una Parola intesa come testimonianza,
comunicazione ed apertura a «tutta l’enorme distesa del diverso,
del brutale, del violento». Significativo è scoprire, sempre grazie
a Stefano Verdino, che nel 1977 (25 settembre 1977)17 sulle pagine
de «L’Osservatore Romano» Luzi dedicava a Paolo VI, nella ricorrenza
del suo ottantesimo compleanno una scena del Messaggero, poemetto
drammatico non ancora pubblicato, ispirato alla figura di Sinesio,
che come Paolo VI, fu nella storia della chiesa cattolica uomo del dialogo,
incline all’apertura e alla comunicazione.
Rosanna Pozzi
Università degli Studi dell’Insubria
16 Sulla possibile identificazione tra Ipazia e Cristina Campo si legga il contributo
della scrivente Dalla storia alla scena: il “Libro di Ipazia” di Mario Luzi, in Atti del
Congresso Nazionale ADI – Alghero-Sassari, 19-22 Settembre 2012, a cura di G.
Baldassarri, V. Di Iasio, P. Pecci, E. Pietrobon e F. Tomasi, Roma, ADI Editore,
2014, leggibile on-line al seguente indirizzo www.italianisti.it; riferimenti al tema
sono contenuti anche in La città e la donna nel “Libro di Ipazia” di Mario Luzi, leggibile
in Figure di Ipazia, a c. di G. Sertoli, “Studi e testi di Palazzo Serra”, Roma, Aracne,
2014, pp. 143-158.
17 Nel già citato Appunto inedito su Ipazia con una nota di Stefano Verdino si legge
che un’anticipazione del dialogo tra Sinesio e Dionigi, scena seconda, fu pubblicato
sulle pagine de «L’Osservatore romano» in occasione dell’ottantesimo compleanno
del pontefice e preceduto dalla seguente dedica: «Da un mio poemetto drammatico
del tutto inedito, ispirato a Sinesio, vescovo di Cirene in un tempo terribile,
ho isolato questo brano che dedico con affetto a Paolo VI nel suo ottantesimo».
[ 7 ]

FABIO MOLITERNI
Dar fuoco alle polveri. Sciascia e il barocco
Al di là delle occorrenze testuali disseminate nella scrittura di Sciascia e riferibili
al barocco, si può sostenere che tutta la sua opera risente di quella «nevrosi
da ragione, di una ragione che cammina sull’orlo della non ragione» di cui egli
stesso parlava nel libro-intervista La Sicilia come metafora. Isolando alcuni passi
ritagliati e frammenti-campione, cogliendo certe microscopie stilistiche diffuse
capillarmente nel tessuto della scrittura di Sciascia, l’obiettivo di questo saggio
consiste nell’individuare tra i suoi testi alcuni specifici passaggi che meglio di
altri sono in grado di reagire con il termine e con il significato più profondi del
barocco.

Leaving aside textual occurrences in Sciascia’s writing related to the baroque, it
may be stated that his entire literary output mirrors that “neurosis of sense, of
a sense that tiptoes on the edge of nonsense” mentioned by the author in his
book-interview La Sicilia come metafora. Isolating particular passages and
sample fragments, focusing on certain stylistic details strewed within Sciascia’s
writing, this essay aims at identifying specific passages that are especially well
suited to the term and deepest meaning of the baroque.
1. Prima di incominciare sono necessarie alcune precisazioni in
merito al titolo del mio contributo. L’invito a «dar fuoco alle polveri»
proviene da una lettera di Italo Calvino datata 26 ottobre 1964. Per gli
studiosi di Sciascia questo documento ha costituito da sempre un importante
abbrivio non solo per valutare le reazioni dei lettori di prestigio,
protagonisti del campo letterario del periodo, nei confronti dell’opera
in fieri dello scrittore siciliano; ma soprattutto per collocare la sua
scrittura nei tempi lunghi della modernità e della cultura italiana ed
europea, partendo dal presupposto che ci troviamo di fronte a una
scrittura complessa, quasi misteriosa, molto più ricca e sfaccettata di
quanto solitamente ci raccontano i manuali e le storie letterarie. Leg-
Autore: Università del Salento; professore aggregato; fabio.moliterni@unisalento.
it
726 fabio moliterni
giamo uno stralcio della lettera. Calvino era reduce dalla lettura
dell’Onorevole, opera teatrale in tre atti che esce per Einaudi nel 1965:
Ho letto l’Onorevole. Per i primi due atti ho ammirato la tua abilità
nello sviluppare una satira di moralità civile la più persuasiva e precisa
in un racconto che scorre senza mai una stonatura né una forzatura…
Nello stesso tempo, mi dicevo: «Ma è possibile che questo accidente
di uomo sia sempre così controllato e cosciente e funzionale
nella sua missione di moralista civile, possibile che mai salti fuori lui in
persona col suo dèmone, il suo momento lirico e privato in contrapposizione
a quello pubblico e storico, il suo “mito”, la sua follia». Domanda
su di te, questa, che non è la prima volta che mi pongo […]. Tu sei
ben più rigorosamente illuminista di me […], ma tu hai, subito dietro
di te, il relativismo di Pirandello, e […] continuamente tenuta presente
la continuità Spagna-Sicilia: una serie di cariche esplosive in confronto
alle quali le mie sono poveri fuochi d’artificio. Io mi aspetto sempre
che tu dia fuoco alle polveri, le polveri tragico-barocco-grottesche che
hai accumulato. E questo potrà difficilmente avvenire senza un’esplosione
formale della tua levigatezza compositiva. Vorrei finalmente vedere
in faccia il tuo demone, sentire la sua vera voce. (Il demone individuale
sarà espressione di una forza storica pure lui, se siamo storicisti
davvero)1.
Le espressioni e i rilievi che più ci interessano sono relativi a una
sorta di inibizione o divieto che, secondo Calvino, in uno schema latamente
freudiano, rischiano di accompagnare tutta l’opera di Sciascia:
ci troveremmo di fronte a un tenace «super-io» (la funzione e la «missione
di moralista civile», il «momento pubblico e storico»), a un severo
vincolo di partenza o a un obbligo «morale» che reprime, castra e
contiene il piano del «mito» o dell’inconscio, della fantasia e della
«follia», appunto le «polveri tragico-barocco-grottesche» che costituirebbero
invece il «demone» privato, la «vera voce» oltre che il retroterra
più autentico della sua scrittura.
E qui siamo arrivati alla seconda parte del titolo del mio intervento,
con quella congiunzione (Sciascia e il barocco) da intendere nel suo
senso più preciso. Non sarà mia intenzione impostare un discorso organico,
che richiederebbe molto più spazio, sui termini con i quali
l’autore affronta il problema o la questione del barocco. Mi limiterei a
dire che anche al di là delle occorrenze testuali disseminate nella sua
scrittura e riferibili a questo lemma specifico (in verità non numerose
e quasi sempre legate agli aspetti convenzionali, puramente esteriori
1 Italo Calvino, Lettere 1940-1985, Milano, Mondadori, 2000, pp. 827-830.
[ 2 ]
dar fuoco alle polveri. sciascia e il barocco 727
o architettonici dell’arte siciliana), tutta la sua opera risente di quella
«nevrosi da ragione, di una ragione che cammina sull’orlo della non
ragione» di cui lo stesso Sciascia parlava nel libro-intervista La Sicilia
come metafora2. E che la visione del mondo dello scrittore siciliano dialoga,
direttamente o indirettamente, in maniera scoperta o sotterranea,
con una lunga e illustre tradizione che ha insistito sulla modernità
e sulla «nativa complessità» del barocco3, sull’attualità dello «sconvolgimento
gnoseologico» e del «sovvertimento» del modo di vedere
e di conoscere il mondo inaugurati dalla civiltà letteraria e artistica del
Seicento italiano, europeo e mediterraneo.
Il barocco, dunque, inteso alla maniera di Vittorio Bodini come
«deformazione» espressionistica del reale («Per me barocco è rivolta»,
scriveva il poeta salentino a Oreste Macrì)4: non solo fenomeno di stile
ma «forza storica» nel suo significato più profondo (di «barocco profondo
» parlava infatti Ezio Raimondi, per definire la «baroccaggine»
di Carlo Emilio Gadda)5. In definitiva, guardando ai riverberi contenuti
nella lettera di Calvino e a come essi si prestano a illuminare il complesso
dell’opera sciasciana, possiamo sostenere che – pur nelle misure
della violazione della norma, magari nelle forme del ritorno del represso
o del rimosso – nella memoria culturale di Sciascia abbiano
agito, accanto alla vena ragionativa e ai valori di un illuminismo civico
e autocritico, proprio certi «demoni meridiani e notturni»6 di un baroc-
2 Leonardo Sciascia, La Sicilia come metafora, Milano, Mondadori, 1989, p. 5.
Ma per questi aspetti rinvio a una ormai consolidata bibliografia critica: cfr. almeno
Antonio Di Grado, Quale in lui stesso alfine l’eternità lo muta, Caltanissetta,
Edizioni Sciascia, 1999; Giuseppe Traina, Una problematica modernità. Verità pubblica
e scrittura a nascondere in Leonardo Sciascia, Acireale-Roma, Bonanno, 2009.
3 Cfr. Andrea Battistini, Vittorio Bodini e il demone gnoseologico del barocco, in
Vittorio Bodini fra Sud ed Europa (1914-2014), Atti del Convegno Internazionale di
Studi Lecce-Bari, 3-4-9 dicembre 2014, a cura di Antonio Lucio Giannone, Nardò
(Le), Besa, 2017, I, p. 190.
4 Vittorio Bodini, da una lettera a Macrì datata «18 giugno 1946» (vedi ora il
carteggio integrale, Vittorio Bodini-Oreste Macrì, In quella turbata trasparenza.
Un epistolario 1940-1970, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 2016).
5 Ezio Raimondi, Il colore eloquente. Letteratura e arte barocca, Bologna, Il Mulino,
1995, p. 4.
6 L. Sciascia, A ciascuno il suo, Torino, Einaudi, 1966, ora in Opere. Narrativa
Teatro Poesia, a cura di Paolo Squillacioti, Milano, Adelphi, 2012, I, p. 577 (d’ora
in avanti con la sigla OAI e il numero di pagina; così anche per le altre citazioni
provenienti da L. Sciascia, Opere. Inquisizioni e Memorie, a cura di Paolo Squillacioti,
Milano, Adelphi, 2014 vol. II, t. I, con la sigla OAII a cui seguirà l’indicazione
di pagina).
[ 3 ]
728 fabio moliterni
co vissuto nella dimensione di «categoria del pensiero», fatto non solo
stilistico ma ontologico, quasi metafisico o metastorico per come lo
interpretava non senza forzature Eugenio d’Ors7: una visione della vita
inquieta, per certi versi tragica e angosciata, orfana di trascendenze,
un atteggiamento dell’uomo verso il mondo all’insegna dell’horror vacui,
della melancolia e del desengaño, del vivir desviviendose8.
L’obiettivo del mio intervento sarà molto più limitato e circoscritto,
e consiste nell’individuare tra i testi sciasciani alcuni specifici passaggi
che meglio di altri sono in grado di reagire con il termine e con il significato
più profondi del barocco. Nel rispondere a Calvino, come dire,
per interposta persona, adopererò un procedimento di analisi testuale,
isolando alcuni passi ritagliati, pericopi e frammenti-campione, cogliendo
certe microscopie stilistiche diffuse capillarmente nel tessuto
della scrittura di Sciascia, e intrise proprio di quelle «polveri tragicobarocco-
grottesche» e di quel «demone individuale» sulla cui latenza
si soffermava l’illustre amico e editor einaudiano.
2. Nel 1949, un anno prima dell’esordio ufficiale della sua carriera
di scrittore (le Favole della dittatura escono nel 1950), Sciascia pubblica
su «La Sicilia del popolo» un articolo-elzeviro intitolato Palermo barocca9.
Si tratta di un testo che si potrebbe riportare alla tipologia dell’elogio
o della celebrazione della città, ricorrente nel campo della lirica
marinista e comunque della letteratura barocca10, condotto in uno stile
7 Eugenio d’Ors, Del barocco, a cura di Luciano Anceschi, Milano, SE, 2011
(in prima traduzione italiana nel 1945).
8 Cfr. L. Sciascia, in Opere 1956-1971, a cura di Claudio Ambroise, Milano,
Bompiani, 2000, p. X: «L’umano nella sua forma più esasperata, estrema, micidiale
anche; l’umano al limite del vivibile. Per dirla con un’espressione di Américo Castro,
l’umano che ha raggiunto il punto del “vivir desviviendo”, del vivere disvivendo:
che è quel che accade ai personaggi di Pirandello. Il punto, insomma, più
vicino alla morte, ma in cui si raccoglie tutto il senso, tragico, quanto si vuole della
vita».
9 L. Sciascia, Palermo barocca, «La Sicilia del popolo», 14 giugno 1949. Vedi poi
un altro suo articolo più tardo sullo stesso tema, Il mercato di Palermo in un quadro
di Guttuso (sulla Vuccirìa), «Corriere del Ticino», 11 gennaio 1975. Su questo cfr.
Marco Pioli, Leonardo Sciascia, la Sicilia e la Spagna: «Barocco del sud», in I cantieri
dell’italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo, Atti del
XVIII Congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti Padova, 10-13 settembre
2014, a cura di Guido Baldassarri, Valeria Di Iasio, Giovanni Ferroni, Ester
Pietrobon, Roma, Adi editore, 2016, pp. 1-12.
10 Giovanni Getto, Il Barocco letterario in Italia, Milano, Bruno Mondadori,
2000, p. 75.
[ 4 ]
dar fuoco alle polveri. sciascia e il barocco 729
che si allontana dalla pagina puramente giornalistica, e che risente invece
dell’educazione letteraria del giovane Sciascia, spesa, come è noto,
sui testi dei rondisti e dei maestri della prosa d’arte11. Anche per la
brevità dell’elzeviro, si vedrà che diversamente da altri suoi reportage
siculo-spagnoli e da altre prose secondo-novecentesche di area meridionale,
consacrate alla declinazione del tema del barocco inteso come
stile architettonico dominante e come metafora esistenziale delle città
o delle «anime» del Sud (penso in particolare alla Lecce di Bodini e
alla sua prosa Barocco del Sud, pubblicata nel 1950)12, qui Sciascia non
sospende il piano narrativo-descrittivo e non ricorre quasi mai al commento
per fissare le risultanze, provvisorie e frammentarie, del suo
itinerario tra i luoghi e gli emblemi del capoluogo siciliano: «Una progressione
del barocco, scrive, alla cui osservazione inviteremmo un
grande innamorato del Barocco: lo spagnuolo Eugenio d’Ors. Perché
qui tutto è barocco […]: intendiamo il barocco della vita, il barocco che
[…] si respira». Sulle orme di Eugenio d’Ors, facendosi surrogare nella
scrittura da un’immersione si vorrebbe dire fenomenologica o fisiologica
nel «ventre» della città, in Palermo barocca lo stile di Sciascia è tutto
riassorbito nel suo sguardo, sollecitato in tutte le sue possibilità espressive,
in particolare per quanto riguarda l’aggettivazione. Leggiamo
qualche estratto che si riferisce alla vuccirìa, il mercato palermitano:
Sul tonno disposto in sesione sul piano di marmo, come un tronco d’albero
accuratamente segato e sanguinante, un gran mazzo di rose rugiadose
[…]. E il polipo come un tema sovrano: il motivo di un nodo
mostruoso che si scioglie in un ornato tentacolare […]; e qualcosa intorno
che stagna vorace, un flusso che si ferma avido a corrompere una
ricchezza sanguinante e succosa. E se il sole è alto, e la luce vibra come
presso a una fornace, il senso di disfacimento si fa più acuto; quasi
fosse in noi stessi, che in quel capriccioso precipitare e disporsi di cibi,
trascegliamo il nostro.
A emergere è «il senso di una carnalità parossistica, frenetica», un
11 Per questo punto, cfr. il saggio recente di Bruno Pischedda, Cecchi e Sciascia.
«Una grossa partita di debito», «Todomodo», VII (2017), pp. 153-165.
12 V. Bodini, Barocco del Sud, «Letteratura / Arte contemporanea», I (1950), n.
6, pp. 52-54, ora in V. Bodini, Barocco del Sud. Racconti e prose, a cura di A.L. Giannone,
Nardò (Le), Besa, 2003, pp. 73-77. Vedi anche un’altra sua prosa intitolata
Pitagora è uno delle nostri parti (1952), ivi, pp. 107-113 (p. 109): «Questa inversione
[barocca] di rapporti pone dei problemi espressivi assolutamente nuovi rispetto a
quelli che suole affrontare la pittura di paesaggio. (Essa produce inoltre incalcolabili
effetti sulle anime)».
[ 5 ]
730 fabio moliterni
universo abitato dal caos e da una reversibilità dell’esistente sospeso
tra la vita e la morte, la luce e le ombre, tra una «serie di immagini»
riposate o «voraci» e le figure di sofferenza fisica, di una «dolente e
sconvolta natura»13: «E in una affocata aureola di frittura l’uomo sente
il proprio corpo pronto a disfarsi, in un torbido bollire di sugna». Un
modo di vedere il reale che sembra animato da un «duplice eccitamento
» policromatico e metamorfico: da un lato la materialità sensuale,
«succosa e sanguinante» delle impressioni e delle cose rappresentate,
i veri e propri «deliri sensori»14 calati nell’inquietudine di forme
e colori; dall’altra le accensioni o gli scatti analogici, i processi di metaforizzazione
della scrittura, quasi sempre di carattere funereo o
mortuario, che coinvolgono tutti i regni della vita, da quello animale
a quello vegetale: «I tre regni della natura precipitano in questa fusione.
Così dal tonno segato a mezzo sboccia il mazzo di rose; il quarto
di vitello si copre di pustole d’oro; il cibo fa foresta, i morti diventano
un’orrenda vena minerale. L’animale aspira alla condizione del vegetale
o del minerale, il minerale a quella dell’animale o del vegetale».
Come si vede, per catturare l’elemento metamorfico di quella pulsante
varietà di corpi o di oggetti, per dare forma a quella dromomania
irrequieta e disorientata dello sguardo, Sciascia ricorre a ciò che è
stata definita «l’estetica della profusione»15, il topos letterario barocco
dell’attenzione ipertrofica prestata alle «cose di natura»16, ai dettagli
organici e inorganici, alle parvenze che animano un reale per definizione
evanescente, inafferrabile e fugace: «L’urgenza, il rovello delle
cose nello spazio: una frenetica guerra con lo spazio […], scrive Sciascia
– ma non nel senso della maniera, nella esplosione dell’artificio: le
cose perdono il loro corpo per conquistarsene un altro o tanti altri…».
E soprattutto, per rendere quel sentimento tragico perché non conciliato
della vita, di una vivacità caleidoscopica sempre sul punto di ingannarsi
e di cedere al vuoto, per dare forma al sentimento della «vita che
muore»17, a quell’ossimoro che non si scioglie tra la fascinazione quasi
carnale per la natura vivente e l’istinto o il senso di morte e «disfaci-
13 G. Getto, Il Barocco letterario in Italia, cit., pp. 71-72. Sulla discendenza tassiana
di questi aspetti del barocco letterario: «Non sono però unicamente gli aspetti
tormentati della natura, sì anche le situazioni squallide e crudeli dell’umana miseria
e sofferenza, che attraggono la fantasia di questi secentisti» (p. 72).
14 Ivi, pp. 423-424.
15 A. Battistini, Il Barocco. Cultura, miti, immagini, Roma, Salerno Editrice, p.
61.
16 G. Getto, Il Barocco letterario in Italia, cit., p. 64.
17 Ivi, p. 83: «Il sentimento del tempo nell’età barocca si fonde con il sentimen-
[ 6 ]
dar fuoco alle polveri. sciascia e il barocco 731
mento» che lo accompagna18, l’autore fa ampio uso delle tecniche del
catalogo e dell’elenco, con effetti di spezzato ritmico garantiti dall’apporto
di una punteggiatura aspra e serrata. Coinvolto in pieno da questa
sorta di fantasmagoria metamorfica e sensoriale, nella quale l’esuberanza
delle cose è inscindibile da un sapore amaro di caducità, Sciascia
sembra alle prese con un vero e proprio esercizio di stile barocco e
quasi concettista per saggiare la tenuta e l’efficacia del ritmo asindetico19
che è caratteristico, come si sa, della enumerazione caotica20: «e
sotto i calamari perlacei, le triglie iridate, il verde lucido degli sgombri,
il grigio dei merluzzi, la lorica grottesca delle aragoste sul verde marcio
delle alghe»; «La frutta in piramidi e colonne, i quarti di vitello lubricamente
dorati, la folta esposizione di carni e visceri, le trippe come
bugnato, le grandi forme di cacio, il lucido scatolame americano – tutto
rovesciato fuori in simmetrie assurde, in ordini tentennanti».
3. Curzio Malaparte parlava degli artisti e degli scrittori barocchi
come di «anatomisti della natura», «agitat[i] e sconvolt[i] da un desiderio
grandissimo di accoppiamenti mostruosi». E aggiungeva che si
trattava però di «anatomisti pazzi»21. Quella spinta compulsiva all’elenco
o all’inventario di oggetti, l’enfasi e l’insistenza sui dettagli abnormi
e irregolari che abbiamo visto agire nella scrittura giovanile di
Sciascia, saranno da interpretare (e qui è ancora Bodini a proporsi come
guida e interlocutore prezioso per il nostro discorso) come la spia
o il sintomo stilistico di una ossessione funebre e malinconica: una
profusione di dettagli e un’oltranza descrittiva e nominale il cui principale
artificio retorico, centrifugo e dispersivo (la giustapposizione
per asindeto) nasconde in realtà un «disperato horror vacui»22, un sento
della vita, della vita presente instabile e fuggevole, della vita che muore e cade
nel nulla».
18 A. Battistini, Il Barocco, cit., p. 10, sulle «opposte vocazioni [barocche], […]
senza che si possa legittimamente presumere una loro possibile conciliazione, […]
del metamorfico che aspira a un approdo immutabile, […] dell’amore per la vita
suggestionato dall’istinto di morte».
19 Ivi, p. 69.
20 G. Getto, Il Barocco letterario in Italia, cit., p. 70 e pp. 81-83.
21 Curzio Malaparte, Italia barbara (1926), in G. Getto, Il Barocco letterario in
Italia, cit., p. 461 (mio il corsivo).
22 «Siamo nelle viscere del Seicento. Ma c’è di più: basta fermarcisi a vivere
pochi giorni perché a poco a poco si faccia strada in noi un sospetto stranissimo,
che essa [Lecce] non sia un luogo della geografia ma una condizione dell’anima, a
cui s’arrivi solo casualmente, scivolando per una botola ignorata della coscienza.
È una condizione folta d’una angoscia che vi insegna essa stessa mille trucchi e
[ 7 ]
732 fabio moliterni
timento tragico della vita – così come è inciso nelle architetture (le catacombe
dei Cappuccini) e tra le bancarelle del mercato di Palermo: «E
finire di scoprire Palermo ai Cappuccini, là dove il barocco si interra,
scrive, come una radice mostruosa: diviene conclusa vicenda di disfacimento,
terrificante essenza minerale».
Ed è interessante notare come l’attrazione di Sciascia per il volto
lussureggiante ma anche lugubre e grottesco del reale, in uno con il
ricorso alle tecniche dell’accumulo e dell’elenco, si palesino quasi
quindici anni più tardi in un passaggio tratto dalla Morte dell’inquisitore,
il racconto-inchiesta ambientato nella Sicilia della Sacra Inquisizione.
Leggiamo la descrizione accurata degli addobbi scenografici che
faranno da sfondo all’esecuzione di fra Diego La Matina, l’uomo «di
tenace concetto» condannato al rogo per eresia in un Seicento inteso
manzonianamente come il «secolo del Male» e degli abusi del Potere.
Nella scrittura sciasciana agisce qui il topos del «teatro nel teatro», il
«minimo comun denominatore» dell’immaginario e del codice letterario
barocco: «l’opposizione – scrive Francesco Orlando – tra realtà e
apparenze»23. Si notino la tendenza al catalogo e lo stile enumerativo
per asindeto, e in particolare i costrutti chiastici e giustappositivi che
anche sul piano ritmico fanno stridere lo «sfarzo pavonesco»24 con il
sapore di morte, l’ostentazione dei colori e dei ghirigori con la nudità
della violenza perpetrata dal Potere:
Drappi di velluto pavonazzo e cremisino, di seta e d’oro; ricchi tappeti;
sedie rivestite di damasco e velluto; cuscini ricamati; rami di cipresso
e di mirto; vasi e candelieri d’argento furono disposti con arte conforme
alla materiale architettura (OAII, p. 217).
Ritroviamo la stessa attenzione o ansia catalogatoria concentrata
sulle cerimonie e sui rituali del Potere in un frammento del romanzo
storico del 1963, Il Consiglio d’Egitto. Dalla descrizione del corteo funebre
dell’ultimo viceré riformatore, il principe di Caramanico, affiorano
passività per mezzo dei quali potersene liberare. La volubilità, i sofismi forensi o
del cuore, gli orologi fermi, la passione del gioco sono altrettanti modi per sfuggire
al senso del vuoto che è alle spalle di quest’estrema pianura dove l’Europa ha termine
»: V. Bodini, Barocco del Sud, cit., p. 75.
23 Francesco Orlando, Illuminismo e retorica freudiana, Torino, Einaudi, 1982,
p. 72.
24 A. Battistini, Il Barocco, cit., p. 11: «La “maschera” e il “teatro” dell’illusorietà
sono contestuali al “telescopio” che mette a nudo ciò che è occulto […], il
“pavone” con il suo inutile sfarzo trova al suo fianco i nudi “scheletri” della
morte».
[ 8 ]
dar fuoco alle polveri. sciascia e il barocco 733
la consueta disposizione all’accumulo e una tensione quasi maniacale,
e per questo rivelatrice, all’ipotiposi e all’elenco, alla cattura degli elementi
visivi e cromatici del reale. Sciascia sembra realizzare un resoconto
distaccato e apparentemente oggettivo della scena, quasi da
cronachista erudito; eppure l’insistenza su certi dettagli iconici e stranianti,
l’enfasi sull’esibizione di potenza, sulle apparenze pompose e
sugli artifici con i quali il Leviatano si addobba finiscono per rivelarne
o smascherarne il lato grottesco, la natura non innocente ma profondamente
ambigua e sinistra, mortuaria:
Un battaglione di cavalleria apriva il corteo. Tra due ali di alabardieri,
solo al centro della strada, con passo lento e con faccia inespressiva,
camminava il capitano di città. Appresso venivano i nobili, vestiti come
lui di nero […]. Seguiva un battaglione di fanteria e la banda musicale
del corpo, dai cui ottoni vibrava, a commuovere le viscere dei bottegai
e dei vastasi, una straziante marcia funebre. Poi la Compagnia dei
Bianchi, quella della Carità, quella della Pace; i figliuoli dispersi, bastardi
di ruota ed orfani; i cappuccini, i benedettini, i domenicani, i teatini;
il capitolo e il clero della cattedrale; i cantori di cappella, col torcetto
acceso in mano, che levavano lugubre coro; gli alabardieri di palazzo;
la bassa servitù con livrea abbrunata che recava le due casse,
una rivestita di nero e l’altra di rosso, su cui spiccavano gli stemmi dei
d’Aquino (OAI, p. 417).
Fino all’apparizione del carro del morto:
Adagiato su una bara coperta da un drappo di seta e d’oro, don Francesco
d’Aquino, principe di Caramanico, viceré di Sicilia, pareva un’otre
a metà sfiatata cui avessero sovrapposto la cerea insegna di due
mani incrociate e applicata una testa tutta naso, da carnevale. Lo portavano
a spalla e lo circondavano confrati delle tre nobili Compagnie,
lo seguiva il principe di Trabia, secondo titolo del Regno, e il pretore
con tutto il senato e i suoi ufficiali. Poi ancora la cavalleria; e il reggimento
degli Svizzeri, le carrozze di corte e del senato. Chiudevano il
corteo quattro cavalli di gran razza ingualdrappati di nero, ciascuno
tenuto per il morso da un palafreniere. In altri tempi, i quattro splendidi
animali sarebbero stati, a cerimonia finita, svenati: e il popolo ne
stimava il prezzo e ne faceva compianto, non sapendo che questa volta
sarebbero stati ragionevolmente risparmiati (OAI, pp. 417-418).
4. La letteratura barocca è secondo Raimondi una letteratura «di
comportamento visivo»25. Eppure, per interpretare questi modelli po-
25 E. Raimondi, Il colore eloquente. Letteratura e arte barocca, cit., p. VIII.
[ 9 ]
734 fabio moliterni
lisemantici e ambivalenti di simbolizzazione e per risalire all’origine
di questo modo di guardare e di registrare la presenza degli oggetti,
per spiegare la natura di questa fascinazione per i dettagli e per la
varietà contrastante delle cose, dove le parvenze del reale si caricano
di un senso ulteriore, misterioso e negativo, forse non è sufficiente ricorrere
soltanto alla memoria culturale di area barocca, a quel barocco
mediterraneo, tra hispanidad e sicilitudine («la continuità Spagna-Sicilia
» di cui parlava Calvino), che indubbiamente, come stiamo vedendo,
è l’humus di certe soluzioni formali adottate da Sciascia nella sua
scrittura. Al filtro di quella cultura letteraria e visiva si univano le tracce
del vissuto personale, i segni di un trauma biografico, non a caso di
natura sensoriale (in questo caso prevalentemente di tipo uditivo), di
cui si legge in un’intervista rilasciata da Sciascia a Franco Loi nell’aprile
del 1989, pochi mesi prima della morte, ritrovata e pubblicata
solo di recente:
Ho i ricordi della scuola elementare, i ricordi di un freddo terribile,
perché le aule scolastiche erano in vecchi conventi, in vecchie rimesse,
nelle scuderie […]. A un certo punto, superate le prime due classi elementari,
sono andato in una scuola che era sottostante alla caserma dei
Carabinieri, freddissima, piena di salnitro, di muffa, e lì credo di avere
avuto un’esperienza che mi ha segnato proprio per tutta la vita. Erano
i tempi di Mori, delle repressioni di Mori, per cui la Polizia e Carabinieri
non andavano assolutamente per il sottile, c’erano questi nuclei di
Polizia Giudiziaria che erano tremendi. Ci sarebbe voluto altro che Beccaria,
insomma. La tortura veniva praticata in modo terribile. E lì ogni
tanto si sentivano le grida, i gemiti degli arrestati, che per me era una
cosa terribile […]. A me faceva un certo orrore, mi dava una specie di
incubo, da lì io credo di aver tratto questo primo germe d’insofferenza
nei riguardi della violenza che veniva fatta dalla parte del diritto26.
Del resto, la rappresentazione dei volti, degli istituti o degli spazi del
Potere ha sempre comportato, nella scrittura di Sciascia, un innalzamento
del tasso di figuralità (e si vedano allora nella descrizione del corteo
funebre le marche di una letterarietà ricercata o pregiata, gli intensificatori
aggettivali, il lessico colto e desueto, la sintassi franta e spezzata, la
successione delle frasi nominali e le forme ipotattiche, a spirale)27: o me-
26 Franco Loi – Leonardo Sciascia, «Un mio amico dice che la democrazia cristiana
è un fatto prodigioso», conversazione andata in onda l’8 aprile 1989 alla Radio
Svizzera Italiana (RSI), ora «Todomodo», VII (2017), pp. 3-9 (pp. 4-5).
27 R imando ancora allo studio di B. Pischedda, Cecchi e Sciascia. «Una grossa
partita di debito», ivi, p. 161.
[ 10 ]
dar fuoco alle polveri. sciascia e il barocco 735
glio un cortocircuito, tipico ancora una volta delle poetiche barocche,
tra l’accentuazione della notazione realistica, l’attrazione per l’entità
materica delle cose e dei corpi, assunti nella loro natura immanente,
sensoriale e fisiologica, e la scoperta o il disvelamento del lato oscuro
e allegorico del reale.
È quanto emerge dalle scene della tortura di Francesco Paolo Di
Blasi, uno dei protagonisti del romanzo del 1963, l’avvocato condannato
a morte per aver organizzato una congiura giacobina nella Palermo
di fine Settecento. La crudeltà rappresentativa, l’esibizione a tratti
sgradevole del supplizio e i dettagli macabri dell’agonia assumono le
forme di una «vera e propria iconografia del dolore»28; e gli elementi
truculenti dello strazio fisico e del martirio si compenetrano con le
metafore o con le analogie quasi ricercate («Il suo corpo era un contorto
tralcio di vite, una vite di dolore», OAI, p. 467). Il decoro o i preziosismi
del lessico e della sintassi (l’anadiplosi e il chiasmo, l’uso astratto
della preposizione «di», la dislocazione delle forme verbali, le reggenze
arcaizzanti in «a»), si sovrappongono alla presenza di innesti
linguistici popolari e a quel gusto anatomico per la descrizione o per
la dissezione dei corpi che avevamo già intravisto nella prosa di Palermo
barocca (faccio notare il ritorno del lemma degradato «sugna»):
Il dolore colava nella sua mente come inchiostro, ad accecarla. Il suo
corpo era un contorto tralcio di vite, una vite di dolore: grave di racimoli,
incommensurabile. I racimoli di sangue, l’oscuro sangue dell’uomo.
[…] Disteso sul tavolaccio, si guardava in iscorcio i piedi, […] i
piedi informi come le zolle che si attaccano agli arbusti sradicati, sanguinolente
e grommose zolle di carne. E facevano lezzo di unto bruciato,
di decomposizione. […] Si tolse le scarpe: […] ché ora bisognava
togliere le calze, dal sangue e dal pus aggrumate ai piedi; toglierle di
colpo, con terribile decisione della volontà e della mano. […] Il lardo
squagliato, bollente, sarebbe stato questa volta l’elemento della tortura:
invece del fuoco che, a opinione del medico, il reo non sarebbe più
stato in grado di sopportare. […] Nella tannura il lardo, ormai liquido,
gorgogliava. Quel greve odore di cucina nella camera di tortura un po’
lo distraeva dal feroce dolore. C’era qualcosa di grottesco, di ridicolo,
in quegli uomini, sbirri e giudici, che si muovevano intorno al lardo
che squagliava: così come in cucina le donne, all’ultima scanna del
porco, preparano la sugna (OAI, pp. 467; 493-494).
La vista innesca il visionario producendo una sorta di realismo fi-
28 Lavinia Spalanca, Leonardo Sciascia. La tentazione dell’arte, Caltanissetta-
Roma, Salvatore Sciascia Editore, 2012, p. 76.
[ 11 ]
736 fabio moliterni
siologico ed espanso, liberato, che fa uso di modalità espressionistiche
e grottesche, con una serie di frizioni pluristilistiche a carattere espressivo:
il primato del reale, del materico, assume forme visionarie o dissonanti
perché viene sottoposto a processi di intensificazione e deformazione,
la verosimiglianza si accompagna alle forme di una allucinata
immaginazione analogica: «Il tuo corpo non ha più niente d’umano:
è un albero di sangue. Di colpo precipitò in un mare buio, il cuore come
un’ala spezzata» (OAI, p. 468). Il sublime è sempre sul punto di
rovesciarsi nel grottesco, le similitudini o le metafore astratte nell’informe
(e viceversa). E soprattutto l’insistenza marcata sulla dimensione
della sofferenza fisica (i piedi, ma anche il sangue, «l’oscuro sangue
dell’uomo», le piaghe della carne) si dispiega in tutto il suo portato
insieme iper-realistico, «carnevalesco» e metafisico (di «pathos metafisico
» presente in certa letteratura barocca parla Andrea Battistini)29.
A dispetto dell’ambientazione settecentesca, tutto il romanzo è
percorso da un sostrato tenebroso, spagnoleggiante e goyesco, un universo
a tratti feroce e straziato del quale Sciascia esplora il lato in ombra
e le zone più estreme sospese tra la vita e la morte, ai limiti di un
nullismo o di un pessimismo quasi apocalittico che ritroveremo disseminati
nelle sue opere (penso in particolare a Todo modo o al tardo Cavaliere
e la morte). E che qui si concentrano e si esemplificano, non a
caso, nella citazione di alcuni versi di Luis de Góngora (si tratta del
distico finale del sonetto Mientras, por competir con tu cabello). Incastonate
nel monologo interiore convulso e allucinato del Di Blasi, le anafore
(in spagnolo nel testo) funzionano come preludio e contrappunto
ritmico a un regime discorsivo onirico o comunque sospeso tra sonno
e veglia, che si traduce a sua volta in un elenco quasi testamentario di
oggetti e di elementi naturali la cui bellezza luminosa, insidiata dalla
morte, sfiorisce ormai nella nullità del ricordo e del rimpianto:
Mas tú y ello juntamente en tierra en humo en polvo en sombra en nada…
[…] Il fatto è che stai amando ora la vita come mai l’hai amata, come
mai hai saputo amarla. Ora sai che cos’è l’acqua, la neve, il limone,
ogni frutto, ogni foglia: come se tu ci fossi dentro, come se tu fossi la
loro essenza’. […] Le arance che ormai si facevano rare e avevano più
dolce e forte sapore, come di passito; e i limoni, i limoni e la neve: i
bicchieri appannati di gelo, l’acuto profumo… Il chiostro di San Giovanni,
la chiesa, le cupole rosse, i grandi alberi col loro fragrante carico.
Non li vedrai più (OAI, p. 479).
29 A. Battistini, Il Barocco, cit., p. 119.
[ 12 ]
dar fuoco alle polveri. sciascia e il barocco 737
Il sapore di vita degli aspetti più intensi del reale precipita nel sentimento
del suo contrario: «vale a dire, scrive Sciascia a commento
della poesia gongorina, che la realtà viene per troppo amore soppressa,
liquidata nel punto stesso della massima esaltazione». Di questa
«esaltazione» – tipicamente barocca – «della realtà fino al limite del
nulla (non del “nada” poetico, […], ma del “nada” esistenziale)»30,
Sciascia aveva offerto nel Consiglio d’Egitto, poche pagine prima delle
scene della tortura, una rappresentazione icastica sospesa tra parole e
immagini, sulla quale potrebbe terminare questo breve sondaggio intorno
alle forme grottesche, visionarie o espressionistiche che segnano
a tratti la mescola stilistica, le pieghe meno esplorate, i punti ciechi o
le «cicatrici» della sua scrittura. Sono soltanto le tracce di un lavoro
ancora da svolgere nella sua completezza. Tenendo conto, per esempio,
che in altri momenti dell’opera sciasciana (a partire almeno dal
Contesto), se è vero che le «immagini della morte» in contrasto con le
«modulazioni della gioia» di vivere, la reversibilità e la «dialettica tra
apparenza e realtà, verità e finzione», i giochi di luci e ombre verranno
declinati nelle forme di quella sintassi franta e di quello stile elencatorio-
anaforico, ricorrendo spesso alla figuralità zoomorfa e a quella
stessa «dimensione puramente visiva» che abbiamo colto fino ad ora
nei testi presi in esame31, è vero anche che questi aspetti più irregolari
o «notturni» della sua scrittura assumeranno via via una coloritura
che vira decisamente verso il surreale e il metafisico, tra Kafka, Borges
e Goya. Spingendosi, come dirà Sciascia a proposito dell’opera di un
pittore da lui molto amato come Fabrizio Clerici, oltre le soglie del
visibile: «L’esistenza si è come distillata e come essenzializzata nel nero
e nel bianco; del mondo reale altro non resta, nella retina, che la
fosforica memoria di un ordine e di una logica spaziale in cui si iscrivono
le cose di una vita sommersa, di una sommersa morte. La logica
del visibile si è messa al servizio dell’invisibile»32.
Ma per concludere torniamo al Consiglio d’Egitto. Di Blasi è reduce
da un «convegno d’amore» con una delle sue amanti. Ancora una volta
la scena è descritta facendo ricorso allo stile elencatorio, la punteggiatura
serrata frammenta la frase, le anafore e gli effetti di ornato
30 L. Sciascia, Le «Soledades» di Lucio Piccolo (1967), in Estela González de
Sande, Leonardo Sciascia e la cultura spagnola, Catania, La Cantinella, 2009, p. 130.
31 Per tutti questi aspetti rinvio a Maria Rizzarelli, Sorpreso a pensare per immagini.
Sciascia e le arti visive, Pisa, Edizioni ETS, 2013.
32 L. Sciascia, Clerici e l’occhio di Redon (1973), in M. Rizzarelli, Sorpreso a
pensare per immagini, cit., p. 37.
[ 13 ]
738 fabio moliterni
scandiscono il gusto per il catalogo e per l’accumulo di particolari
anatomici o apparentemente insignificanti: «Cominciò a rivestirsi. Lei
lo guardava, di tra le ciglia socchiuse, con un certo divertimento: un
uomo che si veste ha qualcosa di ridicolo; troppi ganci, troppi bottoni;
e poi le fibbie; e poi lo spadino» (OAI, p. 396). In un gioco tipicamente
seicentesco di apparenze, equivoci e finzioni, di rimandi ottici tra i
tableaux vivant, tra i quadri viventi di François Boucher e il corpo della
contessa disfatto («disarticolato») dal sesso appena consumato33, si celebrano
in queste pagine una sorta di estetica o di semantica della dissonanza,
una correlazione metamorfica degli opposti nella quale
«Adone con il suo eros si ricongiunge a Thanatos» (secondo un altro
topos della letteratura barocca individuato da Battistini)34. In un’epifania
o prolessi sinistra dal sapore perturbante e visionario, nel contrasto
tra la grazia del lessico e dei costrutti sintattici e l’irrompere del
dialettalismo, Di Blasi percepisce che l’amore libertino con il suo «soddisfatto
languore» rischia di essere soppiantato dallo spettro della tortura;
le parole, il potenziale etimologico e visivo delle parole si fanno
immagine minacciosa dello strazio delle carni che lo attende di lì a
poco:
Di Blasi si avvicinò a riguardare la miniatura, tornò con gli occhi al
quadro vivente. Si chinò a baciare la nuca, le spalle; la sua mano corse
leggera su quel corpo caldo e liscio, su e giù, indugiando ad ogni morbida
attaccatura, ad ogni piega, quasi a farne disegno su una materia
preziosa e docile. «Perfetto» disse. «Ma questo non è nel quadro» protestò
lei: ma gli si voltò di faccia, le labbra socchiuse, i seni pesanti […].
Poi, riemergendo a quella luce di lacca e d’oro, lei domandò: «Il pittore,
come si chiama il pittore?». «Boucher, mi pare: François Boucher» e
in piedi, guardandola, distesa ora sul dorso, non più nella grazia del
quadro vivente ma disarticolata nel soddisfatto languore, pensò:
“François Boucher: boucher, boucherie, vucciria. Vucciria. Il mistero che è
in ogni lingua: per un francese i quadri di questo pittore, così luminosi,
33 Faccio notare che lo stesso aggettivo torna undici anni dopo Il Consiglio, nella
descrizione del corpo assassinato di don Gaetano nel misterioso Zafer di Todo
modo (1974): «Non mi fece forte impressione, rivederlo morto. La morte, che anche
agli imbecilli conferisce solennità, a don Gaetano un po’ ne aveva sottratta. Era
scomposto e come disarticolato. Le gambe, aperte quasi a squadra, tendevano l’abito
talare; che nello scivolare era andato su, scoprendo le calze bianche, di lana
grossa. E quelle calze calamitavano gli sguardi, e perché facevano spicco tra il nero
delle scarpe e il nero della veste, e perché erano da pieno inverno e si era in piena
estate», L. Sciascia, OAI, pp. 929-930.
34 A. Battistini, Il Barocco, cit., p. 11.
[ 14 ]
dar fuoco alle polveri. sciascia e il barocco 739
così sensuali, così pieni di gioia, forse avranno una sfumatura, appena
una sfumatura, di macelleria, di vucciria. Io, pur conoscendo il francese,
sto pensandoci ora: il nome Boucher fino a questo momento è stato
per me incanto, desiderio…” (OAI, pp. 395-396).
Siamo in un regime barocco, direbbe Francesco Orlando, di «inganni
dei sensi», «false apparenze verbali e sensoriali», «raddoppiamenti
e sdoppiamenti»35: dal rococò di Boucher (1751-1752) dobbiamo
fare un passo in avanti per arrivare magari all’impressionismo (al realismo)
di un «irregolare» come Gustave Caillebotte (Calf in a Butcher
Shop, c. 1882)36, e indietreggiare per congiungere il Bue macellato di
Rembrandt (1655) a certe tele di Mario Mafai (1930) o di Chaïm Soutine
(1923-1925), ai quadri sfigurati di Francis Bacon (Figure with Meat,
1954) e alla Vucciria di Guttuso (1974). Dallo spazio consacrato all’unione
dei corpi, ai piaceri o alle parvenze dell’erotismo («Due soli elementi:
una dormeuse e la propria nudità», OAI, p. 395), lo sguardo, il
pensiero o il demone di Sciascia si spostano improvvisamente e sembrano
ritornare tra le vie e le bancarelle di Palermo barocca. E alla fine
anche il linguaggio si ingarbuglia o si arresta di fronte a uno straniante
e ferale presagio di morte che è inscritto nel destino dell’uomo: «Il
mistero che è in ogni lingua».
Fabio Moliterni
Università del Salento
35 F. Orlando, Illuminismo e retorica freudiana, cit., p. 71.
36 Cfr. Peter Brooks, Lo sguardo realista, Roma, Carocci, 2017, pp. 167-185.
[ 15 ]

Donato Sperduto
Dalla lotta per il matrimonio al convento:
Per Monaca di Matilde Serao
e Albert Savarus di Balzac
Matilde Serao fu una grande ammiratrice dello scrittore francese Honoré de
Balzac. Lo citò in vari suoi libri e riprese alcune importanti tematiche presenti
nella Commedia umana. Nella novella Per Monaca, la Serao evoca il romanzo balzacchiano
Albert Savarus – contenente vari riferimenti autobiografici – non solamente
con l’intento di mettere l’accento su temi come la lotta per il matrimonio
ed il convento, ma altresì per inveire contro chi ostacola le fanciulle (in questo
caso le madri).

Matilde Serao was a great admirer of the French writer Honoré de Balzac. She
quotes from him in various books and takes over several important themes to
be found in La Comédie humaine. In her short story Per Monaca Serao evokes
Balzac’s novel Albert Savarus – containing various autobiographical references
– not simply in an effort to highlight themes such as the battle for marriage and
the convent, but also in order to lash out against people who stand in the way
of girls (in this case, their mothers).
Nelle sue attente descrizioni letterarie delle virtù e dei difetti delle
donne, Matilde Serao (1856-1927) si è accostata tanto al naturalismo
quanto al verismo. La critica ha messo in rilievo vari punti di contatto
o divergenze tra la scrittrice napoletana ed in particolare scrittori quali
Émile Zola, Honoré de Balzac, Giovanni Verga, Luigi Capuana e
Federico De Roberto. Ma tra tutti, spicca l’ammirazione per l’amato
autore della monumentale Commedia umana. Ad esempio, nel romanzo
Fantasia la Serao si riferisce al celebre romanzo di Balzac Eugénie
Grandet1. Nel suo scritto La virtù delle donne del 1885, la Serao ha
espresso con chiarezza il suo grande apprezzamento per questo scrittore
francese:
Autore: Docente alla Kantonsschule Sursee (CH); mail: donato.sperduto@
edulu.ch
1 Matilde Serao, Fantasia, Torino, Casanova, 18852, p. 271.
Meridionalia
742 donato sperduto
Voi solo, immenso Balzac, il grande impersonale, a cui niuna sciagura
umana era indifferente, che avete tutto saputo o tutto indovinato, che
siete stato il giustiziere e il poeta, lo scrittore senza macchia e senza
paura, voi solo fra tante peccatrici sentimentali, mistiche, selvaggie,
anemiche o fantastiche, voi solo creaste la signora di Mortsauf nel Lys
dans la vallée, una donna sentimentale, mistica, appassionata, che ama
e non cede, che ama e non pecca, che ama e muore2!
E sempre un altro romanzo di Balzac viene esplicitamente citato
nella novella Per Monaca, una delle cinque novelle raccolte nel Romanzo
della fanciulla3, del 1886. Questa novella, successivamente, è stata
pubblicata separatamente con il titolo Storia di una monaca (1898), ricalcando
in tal modo il titolo del romanzo di Verga Storia di una capinera
(1871).
Sulla novella Per Monaca i critici si sono per lo più soffermati anzitutto
per sottolinearne degli elementi che la distinguono dalle altre
quattro novelle contenute nel Romanzo della fanciulla: «in Per Monaca,
l’unica novella da cui è assente Caterina Borrelli [l’alter ego di Matilde
Serao], i personaggi provengono da un mondo aristocratico impermeabile
all’ambiente delle altre novelle […]. Per Monaca coi suoi personaggi
aristocratici interrompe la serie piccolo borghese delle altre novelle»4.
Ora, i temi principali che ricorrono in questa novella sono individuabili,
con alcune significative differenze, nel romanzo balzacchiano espressamente
evocato. Si tratta di Albert Savarus (1842), uno dei romanzi più
autobiografici di Balzac: «Tecla era venuta anche lei con una giacchetta
di lana nera foderata di astrakan, tutta alamari e cordoni, con un berretto
di astrakan: aveva comperato un romanzo di Balzac, l’Alberto
Savarus»5. Il riferimento a questo romanzo non solo non è casuale, ma
costituisce, come vedremo, un’importante chiave interpretativa della
novella seraiana, su cui i critici non si sono ancora soffermati.
Come precisa G. Laricchia,
le opere di Matilde Serao, caratterizzate da un prevalente protagonismo
femminile, descrivono le dinamiche sociali della piccola borghesia
e il suo mondo ideologico e morale, rievocando aspetti, ambienti e
2 Ead., La virtù delle donne, «Fanfulla della Domenica», Roma, VII, n. 35, 30
agosto 1885, p. 1.
3 Ead., Il romanzo della fanciulla, a cura di Francesco Bruni, Napoli, Liguori,
1985, pp. 49-92.
4 F. Bruni, Nota introduttiva a M. Serao, Il romanzo della fanciulla, cit., p. XV.
5 M. Serao, Il romanzo della fanciulla, cit., p. 75.
[ 2 ]
per monaca di matilde serao e albert savarus di balzac 743
figure con sicura intuizione della psicologia individuale e soprattutto
collettiva dei personaggi […]. Il romanzo della fanciulla è un campione
ottimo per uno studio dei modi e delle forme retoriche attraverso cui
l’autrice rappresentò la soggettività delle donne, giacché l’esplicita
ambizione dell’opera è quella di offrire un ritratto socio-psicologico
della comunità femminile di fine Ottocento6.
Ora, nella Prefazione al Romanzo della fanciulla, la stessa Serao afferma
che «nessuno più della fanciulla, apprende quotidianamente i dolori
e le disfatte della lotta per l’esistenza»:
Chiusa come un baco da seta in un bozzolo filato dal rispetto umano,
dalla educazione strana e variabile, dalla modestia obbligatoria, dalla
ignoranza imposta, dalla inconsapevolezza a ogni costo, e trascinata
poi da una forza contraria d’impulsione a gravitare intorno al sole del
matrimonio, la fanciulla si sviluppa in condizioni morali difficilissime.
Ella deve vivere a contatto con gli uomini, senza che tra essi e lei s’apra
una corrente di comunione; deve indovinare tutto, dopo aver tutto sospettato,
e sembrare ignorante; deve avere un’ambizione cocente e
consumatrice, un desiderio gigantesco, una volontà infrenabile di aggrapparsi
a un uomo, e deve essere fredda e deve essere indifferente. Il
romanzo della Rosa si trasforma nel dramma della Rosa, poiché il dolce
fiore, nascosto dietro le trincee e le fortezze della virtù, invoca con
ardente desiderio un conquistatore7.
Nelle fanciulle, la lotta per la sopravvivenza corrisponde alla lotta
per il matrimonio, unico garante del raggiungimento di uno stato sociale
e civile regolare. E proprio la gara per il matrimonio coinvolge il
gruppo di fanciulle presente nella novella Per Monaca. Ma il successo
non è sempre garantito e la lotta contro le rivali si fa dura: «così vediamo
(Per Monaca) la chiacchierata Elfrida Kapnist raggiungere il suo
scopo, il matrimonio con Willy Galeota, e Tecla Brancaccio strappare il
suo Carlo Mottola alla relazione con donna Maria di Miradois»8. Lo
scacco contraddistingue soprattutto due fanciulle: da un lato Giovannella
Sersale e dall’altro Eva Muscettola, la prima fanciulla citata nella
novella Per Monaca.
Per quanto concerne Giovannella, il suo segreto «tutte lo conoscevano,
ella aveva dovuto sposare Francesco Montemiletto, ma costui
6 Giorgia Laricchia, La soggettività femminile nel Romanzo della fanciulla di
Matilde Serao, «Status Quaestionis», XII (2017), pp. 210-235.
7 M. Serao, Il romanzo della fanciulla, cit., pp. 3-4.
8 F. Bruni, Nota introduttiva a M. Serao, Il romanzo della fanciulla, cit., p. XVI.
[ 3 ]
744 donato sperduto
dopo averla corteggiata per due anni, aveva finito per sposare la sorella
maggiore, Candida: e Giovannella non si era mai data pace di questo
tradimento»9. Però Giovannella escogita la sua beffarda ripicca:
invece di consumarsi in silenzio come Felicetta Filomarino, ad un certo
punto prende ad uscire «sempre con sua sorella e con suo cognato,
con sua sorella che le aveva tolto un marito, un fidanzato: e un misterioso
sorriso le fioriva sulle labbra»10. Totalmente diverso è il caso di
Eva Muscettola. La sua rivale non è una sua coetanea, come lei alla
ricerca di un marito. Eva è una fanciulla che desidererebbe «esser molto
amata» e «poter molto amare», ma si tratta di un «desiderio
insoddisfatto»11. Volendo diventare la moglie di Innico Althan, nel
frattempo, Eva si consola cucendo dei vestiti per degli orfanelli, insieme
alle altre fanciulle. Con Innico Eva è riuscita a ballare nei pressi di
Castellamare, sulla corrazzata ammiraglia Roma:
Eva, al braccio del suo cavaliere, Innico Althan, un tenente di vascello,
fratello della sua amica Chiarina, ballava abbastanza, ma più le piaceva
di chiacchierare e di ridere con Innico, un giovanotto alto, magro e
bruno, che portava l’uniforme con una grande eleganza, e che mescolava
alla gaiezza naturale meridionale, la punta di malinconia, di coloro
che hanno fatto dei lunghi viaggi, e che sono destinati a ripartire.
Così, da due mesi, lentamente, una dolcissima simpatia si era stabilita
fra i due giovani, fatta più di intenzioni che di parole, consistenti più
in certi minuti particolari sentimentali, che nei grandi fatti del cuore.
Egli certo sentiva la saldezza affettuosa dell’anima di Eva, malgrado il
disordine e l’abbandono di una casa dove mancava il focolare domestico,
sentiva quel fluire di tenerezza, che dal cuore della fanciulla se ne
andava alle amiche, ai bimbi, ai poveri – ed ella, in cuor suo, ammirava
quel giovanotto che si era voluto togliere dell’ambiente di vizio e di
frivolezza dei suoi compagni e amici, sottostando a una lunga e dura
carriera, spesso lontano dai suoi cari12.
Finché, un giorno, non accade l’imprevisto: l’amato Innico le viene
sottratto addirittura da sua madre, la duchessa di Muscettola! L’abbattuta
Eva decide allora di farsi monaca.
Al pari di Eva, Rosalie de Watteville, protagonista del romanzo di
Balzac Albert Savarus13 citato nella novella della Serao, è una giovane
9 M. Serao, Il romanzo della fanciulla, cit., p. 60.
10 Ivi, p. 78.
11 Ivi, p. 60.
12 Ivi, pp. 64-65.
13 Cfr. la recente traduzione italiana: Honoré De Balzac, Albert Savarus, a cu-
[ 4 ]
per monaca di matilde serao e albert savarus di balzac 745
aristocratica. Ed anche Rosalie è una fanciulla che ha bisogno di un
buon partito. All’inizio della storia, non appena il reverendo de Grancey
ha abbozzato il ritratto di Albert Savaron de Savarus alla presenza
della nobiltà di Besançon (in Francia Contea), agli occhi di Rosalie
questo avvocato di incerta origine (figlio illegittimo di un conte de
Savarus) e alquanto sofferente assume le sembianze dell’uomo ideale
e la signorina de Watteville desidera ardentemente vederlo: «il vederlo,
lo scorgerlo!… Fu il desiderio di una fanciulla fino ad allora senza
desideri»14. Lei è colpita dalla bellezza e dal mistero che contraddistinguono
Albert e decide di incrociarlo in chiesa: una mattina, Rosalie
«andò a mettersi nel punto in cui doveva passare l’avvocato, in modo
da poter scambiare uno sguardo con lui; e quello sguardo cercato le
fece rimescolare il sangue, infatti il sangue cominciò a turbinare, a ribollirle
nelle vene, come se il calore del corpo fosse raddoppiato»15.
Rosalie prova un desiderio irreprimibile per Albert che dà finalmente
un senso alla sua vita terribilmente terna, vissuta all’ombra soffocante
e fredda di sua madre, che vuole darle in sposo Amédée de Soulas.
Ma un giorno Rosalie scopre il segreto di Albert: leggendo la novella
L’Ambizioso per amore e riuscendo ad intercettare anche la corrispondenza
dell’avvocato Albert, che risiede proprio nei pressi del palazzo
dei baroni de Watteville, Rosalie capisce che Albert ama Francesca
Colonna, duchessa d’Argaiolo. Il matrimonio non ha però ancora
avuto luogo per due motivi: Francesca è già sposata ed Albert non è
un aristocratico. In attesa della morte del vecchio e malaticcio marito
di Francesca, Albert si installa a Besançon per cercare di far fortuna
occupando un seggio di deputato e poter in tal modo essere degno
della duchessa italiana. Mostrandosi all’altezza tanto del suo spietato
avo Jean de Watteville quanto di Mister Hyde16, Rosalie pianifica in
segreto i suoi stratagemmi diabolici per sconfiggere la sua rivale Francesca
eseguendoli senza scrupoli e senza che nessuno si accorga della
sua falsità.
Nel caso di Albert, la funzione distruttrice di Rosalie mette fine
ra di Pierluigi Pellini, Palermo, Sellerio, 2017 (si citerà da questa edizione). Per
quanto riguarda le edizioni francesi, si segnalano le due più recenti: Donato Sperduto,
Balzac, l’ambition et l’amour: Albert Savarus, introduzione di André Vanoncini,
Fasano-Parigi, Schena-Baudry, 2012 e H. De Balzac, Albert Savarus, a cura di
Jacqueline Milhit, Parigi, Le Livre de Poche, 2015.
14 H. De Balzac, Albert Savarus, cit., p. 37.
15 Ivi, p. 42.
16 Cfr. D. Sperduto, Balzac: amore, ambizione e fallimento esistenziale in Albert
Savarus, «Studi di letteratura francese», XLII (2017), pp. 43-61.
[ 5 ]
746 donato sperduto
una volta per tutte alle sue aspirazioni amorose: le false lettere da lei
inviate alla duchessa d’Argaiolo provocano la profonda delusione di
quest’ultima che finisce per tagliare i ponti con Albert. Francesca aveva
promesso ad Albert di convolare a giuste nozze alla morte di suo
marito. Ora, alla morte di quest’ultimo, Francesca scrive una lettera ad
Albert in cui l’informa del decesso di suo marito. Ma Rosalie intercetta
la corrispondenza di Albert e questo Mister Hyde femminile non si
limita a nascondere la lettera, ma arriva ad imitare la calligrafia
dell’amato Savarus ed annunciare a Francesca il matrimonio di Albert
con lei stessa, ossia con Rosalie de Watteville!
Francesca decide, quindi, di sposarsi con un altro uomo (ovverosia
con il duca de Rhétoré) e l’ambizioso per amore si ritira dal mondo e va
in convento. Reclusosi nella Grande-Chartreuse, oramai padre Albert
non può che essere visto dal suo interlocutore celeste. Albert s’incammina
lungo la via della redenzione. Questo percorso viene imitato da
Rosalie che, dopo un incidente occorsole su un battello a vapore, «non
esce più dalla proprietà dei Rouxey, dove conduce una vita interamente
votata alle pratiche religiose»17. Così facendo, Rosalie segue altresì le
orme del suo avo Jean de Watteville, l’illustre assassino evocato all’inizio
della storia, anch’egli votatosi alla vita monastica. Ed a sposare
Amédée de Soulas è la madre di Rosalie, la baronessa de Watteville.
Una prima ed evidente differenza generale intercorrente tra la novella
Per Monaca ed il romanzo balzacchiano Albert Savarus concerne il
fatto che, mentre in Balzac figurano personaggi e protagonisti ben definiti
ed in un numero non molto vasto, nel Romanzo della fanciulla si ha
a che fare – sulla scia di Verga – con «novelle senza protagonisti, o
meglio, dove tutti sono protagonisti», ossia con «novelle corali»18. Ciò
vale, ovviamente, anche per la novella seraiana Per Monaca.
Ora, intendo soffermarmi sulle analogie e le differenze di fondo
occorrenti tra le due opere in questione. Il primo elemento che accomuna
Eva a Rosalie è la classe sociale a cui appartengono entrambe:
l’aristocrazia. Ed il loro ambiente è frequentato dalla nobiltà (a non
essere nobile è in realtà l’avvocato Albert Savarus che non riesce ad
essere eletto deputato proprio a causa di Rosalie). E la stessa Francesca
Colonna è un’aristocratica. Da questo punto di vista, Per Monaca si
distingue dalle altre novelle del Romanzo della fanciulla e rievoca l’am-
17 H. De Balzac, Albert Savarus, cit., p. 169.
18 M. Serao, Il romanzo della fanciulla, cit., p. 5.
[ 6 ]
per monaca di matilde serao e albert savarus di balzac 747
biente sociale presente nel romanzo balzacchiano acquistato da Tecla
Brancaccio, una delle varie fanciulle che affollano la novella seraiana.
A rendere molto simile la condizione di Eva e di Rosalie è il desiderio
insoddisfatto, cioè il voler invano ricevere e dare amore. La stessa
Rosalie, che ha avuto una formazione molto limitata e padroneggia
principalmente l’araldica, «il cucito, il ricamo, la trina»19, è qualcuno
che al contempo quasi nessuno ama e che non ama quasi nessuno. In
questa condizione di privazione quasi assoluta di amore e di comunicazione,
l’arrivo di Albert a Besançon fa splendere un pò di sole nella
sua vita. Ma questo calore rischia di raffreddarsi dopo la lettura della
novella L’Ambizioso per amore che le fa capire che Albert ama ed è amato
da un’altra donna. Per non essere privata di Albert, Rosalie deve
«strapparlo a quella rivale sconosciuta»20. Tuttavia, i suoi piani non
vanno a buon fine. Il rispettivo amore insoddisfatto fa di Eva e di Rosalie
delle vinte. E qui entra in gioco il ruolo delle madri, centrale nella
Serao ed in Balzac. In Per Monaca, si trova un’invettiva contro le
madri – dovuta alla fanciulla di nome Anna Doria:
Le mamme nostre sono le nemiche naturali del nostro matrimonio.
Troppo giovani? Hanno diritto di brillare, ci chiudono in casa, ci lasciano
coi vestiti corti fino a sedici anni, noi facciamo loro la concorrenza.
Troppo vecchie? Allora odiano la gente, non vogliono vedere nessuno,
la gioventù le secca, i ricordi sono loro fastidiosi, la felicità degli altri è
loro indifferente, sono egoiste, sono vecchie! Troppo eleganti? I fidanzati
diffidano delle suocere eleganti. Troppo severe? Fanno scappare a
gambe levate chi voglia prendere la vita un pò allegramente. Una,
troppo pretenziosa per i titoli di nobiltà; l’altra, inesorabile sulla questione
della pietà religiosa; la terza pretende che si viva insieme; la
quarta esige che si vada in provincia; una ha un capriccio, un’altra ha
una fissazione, a questa non piacciono gli uomini biondi, quella là detesta
la persona magra: addio, matrimonio! Ve lo assicuro, care amiche,
quelle che hanno ancora la madre e arrivano a maritarsi, compiono
un’opera meravigliosa21.
E l’ultima frase prelude a ciò che accadrà ad Eva: non si sposerà con
Innico proprio perché ha una madre. Anzi, Eva si fa monaca proprio
perché sua madre le ha rubato il suo idolo. La Serao ha scritto Il romanzo
della fanciulla per ed a favore delle fanciulle che non solo rivaleggiano
tra loro, ma a cui le madri arrivano a mettere il bastone tra le ruote nella
19 H. De Balzac, Albert Savarus, cit., p. 26.
20 Ivi, p. 92.
21 M. Serao, Il romanzo della fanciulla, cit., p. 57.
[ 7 ]
748 donato sperduto
loro vitale gara per il matrimonio! Il gesto della duchessa di Muscettola
acquista ancora più ignominia se si tiene conto che avviene dopo che
Eva ha perso suo fratello Luigi che «si era tirato un colpo di rivoltella al
cuore, una notte, uscendo da una bisca»22. Alla fine, se la duchessa conquista
Innico Althan, perde però non solo suo figlio Luigi (morto a causa
del vizio del gioco), ma altresì sua figlia Eva (che rinuncia alla vita
nella società e va a “morire” in convento a causa di sua madre).
Come ebbe a notare Benedetto Croce, il riferimento al ruolo nefasto
del gioco la Serao lo deve direttamente a Honoré de Balzac, in particolare
al suo romanzo La Rabouilleuse23. Invece, al posto dell’invettiva
contro le madri e la loro possibile ignominia, in Albert Savarus troviamo
un’invettiva contro le fanciulle e la loro possibile ignominia. Infatti,
Rosalie è una fanciulla senza scrupoli e Balzac accentua esplicitamente
la finalità edificante del suo Savarus: «Benché caratteri simili
siano eccezionali, esistono sfortunatamente anche troppe Rosalie, e
questa storia contiene una lezione che deve servire loro d’esempio»24.
Rosalie fa di tutto per ostacolare il matrimonio di Albert e Francesca,
ma alla fine lo perde in quanto lui non può immaginarsi una vita senza
Francesca. E alla stessa Rosalie, vendendosi sfuggire l’amato Albert,
non resta che votarsi alle pratiche religiose. Alla morte di suo
marito, la baronessa de Watteville si sposa allora con Amédée de Soulas
per salvaguardare la casta dei de Watteville.
Si può quindi dire che nella novella Per Monaca la Serao non si limita
a citare Albert Savarus. La Serao riprende il tema di madri e figlie
invertendone le qualità: se in Balzac si ha a che fare con una fanciulla
infame, nella Serao ad essere infame è la madre. Se il romanzo di Balzac
è contro la fanciulla (Rosalie), la novella della Serao è per la fanciulla
(Eva).
Mi pare infine opportuno fare qualche considerazione sul nome
della fanciulla seraiana sconfitta dalla madre. Si chiama Eva non semplicemente
per alludere con «ironia» all’Eva biblica25, ma – questa la
mia ipotesi – anche come evocazione della donna amata ed alla fine
22 Ivi, p. 85.
23 Benedetto Croce, Conversazioni critiche: Serie II, Bari, Laterza, 1918, pp. 300-
301. Sulla Rabouilleuse, si veda D. Sperduto, Les farces nocturnes: Balzac et Patrick
Modiano, «Lendemains», XXIX (2004), nn. 114-115, pp. 226-236.
24 H. De Balzac, Albert Savarus, cit., p. 113.
25 G. Laricchia, La soggettività femminile nel Romanzo della fanciulla di Matilde
Serao, cit., p. 217.
[ 8 ]
per monaca di matilde serao e albert savarus di balzac 749
sposata dall’autore della Commedia umana: la contessa ucraina Eve
Hanska. Una parte delle lettere scrittele da Balzac è stata pubblicata
nel 1876 ed il primo dei quattro volumi nel 1899. Matilde Serao non
poteva non essere al corrente degli ostacoli posti alla relazione sentimentale
di Balzac ed Eve. Come risaputo, Albert Savarus è il più autobiografico
dei romanzi di Balzac26 (ed elementi autobiografici sono
altresì presenti nei libri di Matilde Serao). Infatti, buona parte degli
avvenimenti narrati sono strettamente collegati alla sua biografia: ne
costituiscono una sorta di imitazione realmente letteraria. Il 28 febbraio
1832 ebbe inizio la corrispondenza tra Balzac e Eve Hanska (che
nella prima lettera si firmò “la Straniera”), moglie del conte ucraino
Wenceslaw Hanski. Nel 1833, il romanziere incontrò per la prima volta
Eve in Svizzera, prima a Neuchâtel e poi a Ginevra. A questo incontro
risale la promessa reciproca di sposarsi: Balzac giurò di aspettare
la morte del conte per convolare a nozze con Eve e lei gli promise la
sua mano ed il suo cuore. Il 5 gennaio 1842, Balzac ricevette una lettera
in cui gli veniva comunicata la morte del conte Hanski (morto il 10
novembre 1841) e desiderò potersi finalmente sposare con Eve. Ma ai
problemi legati all’eredità di suo marito si aggiunse l’ostilità di una
zia di nome Rosalie, contraria al matrimonio di sua nipote con lo scrittore
francese. Allora, sotto la pressione della zia, Eve decise di metter
fine alla relazione con Balzac. Scioccato e ferito al cuore dalla freddezza
di Eve, Balzac scrisse il romanzo Albert Savarus. Fortunatamente,
Eve cambiò idea e nel 1850 si sposò finalmente con Balzac (che purtroppo
morì alcuni mesi dopo le nozze).
Non è da escludere che, vista l’ammirazione di Matilde Serao per
Balzac, la scrittrice napoletana non si sia limitata a citare dei suoi capolavori
e rievocarne alcuni temi centrali. Tutto lascia supporre che in
Per Monaca figura perfino una ripresa del nome della moglie dello
scrittore francese. In tal caso, il destino di Eva Muscettola prefigurerebbe
il destino di Eve senza il marimonio con Balzac. In realtà, in
quest’ultimo caso fu zia Rosalie ad avere la peggio: l’amore di Eve e
Balzac vinse e zia Rosalie fu vinta – come la Rosalie de Watteville di
Albert Savarus.
Donato Sperduto
Kantonsschule Sursee (Ch)
26 Cfr. D. Sperduto, Balzac, l’ambition et l’amour, cit., pp. 28-31 e Id., Balzac:
amore, ambizione e fallimento esistenziale in Albert Savarus, cit., pp. 58-61.
[ 9 ]

PAOLO RIGO
Dante e la retorica del gesto. Primi appunti
Nelle sue opere Dante racconta diversi “gesti”, i quali sono atti a manifestare,
di volta in volta, maestosità, paura, sfida, amore e via dicendo. Le silenziose
azioni descritte dall’autore sono state spesso tralasciate dalla critica. Eppure, la
retorica medievale non è estranea alla codificazione retorica del gesto: nella
fattispecie Boncompagno da Signa dedica alcune parti delle sue opere alla normalizzazione
dei vari gesti e atti consoni al dettato poetico. Scopo di questo
contributo è: 1. Ricondurre il gesto e la gestualità al campo retorico 2. Verificare
se le situazioni rappresentate da Dante abbiano o meno una valenza retorica.

In his works Dante writes about different “gestures”, used to manifest, from
time to time, majesty, fear, challenge, love and so on. The silent actions described
by the author have often been overlooked by the critics. Yet, the medieval
rhetoric is not stranger to the rhetorical codification of the gesture: in particular
Boncompagno da Signa dedicates some parts of his works to the normalization
of the various gestures and suitable actions to the poetic dictated.
Purpose of this paper is: 1. To bring back the gesture to the rhetorical field 2. To
verify wether the situations represented by Dante have or do not have a rhetorical
value.
In un passo piuttosto colorito del Libro di Famiglia, brano dedicato
al ruolo e alle mansioni spettanti la figura paterna, Leon Battista Alberti,
attraverso le parole di uno dei personaggi dell’opera, Giannozzo
(il quale parla con mano ferma)1, riflette sull’uso e sulla funzione delle
Autore: Università di Roma Tre; assegnista di ricerca; paolo.rigo@uniroma3.it
1 Si specifica, fin da subito, che la gesticulatio, ergo l’eccessivo uso dei gesti è
considerato un tratto negativo nella dialettica. Sempre Alberti in una delle Intercenales,
titolata Defunctus, descrive i ridicoli e disordinati movimenti delle braccia
del vescovo incaricato di eseguire l’elogio funebre di uno dei due protagonisti del
dialogo. Il dimenarsi del personaggio è uno dei tratti che fanno scadere la predica
in un’involontaria parodia dei sermoni. Altri particolari verranno forniti nel corso
del contributo. Per la scrittura di questo saggio devo molto alle piacevolissime
Contributi
752 paolo rigo
similitudini nell’ambito retorico (lo scrittore si rifà alle metafore zoomorfe,
con particolare riferimento, sembra, al canone di Gregorio Magno,
trasmesso nel repertorio di diritto canonico del XII secolo noto
come Decretum Gratiani)2. Stando al pensiero dell’umanista, qualsiasi
rimando a immagini naturali, se sviluppato percorrendo strade inconsuete
e inusitate, può rilevarsi utile per «porre inanzi agli occhi»3
dell’ascoltatore o del lettore il significato del concetto trasmesso dall’elemento
figurato. Così la diligente descrizione dell’actio del ragno –
analogicamente volto a rappresentare il ruolo del capofamiglia, esso
viene raffigurato mentre è attento, nei suoi rapidi gesti, a ogni lieve
agitazione delle ragnatele – non è solo una similitudine minuziosa dei
comportamenti reali dell’insetto. Non si tratta, dunque, solo di una
mimesi del mondo naturale posta quale elemento analogico, ma i gesti
dell’aracnide, invece, a cui il padre deve ispirarsi per controllare i
membri della propria famiglia, assumono una dimensione simbolica e
diventano, secondo Alberti, un ottimo esempio per illustrare la funzione
“traslativa” dei tropi. Il “porre dinanzi agli occhi” albertiano riproduce
alla lettera l’espressione tipica – ponere ante oculos – che veniva
utilizzata per definire la metafora nei trattati antichi (così compare
nell’Aristotele latino ma anche nella Rhetorica ad Herennium, per
esempio)4. Invece, il passo del Libro di famiglia a cui accennavo, sospeso
tra narrazione e trattatistica, e altresì questa breve digressione umanistica
tout court su cui ho deciso di iniziare questo contributo mi hanno
offerto l’occasione di introdurre un tema, la riflessione sul gesto,
che cercherò di esaminare secondo una prospettiva retorica e provanconversazioni
con Luca Marcozzi, che lo ha letto in anteprima, a un’indicazione di
Franco Suitner e alla pazienza, ai suggerimenti e all’amicizia di Anna Pegoretti (la
studiosa nell’Aprile 2018 ha organizzato un prezioso seminario, intitolato Dante e
il trivio, tenutosi all’Università degli Studi di Roma Tre e presso la British School of
Rome a cui ho avuto la fortuna di prendere parte).
2 Cfr. Giovanni Rossi, Lo scaffale giuridico della biblioteca di Leon Battista Alberti,
in Leon Battista Alberti. La biblioteca di un umanista, a cura di Roberto Cardini, con
la collaborazione di Lucia Bertolini-Mariangela Regoliosi, Firenze, Mandragora,
2005, pp. 165-174: 170-171 e anche Anna Siekiera, La scrittura volgare di Leon
Battista Alberti, in Alberti e la cultura del Quattrocento. Atti del convegno internazionale
del Comitato Nazionale VI Centenario della Nascita di Leon Battista Alberti
di Firenze, 16-18 dicembre 2004, a cura di Roberto Cardini e Mariangela Regoliosi,
Firenze, Polistampa, 2007, pp. 683-691: 687-688.
3 La citazione e il relativo episodio parafrasato sono ripresi dalla III parte de I
libri della famiglia. Mi rifaccio al testo dell’edizione compresa in Leon Battista
Alberti, Opere volgari, a cura di Cecil Grayson, Bari, Laterza, 1960, vol. I, p. 215.
4 Rhet. Her., IV 34; Aristotele, Rhet., 1410 b31-35.
[ 2 ]
dante e la retorica del gesto. primi appunti 753
do a porlo – per quanto possibile – in rapporto con Dante (e specificatamente
con alcuni passi della Commedia, l’opera più “teatralizzata”)5.
Si tratta sia di un argomento che ha delle evidenti ricadute sul piano
della tradizione iconografica – su cui non farò “cenno” ma è quasi
scontato il rimando a François Garnier –6, sia di un tema che gode,
ancora, di uno statuto evanescente. Questo secondo aspetto è dovuto,
nello specifico, anche al fatto che Dante è un autore generalmente avaro
o, meglio, “vago” (a parte qualche brano tra l’Epistola a Cangrande e
il Convivio) di esplicite e univoche indicazioni metaletterarie (soprattutto
egli scevro di informazioni utili a spiegare il funzionamento del
linguaggio figurato; ma si tratta di una condizione comune tra i grandi
letterati)7.
5 Non che le altre opere non siano ricche di gesti, ma spesso essi – si pensi al
saluto beatificante di Beatrice nella Vita nova – non conservano un significato proprio
o innovativo, invece, rispondono a consuetudini poetiche. In altre parole, il
saluto di Beatrice non è diverso da quello di Giovanna Primavera, o della Gioia di
Guittone e ancora della Selvaggia di Cino.
6 Mi riferisco a François Garnier, Le Langage de l’image au Moyen-Age. Signification
et symbolique, Paris, Le Léopard d’or, 1982; ma su Dante nello specifico cfr.,
almeno, Raffaele Pinto, Eterodossia e modernità: le immagini-movimento nella Commedia,
in Ortodossia ed Eterodossia in Dante Alighieri, a cura di Carlotta Cattermole,
Celia de Aldama e Chiara Giordano, Madrid, La Discreta, 2014, pp. 731-756
(nel saggio è contenuto anche un numero significativo di esempi).
7 Né per l’allegoria, cfr. Monica Cerroni, “Li versi strani”. Forme dell’allegoria
nella «Commedia» di Dante, Pisa, ETS, 2003 p. 12. Sul linguaggio figurato dantesco,
in special modo su metafora e similitudine, negli ultimi anni si sono susseguiti
molti saggi; per la similitudine si rimanda con ampia sufficienza ai quattro lavori
di Nicolò Maldina, Le similitudini dantesche tra letteratura e predicazione. Il ruolo
delle ‘artes’, in Dante e la retorica, a cura di Luca Marcozzi, Ravenna, Longo, 2017,
pp. 247-259; Id., Le similitudini nel tessuto narrativo della ‘Commedia’ di Dante. Note
per un’analisi testuale, «Studi e problemi di critica testuale», LXXXIV (2012), n. 1,
pp. 85-109; Id., Gli studi sulle similitudini di Dante: in margine alla ristampa de ‘Le similitudini
dantesche’ di Luigi Venturi, «L’Alighieri», n. s. XXXII (2008), n. 32, pp.
139-154; Id., Osservazioni sulla struttura delle similitudini e sulle modalità di descrizione
nella ‘Commedia’, ivi, XXXIV (2009), n. 34, pp. 65-92; per quanto riguarda la metafora,
a partire dal lavoro La metafora in Dante, a cura di Marco Ariani, Firenze, Olschki,
2009, gli studi si sono moltiplicati in modo esponenziale. Utili indicazioni
bibliografiche sono ricavabili dal saggio di Gaia Tomazzoli, La metafora in Dante:
temi e tendenze della critica, «L’Alighieri», n.s. LVI (2015), n. 46, pp. 41-60. Nonostante
la preziosità del contributo di Tomazzoli preme, comunque, tanto sottolineare
l’importanza del lavoro di Silvia Finazzi, La metafora nella tradizione testuale ed
esegetica della ‘Commedia’ di Dante. Problemi ecdotici e ricerca delle fonti, Firenze, Cesati,
2013, quanto segnalare l’intervento di Mario Paolo Tassone, L’“acqua perigliosa”:
contributo alla storia della metafora del “naufragio con spettatore”, «Scaffale aper-
[ 3 ]
754 paolo rigo
La strada da percorrere per illustrare i miei intenti prevede, però,
ancora due tappe preliminari: una riguarda il ruolo rivestito dalla “gestualità”
nella retorica, nei trattati medievali e, dunque, anche nella
società a cui essi fanno riferimento, l’altra tappa è invece rappresentata
dalla storia e dalla presenza dei gesti in Dante. Per il Medioevo, innanzitutto,
bisognerà specificare come la nozione di gestus abbia un
valore morale e che, in secondo luogo, tale portato subisce una codificazione
nel tempo. Norma che si dipana anche sull’opposto ossimorico
del gesto rituale, cioè la gesticulatio: la quale esprime la derivazione
negativa per accumulazione. Si tratta, cioè, del gesto ridondante che,
già in tempi antichi, è generalmente giudicato eccessivo e disordinato
tanto dal venir considerato negativamente (i posseduti dal diavolo, in
epoca medievale, gesticolano freneticamente, per esempio). Affermare
che nella arte retorica tradizionale (o classica) il gesto rivestisse
un’importanza di primo piano non è una novità, né suscita clamori:
l’actio, come noto, è una fase dei cinque momenti dell’orazione; ma
essa, al di là della connotazione pragmatica, possedeva già al tempo di
Cicerone una demarcazione morale. Il gesto, per l’autore latino, era
l’espressione dell’animo8; tale valore viene conservato da Agostino
nella sua breve Retorica e anche nel De Doctrina Christiana. E proprio
con Agostino e il suo trattato che i signa – ripercorro delle tappe fondamentali
assai brevemente – assumono lo statuto di verba visibilia o,
per usare un’altra espressione latina, imago loquendi: essi, però, a differenza
del mondo classico, di quanto è possibile dedurre dalla teoresi
di un Quintiliano per esempio, non rispondono all’universalità ma
pur “significando” si rimettono al contesto culturale9.
to», VII (2016), pp. 33-62, successivo alla rassegna della studiosa romana. Altri
saggi specifici su uno o diversi passi verranno forniti nel corso della trattazione.
8 De oratore, III 49, 221.
9 Nell’ambito del linguaggio, Agostino offre delle riflessioni potentissime. In
particolar modo, secondo quanto riportato in Conf., I 8, 3, i movimenti del corpo
sono il segnale precipuo dell’apprendimento del linguaggio per imitazione da parte
dei fanciulli: «Non enim docebant me maiores homines praebentes mihi verba
certo aliquo ordine doctrinae sicut paulo post litteras, sed ego ipse mente, quam
dedisti mihi, Deus meus, cum gemitibus et vocibus variis et variis membrorum
motibus edere vellem sensa cordis mei, ut voluntati pareretur, nec valerem quae
volebam omnia nec quibus volebam omnibus. Prensabam memoria, cum ipsi appellabant
rem aliquam et cum secundum eam vocem corpus ad aliquid movebant,
videbam, et tenebam hoc ab eis vocari rem illam, quod sonabant, cum eam vellent
ostendere. Hoc autem eos velle ex motu corporis aperiebatur tamquam verbis naturalibus
omnium gentium, quae fiunt vultu et nutu oculorum ceteroque membrorum
actu et sonitu vocis indicante affectionem animi in petendis, habendis, reicien-
[ 4 ]
dante e la retorica del gesto. primi appunti 755
Nel corso dei secoli, si sviluppò una vera e propria letteratura del
gesto, che vide coinvolti autori come Ambrogio, Alcuino10, Bernardo
di Chiaravalle e ancora Ugo da San Vittore. Si creò, dunque, un vero e
proprio genere letterario utile soprattutto a educare il novizio all’ingresso
nel monastero11. Ancora, nell’ambito più prettamente retorico
Geoffrey di Vinsauf tra le descriptiones annovera, nel Documentum de
Arte Versificandi (II 2, 3-7), un esempio di descriptio gesticulantium che
viene ripresa dalla sua stessa Poetria nova (vv. 655 e seguenti)12. La società
in cui visse Dante è naturalmente ricca di gestualità simboliche13.
Lo è, per esempio, nella pratica religiosa: la messa, in quanto rito, è
colma di gesti. La codificazione dei segni che compongono la celebrazione
cristiana si attua su un simbolismo condiviso; in altre parole,
ogni gesto sembra avere un significato che non è necessario spiegare14.
Ma, per non uscire troppo dal tema del mio breve contributo, basterà
aver sottolineato come tra gesto, parola, immagine e significato si dipani
una discussione – anche retorica – che diventerà importantissima
per un autore quale Boncompagno da Signa, su cui, in rapporto a
Dante, tornerò.
dis fugiendisve rebus. Ita verba in variis sententiis locis suis posita et crebro audita
quarum rerum signa essent paulatim colligebam measque iam voluntates edomito
in eis signis ore per haec enuntiabam. Sic cum his, inter quos eram, voluntatum
enuntiandarum signa communicavi et vitae humanae procellosam societatem altius
ingressus sum pendens ex parentum auctoritate nutuque maiorum hominum».
10 Alcuino fu autore di una Disputatio de rhetorica et de virtutibus; attraverso
questo testo si può riconoscergli la palma di primo intellettuale impegnato a “rimescolare”
le regole retoriche con la figurazione del gesto.
11 Per Ugo da San Vittore si veda il De institutione novitiorum (dove si compie
una vera e propria classificazione dei gesti). Per Ambrogio diversi sono gli accenni
nel De officiis; per Bernardo celebre è la disquisizione sul riso ma anche sul binomio
gestus et usus. Sulla questione cfr. Jean-Claude Schmitt, Il gesto nel medioevo, Bari,
Laterza, 1990, testo davvero fondamentale sull’argomento.
12 Da Les arts poétiques du XIIe et du XIIIe siècle: recherches et documents sur la
technique littéraire du moyen age, éd. par Edmond Faral, Paris, Champion, 1924, p.
272 ma per la Poetria nova si veda p. 217.
13 Jacques Le Goff, La civiltà dell’occidente medievale, Torino, Einaudi, 1999, p.
381, perentoriamente affermò che «la civiltà medievale è una civiltà del gesto».
14 Ma anche i gesti della preghiera erano stati oggetto di trattazioni. Si ricorda
l’anonimo opuscolo, risalente al XII secolo e attribuito a Pietro Cantore, in cui vengono
riconosciuti sette modi fisici della preghiera, tanto che l’autore definisce colui
che prega alla pari di un artifex. Cfr. Richard C. Trexler, The Christian at Prayer:
an Illustrated Prayer Manuel attributed to Peter the Chanter, Binghampton (NY), Center
for Medieval and early renaissance studies, State University of New York, 1987,
pp. 178-179.
[ 5 ]
756 paolo rigo
La seconda digressione, preparatoria al tema centrale, è strettamente
connessa con la produzione dell’Alighieri: la Commedia, in quanto
opera dotata di uno statuto narrativo, è colma di gestualità, di movimenti15;
questo dato non stupisce e tanto meno sorprende che anche
nella Vita nova vengano descritti gesti, cenni e via dicendo (e, per alcuni
casi, anche in situazioni “dialogiche”)16. Tali momenti narrativi hanno
affascinato i lettori di ogni tempo, finendo per dare il via negli ultimi
anni a una discreta bibliografia di studi, che, però, ha mancato di
evidenziare la fenomenologia del gesto dantesco e il possibile legame
con il campo dell’educazione retorica. I vari saggi hanno indagato alcune
specifiche della comunicazione tra Dante e Virgilio, valorizzando,
come ha fatto Stefano Prandi, per esempio, gli elementi che rispondo
alla comunicazione non verbale tra i due17; oppure, come nel caso di
Violeta Diaz Corralejo e Mario Cimini, siffatti studi hanno offerto delle
indagini sistematiche. Se esse in generale sono più che apprezzabili
mentre conservano l’indubbio merito di aver aiutato molto a comprendere
l’importanza del fenomeno, però, a una lettura più attenta, si risolvono
esclusivamente in elenchi, quasi muti, delle presenze della
gestualità nella Commedia18; mancano cioè di spunti volti ad analizzare
15 Per convenienza, e volendo evitare, appunto, il rischio di trasformare il contributo
in un elenco vuoto (inoltre, sono ancora impegnato in una fase di “sondaggio”
su tutto il poema) farò riferimenti solo a passi celebri.
16 Paradigmatico è l’episodio relativo al sogno che precede la scrittura del sonetto
A ciascun alma presa; o, ancora, pieno di cenni e sguardi è l’incontro con le donne
gentili al capitolo XVIII che interrogano l’io a proposito del suo amore per Beatrice.
Si consideri poi il ruolo svolto dai deittici. Non è opportuno rimandare alla bibliografia
sulla deissi nell’opera dantesca; ma è evidente che tali elementi grammaticali,
parte del discorso, rivestono una funzione drammatizzante in relazione agli incontri,
ai dialoghi e, dunque, ai gesti: dopotutto, il «drama consists firt and foremost
precisely in this, an I addressing a you here and now» (Keir Elam, The Semiotics of
Theatre and Drama, London-New York, Methuen, 1980, p. 139, corsivo dell’autore).
Deissi e gesto creano delle profonde interazioni: notò Karl Bühler nel 1934 (cito
dall’edizione italiana Teoria del linguaggio: la funzione rappresentativa del linguaggio,
Roma, Armando, 1983, p. 131), per esempio, che «il gesto d’indicazione col braccio
e col dito tesi proprio dell’uomo, gesto da cui il nostro dito indice trae il nome, torna
a riprodursi nel braccio teso del segnale stradale, costituendo, insieme col senso figurato
della freccia, un segno stradale o direzionale assai diffuso […] Limitandoci a
questa semplice constatazione, ci chiediamo se esistano tra i segni verbali alcuni che
funzionino allo stesso modo dei segnali stradali. La risposta è affermativa, giacché
esistono parole come qui e là che esplicano una funzione indicativa».
17 Stefano Prandi, I gesti di Virgilio, «Giornale Storico della Letteratura Italiana
», CXII (1995), n. 172, pp. 56-75.
18 Si tratta di indagini più o meno ampie: i saggi a cui faccio riferimento sono:
[ 6 ]
dante e la retorica del gesto. primi appunti 757
il tessuto stilistico e retorico di tali momenti. I quali, se mimesi del
mondo reale poiché “parole”, appartengono al campo letterario.
Di certo, il momento più significativo utile a valorizzare il ruolo
volto dal “gesto” in Dante, almeno per il Novecento, credo sia rappresentato
dalla lettura di Erich Auerbach riservata all’episodio di Farinata
degli Uberti19, che è divenuta quasi leggendaria. Secondo il grande
studioso l’apparizione dell’antico avversario ghibellino risentirebbe
di uno degli obiettivi principali dell’opera, cioè per l’appunto l’imitazione
della realtà. Farinata si porrebbe in modo maestoso rispetto al
suo interlocutore perché fu uno dei nobili più importanti di Firenze e,
quindi, continuerebbe a conservare il suo status anche nelle tenebrose
arche dell’aldilà. Per il filologo tedesco, dunque, il Dante-autore non
farebbe altro che rendere giustizia a una figura semileggendaria della
sua città (e allo statuto che essa incarnava)20.
Mario Cimini, Aspetti del codice gestuale in Dante, «Studi Medievali e Moderni»,
XVI (2012), n. 1-2, pp. 79-107; della studiosa spagnola si ricorda la pubblicazione
Violeta Diaz Corralejo, Los gestos en la literatura medieval, Madrid, Gredos, 2004.
Il volume è impressionante per la mole di materiali – considerato poi che l’indagine,
a differenza del titolo, è dedicata quasi esclusivamente all’Inferno di Dante –
tuttavia è assente ogni tipo di giudizio critico apprezzabile. Inoltre, nel libro si
verificano non pochi errori storici davvero rilevanti: mi limito a segnalare, impossibile
tacere, che a p. 75 viene scritto come Margherita di Borgogna sarebbe figlia
di Roberto di Sicilia (dato utile all’autrice per verificare la presenza del Salterio di
Margherita di Borgogna negli anni di vita di Dante in Italia), quando in realtà ella fu
figlia di Roberto II di Borgogna. Addirittura, la studiosa parla di un Roberto II «de
Sicilia»! Svista numerica piuttosto grave vista l’entità dei personaggi in ballo e che
si commenta da sola. A proposito della bibliografia generale, eccessive, infine, appaiono
le indagini di Paul Gary Cestaro dedicate ai motivi materni del “corpo” e
della “lingua”; mi riferisco alla monografia Paul Gary Cestaro, Dante and the
Grammar of the Nursing Body, Notre dame, Indiana, University of Notre Dame
Press, 2003, e al saggio Id., Dante, Boncompagno da Signa, Eberhard the German, and
the Rhetoric of the Maternal Body, in The Rhetoric Canon, ed. by Brenda Deen Schildgen,
Detroit, Wayne State University Press, 1997, pp. 175-197. Il titolo di quest’ultimo
lavoro è alquanto fuorviante: lo studioso, infatti, non cerca delle tracce di
lettura, dei rapporti tra i tre autori ma semplicemente li accosta l’un l’altro seguendo
un sistema comparatistico svuotato di ogni apprezzabile sistema. Ancora valido,
infine, il lavoro di Gianni Oliva, Per altre dimore: forme di rappresentazione e
sensibilità medievale in Dante, Roma, Bulzoni, 1991 (in particolare si vedano i capitoli
Modi della rappresentazione: distanze, sonorità, cinetica, pp. 35-40 e Per una grammatica
dei sensi: prossemica, suoni, colori, pp. 76-100).
19 Il saggio è letto dall’edizione Erich Auerbach, Farinata e Cavalcante, in Id.,
Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, 2 voll., Torino, Einaudi, 2000, vol. I,
pp. 188-221.
20 Le due ombre mostrano «con gesti e parole, la singolare personalità, che non
[ 7 ]
758 paolo rigo
Eppure, benché la fascinosa intuizione sia comunque apprezzabile,
l’insistenza su alcuni particolari utili a descrivere l’azione del corpo
nello svolgimento dell’atto loquendi potrebbero far pensare a una voluntas
significandi esplicita da parte dell’autore, intento a dichiarare
l’actio retorica implicita (ma propria) del personaggio che parla. Lo ha
rilevato, per esempio, John Anthony Burrow nel suo saggio sulla presenza
del gesto nelle opere narrative medievali (e anche in Dante)21.
Lo studioso anglosassone basa la sua distinzione, teorizzata – a quanto
ne so – per primo da Algirdas Julien Greimas22, sulla differenza tra
gestualità “pratica” o “mimetica” e gestualità “mitica” o “modale”23.
può essere altra, e altra non è, che quella posseduta nella vita terrena» (Ivi, p. 208).
Ancora meno di vent’anni fa Steno Vazzana, Il «disdegnoso gusto» di Pier de le Vigne,
«L’Alighieri: rassegna bibliografica dantesca», n. s. XXXIX (1998), n. 11, pp.
91-94: 94, riflettendo sul consigliere di Federico II ritratto da Dante nella selva dei
suicidi affermava che «la mimesi del linguaggio dei personaggi appartiene all’arte
realistica e figurale di Dante». Personalmente, credo che la mimesi del reale dantesca
sia vivida solamente attraverso alcuni mezzi retorici, come per esempio, l’uso
strumentale del dialogo o discorso interrotto (che già Enrico Testa, ma non per la
Commedia, aveva individuato quale uno dei «versanti più alti dell’orografia della
mimesi: la cessione della parola al personaggio, operata dal narratore, s’incentra
non solo sul mutarsi di marche linguistiche o di impostazioni prospettiche, ma su
un vero e proprio salto di scansione intonazionale»; Enrico Testa, Simulazioni di
parlato. Fenomeni dell’oralità nelle novelle del Quattro-Cinquecento, Firenze, Accademia
della Crusca, 1991, p. 130).
21 Cfr. John Anthony Burrow, Gestures and looks in medieval narrative, Cambridge,
Cambridge University press, 2002, a Dante, in particolare, sono dedicate le
pp. 156-179.
22 Lo studioso, come dicevo, ha rivolto molta attenzione alla questione dello
spazio e della gestualità, a suo avviso l’uomo è continuamente stimolato dai cenni;
fondamentale è la lettura di due monografie: Algirdas Julien Greimas, Sémantique
structurale, Larousse, Paris, 1966 (oggi disponibile anche in italiano) e Id., Du
sens, Editions de Seuil, Paris, 1970; a cui aggiungere il saggio Id., Conditions d’une
sémiotique du mond naturel, «Langages», III (1968), n. 10, pp. 3-35; per comprendere
a fondo la questione della figuratività stante la filosofia di Greimas mi sono rifatto
alla preziosa ricostruzione contenuta nel corposo volume di Paolo Bertetti, Lo
schermo dell’apparire. La teoria della figuratività nella semiotica generativa, Bologna,
Esculapio, 2013.
23 In nota, ricorro a un esempio utile per spiegare la mia modalità di indagine
e la differenza tra la gestualità fine a se stessa e quella significativa. All’inizio del
canto XXIII dell’Inferno, Dante e Virgilio sono impegnati nella fuga dai Malebranche,
i diavoli che precedentemente li avevano ingannati. Le frenetiche vicissitudini
comportano una serie di attimi gestuali di non poca importanza: il Dante-personaggio
mentre afferma di pensare ai demoni posti alle sue calcagna accusa un
sentimento di paura che viene espresso con il verso «Già mi sentia tutti arricciar li
peli» (v. 19). Evidentemente, l’autore ha scelto un gesto comune, addirittura invo-
[ 8 ]
dante e la retorica del gesto. primi appunti 759
Si tratta di una classificazione sottintesa ma di cui è ben conscia la
tradizione letteraria classica24. Tant’è che, molto prima del semiologo
franco-lituano, già l’esegesi secolare aveva notato come alcuni atteggiamenti,
o meglio, la raffigurazione dei gesti di determinati personaggi,
quali lo stesso Farinata, assumevano di volta in volta un valore
che esulava dall’esperienza terrena e storica. Così, ad esempio, per
tornare tanto al Quattrocento (secolo da cui ho strappato l’esempio
albertiano) quanto al capo della fazione ghibellina, Cristoforo Landino,
a proposito dei versi 73-78 del canto X che descrivono il condottiero
fiorentino – il quale «né mosse collo, né piego sua costa» (v. 75) –
lungo tutti gli attimi in cui viene interrotto dal compagno di pena
(Cavalcante) spiegava, a proposito dei versi, che «solamente vi dimostra
qual sia la natura d’huomo di grande et invicto animo, el quale
non fa gesto nè acto alchuno che non significhi essere invicto» (compostezza
e silenzio erano già per Orazio segni di nobiltà ma nei movimenti
fermi di Farinata compare pure, oltre alla rappresentazione della
Superbia così come mostrato da Capaneo che ha la stessa fiera posa,
la negazione del dolore frenetico, figurato, invece, dai movimenti
dell’altro dannato; il condottiero, quindi, indossa su di sé l’applicaziolontario
(i peli non si possono rizzare a commando), per esprimere il “sentito” da
parte del personaggio del pericolo crescente; pochi versi dopo, Virgilio per accelerare
la fuga attraverso la ripida parete della VI bolgia, prende, letteralmente, in
braccio il discepolo (vv. 37-42: «Lo duca mio di sùbito mi prese, / come la madre
ch’al romore è desta / e vede presso a sé le fiamme accese, / che prende il figlio e
fugge e non s’arresta, / avendo più di lui che di sé cura, / tanto che solo una camiscia
vesta»). L’atteggiamento materno di Virgilio (replicato in altre situazioni, si
pensi, per esempio, ai continui incitamenti all’attraversamento del muro di fuoco
di Pg., XXVII, dove Virgilio “immagina”, v. 54, di vedere Beatrice per rassicurare
Dante) non necessita di alcuna spiegazione, tant’è che la similitudine impiegata da
dall’autore per illustrare lo svolgimento dell’azione (e, dunque, anche il gesto di
Virgilio) conserva un frame strappato dal mondo quotidiano. Ma quale significato
esprime un gesto tanto comune? A livello mitico non potrà non far rimembrare al
lettore la fuga di Ascanio ed Enea, con quest’ultimo che tiene in braccio il padre
Anchise, così come narrata nel secondo libro dell’Eneide. Ma nella Commedia, che
parodizza il poema latino, i ruoli sono invertiti.
24 Si ricorderà – come già fa nel suo studio sulla similitudine Richard H. Lansing,
From Image to Idea. A Study of the Simile in Dante’s ‘Commedia’, Ravenna, Longo,
1977 – che la ricerca medievale del Divino si basa su teorie cognitive che prevedono
un processo d’apprendimento che passa dai visibilia agli invisibilia. Ciò che si
vede, “significa”; in altre parole, per Dante «visual perception of reality is a first
and necessary step toward apprehension of the unseen world of God’s reality»
(ivi, p. 45); il gesto è anch’esso un segno ed è altamente visivo.
[ 9 ]
760 paolo rigo
ne della contentio pseudo-ciceroniana)25. Sempre Landino non manca
di sottolineare la conformità tra parole e aspetto («Dipoi pone le parole
conforme a’ gesti»), rifacendosi, dunque, a Quintiliano26; ma il chiosatore
si interroga rispetto al passo quasi come se dovesse commentare
una scena teatrale.
In effetti, il canto in questione è pervaso da situazioni dialogiche
altamente significative27: in questi passi elocutio e, appunto, actio si
susseguono dando luogo a una lunga rappresentazione scenica di
scambi di battute che si conclude sul monito virgiliano posto, praticamente,
a chiusura dell’episodio. Davanti a Dante, personaggio assorto
dalla minaccia di future disgrazie, le quali erano state poco prima pronunciate
dal magnanimo Farinata28, Virgilio non solo rimanda l’ora
della preoccupazione a un tempo che verrà – è il riferimento al futuro
incontro con Beatrice (chiede, quindi, allusivamente concentrazione
per l’hic et nunc del viaggio) –, ma, assumendo anch’egli le fattezze di
un vero e proprio retore, sottolinea l’importanza delle sue parole attraverso
il «drizzare» del «dito» (movimento che potrebbe anche richiamare
il Salmo 118, 48)29. Ora, se si trattasse di un gesto isolato esso
potrebbe venir spiegato semplicemente facendo riferimento alle esigenze
della struttura narrativa, o ancora alla mimesi del reale; eppure
considerato che fin dall’incontro con Farinata ogni parlante era stato
descritto assumendo di volta in volta atteggiamenti che, al di là di
possibili suggestioni, potrebbero essere tipici di una disfida tra retori
(essi sottolineerebbero, dunque, la fase dell’actio), la specificazione attinente
il cenno di Virgilio potrebbe fornire una spia di lettura in tal
25 U n altro esempio è rappresentato dal cesaricida Bruto, il quale posto in bocca
a Lucifero non rinuncia al suo contegno stoico e non fa «motto» (If, XXXIV 66);
Giovanni da Serravalle nel suo commento al passo scrive che il silenzio «est signum
magnanimitatis». Per la contentio pseudo-ciceroniana cfr. Rhet. ad Her., III 15,
26-27.
26 Quintiliano precisava come il suono delle parole pronunciate dall’oratore
devono armonizzarsi con il senso contenuto negli stessi lessemi: Inst. Or., XI 3, 87.
27 Sul dialogo nella Commedia imprescindibile è il rimando al volume di Paolo
De Ventura, Dramma e dialogo nella ‘Commedia’ di Dante. Il linguaggio della mimesi
per un resoconto dell’aldilà, Napoli, Liguori, 2007 e alla bibliografia segnalata dall’autore.
28 Sulla magnanimità e sulla nobiltà in Dante sono usciti diversi lavori, mi permetto
di rimandare a un mio recente saggio utile soprattutto per la bibliografia
aggiornata ivi proposta (e discussa): Paolo Rigo, La nobiltà (e la politica) per Dante.
Alcune considerazioni intorno a una feconda stagione di studi, «Chroniques italiennes
web», XXXIII (2017), n. 2, pp. 1-30.
29 Ergo: «Et levavi manus meas ad mandata tua que dilexi».
[ 10 ]
dante e la retorica del gesto. primi appunti 761
senso e valorizzare così la plasticità del momento, proprietà relativa a
contesto e situazione. Due componenti che sembrano rispondere a
quella sorta di impianto “scenico” a cui accennavo e che era stato rilevato
secoli fa da Landino: in altre parole, la specificazione del gesto
sembra importante perché, in un certo senso, Virgilio continua, interrompe
e vince i “modi” dei dialoganti precedenti (impostati poi tra
loro diversamente: Farinata fermo e Cavalcante agitato e frenetico).
Ma nella Commedia sono anche altri i gesti celebri: vi è da registrare
almeno il cenno di riconoscimento eseguito di Manfredi, senz’altro
simbolico e “non terreno”30, oppure la postura “annodata” di Belacqua31,
e, ancora, quello delle «fiche» con cui Vanni Fucci insulta Dio,
per esempio. Il famoso segno del pistoiese, benché sia stato quasi del
tutto ignorato dal secolare commento (traccia, forse, di un’interpretabilità
immediata o, addirittura, scontata?), ha ricevuto negli ultimi
vent’anni un’attenzione significativa che ha permesso di raggiungere
dei cospicui risultati esegetici. Non voglio, per ovvi motivi, ripercorrere
la storia critica del passo, basterà ricordare alcune tappe fondamentali
a partire dalla curiosa (e piuttosto inattendibile) lettura di
Ignazio Baldelli del 1997. Secondo lo studioso, il cenno del ladro bestemmiatore
significherebbe l’atto sessuale (il pollice sarebbe il membro
maschile mentre indice e medio simulerebbero l’apparato riproduttivo
femminile)32. Eppure, Baldelli ha avuto l’indubbio merito di
30 Anzi, sulla descrizione e sul gesto operano almeno tre bacini culturali differenti:
Cristo che si fa riconoscere dagli apostoli ma anche Palinuro che si sacrifica
per la fondazione di Roma e, ancora, David. Su questo episodio la bibliografia è
piuttosto vasta; segnalo alcuni saggi particolarmente interessanti: Raffaele Giglio,
Il canto di Manfredi (‘Purg.’ III), «Critica Letteraria», LXX (1992), n. 2, pp. 211-
229; Giorgio Brugnoli, Manfredi c/o Palinuro, in Miscellanea di studi danteschi in
memoria di Silvio Pasquazi, 2 voll., a cura di Alfonso Paolella, Vincenzo Placella
e Giovanni Turco, Napoli, Federico&Ardia, 1993, vol. I, pp. 183-191; Cono A.
Mangieri, Le ossa di Manfredi, «Critica Letteraria», LXXXVI-LXXXVII (1995), n. 1-2,
pp. 109-122 (questo lavoro riflette molto bene sull’identificazione del possibile luogo
di sepoltura delle ossa del principe siciliano); Giuseppe Ciavorella, Virgilio e
Manfredi nel canto III del ‘Purgatorio’, «Esperienze letterarie», XXXVI (2011), n. 1, pp.
3-36.
31 Su cui cfr. Alberto Borghini, Belacqua “anodato”, «Linguistica e letteratura
», VIII (1983), n. 1-2, pp. 41-63 e, poi, il saggio, forse un po’ ingenuo, di Pietro
Crivellente, Gesto e corporeità nel IV canto del Purgatorio, in Novella fronda. Studi
danteschi, a cura di Francesco Spera, Napoli, D’Auria, 2008, pp. 81-96.
32 O al limite le fiche sarebbero da identificarsi con la congiunzione tra pollice
e indice. Cfr. Ignazio Baldelli, Le fiche di Vanni Fucci, «Giornale Storico di Letteratura
Italiana», CLXXIV (1997), n. 565, pp. 1-38. Il contributo ha ricevuto, invece,
il consenso di Giovanni Battista Bronzini, Saggi, studi, prospettive e scorci di an-
[ 11 ]
762 paolo rigo
aver riattivato l’interesse verso l’episodio. A seguire, molti altri lettori
di Dante hanno affrontato il brano: già Marco Berisso33 aveva “risposto”
alla lettura di Baldelli preferendo un’interpretazione più tradizionale;
ma veri passi in avanti sono stati fatti grazie a un “doppio” studio
di Andrea Mazzucchi che ha dapprima esaminato rigorosamente
l’esegesi storica del brano e poi anche quella figurata del poema dantesco34,
riconducendo il significato alla lettura tradizionale. Altre conferme,
ricavate da testi coevi o precedenti alla Commedia (oppure
dall’iconografia medievale) sono state portate da Concetto del Popolo
e da Marco Petoletti35. Inoltre: mentre Marco Grimaldi ha offerto delle
ottime puntualizzazioni filologiche36, Marianna Villa ha cercato di valorizzare
l’importanza del signum silentii di Dante personaggio prima
della metamorfosi dei ladri all’interno del contesto del canto. Infine,
Luca Marcozzi ha, invece, scorto un possibile legame tra l’oscenità del
pistoiese e le descrizioni delle «transumptiones “fetide”, escatologiche
e oscene», cito da Marcozzi37, presenti nel secondo capitolo della Rhetorica
novissima di Boncompagno da Signa; precisamente nel saggio si
fa specifico riferimento al segmento riguardante le adornationes (IX).
tropologia dantesca, in «Per correr miglior acque…». Bilanci e prospettive degli studi danteschi
alle soglie del nuovo millennio. Atti del convegno internazionale di Verona-Ravenna,
25-29 ottobre 1999, 2 voll., Roma, Salerno editrice, 2001, vol. II, pp. 785-810,
in particolar modo p. 801.
33 Marco Berisso, Gestacci (a proposito di ‘Inf.’, XXV 1-3 e di una recente ipotesi),
«Giornale storico di letteratura italiana», CLXXVI (1999), n. 576, pp. 583-589. Segnalo,
inoltre, in nota, il breve intervento di Giorgio Colussi, La forma, il significato,
il nome delle genti. A proposito delle «fiche» di Vanni Fucci, in «Carmina semper et
citharae cordi». Études de philologie et métrique offerts à Aldo Menichetti, éd. par Marie-
Claire Gérard-Zai, Paolo Gresti, Sonia Perrin, Philippe Vernay, Massimo
Zenari, Genève, Slatkine, 2000, pp. 309-313.
34 Andrea Mazzucchi, Le «fiche» di Vanni Fucci (‘Inf.’ XXV 1-3). Il contributo
dell’iconografia a una disputa recente, «Rivista di Studi Danteschi», I (2001), n. 1, pp.
305-315. Il saggio è stato poi ampliato e ripubblicato in Id., Tra ‘Convivio’ e ‘Commedia’.
Sondaggi di filologia e critica dantesca, Roma, Salerno editrice, 2004, pp. 127-
144.
35 Concetto Del Popolo, In margine alle ‘fiche’ di Vanni Fucci, «Rivista di Studi
Danteschi», IV (2004), n. 2, pp. 367-373; Marco Petoletti, «Digitum per modum ficus
ostendere». Da un’antica cronaca: chiosa a ‘Inferno’, XXV 1-3, «Rivista di Studi
Danteschi», VII (2007), n. 1, pp. 141-145.
36 Marco Grimaldi, La voce di Vanni Fucci (If, XXIV, 65-9). Ecdotica, commenti e
narratologia dantesca, «Bollettino di Italianistica», n.s. VII (2010), n. 1, pp. 141-156.
37 Luca Marcozzi, La ‘Rhetorica novissima’ di Boncompagno da Signa e l’interpretazione
di quattro passi della ‘Commedia’, «Rivista di Studi Danteschi», IX (2009), n. 2,
pp. 370-389, p. 381.
[ 12 ]
dante e la retorica del gesto. primi appunti 763
L’opera di Boncompagno, rivalutata dallo studioso, può essere
considerata come un vero e proprio paradigma della riscoperta dell’oratoria
da parte del mondo universitario del XIII. Composta non più
tardi del 1235, sicuramente era ancora letta a Bologna durante il soggiorno
dantesco38. L’importanza di Boncompagno, a seguito di una
rinnovata attenzione critica39, nella formazione di Dante, anche a causa
dell’uso del termine transumptio40, non è stata sottovalutata dagli
studiosi41. Tuttavia, oltre al saggio di Marcozzi che ho già ricordato e a
quello in anticipo sui tempi di Fiorenzo Forti42, solo Silvia Finazzi e
Maria Luisa Ardizzone hanno provato ad approfondire l’argomento
ma esclusivamente con lo scopo di provare a spiegare l’utilizzo nella
Commedia del termine transumptio (ma Dante non è l’unico a servirse-
38 Cfr. Francesco Bruni, Boncompagno da Signa, Guido delle Colonne, Jean de
Meung: metamorfosi dei classici nel Duecento, in Retorica e poetica tra i secoli XII e XIV.
Atti del secondo Convegno internazionale di studi dell’Associazione per il Medioevo
e l’Umanesimo latini in onore e memoria di Ezio Franceschini, Trento-Rovereto,
3-5 ottobre 1985, a cura di Claudio Leonardi ed Enrico Menestò, Perugia-
Firenze, Regione dell’Umbria-La Nuova Italia, pp. 79-108, per il confronto tra Dante
e Boncompagno si vedano le pp. 107-108.
39 R estando agli interventi degli ultimi venti anni, la nuova fortuna di Boncompagno
è testimoniata almeno dal volume Il pensiero e l’opera di Boncompagno da
Signa. Atti del primo Convegno nazionale di Signa, 23-24 febbraio 2001, a cura di
Massimo Baldini, Firenze-Signa, Allegri, 2002; dal saggio di Daniela Goldin
Folena, Oriente e occidente nella retorica di Boncompagno da Signa, in Poetica medievale
tra Oriente e Occidente, a cura di Paolo Bagni e Maurizio Pistoso, Roma, Carocci,
2003, pp. 279-291. Un grade contributo alla riscoperta del retore è stato offerto
da Paolo Garbini che ha pubblicato tre edizioni delle opere del maestro di retorica
(mi riferisco alla Rota Veneris, Roma, Salerno editrice, 1996; a L’assedio di Ancona.
Liber de obsidione Ancone, Roma, Viella, 1999 e al De malo senectutis et senii, Firenze,
Sismel-Edizioni del Galluzzo, 2003). Infine, necessita una menzione anche la monografia
di Daniela Goldin, B come Boncompagno. Tradizione e invenzione in Boncompagno
da Signa, Padova, Centro stampa di Palazzo Maldura, 1988.
40 Anche grazie alla voce di Francesco Tateo, Transumptio, in Enciclopedia
Dantesca, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1976, vol. V, pp. 690-692.
41 R estando sul campo retorico si vedano: Massimo Giansante, I lupi e gli
agnelli. Ideologia e storia di una metafora, «Nuova Rivista Storica», LXXXIII (1999),
pp. 215-224 (ma non si occupata della Commedia); Alba Maria Orselli, Fonti
dell’antica sapienza monastica in Dante, in Dante e la fabbrica della ‘Commedia’, a cura
di Alfredo Cottignoli, Donatino Domini e Giorgio Gruppioni, Ravenna, Longo,
2008, pp. 113-126.
42 Fiorenzo Forti, La magnanimità verbale. La transumptio (1967), in Id., Magnanimitade.
Studi sul tema dantesca, Roma, Carocci, 2006, pp. 103-135. Ma lo studioso
non ipotizza un rapporto tematico semmai “tecnico”, egli, infatti, afferma che dalle
scuole bolognesi di art dictaminis, Dante avrebbe ripreso «il gusto transuntivo,
non le figurazioni particolari» (corsivo nel testo, pp. 121-122).
[ 13 ]
764 paolo rigo
ne, il lessema è utilizzato, in verità, anche da Bene di Firenze)43. Ora, al
di là del problema della conoscenza approfondita da parte del cantore
di Beatrice dei testi di retorica medievale – verità a cui probabilmente
non si giungerà mai benché sembrino necessari studi e ricerche in
questa direzione –, anche chi, come Ezio Raimondi e Andrea Battistini,
ha definito tale bagaglio culturale alla pari di una conoscenza «scaltra
e ironica»44, non è rimasto indifferente alle potenzialità offerte dal concetto
teorizzato da Boncompagno. Il vantaggio amplificativo delle immagini,
di cui è latore il modus transumptivus – benché possa essere
una considerazione a posteriori –, permette, come hanno notato Emilio
Pasquini e Gaia Tomazzoli, «di abbattere ogni distinzione tra i diversi
tipi di immagine, tutti armonizzati in una sorta di “vortice analogico”
che dà vita ad una vera e propria enciclopedia delle
immagini»45. Stante tale ipotesi, al termine tecnico è possibile applicare
le parole che Marco Ariani ha scritto a proposito dell’altra parola
tropica dantesca, “metaphorismus”, presente nell’Epistola a Cangrande:
essa «annette il tema dell’ineffabilità ad un impiego mitopoietico
della metafora, intesa non solo come rimedio al naturale deficit linguistico,
ma quale specifico strumento espressivo della visione»46. Attraverso
la transumptio, che Boncompagno definisce quale «mater omnium
adornationum», prende corpo un’«imago loquendi» che, proprio
come verrà affermato nell’esempio di Alberti con cui ho aperto il
mio contributo, si comporta quasi alla pari di un «naturale velame»;
ergo, si tratta di una sorta di allegoria, dove sono nascosti i veri significati
dell’espressione47. Ma, proprio come accadeva per Agostino o
per Macrobio, ciò che è manifesto conserva un primo segno48. Le immagini
teorizzate da Boncompagno sono fortemente “esposte”; in
particolare, esse sono immagini in movimento, in cui la gestualità ri-
43 S. Finazzi, La metafora nella tradizione testuale ed esegetica, cit., pp. 76-80 e
Maria Luisa Ardizzone, Frammenti di un metodo, in Ead., Dante. Il paradigma intellettuale,
Firenze, Olschki, 2011, pp. 67-114.
44 Andrea Battistini-Ezio Raimondi, Le figure della retorica. Una storia letteraria
italiana, Torino, Einaudi, 1984, p. 53.
45 Cito da G. Tomazzoli, La metafora in Dante: temi e tendenze della critica, cit., p.
60. La studiosa si rifà esplicitamente a Emilio Pasquini, Il dominio metaforico, in Id.,
Dante e le figure del vero. La fabbrica della «Commedia», Milano, Bruno Mondadori,
2001, p. 209.
46 Marco Ariani, I “metaphorismi” di Dante, in La metafora in Dante, cit., pp.
49-52.
47 Rhetorica novissima, IX 2, 1.
48 M. Ariani, I “metaphorismi” di Dante, cit., p. 22 nota 39.
[ 14 ]
dante e la retorica del gesto. primi appunti 765
veste un ruolo preminente. Del resto, il maestro di Signa era un grande
esperto di gestualità: in un passo del Liber de amicitia (XXX), uno dei
tipici trattati sull’amicizia spirituale (e sulla disputa fra anima e corpo),
diffuso già nel 1204, inscena un dialogo fittizio tra l’autore stesso
e un falso amico, un de versipelli amico. Quest’ultimo, appena incontrato
il retore, bacia dapprima Boncompagno (scontato il rimando all’episodio
del Getsemani) e poi comincia a effettuare una serie di gesti
frenetici: arriccia il naso, digrigna la bocca ridendo, tira fuori la lingua
tra i denti, chiude un occhio, poi agita il capo, muove le ciglia, quindi,
la mano e il piede come un “istrione”; infine, senza spiegare il suo
comportamento un po’ “disordinato”, aggiunge che l’altro, possedendo
una buona conoscenza dei gesti e dei movimenti corporei (poiché
era l’autore di un supposto libro sui gesti e sui movimenti del corpo
umano in cui superava ogni esempio di intelligenza) avrebbe sicuramente
riconosciuto i segni di chi desiderava imbrogliarlo49. Anche nella
Rethorica antiqua (1215), l’autore duecentesco fa riferimento alla sua
presunta opera sui gesti: dopo aver spiegato che i cenni si comportano,
effettivamente, come la chiave di volta della transumptio perché
manifestano volontà “loquendo”, afferma che tale meccanismo si dovrebbe
vedere molto bene nel volume che ha composto sui gesti e i
movimenti del corpo umano50. La gestualità è una vera e propria fissazione
del maestro di Signa. Ancora nella Rota veneris non sono pochi i
gesti amorosi (e non) descritti51: basti ricordare l’esordio, topico,
dell’incontro imprevisto con una fanciulla nei pressi di un fiume52.
49 Il passo che ho deciso di parafrasare è citato da «Amicitia» di Maestro Boncompagno
da Signa, a cura di Sarina Nathan, Roma, Società filologica romana, 1909,
pp. 68-69. Purtroppo, tranne le poche edizioni moderne menzionate alla nota 39 di
questo intervento, l’opera di Boncompagno è quasi del tutto inedita. Il lodevole
progetto, promosso dall’Università di Pavia, http://scrineum.unipv.it, che prevedeva
la pubblicazione delle opere del retore online, risulta a oggi inaccessibile (ultimo
tentativo di consultazione il 2 settembre 2018).
50 «Gestus autem illorum qui subsannant et yronias proponunt subtiliter et
utiliter in libro quem feci de gestibus et motibus corporum homanorum notavi»
(cito da Martina Basso, Il I libro del Boncompagnus di Boncompagno da Signa: edizione
critica e glossario. Tesi di Laurea in Filologia Moderna, Università degli Studi di
Padova, Rel. Daniela Goldin Folena, Anno 2015-2016, p. 60).
51 Cfr. Philippe Guérin, La voie rhétorique vers le corps: narratio, descriptio, gestus
et transumptio dans la Rota Veneris de Boncompagno da Signa, «Arzanà», XVIII (2016),
pp. 148-164.
52 Situazione replicata da Dante nella celebre epistola inviata a Moroello Malaspina,
cambiano però i fiumi: in quella di Boncompagno è il Ravone, per l’Alighieri
è il Sarno.
[ 15 ]
766 paolo rigo
Non so se l’opera sui gesti fu effettivamente scritta da Boncompagno:
non ho trovato nessuna prova secondaria o oggettiva della sua
esistenza, a quanto ne so sarebbe la prima opera dedicata al “gesto” e
alla gestualità in ambito peninsulare: se esistesse davvero avrebbe anticipato
di quattro secoli L’arte dei cenni di Giovanni Bonifacio (1616);
testo che è considerato generalmente il primo trattato tutto italiano
sull’argomento. Di certo, però, i due passi citati riflettono un interesse
che Boncompagno non disdegna di manifestare ampiamente e che potrebbe
aver lasciato alcune tracce nella memoria dantesca. Innanzitutto,
tra i cenni scomposti del falso amico è possibile riconoscere la serie
dei tre gesti che Dante personaggio reputava sospetti a proposito dei
diavoli di Malebranche (anche essi digrignano i denti, minacciano con
le ciglia e, soprattutto, mettono la lingua tra i denti: al di là del significato
delle singole azioni, la replicazione della serie, in un contesto di
personaggi malfidati, mi sembra importante)53. Nel canto IX, per
esempio, i segni di disperazione delle Furie vengono di solito associati
dai vari commentatori – antichi e moderni a esclusione del Lana – al
lutto. I demoni infernali sono assimilabili, quindi, unicamente a immagini
della morte; ergo i loro cenni di rabbia, che terrorizzano il poeta,
sarebbero, in un certo senso (e comunque sintetizzo) solo una parodia
dei comportamenti luttuosi tenuti dalle donne durante il funerale
di un caro:
Con l’unghie si fendea ciascuna il petto;
battiensi a palme, e gridavan sì alto,
ch’i’ mi strinsi al poeta per sospetto.
(If, VIII 49-51)
Tale interpretazione mi sembra che sia un poco fuori contesto: perché
le Furie dovrebbero avere un qualche legame con il lutto? Perché
rappresentano la morte? Potrebbe esservi un legame con le opere storiche
nell’atto descrittivo dei vinti (e disperati)? Ma anche in questo
caso il contesto lascerebbe un po’ a desiderare. Considerato l’appello
di Dante al lettore, posto pochi versi dopo (su cui molto si è discusso),
mi domando se la minuziosa rappresentazione di tale gestualità così
nervosa non sia effettivamente un’imago loquendi, cioè una transumptio.
Non entro nel merito del significato dell’episodio ma vorrei ricordare
che Boncampagno nella Rhetorica antiqua (I 26) offriva, come ha
già notato (ma non facendo riferimento a Dante) Moshe Barasch in
53 If, XXI 130-139.
[ 16 ]
dante e la retorica del gesto. primi appunti 767
tempi non sospetti, il colorito esempio degli iracondi romani. Questi
ultimi sono del tutto associabili ai violenti contro se stessi (“self-injury”
secondo il saggista inglese) poiché posti in attesa di una vendetta
utopistica che non arriverà mai (per giunta auspicata per scontare la
morte di un caro!) si mettono a imprecare furiosamente e si scagliano
sul loro stesso corpo54. I particolari dell’immagine “allegorica” che li
rappresenta sono simili a quelle delle Furie: anche i rabbiosi abitanti
di Roma, nell’opera di Boncompagno si lacerano il viso con le unghie,
si battono i pugni, gridano e si rompono le vesti fino all’ombelico o sul
petto55. Ancora, a proposito di legami tra il retore duecentesco e Dante,
un possibile riscontro particolarmente interessante sembra essere
quello offerto dalla prostituta Taide. Secondo Marcozzi, al di là del
bacino figurativo da cui è tratto l’episodio (da riconoscere in Terenzio,
mediato da Cicerone)56, i gesti di Taide potrebbero essere messi in re-
54 R oma si dimostrò essere una città piuttosto violenta in cui le vendette consumate
o meno si rivelavano spesso come fatti di sangue del tutto inutili. Una
buona ricostruzione dello stato in cui versava la città è offerta da Alberto Di Santo,
Guerre di torri. Violenze e conflitto a Roma tra 1200 e 1500, Roma, Viella, 2016. Di
recente, nell’ambito di un seminario promosso dall’Università degli Studi Roma
Tre e dall’University City of London (svoltosi a Roma il 15 e il 16 maggio 2018),
intitolato Imagining Rome and Romanitas in Medieval and Renaissance Europe, ho avuto
modo di pronunciare una relazione (Roma violenta: la città eterna attraverso la voce
dei romani tra XIV e XV secolo) incentrata sulla questione della violenza a Roma.
55 Cito da Moshe Barasch, Gesture of despair in Medieval and Early Renaissance
Art, New York, New York University Press, 1976, p. 88.
56 Sulla trasmissione terenziana, più che sufficiente il breve ma assai accurato
lavoro di Raffaele Giglio, Dante fra Terenzio e Cicerone (la fonte latina per ‘If.’ XVIII
133-135), in Id., La poesia del ricordo e del perdono. Altri interventi su Dante e sui suoi
lettori, Napoli, Loffredo, 2007, pp. 147-154. Utile, inoltre, il contributo di Ezio Raimondi,
Dalla Bibbia a Taide, in Id., Metafora e storia. Studi su Dante e Petrarca, Torino,
Aragno, 2008 (ed. originale Torino, Einaudi, 1970), pp. 245-253. Mi permetto di ricordare
(sulla scia di P. De Ventura, Dramma e dialogo, cit., pp. 19-21) che la definizione
di Taide come «puttana» (If, XVIII 133) potrebbe essere derivata da una seconda
tradizione romanza; potrebbe cioè risalire alla leggenda di Santa Taide (narrata
anche da Jacopo da Varazze nel capitolo De sancta Thaisi meretrice de La Legenda
Aurea), la quale prenderebbe ispirazione da un’omonima opera teatrale medievale
di Rosvita (dove, scena XII 4, la meretrice prima della conversione compare in
carcere lorda di sterco: un antecedente delle «unghie merdose» di If, XVIII 131?).
Al di là del fatto che Dante conoscesse o meno l’opera di Rosvita (possibilità a cui
crede Edoardo Sanguineti, Interpretazione di Malebolge, Firenze, Olschki, 1961,
pp. 36-37, nota 4; ma che è decisamente negata da Marino Barchiesi, Un tema
classico e medievale: Gnatone e Taide, Padova, Antenore, 1963, pp. 163-164; si veda,
però, anche Zygmunt Guido Barański, «Sole nuovo, luce nuova». Saggi sul rinnovamento
culturale, Torino, Scriptorium, 1996, pp. 145-149) credo sia, invece, possibile
[ 17 ]
768 paolo rigo
lazione con «la transumptio che dell’adulazione si trova nella Rhetorica
novissima, tanto plastica e dinamica da risultare quasi un’allegoria in
movimento». Tra i vari gesti descritti da Boncompagno (nel capitolo
De adulationibus, IX 4, 8), almeno «due, la flessione delle ginocchia e lo
strapparsi i peli non sono distanti dalle oscillazioni e dai graffi tramite
i quali Dante rappresenta la laidezza di Taide»57. Ora, l’intuizione dello
studioso potrebbe essere rafforzata da un secondo riscontro. Nell’apertura
del capitolo dedicato alla transumptio, infatti, Boncompagno
offre una lunga interpretazione del concetto (che replica e amplifica la
teoria già formulata, in realtà, nella Rota veneris): dopo aver spiegato
che esso permette di porre in rapporto soggetti appartenenti a generi
diversi, e ancora che la transumptio, come la metafora, ha il suo campo
d’azione tra razionale e irrazionale, tra animato e inanimato, tra mondo
animale e umano, propone una serie d’esempi. Per i simboli animali
a cui sono, tradizionalmente, associati gli evangelisti Marco, Giovanni
e Luca, afferma che i rimandi dei primi due, leone e aquila, come
risaputo, simboleggiano la regalità di cielo e terra, il bue di Luca,
invece, oltre a far crescere la terra poiché l’ara, siccome «ruminat» – ed
è nota la solidità dell’immagine della ruminatio quale frame per configurare
la lettura – è da collegare ai mistici e agli intellettuali (IX 2, 8).
Allo stesso modo, ricorda che le frequenti apparizioni dello Spirito
Santo in forma di colomba altro non sono che delle transumptiones58;
oppure – per scendere un po’ di tono – afferma che la capra può essere
utilizzata come vehicle per l’uomo che puzza ma è anche valida per chi
è provvisto di una lunga barba ed è senz’altro corretta per chi è stato
“dotato” di corna dalla propria moglie59. Per ritornare, dunque, a Taide
e al suo lascivo “strusciarsi”, un poco sorprende riscontrare che tra
che egli attui una sincronia tra due tradizioni: al personaggio di Terenzio, in effetti,
potrebbe essere sovrapposta senza molte difficoltà l’immagine della meretrice convertita,
famosa in epoca medievale come mostra appunto la menzione della santa
nella Legenda aurea (già ricordata).
57 L. Marcozzi, La ‘Rhetorica novissima’ di Boncompagno da Signa, cit., p. 360. Si
segnala che Mario Marti (Id., Storia delle Stil nuovo, 2 voll., Lecce, Milella, 1973, vol.
I, p. 122), quasi inedito lettore di Boncompagno, riconduceva le «grasse e volgari
“transumptiones”», latrici di «spasso» e «scurrilità», a un’«occasione di depravazione
morale e di condanna» della donna, ergo alla tradizione misogina già biblica
(si veda Ecc., I 9, 1-3).
58 Rhet. nov., IX 2, 8: «Amplius Spiritus Sanctus apparuit in specie columbe
transumptus».
59 Ibidem: «Transumitur in hircum autem propter fetorem luxurie vel prolixitatem
barbe, vel quia ille, qui transumitur, de uxore dicitur esse cornutus».
[ 18 ]
dante e la retorica del gesto. primi appunti 769
i vari esempi era stato menzionato anche quello delle «scriptura criminosas
» e dei relativi autori bugiardi, non veritieri, ergo falsi e lusingatori.
Secondo Boncompagno, tale genere di scritture potrebbe essere
figurato «in iumenta»; mentre i suoi «peccatores», cioè gli scrittori
mendaci e, dunque, lo stesso peccato, andrebbero traslati in “sterco”.
O meglio, nel loro sterco dovrebbero essere sommersi fino a putrefarsi.
Una situazione simile a quella che subiscono gli adulatori danteschi
del XVIII canto dell’Inferno (dove, appunto, compare l’episodio dell’amante
di Trasone). Facendo seguito a tali dati, vorrei concludere su
alcuni punti del XV canto dell’Inferno: i versi 16-24, che precedono
l’incontro con l’antico maestro fiorentino, sono scanditi dalla ripetizione
di verbi visivi (riguardava, guardare, aguzzavan, adocchiato)60. Ora
potrebbe trattarsi di una rappresentazione realistica, tuttavia, considerato
che il colloquio viene effettuato con Brunetto Latini, non sarà
inopportuno un richiamo alla Rettorica dell’istitutore fiorentino. E precisamente
a un passo in cui egli ragiona della salutatio, intesa come
prima actio del discorso, legandola direttamente all’occhio, cioè allo
sguardo e, dunque, al gesto del saluto (Rettorica, LXXVI 27-28): realtà,
affetto e pratica retorica si incontrano ancora61.
Paolo Rigo
60 Il verbo aguzzare, che richiama un linguaggio bellico, è stato ampiamente
indagato da Luca Marcozzi, La guerra del cammino: metafore belliche nel viaggio dantesco,
in La metafora in Dante, cit., pp. 59-112, particolarmente pp. 101-102.
61 Mi viene, infine, da chiedermi se la pioggia infernale – sicuramente un richiamo
alla distruzione di Sodoma – non possa anche essere una parodia della
descrizione degli omosessuali contenuta nella Rhetorica novissima (IX 2, 17) di Boncompagno
da Signa, che usa una transumptio per indicare i rapporti sessuali incompleti:
essi «agitat ramum arboris, ut ros de illa descendat». Come in vita erano
impegnati a “far scendere la rugiada scuotendo gli alberi” ora in morte subiscono
la pioggia di fuoco a cui non c’è (e non ci sarà mai) riparo.
[ 19 ]

Dora Marchese
Filippo Tommaso Marinetti e l’arte degenerata
L’antipassatismo di Marinetti e degli altri esponenti del Futurismo decanta l’estetica
del brutto e vuole creare una frattura di senso e di immagine tra il corpo
umano perfetto, armonico e bello, espressione del vecchio, e il corpo umano
tecnologico e ibridato, espressione del nuovo. Questo procedimento lo avvicina
all’Espressionismo tedesco perché l’esaltazione futurista del “corpo degenerato”
è la medesima delle avanguardie che realizzarono la mostra Entartete
Kunst (Arte Degenerata) contro la cui damnatio Marinetti si scagliò violentemente
e polemicamente.

The anti-conventionalism of Marinetti and the other Futurists extols an aesthetic
of ugliness and aims to create a fracture of sense and image between the
perfect, harmonic and beautiful human body, deemed an expression of oldfashionedness,
and the technological and hybrid human body, an expression of
modernity. Such an approach likens it to German Expressionism in as much as
the Futurist exaltation of the “degenerate body” is the same as that of the avantgarde
movements that organised the exhibition Entartete Kunst (“Degnerate
Art”) against whose damnatio Marinetti battled violently and polemically.
Marinetti, Palazzeschi, Boccioni, Depero, Fillìa e gli altri esponenti
del movimento futurista discutono della rappresentazione del corpo
in ambito artistico e lo fanno allontanandosi, anzi rigettando i canoni
classici di armonia, grazia, perfezione ed equilibrio a favore della concezione
di un corpo nuovo, evoluto, «modificato e abbellito» dalla
guerra e dalle profonde trasformazioni imposte dalla modernità1. Un
corpo che ha perso la sua sacrale inviolabilità, che può e deve essere
mutilato, deformato, attraversato dal ferro e dal fuoco, ma che può
Autore: Università di Catania-Fondazione Verga; ricercatrice; doramarchese@
libero.it
1 Ci sia consentito rinviare a Dora Marchese, Il corpo, la donna, la guerra, la
macchina: la rivoluzione fisiologica futurista e l’uomo moltiplicato, «Critica Letteraria»,
XLV (2016), n. 172, pp. 463-476.
772 dora marchese
anche diventare cibo, materialmente e metaforicamente. Un corpo i
cui processi riproduttivi si auspica siano artificialmente perpetrati da
o attraverso le macchine, riscrivendo del tutto il rapporto maschio/
femmina. Un corpo il cui canone anticlassicistico è orgogliosamente
perseguito per tendere al brutto e al disarmonico, operando un drastico
ribaltamento di prospettiva e di stile che rimarca l’irrinunciabile
esigenza d’innovazione e di rottura con gli stilemi del passato.
Queste considerazioni sono supportate dall’analisi di testi come Un
ventre di donna, L’alcova d’acciaio, Come si seducono le donne, ma anche La
carne congelata e Un pranzo che evitò un suicidio2, dai quali emerge la
forte e significativa valenza per i futuristi della mutilazione e anche il
nuovo apporto dato dalla macchina nel processo di procreazione e nei
rapporti tra i sessi. In questi come in altri testi si auspicava, infatti, l’ibridizzazione
tra uomo e macchina, la fusione tra il ferro e la carne allo
scopo di realizzare una macchina viva, capace di assemblare in sé tutte
le caratteristiche positive e vincenti della meccanica: l’energia, la velocità,
il superamento dell’organicità e del deterioramento. E se alla Nike
di Samotracia bisognava preferire «l’alito esplosivo» di «un’automobile
ruggente»3, così nella fisiologia si aspirava alla perfezione del corpo
e persino al raggiungimento dell’eternità attraverso la tecnologia e la
scienza. Fine ultimo è il progressivo e definitivo superamento dei limiti
umani tanto che, per dirla con Depero, «bisognerebbe dimenticare
addirittura l’elemento uomo e sostituirlo con l’automa vivente»4.
In tal senso, la guerra è ovviamente il miglior chirurgo capace di
potenziare e rinvigorire il corpo umano: «la guerra chirurgica», scrive
Marinetti, «compie fulmineamente la rivoluzione fisiologica. Fusione
dell’Acciaio e della Carne. Umanizzazione dell’acciaio e metallizzazione
della carne nell’uomo moltiplicato. Corpo motore alle diverse
parti intercambiabili e rimpiazzabili. Immortalità dell’uomo!»5. Il passo
verso «l’uomo moltiplicato», meccanico e artificiale, incorruttibile e
2 Cfr. Enif Robert-Filippo Tommaso Marinetti, Un ventre di donna. Romanzo
chirurgico, Milano, Facchi, 1919; Filippo Tommaso Marinetti, L’alcova d’acciaio,
Milano, Vitigliano, 1922; Id., Come si seducono le donne, pref. di Carmen Llera, Firenze,
Vallecchi, 2003; Id., La carne congelata, in Gli amori futuristi, Cremona, Guelfi,
1922; Id.-Fillìa, Un pranzo che evitò unsuicidio, in La cucina futurista, Milano, Sonzogno,
1932.
3 Cfr. Filippo Tommaso Marinetti, Manifesto del futurismo, in Id., Opere di F.T.
Marinetti, Milano, Mondadori, 1968, p. 10.
4 Fortunato Depero, Nelle opere e nella vita, Trento, Tip. Editrice Mutilati e
Invalidi, 1940, p. 208.
5 F.T. Marinetti, Come si seducono le donne, cit., pp. 101-103.
[ 2 ]
filippo tommaso marinetti e l’arte degenerata 773
immortale, essere superiore e asessuato, cantato nel Re Baldoria (1905)
prima e, soprattutto, in Mafarka il futurista (1910) poi, è breve.
Certo pesava, e non poco, l’influenza di Alfred Jarry e del suo Le
surmâle (1902)6 che mette in scena l’uomo nuovo, capace d’incarnare i
valori della modernità nascente: la velocità, l’indistruttibilità, la forza
sovrumana e la potenza sessuale. Dal corpo di Mercueil, il protagonista
del libro, si sprigiona un’infinita energia: i suoi polpacci sono in
grado di competere, vincendolo, contro un treno lanciato alla massima
velocità sulla tratta transiberiana Parigi-Vladivostok; le sue braccia
sono capaci di combattere a mani nude contro il dinamometro dello
zoo del Jardin des Plantes; i suoi lombi sono capaci di accoppiarsi in
una sola giornata con un numero spropositato di donne. Ma, a differenza
dell’«uomo moltiplicato» di Marinetti, il supermaschio di Jarry,
imbattibile, mai stanco, il cui corpo è tutto movimento, tutto forza,
tutto sesso, tutto allineato ai tre credo fondamentali, Potenza, Dinamicità
e Ripetitività, nasconde in sé la debolezza dell’inumano. Mercueil,
per cui «l’amore è un atto senza importanza perché lo si può ripetere
all’infinito», nell’espletamento delle sue funzioni stupra e uccide una
bambina di pochi anni («violata a morte») e quando, per un esperimento,
viene attaccato alla Macchina-per-ispirare-l’amore, capace di
supplire elettromagneticamente alla sua mancanza d’umanità, il supermaschio
muore riverso sulle sbarre di ferro della propria villa con
in testa una corona ancora fumante di elettrodi e diodi.
Questi spunti si prestano ad essere messi in relazione con la trattazione
del corpo nell’arte oltre che nella letteratura, relazione che evidenzia
e corrobora la battaglia anticlassicista combattuta da Marinetti
e dai futuristi, il loro apprezzamento per il brutto e il disarmonico, e
che li pone in contrasto con l’opposto atteggiamento della Germania
hitleriana. Si potrà così comprendere quale fondamentale apporto ha
dato il Futurismo all’affermarsi delle avanguardie e al diffondersi
dell’icona di un corpo “degenerato”, vale a dire antitetico ai canoni
classici, espressione di disordine, irregolarità, primitivismo, raccapriccio,
in una parola della netta volontà di rottura con il passato.
Come detto i futuristi, provocatoriamente, sostenevano l’educazione
al disgustoso e al deforme. Palazzeschi, nel manifesto futurista
Il controdolore, vera pedagogia del riso, afferma la necessità di andare
contro la bellezza, la pulizia e la giovinezza:
6 Citiamo Alfred Jarry dall’edizione italiana Il Supermaschio, a cura di Giorgio-
Agamben, pref. di SebastianoVassalli, Milano, Bompiani, 2012.
[ 3 ]
774 dora marchese
Giovani, la vostra compagna sarà gobba, orba, sciancata, calva, sorda,
sganasciata, sdentata, puzzolente, avrà gesti da scimmia, voce da pappagallo
[…]. Non vi attardate sulla sua bellezza, se disgraziatamente
per voi ella vi sembra bella, approfonditela, e ne avrete la deformità.
Non vi adagiate mollemente sull’onda del suo profumo; una spira acuta
di quel puzzo ch’è la verità profonda della sua carne che adorate,
potrebbe un giorno sorprendervi […]. Non vi fermate a nessun grado
del deforme, del vecchio, essi non hanno come il bello e il giovane un
limite; essi sono infiniti7.
Marinetti, oltre al proclamato disprezzo per la donna («Noi disprezziamo
la donna, concepita come unico ideale, divino serbatoio
d’amore, la donna veleno, la donna ninnolo tragico, la donna fragile,
ossessionante e fatale, la cui voce, greve di destino, e la cui chioma
sognante si prolungano e continuano nei fogliami delle foreste bagnate
di chiaro di luna») esalta «l’uomo moltiplicato» e auspica il momento
in cui «la vita carnale sarà ridotta unicamente alla funzione conservatrice
della specie, e ciò sarà tanto di guadagnato per la crescente
statura dell’uomo», sognando di «poter creare, un giorno, un nostro
figlio meccanico, frutto di pura volontà, sintesi di tutte le leggi di cui
la scienza sta per precipitare la scoperta»8. Boccioni, la cui importanza
anche come teorico del Futurismo è ormai acclarata, intitola Antigrazioso
due sue fondamentali opere, una scultura e un quadro, e afferma
che «L’uomo […] creerà con la meccanica esseri vivi! Gli esperimenti
scientifici con tentativi di innesto e di creazione animale sono già nella
fisiologia un altro rudimentale ma meraviglioso esempio della vittoria
dell’uomo sulla natura»9.
Intento dei futuristi è scardinare dalla base il tabù della sacralità e
inviolabilità del corpo umano, il canone classico di beltà e sanità, funzionalità
e armonia. «In questo meraviglioso tempo infedele, veloce,
dissonante, asimmetrico e squilibrato», dichiara Marinetti, «crolla e
muore finalmente l’idiotissima armonia del corpo umano»10.
Non a caso, come suggerisce anche Umberto Eco, tra la fine dell’Ottocento
e il primo ventennio del Novecento in Europa vi fu il trionfo
dell’inconsueto, dell’asimmetrico, del distonico, in una parola del
7 Cfr. Aldo Palazzeschi, Il Controdolore, Firenze, Ed. di «Lacerba», 1914.
8 Cfr. Filippo Tommaso Marinetti, Guerra sola igiene del mondo, Milano, Ed.
Futuriste, 1915.
9 Umberto Boccioni, Gli scritti editi e inediti, a cura di Zeno Birolli, pref.
Mario De Micheli, Milano, Feltrinelli, 1971, pp. 86-87.
10 F.T. Marinetti, Come si seducono le donne, cit., p. 101.
[ 4 ]
filippo tommaso marinetti e l’arte degenerata 775
brutto. Le avanguardie “storiche” volevano affermare «coraggiosamente
il brutto». Gli autori «s’ingegnavano a “stupire il borghese” ma
il pubblico generico (e non solamente quello borghese) non solo si stupiva
ma si scandalizzava»11.
L’antipassatismo futurista, dunque, decanta l’estetica del brutto e
vuole creare una frattura di senso e di immagine tra il corpo umano
perfetto, armonico e bello, espressione del vecchio, e il corpo umano
tecnologico e ibridato, espressione del nuovo. Questo procedimento
lo avvicina all’Espressionismo europeo, a quello tedesco in particolare,
perché, come vedremo, secondo Marinetti tutta l’arte moderna ha
«italianissime origini, prevalentemente futuriste». L’esaltazione futurista
di quello che possiamo chiamare “corpo degenerato” (vale a dire
anticlassicista e anticanonico nella sua resa artistica, plastica, pittorica
e letteraria) è la medesima dell’Espressionismo e delle avanguardie.
Un tabù che venne infranto dalla così detta «arte degenerata» contro
la cui damnatioMarinetti si scagliò polemicamente.
Ma cos’era l’arte «degenerata»? Come fu accolta in Italia e dai futuristi
in particolare? E in che rapporto è la concezione del corpo
“nuovo e moderno” teorizzato dai futuristi con le immagini e le concezioni
degli artisti degenerati?
Tutto ebbe inizio il 19 luglio 1937 quando a Monaco furono organizzate
contemporaneamente due mostre. La prima esibiva le opere di
artisti allineati con l’idea estetica del Fürer, esaltanti l’eroismo, la dignità
ariana, i valori semplici e genuini delle famiglie tedesche dai
capelli biondi e dagli occhi azzurri, con i corpi atletici, sani ed energici
dei buoni lavoratori e buoni soldati. Quattrocentomila persone visitarono
la mostra. L’altra, allestita presso la nuovissima Casa dell’Arte
Tedesca, intitolata Entartete Kunst (Arte Degenerata), fu voluta dal regime
nazista (principalmente da Rosenberg) per mettere alla berlina
l’arte contemporanea d’avanguardia, considerata un esempio di decadimento
estetico, morale e culturale. L’esposizione, che comprendeva
650 opere di 120 artisti, accompagnate da didascalie dal tono canzonatorio,
era costellata di nomi eccellenti, perlopiù legati alla corrente
espressionista: Marc Chagall, Otto Dix, Max Ernst, George Groz, Paul
Klee, Max Beckmann, Wassily Kandinsky, Ernst Ludwig Kirchner,
Emil Nolde e molti altri. Un opuscolo illustrava lo scopo di quell’esposizione:
si voleva rendere chiaramente visibile ciò che costituiva
l’«orrendo capitolo finale del decadimento culturale degli ultimi de-
11 Umberto Eco, Storia della bruttezza, Milano, Bompiani, 2011, p. 365.
[ 5 ]
776 dora marchese
cenni»; si voleva umiliare un’arte che altro non era che pura «propaganda
giudaica e bolscevica»; si volevano rigettare queste «aberrazioni
» in cui al posto di figure appartenenti alla razza ariana si proponevano
«negri e puttane, paralitici e imbecilli», «figure umane che hanno
più affinità con i gorilla che con gli uomini»12.
Lo stesso Hitler nel discorso che tenne in occasione di questa Prima
Grande esposizione di Arte Tedesca a Monaco lo espresse a chiare lettere:
la Germania nazionalsocialista è per un’arte «eterna» e non per
un’arte cosiddetta«moderna». Suo intento è recuperare la sensibilità
del passato, dell’antico: «lo sport e la competizione temprano milioni
di giovani corpi e ce li mostrano nello sviluppo della forma e della
costituzione fisica, come forse mai si erano visti e neppure immaginati
per mille anni. Ne nasce un tipo di uomo nuovo», di «fiera prestanza
e salute» simile a quello che l’anno precedente si era già visto gareggiare
nei giochi olimpici. E a voler rimarcare il concetto Hitler continua:
«Storpi, malformati, cretini, donne capaci solo di suscitare ripugnanza,
uomini più simili agli animali che agli esseri umani, bambini
che se dovessero vivere così, meglio sarebbe che fossero colpiti dalla
maledizione divina. Tutto questo osano quei barbari dilettanti nostri
contemporanei come arte del nostro tempo»; la loro «ciarlataneria»
rischia di «turbare la nazione» e non lo si può permettere13.
Scopo della mostra Entartete Kunst è dunque che «il popolo sia
chiamato a giudicare la loro arte». In realtà, essa ebbe molto più successo
di quella dedicata all’arte ufficiale. L’arte degenerata venne visitata
da due milioni di persone che si misero in coda presso la Casa
dell’Arte pur di vedere le opere tanto vituperate dal regime, e l’esposizione
si spostò in altre città della Germania e dell’Austria. I lavori di
questi artisti ebbero un verticale calo di prezzo – con grande compiacimento
di quei gerarchi, come Goebbels e Goering, che in fondo li
apprezzavano e ne fecero incetta – e furono messi all’asta, rubati o
distrutti14.
Ma una notevole diversità correva tra fascismo e nazismo nel rapporto
con l’arte. Il nazismo voleva mettere alla gogna tutti i manifesti
delle avanguardie europee, non solo tedesche, e quindi anche il Futu-
12 Cfr. Il cavaliere dell’Apocalisse. George Groz, il Dada a Berlino e la mostra nazista
dell’arte degenerata, a cura di Giorgio Medici, Roma, Biblioteca d’Orfeo, 2012.
13 Il Discorso tenuto da Hitler è riportato ivi, alle pp. 73-76.
14 Nel marzo 1939 quasi 5000 dipinti e grafiche vennero messi al rogo nella
caserma dei pompieri a Berlino. Scomparvero per sempre opere di Matisse, Chagall,
De Chirico, Van Gogh, Mondrian.
[ 6 ]
filippo tommaso marinetti e l’arte degenerata 777
rismo italiano. E se i futuristi erano tollerati e spesso tenuti in buona
considerazione dal regime di Mussolini, secondo il quale l’artista doveva
seguire il proprio estro e la propria fantasia liberamente, Hitler
invece considerava l’arte come coincidente con la politica e nel Mein
Kampf aveva affermato che questa doveva essere al servizio dello Stato
e che la cultura doveva essere insegnamento morale. Le avanguardie,
esaltando l’arte del brutto, del macabro, del deforme, dello stridore di
denti, erano recepite come pugni nello stomaco per il gusto di allora,
vere e proprie aggressioni, corruttive e antiborghesi. Per il fascismo,
invece, la politica verso le arti conobbe graduali interventi e, a differenza
di quanto accadde in Germania, «nessun artista verrà realmente
messo al bando, e nessuna forma d’arte verrà condannata in quanto
tale, benché singoli artisti venissero con ogni evidenza favoriti dal
regime»15.
In tal senso il Futurismo, come parte dei movimenti d’avanguardia,
era ‘protetto’ in qualche modo dal fascismo. La Germania hitleriana,
invece, pur non approvandolo lo tollerava, anche se la mostra
dell’aeropittura di Amburgo del 1934 fu molto osteggiata da Rosenberg
che inventò persino un progetto di attentato nel tentativo, poi
frustrato, d’impedire a Marinetti di presenziare al vernissage16.
Ma non soltanto in quell’occasione Marinetti si scontrò contro l’ottuso
antiavanguardismo tedesco. Tra i numerosi esempi ricordiamo i
suoi stretti rapporti con Kandinskij, artista fuggito dalla Germania nel
1933, con il quale intrattenne una corrispondenza tra il 1926 e il 1932,
e che difese dai feroci attacchi della stampa italiana ed europea, in
particolare dalle velenose accuse di Mino Maccari (apparse sul numero
6-7, 1934 de «Il Selvaggio») che si scagliò contro «l’ebreo russo»,
«autore delle più ridicole baggianate che si siano viste», «pezzo grosso
dei sovietici», giustamente scacciato «dai Nazi»17. Degno di nota è anche
che Kandinskij si rivolse all’Accademico d’Italia Marinetti affinché
intercedesse presso il governo della Sassonia-Anhalt contro la
chiusura del Bauhaus che, purtroppo, nonostante l’invio di un telegramma
alle autorità tedesche da parte del padre del Futurismo, serrò
15 Il cavaliere dell’Apocalisse, cit., p. 77.
16 Gobbels a Berlino, invece, si mostrò più “morbido” nei confronti di Marinetti
e della mostra.
17 Kandinskij ripose con una lettera inviata al giornale da titolo Il coraggio delle
proprie opinioni in cui smontò tutte le accuse di Maccari, specificando di non essere
né ebreo né comunista e opponendosi con solide argomentazioni alle altre infondatezze
(«Il Selvaggio» (1934), n. 8, p. 44).
[ 7 ]
778 dora marchese
definitivamente i battenti nel settembre del ’32. In due lettere esposte
a Milano in occasione della mostra del Centenario futurista, poi, l’artista
russo si appellò ancora una volta a Marinetti, vero difensore delle
avanguardie, chiedendogli di intervenire contro i propositi nazisti,
poi avveratasi, di distruzione delle opere sottratte dalla commissione
di Rosenberg ai musei tedeschi. Sappiamo che Marinetti scrisse in merito
una lettera a Hitler che però non spedì mai18.
Marinetti aveva interesse che il Futurismo in Italia e all’estero non
fosse soffocato e limitato, voleva impedire che il cieco misoneismo nazista
attecchisse nel suo paese e, dopo la firma del Patto d’acciaio del
1928, si trovò ad essere attaccato anche dai fascisti a causa del suo atteggiamento
antigermanico e dichiaratamente antirazzista.
Suo grande oppositore fu Telesio Interlandi che, dalle colonne del
«Tevere», di «Quadrivio» e della «Difesa della razza», lo accusava di
vari peccati tra cui quello di essersi contrapposto a Hitler. Le avanguardie
e la mostra dell’arte degenerata, in sostanza, avevano creato
un’opposizione tra chi, come Marinetti, le riteneva sinonimo di sperimentalismo
e modernità, e chi, come i nazisti, le riteneva espressioni
ebraico-comuniste. Marinetti si pose in difesa della ‘modernità’ e
scrisse un bellicoso articolo in proposito proprio all’indomani della
firma del Patto d’acciaio dal titolo Iconoclastia artistica. L’ostracismo di
Hitler alle opere d’avanguardia. La risposta di F.T. Marinetti. In un significativo
passo afferma:
penso che Hitler è caduto da tempo nel pregiudizio di un’arte verista
statica analitica e fotografica condannando conseguentemente tutta
l’evoluzione artistica che dal post-impressionismo al dinamismo plastico
va conquistando sempre più sintesi, trasfigurazione plastica, movimento
splendore geometrico policromia, astrazione e simultaneità.
[…] Penso che Hitler cade in un altro gravissimo errore quando considera
ebraiche o comuniste le avanguardie futuriste della Germania
che semmai «furono influenzate dal Futurismo italiano anticomunista
per definizione19.
Marinetti armò dunque una campagna contro le accuse e gli insulti
di Interlandi mostrandosi vittima di un tentativo di repressione da
parte dei settori più retrivi e incolti del regime e organizzando una
grande adunata futurista a Roma nel ’39 che ebbe un successo e un
18 Ma, a ulteriore riprova del suo attivismo, ricordiamo la dedica fattagli nel
Canto LXXII da Ezra Pound.
19 «Cronaca Prealpina», 4 agosto 1937.
[ 8 ]
filippo tommaso marinetti e l’arte degenerata 779
clamore grandissimi come testimoniato, tra gli altri, da un collaboratore
di Marinetti, Luigi Scrivo, che racconta: «alla fine della manifestazione,
Marinetti e i futuristi che hanno riaffermato decisamente le italianissime
origini, prevalentemente futuriste, di tutta l’arte moderna,
vengono lungamente e ripetutamente acclamati»20. La difesa di Marinetti
a favore di quell’arte e di quella rappresentazione di un corpo
“degenerato”, secondo l’accezione che ne abbiamo proposto, convergeva
dunque, paradossalmente, con le istanze delle correnti antiborghesi
e antimilitariste che volevano un’arte che fosse espressione di
una società giudicata malata e corrotta, che fosse una potente arma di
critica sociale. In realtà, ci ricorda Argan, il Futurismo di Marinetti è
un movimento borghese dato da borghesi: «i futuristi si dicono antiromantici
e predicano un’arte espressiva di “stati d’animo”, fortemente
emotiva; esaltano la scienza e la tecnica, ma le vogliono intimamente
poetiche o “liriche”. Si proclamano socialisti, ma non s’interessano
di lotte operarie, anzi vedono negli intellettuali d’avanguardia l’aristocrazia
del futuro. Sono internazionalisti, ma annunciano che il “genio
italiano” salverà la cultura mondiale». La rivoluzione che si auspica,
dunque, è «ancora una rivoluzione borghese», industriale e tecnologica;
sotto il gusto dello scandalo e del disprezzo per la borghesia «si
cela un inconsapevole e involontario opportunismo»21.
In ogni caso la lotta di Marinetti a favore delle avanguardie è
espressione dell’assoluta rivolta contro la natura che, da una parte,
deve essere dominata perché rappresenta una minaccia (in accordo
con la scienza positivista e con le scienze umane come la psicologia o
l’antropologia) e, dall’altra, viene ripudiata perché è un valore della
generazione precedente, non più in sintonia col gusto “moderno”
d’intendere la vita. L’unico modo di accostarsi alla natura, diventa allora
quello di violentare la natura stessa, di dichiararle guerra come
dimostra il gusto per la distruzione che è una costante dell’Espressionismo
e delle avanguardie già prima degli anni ’20.
Dora Marchese
Università di Catania
20 Cfr. Il cavaliere dell’Apocalisse, cit., p. 89.
21 Giulio Carlo Argan, L’arte moderna (1770/-1970), Firenze, Sansoni, 2002, p.
159.
[ 9 ]

Cristiano Bedin
Un’«incursione» occasionale nel territorio
della memoria: L’entrata in guerra di Italo Calvino
come testimonianza del trauma e della crescita
Il saggio cerca di definire alcune caratteristiche della scrittura autobiografica
del Calvino. Si sottolinea l’importanza delle vicende storiche e del trauma a
esse collegato nella rappresentazione della figura del giovane Calvino, immortalato
nel critico passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Si giunge alla conclusione
che questo esile libro segna un momento di transito della narrativa
calviniana che approderà al progetto editoriale delle Fiabe italiane.

The article aims to define some characteristics of Calvino’s autobiographical
writing. The importance of historical events and of the related trauma is emphasized
in the representation of the figure of the young Calvino, caught in the
critical passage from adolescence to adulthood. It is possible to conclude that
this thin book marks a moment of transition in Calvino’s narrative that will ultimately
result in the editorial project of the Italian Folktales.
1. Introduzione
Nella vasta produzione letteraria di Italo Calvino L’entrata in guerra
(1954)1 è certamente il libro che l’autore amò di meno2 e verso cui la
critica si è dimostrata sempre poco interessata3. I motivi di un così vi-
Autore: Università di Istanbul; ricercatore; cristiano.bedin@istanbul.edu.tr.
1 Tutte le citazioni di brani da L’entrata in guerra [d’ora in poi EG] sono tratte
da Italo Calvino, L’entrata in guerra, Milano, Mondadori, 1994. Il libro raccoglie
tre racconti che nell’edizione definitiva presentano il seguente ordine: I. L’entrata
in guerra; II. Gli avanguardisti a Mentone; III. Le notti dell’UNPA.
2 Mario Barenghi, Calvino, Bologna, Il Mulino, 2009, p. 24.
3 Tra i pochi interventi su questo testo, spesso brevi e inclusi in testi di carattere
generale sull’intera opera calviniana, si ricordano: il risvolto scritto da Vittorini
per la prima edizione de L’entrata in guerra [1954], ora in Elio Vıttorini, I risvolti
dei «Gettoni», a cura di Cesare De Michelis, Milano, Libri Scheiwiller, 1988; Germana
Pescio Bottino, Italo Calvino, Firenze, La Nuova Italia, 1967, pp. 29-39; Giuseppe
Bonura, Invito alla lettura di Italo Calvino, Milano, Mursia, 1987, pp. 58-60;
Cristina Benussı, Introduzione a Calvino, Bari, Laterza, 1989, pp. 33-36; Bruno
782 cristiano bedin
stoso disinteresse di fatto sono, come ribadito da Mario Barenghi4, la
poca originalità della raccolta e la sua appartenenza alla memorialistica
di guerra, genere prediletto dal neorealismo letterario italiano del
secondo dopoguerra. Eppure questi tre racconti, che, secondo il giudizio
dello stesso Calvino5, sono «un’incursione» (EG VII) in un genere
a lui così «estraneo», come la letteratura della memoria, sono un interessante
documento in cui è possibile vedere uno scrittore alle prese
con il passato, con il ricordo della propria vita appartenente a un’epoca
ormai scomparsa e con la propria coscienza di antifascista, rinvigorita
dall’esperienza della Resistenza.
Ne L’entrata in guerra ci si trova di fronte a un Calvino che si impegna
a fare i conti con la sua personalità di un tempo – nel ruolo del
giovane adolescente che poco sa della vita – dal punto di vista del se
stesso degli anni Cinquanta – dell’uomo che ha acquisito una coscienza
ideologica attraverso la lotta armata contro il nazi-fascismo. Come
espresso nella Nota all’opera, rimasta inedita fino al 1991:
Qui la guerra è qualcosa di cui ancora poco si sa: sono i primi tempi
dell’intervento italiano in quello che si dirà il secondo conflitto mondiale;
e il protagonista è un ragazzo sotto vari riguardi privilegiato,
sottratto al dramma dei problemi urgenti, e che – forse proprio per
questo – poco sa ancora di se stesso. Ma i fatti narrati già contengono
prefigurata e implicita in sé molta parte del futuro; e già in essi opera,
col suo ritmo discontinuo, l’eterna interferenza tra le spinte della storia
collettiva e il maturarsi delle singole coscienze (EG VI).
È palese che Calvino veda nell’entrata in guerra dell’Italia quel
momento di rottura che segna il suo ingresso nel mondo reale e l’inizio
di un percorso di autocoscienza che lo porterà a divenire uomo.
Per comprendere a pieno il significato di questi tre racconti è necessario
tenere presente due soggetti-individui che si oppongono: da una
parte, l’Italo adolescente del tempo del racconto e, dall’altra, l’Italo
ormai adulto del tempo della scrittura. Al centro di questa dicotomia
s’inserisce l’immagine che l’autore ha voluto dare di sé, quando ormai
Falcetto, L’entrata in guerra. Note e notizie sui testi, in Italo Calvino, Romanzi e
racconti, I, Milano, Mondadori, 1991, pp. 1316-1328; Francesca Serra, Calvino,
Roma, Salerno Editore, 2006, pp. 81-92; Mario Barenghi, Italo Calvino, le linee e i
margini, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 90-93; Id., Calvino, cit., pp. 23-28.
4 Ivi, p. 24.
5 Il riferimento è a una nota scritta da Calvino e rimasta inedita fino alla sua
comparsa in I. Calvino, Romanzi e racconti, cit., pp. 1316-1317 nel 1991, ora pubblicata
anche in EG, vi-vii.
[ 2 ]
un’«incursione» occasionale nel territorio della memoria 783
si era avviato ad avere un posto nella vita intellettuale dell’Italia del
secondo dopoguerra.
Compiere l’analisi di un testo memorialistico allo scopo di far
emergere l’autorappresentazione dell’autore, come accade ne L’entrata
in guerra, impone prima di tutto la scelta di una metodologia critica.
In questo contributo si è deciso di basarsi su una lettura ermeneutica
che prenda in considerazione anche il contesto storico e sociale in cui
tale opera nasce. Questa lettura ermeneutica, definita materialista, ha
il pregio di fornire una comprensione adeguata del testo autobiografico
attraverso la comparazione di materiali intertestuali, la ricerca delle
tracce extratestuali e l’analisi di altri testi, letterari e non, scritti dallo
stesso autore. Tale approccio, del resto, si presta particolarmente ai
testi autobiografici neorealisti degli anni ’40 e ’50, in cui il rapportoscontro
tra individuo e Storia si fa più forte.
2. Premesse teoriche: il patto autobiografico, l’ermeneutica materialista e la
scrittura del trauma
Non è semplice dare una definizione del genere autobiografico data
la complessità che lega i tre termini che compongono la parola autobio-
grafia: si possono, infatti, nutrire dubbi verso l’uso di una prima
persona che di fondo non può conoscersi pienamente, l’incompiutezza
di una vita che può essere compresa solo al suo termine e le menzogne
che la scrittura genera nel momento in cui essa diventa racconto.
Sono tutte complicazioni che rendono discutibile la definizione tradizionale
che ritiene l’autobiografia come «il racconto che un individuo
fa della propria vita». È forse meglio correggere tale definizione, asserendo
che «l’autobiografia è il racconto della memoria che un individuo
ha della propria vita»6, poiché quando si legge un testo di tal genere
non ci si trova davanti alla vita vissuta di un individuo bensì alla
sua memoria – facoltà labile e cangiante.
Nella ricerca di una maggior precisione nell’inquadramento del
genere Lejeune pone al centro dell’autobiografia ciò che indica come
patto autobiografico, partendo proprio da alcune caratteristiche paratestuali:
«l’autobiografia (racconto che narra la vita dello scrittore)
suppone che ci sia identità di nome fra l’autore (col suo nome, in co-
6 Maria Anna Mariani, Sull’autobiografia contemporanea, Roma, Carocci, 2011,
p. 9.
[ 3 ]
784 cristiano bedin
pertina), il narratore del racconto e il personaggio di cui si parla»7.
Perciò, secondo il critico francese, il genere autobiografico è basato su
una sorta di accordo contrattuale, dove in linea di massima non sono
ammesse vie di mezzo8. In ogni caso lo stesso Lejeune ammette l’esistenza
di casi in cui il patto autobiografico è indeterminato9, dato che
lascia al lettore la possibilità di leggere il testo nel modo che ritiene
opportuno. Tuttavia in questo punto la teoria di Lejeune mostra i primi
segni di fragilità, derivata soprattutto dall’impianto strutturalista
della sua esposizione fortemente criticato da Gusdorf10. Infatti, secondo
quest’ultimo, l’autobiografia sarebbe una rilettura della propria
vita compiuta da chiunque prenda le distanze da se stesso al fine di
ricostruire la propria esistenza nel tempo e raggiungere un’autocoscienza
unitaria11. In tale processo di ricostruzione del proprio passato
risultano congenite alcune deformazioni tipiche di una visione retrospettiva:
pertanto l’autobiografia si configura non solo come una ricostruzione
ma soprattutto come una creazione di se stessi, dove ciò che
viene presentato non è ciò che si è stati, bensì ciò che si crede di essere
stati12. Risulta, quindi, impossibile stabilire un vero e proprio patto
autobiografico, dato che lo scrittore è portato a proporre un’immagine
di sé manipolata e deformata.
I dubbi sollevati da Gusdorf nei confronti dell’autenticità della memoria
autobiografica impongono di spostare l’attenzione del critico
dal personaggio biografico – realmente esistito – a quello letterario –
presentato nel testo. Una lettura ermeneutica dell’opera autobiografica
sembra essere il metodo più adatto a superare tutti gli ostacoli creati
da questa tendenza trasmutatrice della scrittura di sé. Gadamer sostiene
che è impossibile comprendere un’opera d’arte dalla sua interiorità
psicologica e dalla biografia dell’autore, ma che è necessario,
invece, partire da un’analisi di tipo linguistico che si basi non solamente
sull’esegesi, ma soprattutto sulla collocazione dell’opera nella
realtà effettiva a cui appartiene. Nel caso dell’autobiografia sembra
difficile escludere chi scrive dall’analisi di un testo che riflette il suo
7 Philippe Lejeune, Il patto autobiografico, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 23.
8 Cfr. l’affermazione «l’autobiografia non ammette gradi: è tutto o niente» (ivi,
p. 26).
9 Ivi, p. 30.
10 Cfr. Georges Gusdorf, De l’autobiographie initiatique à l’autobiographie littéraire,
«Revue d’Histoire Littéraire de la France», 75 (1975), N. 6, pp. 957-994.
11 Id., Condizioni e limiti dell’autobiografia, in Teorie moderne dell’autobiografia, a
cura di Bartolo Anglanı Bari, Graphis, 1996.
12 Ivi, p. 15.
[ 4 ]
un’«incursione» occasionale nel territorio della memoria 785
autore. Pertanto, secondo Cinelli è possibile reintegrare lo scrittore nel
circuito ermeneutico in quanto effetto storico, considerando «l’autore
dell’opera autobiografica come interprete […], il quale con coscienza
storico-effettuale […] dialoga “mediatamente” con la tradizione e
comprendendo il passato comprende se stesso»13. Dunque un’analisi
ermeneutica del testo autobiografico deve partire dalla storicità materiale
del testo e dal contesto in cui essa si colloca: l’autore diventa interprete
dei conflitti e delle tensioni sociali che animano la realtà storica.
Eppure l’ermeneutica materialista non deve perdere di vista il contesto
storio in cui l’opera è letta e interpretata: infatti, secondo Luperini,
«interpretare un autore e un’opera comporta un atto di comprensione,
attraverso il quale, da un lato, li poniamo nella loro storia e,
dall’altro, li situiamo nella nostra storia»14. Tre diverse dimensioni
temporali diventano così fondamentali per un’analisi ermeneutica del
testo autobiografico: il tempo degli eventi narrati, il momento della
stesura dell’autobiografia e la dimensione temporale della lettura.
L’ermeneutica materialista deve prendere in considerazione questi tre
momenti istaurando un dialogo che talvolta può giungere a conclusioni
conflittuali, poiché le interpretazioni sono spesso influenzate
dalla comunità in grado di modificare la sua stessa identità e le immagini
presenti e passate15.
Nell’interpretazione della dimensione narrativa di un testo autobiografico
un fattore importante risulta essere il trauma, in particolare
nelle narrazioni che si incentrano su argomenti bellici e resistenziali.
Dal momento che i racconti de L’entrata in guerra si collocano agli inizi
del secondo conflitto mondiale è legittimo offrire una breve trattazione
preliminare sull’importanza delle esperienze traumatiche nella
narrazione di sé.
È normale che l’esperienza traumatica finisca per influenzare sia il
flusso della memoria, che viene per tal motivo trasformato e deformato,
contaminando la rappresentazione autobiografica, sia la rappresentazione
del contesto sociale di un determinato periodo storico. Difatti,
il trauma, nel suo collocarsi all’interno della storia personale e
collettiva, non è mai del tutto personale; ricordare il trauma implica
contestualizzarlo nella Storia, ricreando una cornice che possa conte-
13 Gianluca Cinelli, Ermeneutica e scrittura autobiografica. Primo Levi, Nuto Revelli,
Rosetta Loy, Mario Rigoni Stern, Milano, Edizioni Unicopli, 2008, p. 52.
14 Romano Luperini, Il dialogo e il conflitto. Per un’ermeneutica materialistica,
Bari, Laterza, 1999, p. 26.
15 Ivi, p. 32.
[ 5 ]
786 cristiano bedin
nere l’esperienza personale vissuta. Inserire un’esperienza individuale
traumatica in un quadro storico-collettivo porta anche a considerare
che la memoria culturale, come la memoria personale, possiede ricordi
recuperati o repressi. La difficoltà della narrazione autobiografica caratterizzata
da vicende traumatiche è principalmente quella di situare
un dolore personale nelle maglie di una rete di connessioni comunitarie16.
Questa problematica appare accentuarsi in resoconti di memorie
che si collocano in un periodo dittatoriale o bellico. Il trauma diventa,
quindi, un elemento imprescindibile di molta letteratura neorealista
italiana, nata dal desiderio di raccontare un periodo drammatico come
quello della dittatura fascista e della Seconda guerra mondiale.
3. Italo Calvino e l’autobiografismo reticente
Partendo dalle considerazioni teoriche esposte nei paragrafi precedenti
è possibile analizzare L’entrata in guerra e alcuni altri testi a essa
collegati sulla base di una lettura ermeneutica materialista che non
prenda in considerazione esclusivamente il racconto o il narratorepersonaggio
ma anche il contesto storico in cui la narrazione è inserita,
tenendo sempre conto del fattore del trauma.
Si deve ricordare che, come espresso da Barenghi, Calvino è uno
scrittore che si è accostato al genere autobiografico di rado e in modo
poco programmatico17. Pur essendo vero che in buona parte delle sue
opere siano riscontrabili riferimenti a episodi realmente vissuti dall’autore
(si ricordi per esempio La speculazione edilizia, 1957, o La giornata
d’uno scrutatore, 1963), tra lo scrittore e i suoi lettori non si crea mai un
dichiarato patto autobiografico che induca a considerare l’autore come
personaggio del racconto, nemmeno in quei testi palesemente autobiografici,
come L’entrata in guerra e La strada di S. Giovanni (1962).
Tuttavia Calvino, a partire dagli anni Sessanta, ha più volte pensato
alla stesura di un’autobiografia – come testimoniano alcune sue note
manoscritte dove appare un elenco di testi che avrebbero dovuto
costituire un progetto autobiografico18. Questo abbozzo è la prova del-
16 Leigh Gilmore, The Limits of Autobiography. Trauma and Testimony, Ithaca,
Cornell University Press, 2001, pp. 31-32.
17 M. Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, cit., p. 84.
18 Tale elenco è stato prima edito nell’apparato di Italo Calvıno, Saggi, 1945-
1985, a cura di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, pp. 3029-3030, ora riveduto
e corretto in M. Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, cit., p. 85-86.
[ 6 ]
un’«incursione» occasionale nel territorio della memoria 787
la sua intenzione di rivolgersi a quel genere letterario per cui ha sempre
dimostrato poca propensione19. Com’è risaputo Calvino non ha
mai scritto un’autobiografia, anche se rimangono una serie di testi che
a loro modo evidenziano la volontà dello scrittore di raccontarsi. Ne
sono la riprova i testi che oggi sono raccolti nell’Eremita a Parigi. Pagine
autobiografiche (1994), usciti postumi ed editi dalla moglie, Esther Calvino,
che nella nota introduttiva alla raccolta annota:
Anni dopo [la morte di Calvino] trovai una cartella intitolata «Pagine
autobiografiche», che conteneva una serie di testi accompagnati da note
editoriali già pronte. Esisteva, dunque, un altro progetto di autobiografia,
del tutto diverso da quello accennato nella Strada di S. Giovanni.
È difficile, per non dire impossibile, capire in che modo Calvino avrebbe
presentato questi scritti, che ha lasciato in ordine cronologico. Non
vi è dubbio che si riferiscono agli aspetti più importanti della sua vita,
con l’esplicita intenzione di precisare le sue scelte: politiche, letterarie,
esistenziali, di farne conoscere il come, il perché, il quando20.
È possibile che dagli anni Sessanta in poi si sia sviluppato in Calvino
il desiderio di fare un’incursione nel territorio dell’autobiografia,
cedendo a un sentimento nostalgico e narcisistico, progettando abbozzi
e fissando idee progressivamente abbandonate e accantonate. Quello
dello scrittore è, quindi, una sorta di autobiografismo reticente, che
non si avvale di alcun patto con il lettore e nasconde la sua persona
dietro l’anonimato (o dietro uno pseudonimo). Del resto l’avversione
di Calvino nei confronti dell’autobiografismo è evidente fin dal suo
primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno21 (1947), in cui il protagonista
non è un giovane partigiano assimilabile all’autore – e si ricordi il
partigiano Johnny o Milton di Beppe Fenoglio –, ma un bambino.
Nell’introduzione alla nuova edizione del romanzo, scritta nel 1964,
proprio quando in Calvino maturava il desiderio di stendere un’autobiografia,
lo scrittore ribadisce la sua incapacità di parlare di sé:
Per mesi, dopo la fine della guerra, avevo provato a raccontare l’esperienza
partigiana in prima persona, o con un protagonista simile a me:
19 Si ricordi quanto scritto da Calvino in una nota autobiografica preparata per
la rivista «Gran Bazaar» nel 1980 e ora contenuta in Italo Calvino, L’eremita a
Parigi, Milano, Mondadori, 1996, p. v-vii: «Mi chiedete una nota biografica, cosa
che sempre m’imbarazza. I dati biografici o anche soltanto anagrafici sono quanto
uno ha più privato e dichiararli è un po’ come affrontare una psicanalisi (ivi, p. v).
20 Ivi, pp. 1-2.
21 Id., Il sentiero dei nidi di ragno, Milano, Mondadori, 1993.
[ 7 ]
788 cristiano bedin
scrissi qualche racconto che pubblicai, altri che buttai nel cestino; mi
muovevano a disagio; non riuscivo mai a smorzare del tutto le vibrazioni
sentimentali e moralistiche; veniva fuori sempre qualche smorzatura;
la mia storia mi pareva umile, meschina; ero pieno di complessi,
d’inibizioni di fronte a tutto quello che più mi stava a cuore22.
Complessi, inibizioni e un mancato spirito narcisistico spingono
Calvino a sminuire quei testi che sono espressione del desiderio di
porre la propria persona a nudo di fronte al pubblico: forse in tal modo
si possono spiegare il giudizio negativo e la poca rilevanza dati a L’entrata
in Guerra. Eppure il testo non è mai stato dimenticato dall’autore,
tanto da non essere escluso dalla raccolta dei Racconti (1958) – nonostante
la sua difficile collocazione in tale progetto editoriale23 – per poi
comparire, anche se tra parentesi, nell’elenco manoscritto degli anni
Sessanta per il progetto di un’autobiografia, precedentemente menzionato.
Del resto questi tre racconti risultano centrali nella biografia calviniana
proprio perché “narrativizzano” quel passaggio obbligato
dall’adolescenza alla maturità che per l’autore risulta maggiormente
traumatico, dato che coincide con il passaggio dalla pace alla guerra: è
il momento in cui nasce nello scrittore la consapevolezza della propria
coscienza antifascista – trasmessa dai genitori ma mai, finora, effettivamente
sentita24 – che lo porterà alla futura lotta resistenziale. Questo
cambiamento appare come un evento improvviso e inaspettato:
La mia storia era quella dell’adolescenza durata troppo a lungo, per il
giovane che aveva preso la guerra come un alibi, nel senso proprio e di
quello traslato. Nel giro di pochi anni, d’improvviso l’alibi era diventato
un qui e ora. Troppo presto, per me; o troppo tardi: i sogni sognati
troppo a lungo, io ero impreparato a viverli. Prima il capovolgersi del-
22 Ivi, pp. xix-xx.
23 In una lettera del 2 settembre 1958 a Piero Citati, Calvino confessa che a suo
parere i racconti de L’entrata in guerra non c’entravano nulla con gli altri inseriti
nella raccolta (Id., Lettere 1940-1985, a cura di Luca Baranelli, Milano, Mondadori,
2000, p. 558).
24 Nell’inchiesta pubblicata nel volume collettaneo La generazione degli anni difficili
(ora nell’Eremita a Parigi) Calvino scrive: «prima della guerra, più che un bagaglio
d’idee posso parlare d’un condizionamento – familiare, geografico e anche
psicologico – che mi portarono per via spontanea a condividere opinioni antifasciste
antinaziste antifranchiste antirazziste. Questo condizionamento e queste opinioni
non sarebbero bastate da sole a farmi impegnare nella lotta politica» (I. Calvino,
L’eremita a Parigi, cit., p. 150).
[ 8 ]
un’«incursione» occasionale nel territorio della memoria 789
la guerra estranea; il trasformarsi in eroi e in capi degli oscuri e refrattari
di ieri25.
L’entrata in guerra è la testimonianza di quella stagione di passaggio
in cui l’antifascismo e la guerra erano solo un alibi, una scusa usata
per prendere le distanze dalla società del Ventennio; è altresì un documento
genuino e spontaneo ma verso il quale lo scrittore sembra non
nascondere l’imbarazzo di aver, in un certo senso, accettato passivamente
alcune pratiche del regime, di aver partecipato per spirito conformista
alle sue celebrazioni e di non essersi emarginato da quel
mondo che era portato a detestare, ma per cui invece nutriva una sorta
di curiosità. Come espresso da Calvino in alcune pagine autobiografiche
dell’Eremita a Parigi:
Nello stesso tempo […] partecipavo alle adunate e alle sfilate dei balilla
moschettieri e poi degli avanguardisti: senz’alcun piacere, ma anche
accettandole come una delle tante cose noiose della vita scolastica. Il
gusto di sottrarvisi, di farsi sospendere da scuola per non essere andati
all’adunata o per non aver messo la divisa nei giorni di precetto divenne
più forte verso gli anni del liceo, ma anche allora era più che
altro una bravata d’indisciplina studentesca. Ma il modo come si vivevano
le manifestazioni fasciste ho già cercato di rappresentarlo in tre
miei racconti che si svolgono nell’estate del ’40; è inutile che ritorni
qui26.
Il riferimento a L’entrata in guerra, che chiude il paragrafo, sintetizza
il contenuto dell’opera: una rappresentazione delle manifestazioni
fasciste nell’ultima fase del regime. Eppure, da un’analisi più attenta
si può comprendere che il vero scopo della raccolta è soprattutto trasmettere
la testimonianza del momento in cui nello scrittore matura
quella coscienza antifascista che lo caratterizzerà in futuro. Calvino,
pertanto, in questo piccolo trittico autobiografico, si unisce a quell’
«insieme di voci»27, a quella «voce anonima dell’epoca»28 che aveva
caratterizzato il neorealismo, spostando comunque l’attenzione non
sul personaggio maturo (il partigiano), ma sul ragazzo che sta per iniziare
il suo processo di crescita individuale.
25 Id., Il sentiero dei nidi di ragno, cit., p. xxi.
26 Id., L’eremita a Parigi, cit., p. 141.
27 Id., Il sentiero dei nidi di ragno, cit., p. viii.
28 Ivi, p. vi.
[ 9 ]
790 cristiano bedin
4. L’entrata in guerra: una trilogia autobiografica tra Storia, crescita individuale
e trauma esistenziale
Come si è affermato nella sezione precedente Calvino dimostra un
certo imbarazzo nei confronti dei racconti de L’entrata in guerra proprio
per la sua difficoltà a parlare di sé. Inoltre egli vede nell’autobiografismo
«il pericolo dell’ipertrofia dell’io, dell’abbandono delle lusinghe
del solipsismo narcisistico. Ovvero del ripiegamento nostalgico
su di sé, del cedimento al piacere del ricordo dell’infanzia e del nido
familiare»29. Queste caratteristiche non si adattano alla convinzione
che dopo i disastri della guerra sia necessario guardare verso il futuro
piuttosto che verso il passato. L’appartenenza de L’entrata in guerra al
genere della memorialistica induce Calvino a declassare il libro a un’espressione
di quella discutibile «letteratura “di costume” tipo “il
Mondo” che poco m’interessa»30.
Questo «librettino un po’ esile»31 esce nel 1954 presso la casa editrice
Einaudi, nella collana dei “Gettoni” diretta da Elio Vittorini. Siamo
negli anni in cui Calvino sente di doversi dedicare alla scrittura di un
romanzo; pertanto la pubblicazione di un libro leggero come Il visconte
dimezzato e di una raccolta di tre racconti memorialistici fa nascere
nello scrittore un certo risentimento. Per di più L’entrata in guerra appare
un atto di abbandono a un atteggiamento narcisistico rivolto a
un’autoesaltazione fastidiosa, «con un “io” modello di tutte le virtù come
quello di Carlo Levi»32. In ogni caso l’approccio di Calvino all’autobiografia
può essere interpretato come un mezzo per superare la
crisi successiva ai suoi due primi libri: non bisogna escludere un certo
fascino provato dallo scrittore nei confronti del filone autobiografico,
visto come possibile punto di partenza per sviluppare un discorso
analitico che esula la pura invenzione fantastica33. Il tentativo di creare
una giusta mescolanza di realtà e finzione per ora non riuscirà a realizzarsi
e L’entrata in guerra ne è l’esempio, visto che, come riportato
nel risvolto della riedizione del 1974, questi racconti «avrebbero potuto
essere i primi capitoli d’un romanzo che, attraverso episodi minimi
d’una adolescenza di provincia avrebbe seguito la formazione d’un
giovane negli anni della seconda guerra mondiale» (EG, VI).
29 M. Barenghi, Calvino, cit., p. 24.
30 Lettera del 5 gennaio 1959 a Elemire Zolla (I. Calvino, Lettere, cit., p. 577).
31 Lettera a Vittorini del 5 ottobre 1953 (ivi, p. 381).
32 Lettera a A. Asor Rosa del 21 maggio 1958 (ivi, p. 549).
33 F. Serra, Calvino, cit., p. 83.
[ 10 ]
un’«incursione» occasionale nel territorio della memoria 791
Dal punto di vista strutturale, nella prima edizione del 1954 l’autore
preferisce presentare i racconti secondo la successione cronologica
di scrittura e di pubblicazione: pertanto, a Gli avanguardisti a Mentone
– scritto tra il 25 dicembre 1952 e il 18 gennaio 1953 e comparso in
«Nuovi argomenti» del maggio-giugno 1953 – segue L’entrata in guerra
– concepito tra il giugno-luglio 1953 e pubblicato sul «Ponte» nel settembre
1953 – e conclude la raccolta Le notti dell’UNPA – composto nel
settembre 1954 per essere direttamente inserito nella raccolta. Al contrario,
nel momento del loro inserimento nella sezione de Le memorie
difficili del Racconti (1958) l’ordine dei testi segue la cronologia dei fatti
narrati, ricostruita a partire dai riferimenti temporali posti all’inizio
di ciascuno scritto: si parte, quindi, da L’entrata in guerra – «il 1° giugno
del 1940 era una giornata nuvolosa» (EG 5) – per proseguire con
Gli avanguardisti a Mentone – «era il settembre del ’40 e io avevo quasi
diciassette anni» (EG 23) – e concludersi con Le notti dell’UNPA – «improvvisamente
nell’estate del ’40, scrissi una commedia […]; era settembre,
i miei compagni di scuola erano quasi tutti via» (EG 55).
I precisi riferimenti temporali (giugno-settembre 1940) e i dati anagrafici
del protagonista (un diciassettenne) servono a presentare con
precisione la situazione che viene sottoposta al lettore: un racconto
(auto)biografico di un ragazzo, colto in due momenti di crisi e di passaggio
– adolescenza-età adulta e pace-guerra – che casualmente finiscono
per sovrapporsi, combinando dissidi esistenziali a traumi storici
e collettivi. Per tali motivi L’entrata in guerra si presenta come una
testimonianza che non deve essere ignorata e che riveste una certa
importanza nella produzione di Italo Calvino.
4.1 L’entrata in guerra: senso di colpa, compatimento e trauma
Il racconto L’entrata in guerra si apre con la rappresentazione di un
io adolescente alle prese con le attività proprie dei ragazzi della sua età
e solo inconsciamente – «erano tempi che non avevo voglia di niente»,
(EG 5) – si rende conto del trapasso suo e della nazione verso un cambiamento
irreversibile. L’entrata dell’Italia nel conflitto mondiale, per
nulla desiderata – «noi quel mattino nel moscone continuammo a dire
quanto sarebbe stato bello se non si entrasse in guerra» (ibidem) –, si
realizza in un clima di sconforto che si riflette nell’ambiente circostante
– «era sempre nuvoloso; il mare era grigio. Verso la stazione passava
una fila di soldati. Qualcuno dalla balaustra della passeggiata li applaudì.
Nessuno dei soldati levò il capo» (EG 6). Il passaggio dall’ado-
[ 11 ]
792 cristiano bedin
lescenza alla maturità che può realizzarsi solamente attraverso una
cesura traumatica tra ciò che c’era prima, i giochi e la felicità della fanciullezza,
e quello che si presenterà dopo, le difficoltà e le responsabilità
dell’età adulta – passaggio che in Calvino sembra tardare a venire
(come espresso nell’incipit de Le notti dell’UNPA) – si concretizza sotto
la spinta di un cambiamento esistenziale legato alla degenerazione degli
eventi storici, alla conoscenza della guerra e dei suoi lutti (importante
è il riferimento all’amico Ostero, «morto a Marmarica», EG 7).
La maturazione emotiva del giovane narratore traspare in occasione
del primo allarme aereo, che non provoca vittime, se non quel bambino
accidentalmente morto ustionato. La guerra, quindi, incognita presenza
non ancora ben compresa, muove in lui un senso ossessivo di pietà e
compassione nei confronti di quella prima vittima uccisa per errore:
Io invece non potevo togliermi di mente la morte di quel bambino bruciato
nell’acqua bollente. Era stata una disgrazia, niente di più, il bambino
aveva urtato nel buio quella pentola, a pochi passi da sua madre.
Ma la guerra dava una direzione, un senso generale all’irrevocabilità
idiota della disgrazia fortuita, solo indirettamente imputabile alla mano
che aveva abbassato la leva della corrente alla centrale, al pilota che
ronzava invisibile nel cielo, all’ufficiale che gli aveva segnato la rotta, a
Mussolini che aveva deciso la guerra… (EG 8).
La morte accidentale del bambino lascia presagire l’andamento di
una guerra che appare sbagliata fin dall’inizio: questa convinzione è
supportata dal successivo ordine di evacuazione dei villaggi montani
prealpini. Lo sconforto di una madre che ritiene «questo “evacuamento”
d’oggi […] ingiustificato» e l’indifferenza di un padre «che della
guerra diceva solo cose fuori luogo […] essendo vissuto in America
durante il primo quarto di secolo» (EG 9) portano il protagonista a
cercare le risposte ai propri dubbi sulla guerra al di fuori delle mura
casalinghe. Perciò non è un caso che tutti e tre i racconti de L’entrata in
guerra si svolgano all’esterno, lontano da quel nido familiare fatto di
scienza e botanica. Come espresso da Barenghi, «l’ambiente famigliare
rimane escluso dalla rappresentazione, le figure dei genitori […]
appaiono qui defilate e anacronistiche, simili a residui di un mondo
bruscamente tramontato»34. Perciò l’attenzione del ragazzo si concentra
su quello che sta al di fuori del focolare domestico per sperimentare
la vita reale che nel primo racconto s’identifica con la povertà e
nella deformità del popolo contadino.
34 M. Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, cit., p. 90.
[ 12 ]
un’«incursione» occasionale nel territorio della memoria 793
Questa realtà muove nell’adolescente sentimenti che oscillano tra
la pietà e il disgusto: la compassione che deriva da un moralismo civile
e etnico inculcato dai genitori e la consapevolezza di non poter comprendere
quel mondo popolare da cui il giovane si sente lontano ed
estraneo. Il desiderio iniziale di rendersi utile si scontra con la sensazione
di essere «estraneo, tagliato via; perché loro, questa gente, per
me erano già stati una pena, un rimprovero» (EG 10). Il protagonista
si sente impotente di fronte a questa folla che non ama («io tutta questa
gente non la amavo», EG 11) e, preso dallo sconforto, si ritrova a
girovagare per i corridoi della scuola trasformata in un accampamento
per i profughi.
A questo punto compare nel discorso narrativo la figura di un vecchio
rachitico rannicchiato in una cesta. Questa presenza deforme che
si agita al passaggio del ragazzo lo riporta a quel dilemma iniziale, tra
il disgusto per quel simbolo deforme della vecchiaia e l’istinto cooperativo
e filantropico della sua famiglia. Inoltre, il vecchietto diventa la
rappresentazione di una crisi valoriale che la guerra concretizza con la
sua brutalità: è l’anello debole dimenticato, che non si sa dove mettere
e finisce per rimanere tra le mani inesperte del protagonista.
L’episodio dell’anziano contadino, che assume tratti macabri e
grotteschi35 e in cui gioventù e vecchiaia si scontrano, si pone al centro
del racconto. Il sentimento che pervade l’avanguardista è quello del
senso di colpa e del compatimento per quella gente che non desidera
conoscere. A imbarazzarlo «era la presenza in mezzo a loro degli storpi,
degli scemi gozzuti, delle donne barbute, delle nane, erano le labbra
e i nasi deformi del lupus, era l’inerme sguardo degli ammalati di
delirium tremens. Era questo volto buio dei paesi montanari ora obbligato
a svelarsi, a sfilare in parate» (EG 14). La deformità fisica è un
tema che tornerà a concretizzarsi anche nel 1963 con La giornata di uno
scrutatore, ambientato nella realtà anomala del Cottolengo, struttura
adibita a «dare asilo, tra tanti infelici, ai minorati, ai deficienti, ai deformi,
giù giù fino alle creature nascoste che non si permette a nessuno
di vedere»36. È il lato oscuro dell’umanità, questa deformità nascosta
e invisibile che nel 1953 – data della prima visita di Calvino alla
struttura ospedaliera del Cottolengo – attira l’immaginazione dello
scrittore e fa nascere in lui quel sentimento di vergogna e di disagio
per la sua condizione di privilegiato. Tale senso di colpa si presenta
35 Ibidem.
36 Italo Calvino, La giornata di uno scrutatore, Milano, Mondadori, 2011, p. 5.
[ 13 ]
794 cristiano bedin
nel momento in cui al giovane avanguardista viene chiesto di portare
un piatto di minestra a quella gente tanto estranea:
Nelle due siepi di gente tra le quali procedevo, preoccupato di non
versare brodo e di non scottarmi le dita, mi pareva che quel po’ di speranza
che potevo suscitare col mio piatto fosse subito perso nella generale
amarezza e disapprovazione per il proprio stato, di cui io rappresentavo
in qualche misura la parte responsabile. Amarezza e disapprovazione
da cui certo il conforto d’un po’ di brodo caldo serviva a distrarli,
anzi veniva – smuovendo un fondo di desideri elementari – ad
acuire (EG 15).
Il rapporto ravvicinato con chi sta subendo gli effetti traumatici
dell’entrata in guerra porta il narratore a ripensare a quel vano «distacco
per le cose della guerra» (EG 17) che come una corazza lo aveva
preservato dal timore per il futuro, atteggiamento infantile che ora si
scontra con quel desiderio di aiutare i contadini sfollati. La guerra si
materializza nell’attività di «portare al gabinetto i paralitici» (ibidem) e
lo stravolgimento sentimentale e il disagio nei confronti di una situazione
talmente inaspettata si rispecchia nell’azione di cambiarsi d’abito:
l’avanguardista, tornato a casa, si spoglia della divisa per indossare
i panni borghesi. Questo gesto si può forse interpretare come il rigetto
per i simboli del fascismo responsabile di tutto quel turbamento: il
protagonista togliendosi quella divisa torna a essere il borghese figlio
di intellettuali progressisti e antifascisti e cerca in tal modo di lenire il
senso di colpa per il dolore che lo circonda. Dopo questa mutazione,
scrive Calvino, «mi sentii subito a mio agio, leggero, svelto. Ero pieno
di voglia di fare, mi pareva di rendermi utile davvero» (EG 18).
Conclude la narrazione l’irrompere improvviso della presenza del
Duce che passa mentre il narratore sta per tornare a casa: «in un’auto
scoperta vicino a certi generali, in divisa da maresciallo dell’esercito,
c’era Mussolini. Andava a ispezionare il fronte. Si guardava intorno e
poiché la gente lo fissava attonita, alzò la mano, sorrise, fece segno che
potevano applaudirlo. Ma la macchina correva; era scomparso» (EG
20). Mussolini compare nella dinamicità delle sua figura mentre corre
a controllare l’efficienza della macchina bellica che ha allestito con
l’imprudenza di un giovane avventato. Per lui, secondo Calvino, l’entrata
in guerra non è altro che un gioco: «e come in un gioco, cercava
solo la complicità degli altri, poca cosa, tanto che quasi s’era tentati di
concedergliela, per non guastargli la festa, tanto che quasi si sentiva
una punta di rimorso, a sapersi più adulti di lui, a non stare al gioco»
(ibidem). Il giudizio ironico del protagonista, che si sente più adulto di
[ 14 ]
un’«incursione» occasionale nel territorio della memoria 795
Mussolini perché ormai ha compreso la mostruosità e l’ingiustizia
della guerra, si concentra su questa scena proprio perché segna il definitivo
passaggio dall’indifferenza della fanciullezza alla consapevolezza
dell’età adulta. Si compie, in sostanza, quel processo di crescita
che sarà tematizzato in modo simile negli altri due racconti.
4.2 Gli avanguardisti a Mentone: la delusione e la ribellione silenziosa
Il secondo racconto, Gli avanguardisti a Mentone, segna nuovamente
una sorta di fuga del protagonista dalla quotidianità «familiare e misurabile
» (EG 23) della propria città per andare a conoscere la realtà di
una zona di confine, la provincia fantasma di Mentone, da poco conquistata
dall’esercito italiano. A spingerlo è quel sentimento di noia
provocato da una guerra apparentemente innocua che non ha ripercussioni
sulla vita quotidiana delle persone: «era una guerra senza
paura e senza macchia, in cui io mi ritrovavo non so come, felicemente
libero e diverso» (ibidem). Al giovane, perciò, non resta che vivere
confusamente i propri sentimenti contrastati, tra pessimismo, malinconia
ed esaltazione, vagando per le vie cittadine. In particolare, la
psicologia del trauma si esplicita nella tendenza a un cinismo tipicamente
giovanile:
Alcune di queste notizie [le devastazioni nel contado], certe volte mi
piombavano in collere solitarie, in contorte smanie senza sfogo. Per
guarire ricorrevo, con la duttilità d’inclinazione dei giovani, al cinismo:
uscivo, incontrando gli amici fidati, ero tranquillo, limpido, ghignante:
– Di’, la sai l’ultima? – e le cose che in segreto m’erano parse
tormentose diventavano battute di dialogo, bravate paradossali, da
dirsi strizzando l’occhio, con brevi risate, quasi una compiaciuta ammirazione
(EG 27).
Il desiderio adolescenziale di far parte di un gruppo funge da collante
tra il protagonista e l’amico Biancone che «aveva più di me il gusto
di mischiarsi con le cose del fascismo» (EG 24). Nonostante la profonda
differenza tra i due personaggi, che appaiono per molti aspetti
caratteri opposti – antifascista e insofferente al regime il protagonista,
più spigliato e propenso ad adattarsi allo stile fascista l’amico –, si può
notare un’attrazione reciproca che li porterà a decidere di partecipare
insieme alla spedizione del Gil a Mentone per accogliere un gruppo di
giovani falangisti spagnoli. Per il narratore l’amicizia era in quel periodo
una necessità per alleviare il disagio di essere diversi, soli ed emar-
[ 15 ]
796 cristiano bedin
ginati: «io avevo ancora quel bisogno d’amici che è proprio dei giovani,
cioè il bisogno di dare un senso a quel che vivono parlandone con altri;
ossia ero lontano dall’autosufficienza virile, che s’acquista con l’amore,
fatto insieme d’integrazione e solitudine» (EG 29-30).
Per il giovane narratore rivedere la città occupata e saccheggiata
– «l’unica, simbolica conquista della nostra guerra di giugno» (EG
24) – è qualcosa di più che una semplice gita per sfogare il desiderio
di cameratismo, depravazione e vandalismo che sembra attirare i
suoi compagni; egli vuole vedere con i propri occhi quella terra passata
nelle mani degli italiani con azioni che non hanno nulla di eroico:
«Mentone non era stata conquistata, ma solo sgombrata dall’esercito
francese al momento del crollo e poi occupata e saccheggiata dai
nostri» (ibidem). È la curiosità di un osservatore privilegiato che intende
avere con la Storia un rapporto diretto, in contrasto – nuovamente
– con i propri genitori, i quali recandosi nella città occupata
per salvare esemplari rari di piante «perseveravano in quei gesti di
pietà vegetale, in un tempo in cui già i popoli morivano falciati come
l’erba» (EG 28).
L’occhio di Calvino si sofferma maggiormente sulla ricerca dell’essenza
nascosta della città, desolata e spettrale, che il primo giorno viene
tradita – «la mia perdita mi pareva irrimediabile: avevo speso in
modo uggioso quella giornata, senza sfiorare il segreto della città»
(EG 36). Lo sconforto per la perduta occasione di conoscere Mentone
si affievolisce davanti alle bravate dei suoi compagni che si aggirano
per le case e le ville abbandonate a rubare cose senza valore. Quel cameratismo
di stampo fascista, spaccone e aggressivo, trasmette al protagonista
un senso di fastidio e di disgusto:
A quel tempo, un’acrimonia aristocratica improntava molti dei miei
pensieri; e aristocratico era il modo in cui consideravo e avversavo le
cose del fascismo. Quella notte per me il fascismo, la guerra, e la volgarità
dei miei camerati erano tutt’uno, e tutto coinvolgevo in un medesimo
disgusto, e a tutto sentivo di dover soggiacere senza via di scampo
(EG 38).
Per questo motivo il fatto di non rubare nulla diventa una sorta di
ribellione silenziosa nei confronti di una deludente immagine di gioventù
depravata e deturpata dai sistemi educativi militareschi del fascismo.
Certo questo modo di atteggiarsi provoca nel narratore un
senso di disagio nel sentirsi diverso; però, nel procedere della narrazione
questo sentimento lascia il posto alla consapevolezza del proprio
contegno aristocratico e antifascista:
[ 16 ]
un’«incursione» occasionale nel territorio della memoria 797
E io trepidavo d’eccitazione: ero l’unico, l’unico fra tutti a non aver
preso niente, l’unico che non avrebbe preso niente, che sarebbe tornato
a casa a mani vuote! Non era che io fossi un tipo meno pronto e sveglio
degli altri, come fino a poco prima dubitavo: il mio era un contegno
coraggioso, quasi eroico! Ero io a esaltarmi, ora più di loro (EG 48).
In ogni caso il desiderio di prendere qualcosa che potesse ricordare
quell’esperienza deludente ed esaltante allo stesso tempo porta il giovane
a rubare la chiave di una delle stanze della Casa del Fascio. Un
gesto apparentemente senza senso ma che, invece, si carica nella mente
dell’avanguardista di uno speciale significato simbolico. Qui si ripresenta
la tendenza di Calvino a caricare alcuni gesti di un particolare
alone fiabesco, come nel caso de Il sentiero dei nidi di ragno, in cui la
chiave rubata diviene un oggetto magico che dona forza e coraggio a
chi lo possiede: «mi venne il desiderio che fosse una chiave importantissima,
indispensabile, che quelli là non trovandola diventassero
matti, che non potessero chiudere una stanza contenente un estimabile
bottino segreto, o documenti da cui dipendeva la loro sorte personale
» (EG 49). Il sentirsi in pericolo e felici di esserlo (EG 51) per aver
sottratto un oggetto talmente importante va interpretato come il riflesso
del tentativo di ribellarsi all’ideologia responsabile degli sconvolgimenti
politici e sociali che la guerra ha inesorabilmente comportato.
Sono l’immagine della guerra e la consapevolezza che ormai nulla
potrà essere com’era – considerazione che aleggia in tutto il trittico – a
determinare la conclusione di questo racconto: «c’era la guerra e tutti
ne eravamo presi, e ormai sapevo che avrebbe deciso delle nostre vite.
Della mia; e non sapevo come» (EG 52). Il sentimento di spaesamento
che il passaggio dalla pace alla guerra – descritto nel primo racconto
– provoca nel narratore coincide con il dissiparsi delle certezze della
fanciullezza e l’inizio delle incertezze dell’età adulta. Il timore per il
futuro verrà rielaborato nell’ultimo testo de L’entrata in guerra arrivando
a una definitiva accettazione del cambiamento e a un primo superamento
della crisi identitaria adolescenziale, attraverso un ritorno
simbolico al ricordo degli affetti familiari.
4.3 Le notti dell’UNPA: la triste accettazione del mutamento e il ritorno
agli affetti
Il racconto che conclude il trittico de L’entrata in guerra, pur iniziando
con uno spirito baldanzoso, tipico dell’età giovanile, si conclude
[ 17 ]
798 cristiano bedin
con la triste consapevolezza dello scorrere inesorabile del tempo. Già
dalle prime righe si può assistere a un primo riscontro del cambiamento
che coincide con l’inizio della guerra: «ero un ragazzo tardo; a
sedici anni, per l’età che avevo ero piuttosto indietro in molte cose. Poi
improvvisamente, nell’estate del ’40, scrissi una commedia in tre atti,
ebbi un amore, e imparai ad andare in bicicletta» (EG 55). Il definitivo
passaggio all’età adulta si realizza con il rito iniziatico della prima
notte passata lontano dal nido familiare, tanto che per la centralità
dell’elemento avventuroso Le notti dell’UNPA può essere considerato
un racconto picaresco, simile a altri scritti contenuti in Ultimo viene il
corvo (1949)37. Dietro il desiderio di prestare servizio notturno per UNPA
insieme all’amico Biancone, considerato dal protagonista più
esperto e spigliato di lui, si nasconde l’attesa di «una rivelazione nuova,
che ancora non sapevo quale sarebbe stata, la rivelazione della
notte» (EG 56).
La notte diviene nel racconto, come era già successo ne Il sentiero
dei nidi di ragno, il momento in cui ci si aspetta che succedano cose
straordinarie e magiche e in cui il protagonista desidera vivere esperienze
che segnino la propria esistenza. Eppure, nel vuoto bighellonare
tra le vie di una città addormentata, il protagonista prova «per quella
[loro] passeggiata notturna un senso di delusione» (EG 68). La presenza
della guerra viene più volte rievocata attraverso alcuni segni –
«luci azzurre, pali per puntellare i muri, mucchi di “sacchi a terra”, le
frecce che indicano i rifugi» (EG 68-69) – che si profilano nel buio della
notte, incutendo ai due ragazzi un senso di rispetto che limita atteggiamenti
di scherno e di divertimento.
Il vagabondaggio spensierato e goliardico suscita nel protagonista
e nel suo compagno il desiderio di sperimentare il sesso, considerato
la vera forza rigeneratrice della notte. Tuttavia la ricerca di un rapporto
sessuale, rito di passaggio per eccellenza che conferma la maturazione
dell’adolescente, diventa il punto di rottura che segna l’allontanamento
dei due giovani: infatti, mentre Biancone sale nell’appartamento
della prostituta, il protagonista rinuncia alle lusinghe della
Meri-meri per abbandonarsi all’angoscia malinconica di una città addormentata.
Come era successo ne Il sentiero, la figura femminile, le
cui malie rimangono assolutamente incomprensibili al giovane, si tramuta
in essere disgustoso: essa diventa, pertanto, «una donna pelosa
e ossuta» (EG 76), simile alla Nera di Carrugio Lungo, sorella di Pin.
37 F. Serra, Calvino, cit., p. 90.
[ 18 ]
un’«incursione» occasionale nel territorio della memoria 799
Inoltre, così come nel racconto Gli avanguardisti a Mentone, nel momento
del distacco dall’amico il protagonista si ritrova in riva al mare
a riflettere: la città e la sua immobilità infondono in lui la profonda
delusione di una notte che avrebbe potuto essere un vero momento di
ribellione a quello che è l’ordine costituito, ma che, invece, si presenta
solamente come «una sorda, disperata negazione del giorno» (ibidem).
Lo stesso desiderio di vivere la notte ricorda l’atmosfera notturna della
guerriglia partigiana presente ne Il sentiero dei nidi di ragno e in altri
racconti. La volontà di vivere qualcosa di nuovo viene comunque soddisfatta
con l’improvviso allarme per il passaggio di un aeroplano carico
di bombe che spezza la tranquillità di quella notte senza emozione,
passata a girovagare inutilmente. Tornato alla scuola in cui avrebbero
dovuto passare la notte, il giovane si ritrova, all’alba, a pensare al
padre che a quell’ora si stava svegliando per andare al suo podere.
È interessante notare che la raccolta L’entrata in guerra, dove il personaggio
principale tende ad allontanarsi da casa, si conclude invece
con la figura paterna nel momento del risveglio – ripreso successivamente
ne La strada di san Giovanni (1990) –, cosa che riavvicina il giovane
a quel nido familiare così tanto evitato. È possibile individuare in
questo ritorno alla famiglia il punto conclusivo di una ricerca di sé che
riporta chi l’ha intrapresa a rivalutare gli affetti a scapito del desiderio
di avventura. Forse è proprio questo il culmine del mutamento personale
del giovane che arriva ad accettare il trauma dell’avvento della
guerra e la crisi esistenziale che ne consegue, ritornando con il pensiero
a coloro che l’hanno educato a opporsi a un sistema militaresco e
dispotico. Questa è la spinta che lo porta ad abbracciare pienamente
l’attività antifascista che, dopo qualche anno, si concretizzerà nella
partecipazione alla resistenza armata.
5. Conclusioni
Al termine di questa analisi dei tre racconti contenuti ne L’entrata
in guerra è possibile fare alcune considerazioni finali su questa incursione
occasionale nel territorio della memorialistica della scrittura di
Calvino. È importante comunque ricordare che lo scrittore al momento
delle varie pubblicazioni dell’opera non stringe mai un esplicito
patto autobiografico con il lettore, nel senso che egli non induce chi
legge a vedere nel protagonista dei racconti un riflesso diretto dell’autore.
Rimane da dire che l’autobiografismo di questa piccola raccolta è
un fatto abbastanza palese, in primo luogo dati i riferimenti alla ma-
[ 19 ]
800 cristiano bedin
dre e al padre dell’autore, nonché ad alcune sue amicizie. A supportare
quest’idea è, per altro, la nota, scritta per l’edizione dei “Gettoni”
del 1954 e poi rimasta inedita, che definisce questi testi come una prova
di «lirismo autobiografico» (EG VII). Pertanto si realizza in questo
testo una sorta di patto autobiografico indeterminato che concede al
lettore la facoltà di considerare l’autore come protagonista della narrazione
oppure di negare tale relazione.
La riflessione di Calvino sulle sue esperienze giovanili si incentra
sul trauma che gli eventi storici hanno creato nella sua memoria proprio
perché lo scrittore si trova a vivere il passaggio dall’adolescenza
all’età adulta nel momento dell’entrata in guerra dell’Italia fascista.
Secondo uno studio ermeneutico materialista si nota come gli eventi
storici e sociali hanno influenzato la stessa visione di sé portando l’autore
a tratteggiare una rappresentazione particolare del proprio io giovanile,
caratterizzata da una coscienza antifascista non ancora ben
definita, trasmessa passivamente dalla propria famiglia e non ancora
pienamente interiorizzata. La guerra, inoltre, diventa un elemento che
segna la crescita interiore del personaggio-Calvino, il quale è portato
ad allontanarsi da quel sicuro nido familiare, fatto di scienza e antifascismo,
per entrare, invece, nei gruppi organizzati dal regime allo scopo
di avvicinarsi alla realtà tangibile della guerra. È quell’istinto
all’osservazione diretta che interessa l’occhio di Calvino, strumento
necessario alla vera conoscenza del mondo sensibile; ma questa fuga
nel mondo reale non può che segnare l’esperienza del trauma che si
riflette nella folla deforme composta dagli abitanti del contado o nella
delusione provata durante la visita a Mentone o la notte dell’UNPA.
Questo porta il narratore a rifugiarsi nel pensiero del padre, simbolo
del focolare, che segna il momento più alto del lirismo di questi racconti.
Nei paragrafi finali del libro ormai il protagonista sembra superare
quel sentimento traumatico derivante dal passaggio alla maturità,
rendendosi definitivamente conto della realtà e della concretezza
della guerra.
L’entrata in guerra è, pertanto, la testimonianza di un determinato
periodo esistenziale dell’autore, il quale si scontra con un determinato
momento critico della storia italiana. Ormai a distanza di anni, lo scrittore
intende offrire al lettore una rappresentazione particolare della
propria esperienza giovanile e confrontarsi non solo con la fine dell’adolescenza,
ma anche con la conclusione di quel clima di pace che ha
caratterizzato la sua fanciullezza. L’importanza di questa testimonianza
si scontra con l’imbarazzo di Calvino di fronte a questi racconti,
fatto che si può spiegare non solo con la poca propensione all’autobio-
[ 20 ]
un’«incursione» occasionale nel territorio della memoria 801
grafismo o alla vergogna di mettersi a nudo, ma con la sensazione di
non aver aggiunto nulla di nuovo a ciò che era stato detto in quegli
anni da molti scrittori neorealisti. Ciò non toglie che questo esile libro
possa essere considerato un interessante documento che contiene già
alcuni dei temi centrali della narrativa calviniana che saranno sviluppati
negli anni successivi a partire dalla realizzazione di quel progetto
editoriale di immenso valore che sono le Fiabe italiane (1956).
Cristiano Bedin
Istanbul Universitesi-Turkey
[ 21 ]

Antonio Lucio Giannone
Ricordo di Donato Valli
Nel presente articolo viene ricordato Donato Valli, a lungo docente di Storia
della letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università degli
Studi di Lecce, a un anno dalla scomparsa. In particolare, si passa in rassegna la
sua attività scientifica che comprende numerosi e importanti studi sulla poesia
italiana del Novecento, sull’ermetismo, sul “frammento” e la “prosa d’arte”,
nonché sulla cultura letteraria salentina dell’Otto-Novecento.

A year after his passing, the present article commemorates Donato Valli, a longterm
professor of History of Modern and Contemporary Italian Literature at
the University of Lecce. In particular, it examines his academic activity which
includes numerous and important studies on twentieth-century Italian poetry,
Hermeticism, the “fragment” and “artistic prose”, as well as on nineteenth- and
twentieth-century Salento literary culture.
Donato Valli (Tricase, Lecce, 24 febbraio 1931 – ivi, 18 ottobre 2017)
conseguì il diploma di maturità classica presso il Liceo-Ginnasio “G.
Palmieri” di Lecce. Da giovane frequentò l’ambiente di alta e raffinata
cultura letteraria che ruotava intorno all’Accademia salentina e alla
rivista «L’Albero», fondate a Lucugnano, frazione di Tricase, rispettivamente
nel 1948 e nel 1949 dal poeta Girolamo Comi, il suo primo
maestro. Qui conobbe numerosi letterati, tra i quali quelli che considerava
gli altri suoi maestri, accanto all’autore di Spirito d’armonia: Oreste
Macrì e Mario Marti. Nel 1961 si laureò in Lettere classiche presso
l’Università di Bari con una tesi sulla Mandragola di Niccolò Machiavelli
della quale era relatore Mario Sansone e, dopo un’esperienza come
ordinatore presso la Biblioteca provinciale di Lecce “N. Bernardini”,
divenne prima assistente incaricato presso la cattedra di Filologia
romanza e poi, nel 1970, assistente ordinario di Letteratura italiana
Ricordi
Autore: Università del Salento; prof. ordinario; mail: antoniolucio.giannone@
unisalento.it
804 antonio lucio giannone
presso l’Università di Lecce sotto la guida di Marti. Quello stesso anno
Valli, insieme a Macrì, riprese le pubblicazioni dell’«Albero» che continuò
ad uscire a loro cura fino al 1985, allorché egli venne eletto rettore
dell’Università di Lecce. Nell’anno accademico 1968-’69, sempre
presso l’Ateneo salentino, venne incaricato di Biblioteconomia e bibliografia
e nel 1971-’72 di Storia della Letteratura italiana moderna e
contemporanea, disciplina della quale nel 1971 diventò Libero docente.
Nel 1976, dopo aver vinto il concorso, diventò straordinario e dal
1979 ordinario della stessa materia. È stato Direttore del Dipartimento
di Filologia, Linguistica e Letteratura e Preside della Facoltà di Lettere
e filosofia dell’Università di Lecce. Ha fatto parte dal 1984 sino al 2017
del Comitato direttivo-scientifico di «Critica letteraria».
In questa sede è impossibile, ovviamente, dar conto di tutte le pubblicazioni
di Valli che figurano nella sua amplissima bibliografia alla
quale si rimanda per un panorama completo1. Ci limiteremo perciò a
indicare le principali linee di ricerca, facendo riferimento soprattutto
ai volumi nei quali ha raccolto i suoi studi.
Uno degli ambiti privilegiati delle ricerche di Donato Valli, in tutto
l’arco della sua attività di studioso, è stata senza dubbio la poesia italiana
del Novecento. Proprio ad essa, anzi, era dedicato il suo primo
volume, Saggi sul Novecento poetico italiano2, che comprende sette studi
su alcuni dei maggiori poeti contemporanei: Girolamo Comi, Luigi
Fallacara, Clemente Rebora, Umberto Saba, Eugenio Montale, Giuseppe
Ungaretti e Piero Bigongiari. E qui già si rivelano alcune preferenze
dell’autore che sono confermate nel successivo Anarchia e misticismo
nella poesia italiana del primo Novecento3, dove, accanto agli amati
Rebora e Comi, ci sono saggi dedicati ad altri importanti letterati dei
primi decenni del secolo ventesimo: Gian Pietro Lucini, Arturo Onofri,
Giovanni Boine, Guido Pereyra. A Clemente Rebora, uno dei poeti
italiani più tormentati e profondi del Novecento, da cui era attirato
per l’ansiosa ricerca spirituale e la forte tensione morale, Valli dedicò
anche il volume Cinque studi per Clemente Rebora (1997) nel quale raccolse
i suoi lavori pubblicati nel corso degli anni. È, insomma, la linea
più ardua e impegnativa della lirica novecentesca e primonovecentesca
che predilige il critico salentino il quale trova in essa non solo oc-
1 La bibliografia degli scritti di Valli figura in In un concerto di voci amiche. Studi di
Letteratura italiana dell’Otto e Novecento in onore di Donato Valli, a cura di Marinella
Cantelmo e Antonio Lucio Giannone, Galatina, Congedo, 2008, t. Ii, pp. 965-998.
2 Lecce, Milella, 1967.
3 Lecce, Milella, 1973.
[ 2 ]
ricordo di donato valli 805
casioni di raffinate analisi letterarie, ma anche possibilità di scavo nella
complessa interiorità degli autori e nelle problematiche di tipo prevalentemente
esistenziale e religioso da essi affrontate. D’altra parte,
una delle sue doti migliori è stata quella di “saper leggere” le opere
con una capacità di penetrazione davvero rara, che gli permetteva di
scendere in profondità nei significati più reconditi dei testi fino a entrare
in sintonia con l’autore affrontato, con una intensa partecipazione
che riusciva a trasmettere anche a chi lo ascoltava. E bisogna aggiungere
che quanto più questi testi erano difficili e oscuri, tanto più
egli si trovava a suo agio. A questa qualità si aggiunsero col tempo una
solida metodologia di tipo storico-filologica derivatagli da Marti e l’apertura
comparatistica trasmessagli da Macrì.
In ambito novecentesco, un altro argomento delle sue ricerche è stato
costituito dall’ermetismo italiano al quale si è sentito idealmente legato
per la sua formazione e anche per la vicinanza personale ad alcuni dei
suoi maggiori esponenti, come, oltre ai critici Macrì e Carlo Bo, ai poeti
Mario Luzi, Piero Bigongiari, Alessandro Parronchi. Nella Storia degli
ermetici4, Valli riesaminava questa corrente poetica e critica degli anni
Trenta senza i pregiudizi ideologici ed estetici che ne hanno caratterizzato
spesso l’approccio, sulla base soprattutto di un’accurata analisi delle
testimonianze di quel travagliato periodo della nostra storia e dei
principali testi teorici dei protagonisti. Erano così passate in rassegna
anche le accuse più ricorrenti che da molte parti, soprattutto nel secondo
dopoguerra, furono rivolte agli ermetici, quali l’intellettualismo, l’oscurità,
il disimpegno, provocando accese polemiche sulle pagine dei giornali
e delle riviste letterarie. Il “bilancio” che Valli traeva alla fine era
nettamente a favore dell’ermetismo, del quale, anche se non erano nascosti
certi limiti, venivano riconosciuti l’importanza culturale, in rapporto
al particolare momento storico in cui nacque e si sviluppò, il significato
di alta testimonianza morale offerto alle generazioni più giovani e
l’altezza dei risultati raggiunti sia in sede di poesia che di critica.
In quest’ambito si collocano anche altri lavori sui poeti della cosiddetta
“terza generazione” del Novecento, apparsi in storie collettanee
della letteratura italiana, come Contributo di una generazione5, o panorami
più ampi come Ermetismo e dintorni: la poesia dal 1920 al 19406.
4 Brescia, La Scuola, 1978. Su questo vol. cfr. Carlo Bo, Non smobilito, faccio
poesia, «L’Europeo», n. 22-23, 7 giugno 1979, pp. 154-156.
5 In Letteratura Italiana contemporanea, diretta da Gaetano Mariani e Mario
Petrucciani, Roma Lucarini, 1980, vol. II, pp. 258-325, 379-386, 403-418.
6 In Storia generale della letteratura italiana, diretta da Nino Borsellino e Wal-
[ 3 ]
806 antonio lucio giannone
Ma uno dei contributi più originali e significativi che ha offerto
Valli nello studio della letteratura italiana del Novecento è stato senza
dubbio l’esame di un genere letterario che si afferma nei primi decenni
del secolo, il “frammento”, che si colloca a metà strada tra la prosa
e la poesia e si oppone al romanzo come genere tradizionale. Un’attenta
ed esaustiva esplorazione di questa particolare produzione letteraria,
fino ad allora un po’ trascurata, venne da lui compiuta nel volume
Vita e morte del frammento in Italia7, in cui analizzava le opere di alcuni
scrittori legati con modalità diverse all’area culturale sviluppata
dalla rivista fiorentina «La Voce». La ricerca partiva da uno scritto teorico
di Arturo Onofri, Tendenze, nel quale erano delineate le caratteristiche
della nuova poetica, quella dello “scontenuto”, di chiara derivazione
simbolista. Successivamente egli passava in rassegna i
“frammenti”di Ardengo Soffici, Giovanni Boine, Camillo Sbarbaro,
Giovanni Papini, Carlo Linati, Federigo Tozzi e Vincenzo Cardarelli
che sottoponeva anche ad accurate analisi di tipo tecnico-formale.
In un altro volume, diviso in due parti, Dal frammento alla prosa
d’arte8, egli proseguiva l’indagine affrontando gli sviluppi del genere
“frammento” (prosa d’arte, elzeviro, capitolo) fino alle soglie della seconda
guerra mondiale. Nella prima parte, dopo aver esaminato i preliminari
storico-culturali, collocava la prosa d’arte tra frammento e
romanzo e ne individuava i modelli, gli autori e le opere principali per
giungere agli anni in cui questo genere entrava definitivamente in crisi
con l’arrivo della generazione dei “nuovi narratori” che portavano
istanze nuove anche di tipo etico e sociale, oltre che letterario, attraverso
la ripresa del romanzo. Nella seconda parte esaminava concretamente
alcune opere rappresentative della prosa d’arte di autori come
Rebora, Fallacara, Betocchi, Bigongiari e Caproni.
Un’attenzione particolare Valli ha rivolto anche ad alcuni importanti
poeti lucani, che sentiva intimamente “dialoganti” con quelli pugliesi,
in quanto legati tra loro da una comune matrice di tipo antropologico
che si rivela nella presenza di alcuni motivi caratteristici, se non
costitutivi, della civiltà e della cultura meridionale. Nel volume Dialoghetti
appulo-lucani9 sono raccolti studi su Leonardo Sinisgalli, Rocco
Scotellaro e Albino Pierro, accanto ad altri dedicati ad autori pugliesi
ter Pedullà, Milano, Motta 2000, vol. XI, pp. 308-351. Nel vol. X di quest’opera,
di Donato Valli, figurava anche il capitolo su La “Ronda” e i rondisti, pp. 1012-1035.
7 Lecce, Milella, 1980.
8 Lecce, Pensa Multimedia, 2001.
9 Lecce, Milella, 1986.
[ 4 ]
ricordo di donato valli 807
come Michele Pierri, Pietro Gatti, Nicola G. De Donno. In un volume
del ’90, Assaggi di poetica contemporanea10, figurano ancora studi sui Caratteri
della letteratura lucana moderna e su Il “caso” Scotellaro.
Accanto al Novecento, un altro periodo studiato da Valli è stato
quello che va dalla fine del Settecento ai primi decenni dell’Ottocento.
In esso si colloca la problematica affrontata nella robusta monografia,
Romagnosi e Manzoni tra realtà e storia11, nel quale erano messe a confronto
le teorie dei due letterati, tra Illuminismo e primo Romanticismo.
In quest’ambito cronologico rientrano anche alcuni studi dedicati
a uno dei maggiori protagonisti di quel preciso momento storicoculturale,
Pietro Giordani12.
Un altro filone che ha caratterizzato la sua ricerca è quello relativo
alla cultura letteraria che si è sviluppata nel Salento nell’Otto-Novecento.
A questo proposito, anzi, si può dire che senza lo scavo appassionato
condotto da Valli per tutta la sua vita non si sarebbe conosciuta
la ricchezza culturale di una regione ingiustamente trascurata dai
manuali e dalle antologie letterarie. Il frutto delle sue prime ricerche
fu rappresentato da un volumetto, La cultura letteraria nel Salento (1860-
1950)13, che costituì anche l’argomento del suo primo corso monografico.
Qui egli tracciava per la prima volta un panorama della cultura
letteraria nel Salento attraverso le principali riviste, da quella del secondo
Ottocento, come il «Gazzettino letterario» di Lecce e lo «Studente
magliese», fino a quelle novecentesche, «Vecchio e nuovo», «Vedetta
mediterranea», «Libera voce». Dalla sua indagine emergeva
chiaramente la vivacità di questa regione in campo culturale, nonostante
la sua marginalità geografica, che la distingueva rispetto a tutto
il Meridione.
Fu un gesto coraggioso e innovativo da parte di Valli, nella tradizione
accademica italiana, a dire il vero piuttosto conservatrice e conformista,
quello di occuparsi della letteratura di una regione periferica
e di nomi allora ancora poco noti in campo nazionale. Ovviamente
egli non affrontava questa materia con spirito localistico, provincialistico,
ma con grande rigore metodologico, mettendo sempre in rap-
10 Cavallino di Lecce, Capone, 1990.
11 Lecce, Milella, 1969.
12 Cfr. Il patriarcato letterario di Pietro Giordani, in Atti del Convegno di studi nel II
centenario della morte di Pietro Giordani, Piacenza, Cassa di Risparmio di Piacenza,
1974, pp. 111-156 e Giordani e Brighenti, «Giornale storico della letteratura italiana»,
vol. CLII, fasc. 479 (1975), pp. 400-438.
13 Lecce, Milella, 1971.
[ 5 ]
808 antonio lucio giannone
porto la cultura regionale con la letteratura italiana, secondo la lezione
appresa alla scuola di Marti, e le indicazioni teoriche, allora di grande
attualità, emerse dal Convegno di studi organizzato dall’AISLLI (Associazione
internazionale per gli studi di lingua e letteratura italiana),
che si svolse a Bari, Lecce e Foggia tra marzo e aprile del 1970, dedicato
proprio al tema “Culture regionali e letteratura nazionale”.
Nel 1985 ripubblicò il volumetto del ’71 col nuovo titolo Cento anni
di vita letteraria nel Salento (1860-1960)14, ampliandolo ulteriormente e
giungendo fino ai primi anni Sessanta con le riviste «L’esperienza poetica
» di Vittorio Bodini e «Il Critone», una rivista giuridica della quale
Vittorio Pagano curava le pagine letterarie, anche queste dimenticate
nelle storie letterarie ma che meritano di entrare a pieno titolo nel
panorama nazionale. Qui egli approfondiva anche l’indagine sul secondo
Ottocento e sui principali esponenti della cultura letteraria (e
non solo) della regione di quel periodo, utilizzando le ricerche da lui
compiute nei due volumi della “Biblioteca salentina di cultura” diretta
da Marti, dedicati ai Poeti e prosatori salentini fra Otto e Novecento. Nel
primo volume15, in due tomi, erano compresi infatti testi di Aleardo
Trifone Nutricati Briganti, Vincenzo Ampolo e Francesco Rubichi, preceduti
da un’ampia Introduzione. Il secondo16 comprendeva opere di
Giuseppe Gigli e documenti vari di cultura.
A dire il vero, Valli non ha mai finito di scavare nella cultura letteraria
della sua regione. Questo lavoro anzi, allo stesso modo dell’attività
svolta come rettore dell’Università di Lecce dal 1983 al 1992, lo ha
considerato una sorta di dovere civile e di missione di tipo etico a favore
della comunità e del territorio salentino. Diversi infatti sono i
volumi che ha continuato a pubblicare su questo argomento, tra i quali
spiccano le tre serie di Aria di casa (1994, 1999, 2005)17, raccolte degli
innumerevoli articoli che andava via via pubblicando su giornali e ri-
14 Lecce, Milella, 1985. Su questo vol. si veda Oreste Macrì, Il Salento letterario
di Donato Valli. (Struttura e significato), in In un concerto di voci amiche. Studi di Letteratura
italiana dell’Otto e Novecento in onore di Donato Valli, cit., t. I, pp. 7-10.
15 Poeti e prosatori salentini fra Otto e Novecento. Ampolo Nutricati Rubichi, Lecce,
Milella, 1980.
16 Poeti e prosatori salentini fra Otto e Novecento. Giuseppe Gigli e documenti vari di
cultura, Lecce, Milella, 1982.
17 Aria di casa. Il Salento dal mito all’arte, Galatina, Congedo, 1994; Aria di casa:
cronache di cultura militante, serie II, 2 tt. Galatina, Congedo 1999; Aria di casa. Esperienze
di volontariato letterario, serie III, 2 tt., Galatina, Congedo, 2005. Sul primo vol.
cfr. Mario Marti, Il Salento di Donato Valli. Una “provincia” autentica, «Voce del
Sud», 2 luglio 1994.
[ 6 ]
ricordo di donato valli 809
viste, dedicati non solo alla letteratura, ma anche alla storia, all’arte,
alla religiosità, alle tradizioni salentine, nonché a tanti scrittori e artisti
locali che esaminava sempre con grande generosità.
In questa direzione si collocano anche alcuni degli ultimi libri da
lui pubblicati, L’onore del Salento18 e Escursioni novecentesche nel Salento
e oltre19, sempre ricchi di indicazioni critiche ed esegetiche, nonostante
la genesi spesso occasionale degli scritti. A questo proposito, nella paginetta
introduttiva di quest’ultimo, così scriveva:
Ma nella varietà degli interventi, che non hanno, di conseguenza, una
omogeneità di contenuti tematici e cronologici, emerge comunque un
comune denominatore che tutti li accomuna e giustifica; ed è il Salento
come patria dell’anima e degli affetti, oltre che come ragione della stessa
esistenza. Il libro, insomma, che si aggiunge a quelli che lo hanno
preceduto in identico spirito di servizio e quasi di dovere, è il modesto
corrispettivo di tutto quello che ho ricevuto nell’ambito della famiglia,
dell’attività didattica or ora conclusa, dell’amicizia dei maestri e degli
allievi20.
Ovviamente, i poeti salentini che Valli apprezzava di più sono stati
Girolamo Comi e Vittorio Bodini, due figure di assoluto rilievo nazionale
e di respiro europeo, che egli ha avuto il merito di valorizzare
e imporre all’attenzione generale. Per quanto riguarda Comi, si può
parlare davvero, per riprendere un’espressione usata da Gianfranco
Contini a proposito del suo rapporto con Eugenio Montale, di una
“lunga fedeltà”, che come studioso è durata esattamente mezzo secolo.
Il 19 dicembre 1958, infatti, sulla «Gazzetta del Mezzogiorno», uscì
il primo articolo di Valli sul poeta salentino, dal titolo Vita del linguaggio
nella poesia di Comi, mentre al 2008 risale il volumetto Chiamami
maestro, Vita e scrittura con Girolamo Comi21, l’ultimo in assoluto da lui
pubblicato.
Ma vorrei ricordare anche, brevemente, le tappe principali di questa
ininterrotta attenzione da lui prestata all’autore di Spirito d’armonia.
Nel 1972 esce Girolamo Comi22, la prima monografia in senso assoluto
sul poeta, in cui sono raccolti tre studi, uno dei quali relativo alla
18 Lecce, Manni, 2003.
19 Galatina, Edizioni Panico, 2007.
20 D. Valli, A mo’ d’introduzione, in Id., Escursioni novecentesche nel Salento e oltre,
cit., p. 9.
21 Lecce, Manni, 2008.
22 Lecce, Milella, 1972.
[ 7 ]
810 antonio lucio giannone
sua “preistoria”, costituita dalla raccolta Il lampadario, pubblicata a
Lugano nel 1912. Nel 1977 Valli cura l’edizione critica dell’Opera poetica
di Comi23, un volume che contiene tutte le sue composizioni in versi,
messe finalmente a disposizione di studiosi e lettori. Nel 2000, ancora,
dà alle stampe un volumetto dal titolo Poeti salentini: Comi, Bodini,
Pagano24, in cui delineava le figure di questi tre letterati sulla base
del suo personale rapporto di amicizia e, nel caso di Comi, anche di
collaborazione. Nel 2001 organizzò un fondamentale Convegno di
studi su questo letterato, svoltosi a Lecce, Tricase e Lucugnano, i cui
Atti sono apparsi nel 200225.
Oltre a questi volumi, però, esistono numerosi saggi e articoli sparsi
su riviste e poi raccolti in altri libri di Valli. Mi limito a citare soltanto
gli ultimi tre compresi, col titolo generale di Recuperi comiani, nel
volume citato Escursioni novecentesche nel Salento e oltre. Ma anche sulla
seconda serie dell’«Albero» sono stati pubblicati spesso scritti inediti
di Comi curati dal critico salentino.
L’ultimo omaggio dell’allievo al suo venerato maestro è un libro
diverso dagli altri, Chiamami maestro, Vita e scrittura con Girolamo Comi,
che ho appena ricordato Esso infatti non è uno studio critico ma è
proprio la storia di questo sodalizio, di questo profondo rapporto
umano e intellettuale tra il “maestro” Comi e il “discepolo” Valli, che
si snoda nell’arco di oltre un ventennio. Questa storia parte infatti
dall’estate del 1947, allorché a Lucugnano avvenne il primo incontro
tra il diciassettenne liceale tricasino e il già maturo barone, che da lui
però – come racconta Valli nel libro – volle essere chiamato non col titolo
nobiliare ma semplicemente “maestro”, e termina solo nel 1968,
l’anno della sua morte26.
Per quanto riguarda Bodini, invece, il primo intervento risale al
1971, un anno dopo la sua morte, ed è un incisivo profilo dello scrittore
leccese, che nel 1979 venne inserito nel volume IX del Novecento. I
contemporanei27, notevole ancora oggi per la consueta penetrazione cri-
23 R avenna, Longo, 1977
24 Fasano, Schena, 2000.
25 Girolamo Comi. Atti del Convegno internazionale (Lecce-Tricase-Lucugnano,
18-20 ottobre 2001), a cura di Patrizia Guida, Lecce, Milella, 2002,
26 Per un’analisi di questo libro ci sia permesso di rinviare a A. L. Giannone,
Sentieri nascosti. Studi sulla Letteratura italiana dell’Otto-Novecento, Lecce, Milella,
2016, pp. 195-200.
27 Vittorio Bodini, in Novecento. I contemporanei. Gli scrittori e la cultura letteraria
nella società italiana. Ideazione e direzione di Gianni Grana, Milano, Marzorati,
1979, vol. IX, pp. 8553-8575.
[ 8 ]
ricordo di donato valli 811
tica. Di Bodini, Valli ha continuato a occuparsi costantemente, affrontando
altri aspetti della sua opera, come la rivista da lui fondata e diretta,
«L’esperienza poetica», e le opere in prosa, fra le quali spicca il
romanzo giovanile incompiuto, Il fiore dell’amicizia, rimasto inedito e
da lui pubblicato nel 198328. E nel 1984, insieme a Macrì e Ennio Bonea,
curò il volume che raccoglieva gli Atti dei Convegni che si tennero
nell’80 a Roma, Bari e Lecce per il decimo anniversario della scomparsa
dello scrittore29.
Un’attenzione particolare, nell’ambito di questo filone di ricerche,
è stata rivolta da Valli alla produzione dialettale salentina dell’Ottocento
e del Novecento. E in questo ambito spiccano i due volumi, divisi
in due tomi ciascuno, apparsi nella “Biblioteca di scrittori salentini”
diretta da Marti. Nell’Introduzione a quello dedicato a L’Ottocento30
Valli delinea la nascita della poesia dialettale salentina, collocandola
nel contesto storico-culturale di Terra d’Otranto nel periodo a cavallo
dell’unificazione, tra spinte centrifughe e influenza dei modelli nazionali.
Poi individua i centri principali di produzione da cui provengono
gli autori presenti nel libro: Lecce, Gallipoli e Ostuni. Questa storia
ha inizio con Francesc’Antonio D’Amelio che con la sua raccolta Puesei
a lingua leccese (1832) ha dato per primo dignità di lingua letteraria
al dialetto leccese.
Nel secondo volume, Dall’Otto al Novecento31 (1995), partiva invece
da Giuseppe De Dominicis (Il Capitano Black), il maggiore poeta dialettale
salentino fra i due secoli, per arrivare ai contemporanei, Pietro
Gatti, Nicola G. De Donno e Erminio Giulio Caputo. A questi tre letterati
poi, con i quali ha stabilito profondi rapporti amicali e intellettuali,
Valli ha dedicato svariati saggi e presentazioni, e se essi figurano in
antologie della poesia italiana del Novecento in dialetto, in buona parte
questo è merito suo.
Una summa di queste ricerche è costituita dalla Storia della poesia
dialettale nel Salento32, nella quale esse venivano sistemate organicamente
ampliando ancora di più l’arco cronologico dei volumi apparsi
28 Un romanzo inedito di Vittorio Bodini, «Rassegna trimestrale della Banca Popolare
SudPuglia», n. 1, marzo 1983, pp. 59-64.
29 Cfr. Le terre di Carlo V. Studi su Vittorio Bodini, a cura di O. Macrì, E. Bonea, D.
Valli, Galatina, Congedo 1984.
30 Letteratura dialettale salentina. L’Ottocento, a cura di D. Valli, Galatina, Congedo,
voll. 2, 1998.
31 Letteratura dialettale salentina. Dall’Otto al Novecento, a cura di D. Valli, Galatina,
Congedo, voll. 2, 1995.
32 Galatina, Congedo, 2003.
[ 9 ]
812 antonio lucio giannone
fino ad allora. Il punto di partenza infatti era costituito dal Settecento,
a cui risalgono le prime opere di letteratura dialettale riflessa, per arrivare
alle ultime, imprevedibili espressioni dell’uso letterario del dialetto
presenti nel “poema”, ’l mal de’ fiori (2000), di Carmelo Bene.
Ma nel 2006 Donato Valli rivolse l’attenzione anche a una singolare
operetta che ha studiato e pubblicato nel volume Una disputa settecentesca
tra scienza gioco e dialetto33. Si trattava di un libretto di estrema
rarità pubblicato a Lecce nel 1713 e ritrovato in una biblioteca privata
di Manduria, che deriva probabilmente dall’assemblaggio di tre opuscoli
differenti. Ebbene, la terza parte consiste in una “canzone” in
dialetto leccese alternato alla lingua, in 461 settenari sdruccioli, definita
“stampita” da uno dei personaggi del Dialogo, cioè componimento
accompagnato dalla musica. È, questo, sicuramente uno dei primi testi
dialettali finora conosciuti dell’area salentina, anzi, per meglio dire,
il secondo, dopo il Viaggio de Leuche (1691-’92) e prima de La rassa a
bute (1730 circa), Nniccu Furcedda (1730 circa) e Juneide (1770-’71), tutti
studiati e definitivamente sistemati da Marti nel volume sul Settecento
della Letteratura dialettale salentina, da lui curato nel 1994. Esso quindi
arricchisce ulteriormente il già folto panorama di questa particolare
produzione letteraria della regione. Questo volumetto venne mandato
da Valli in omaggio con dedica ad personam, come forma di ringraziamento,
agli amici e ai colleghi che avevano collaborato ai due tomi
curati da Marinella Cantelmo e dallo scrivente, dal titolo In un concerto
di voci amiche. Studi di Letteratura italiana dell’Otto e Novecento in onore
di Donato Valli, che la Facoltà di Lettere e filosofia gli dedicò in occasione
della sua quiescenza nel 2008. Anche questo rientrava nel suo
modo di essere e di concepire la cultura e i rapporti umani.
Antonio Lucio Giannone
Università del Salento
33 U niversità degli Studi di Lecce, Coordinamento SIBA, 2006.
[ 10 ]
Alviera Bussotti, Forme della virtù.
La rinascita poetica da Gravina a Varano,
Alessandria, Edizioni dell’Orso,
2018, pp. 234.
Libro ambizioso e complesso, le
Forme della virtù di Alviera Bussotti
(che dialoga con l’altro suo volume
Belle e savie: virtù e tragedia nel primo
Settecento, Alessandria, Edizioni dell’Orso,
2018) affronta un tema di
grande portata e di innumerevoli implicazioni
per la cultura, la letteratura
e la vita sociale del Settecento. La
studiosa si inserisce con intelligenza
in una tradizione di studi consolidata
che risale ai lavori di Amedeo
Quondam
e di Beatrice Alfonzetti,
disegnando un panorama organico
dei significati che la/le virtù assumono
nel primo Settecento e delle progressive
mutazioni che il concetto
conosce nella prima metà del secolo.
Il percorso tracciato parte dall’area
romana, dove condizioni politiche e
culturali, nonché il patronage di Clemente
XI, consentono un profondo
ripensamento della funzione delle
arti all’interno della società: Bussotti
è attenta a cogliere, al di là delle formulazioni
storiografiche più scontate,
il robusto legame che l’Accademia
di San Luca intrattiene con l’esperienza
di Giovan Pietro Bellori, regista
iconografico di rilievo europeo
nella Roma di fine Seicento, sottolineando
la forte continuità tra l’ambiente
di San Luca e l’Accademia
dell’Arcadia, dove il primo teorico
dell’estetica settecentesca, Gianvincenzo
Gravina, assegnerà alla poesia
il compito di creare ‘immagini’ seducenti,
che a beneficio degli indotti
traducano in forme corporee i concetti
astratti. Gravina risulta così, nella
ricostruzione di Alviera Bussotti,
al centro della più solida proposta di
investire la letteratura, l’eloquenza e
il teatro del compito di dare forma
alla virtù, ricorrendo altresì, nel secondo
decennio del secolo, al repertorio
offerto dalla storia, rinnovata a
sua volta dagli studi sull’antiquaria e
dal collezionismo: si forma così un
serbatoio di figure al quale attingono
la letteratura e il teatro tragico promosso
dagli accademici Quirini.
Accanto a Roma e con il significativo
trait d’union di Gravina, anche nel
Regno di Napoli (cui è dedicato il capitolo
III) la riflessione intorno alla
virtù assume un ruolo centrale, tanto
più forte in quanto sostenuta da un
progetto riformistico promosso dal
viceregno austriaco, con un accento
marcato, tuttavia, sulla mediazione
Recensioni
814 recensioni
sapienziale, sull’eredità filosofica greca
(nella quale il pensiero meridionale
riconosceva le proprie ideali origini)
e sulla dimensione elitaria della
virtù, coltivata nelle aule universitarie
e nelle accademie culturali. Alviera
Bussotti coglie la profondità di
pensiero, in questo campo, di Giambattista
Vico, mentre addita nelle tragedie
di Gravina e nel Giustino di
Pietro Metastasio i precipitati drammaturgici
di questa riflessione.
Una diversa linea evolutiva della
riflessione settecentesca intorno alla
virtù investe il rapporto tra virtù e
classe nobiliare, al centro dell’attività
di alcune accademie toscane, sulle
quali si sofferma la studiosa nel secondo
capitolo, e del pensiero di due
letterati come Scipione Maffei e Lodovico
Antonio Muratori. Alviera Bussotti
sottolinea delle prime le ambiguità
di una classe sociale che sente
l’urgenza di aggiornare concetti tipicamente
cinque-seicenteschi, come
quelli della ‘virtù eroica’, ma non sa
superare i limiti imposti da privilegi e
stili di vita secolari; mentre riconosce
a Maffei e a Muratori lo sforzo di tradurre
il concetto astratto di virtù in
chiave pubblica, declinando la voce
nelle sue diverse fenomenologie. Non
è certo un caso che, almeno il primo,
si formi in un contesto politico, la Repubblica
di Venezia, in cui la nobiltà
– pur attraversata in questi anni da
forti tensioni interne – aveva da sempre
operato tanto nel settore delle armi
quanto in quello del commercio.
Esaurito il quadro storico-teorico,
Alviera Bussotti si sofferma con
maggior agio sulle modalità in cui la
letteratura interpreta, nel primo Settecento,
il tema della virtù, individuando
lucidamente nell’allegoria il
codice dominante: anche in questo
caso, dalle premesse teoriche graviniane
(e di Biagio Garofalo) si sviluppa
una vivace tradizione di poesia
allegorica che annovera la scrittura
egloghistica di Gravina, quella di
maggior respiro di Antonio Conti, la
drammaturgia di Apostolo Zeno e
del Metastasio austriaco, e la poesia
di Alfonso Varano, le cui visioni recuperano
e rilanciano un genere letterario
destinato a una sorprendente
fortuna sul crinale del secolo.
Chiude degnamente questo percorso
un’interessante indagine sulle
metamorfosi che il topos di Ercole al
bivio conosce nella letteratura di primo
Settecento, da Muratori a Metastasio,
con una significativa sosta
sulle coste partenopee dove il platonismo
inglese di Shaftesbury incontra
quello napoletano del circolo di
Giuseppe Valletta e di Andrea Doria.
L’apparato iconografico, nient’affatto
esornativo, consente di seguire
il discorso critico di cui sottolinea i
momenti di svolta in questa importante
storia letteraria della virtù; ne
emerge un quadro della questione
esaustivo e intelligente, che affronta
coraggiosamente un tema che richiede
competenze e conoscenze diverse,
nonché una sensibilità nella lettura
dei testi che Alviera Bussotti dimostra
di possedere saldamente.
Valentina Gallo
Giuseppe Gioachino Belli, I sonetti,
edizione critica e commentata a cura
di Pietro Gibellini, Lucio Felici,
Edoardo Ripari, Torino, Einaudi
2018, voll. 4., pp. CLXXVIII-5050
(collana “I Millenni”).
La vicenda editoriale dei Sonetti di
recensioni 815
Giuseppe Gioachino Belli è tutta postuma.
Il «monumento di quello che
oggi è la plebe di Roma», uno dei capolavori
della nostra letteratura, doveva
andar distrutto nelle intenzioni
dell’autore, che all’opera fu legato da
un rapporto apparentemente controverso
se, mentre ne raccomandava
l’incenerimento, guardava bene di
affidarla – in bella copia – a mani sicure,
sicuro che al rogo non avrebbero
provveduto. Pochi componimenti
circolarono – e clandestinamente,
senza permesso – fin quando fu vivo
il poeta, che in serate ricorrenti li leggeva
agli amici nelle case di Roma,
impassibile come una specie di Buster
Keaton: le testimonianze dicono
che all’Accademia Tiberina, per i
suoi versi italiani, quell’«ometto di
mezzana statura, colla faccia amara
tinta d’itterizia, colle movenze penose
d’un malato di fegato» (secondo le
antiche dottrine l’umor nero, dal
quale Belli fu assediato fino a grave
ipocondria, ha la sua origine nel fegato
e nella bile), a un certo punto,
tra «un mormorio d’aspettazione»,
sollecitato, «cavava di tasca un foglio,
lo apriva, vi metteva sopra l’occhialetto,
poi alzava la testa e annunziava
il titolo al pubblico», prima di
scandire distintamente. Per i versi
dialettali, riservati a pochi felici e fidati,
«sorbendo il caffè, dopo essersi
fatto un po’ pregare, ci recitava quei
suoi sonetti che noi dicevamo proibiti.
Pareva egli non potesse declamare
a modo, se non sedeva comodamente,
e non metteva in capo un berrettino
di seta nera, che durante la recitazione
veniva rigirato sul cranio. Non
era possibile non smascellarsi dalle
risa, sopra tutto per la serietà a cui
atteggiava il suo volto sbarbato, e
per se stesso severo, sul quale invano
avresti aspettato un sorriso». Non si
vuole far passare inosservata quell’impassibilità:
non solo un artificio
che per contrasto esaltava il comico,
ma una presa di distanza dalla materia
dei sonetti: lì parlava la plebe,
non Belli. Infine, evitava perfino le
repliche, perché nessuno potesse
mandare a memoria quei versi. Ma la
fama anche fuori d’Italia, prima con
Gogol’ poi con Sainte-Beuve, era
pronta a deflagrare.
Con le edizioni, si iniziò due anni
dopo la morte del poeta (1863), nel
1865-66, con la scelta «travestita»
(Vergara Caffarelli) e «castrata» (Vigolo)
edita dal Salviucci e dovuta al
figlio Ciro e ad altri amici cautelosi
non solo per ciò che riguardava il dire
franco (per esempio, in La vita
dell’Omo, un verso di stanca rassegnazione
nell’abitudine che tutto di
sé avvolge «lo spedale, li debbiti, la
fica» diventava, con un rifacimento
che ne trascinava altri per la rima, un
banale «lo spedale, li debbiti, li fijji»);
ma cautelosi anche per ogni segno
rabbioso o rivoltoso («bono assai
l’abbozzà, mejjo er cortello» diventava
nientemeno «bbono l’abbacchio,
mejjio assai l’agnello»: chi conosce Le
cose create può immaginare da quale
scempio venga travolto l’intero sonetto).
La prima edizione accurata e semiintegrale
(1886-89) fu dovuta a Luigi
Morandi, che vi appose un’ampia introduzione
e importanti note storiche,
ma che occasionò il primo disguido
a una lettura corretta, raccogliendo
nel famigerato «Sesto» i testi
considerati osceni: il sesto volume di
quell’edizione era venduto in busta
chiusa e stampava delle “brutte parole”
la lettera iniziale e la lettera finale:
in mezzo, tanti puntini quante
816 recensioni
erano le lettere ammutolite. Un bestseller.
Quando, nel 1952, vide la luce l’edizione
critica dei Sonetti curata da
Giorgio Vigolo, che aggiungeva i più
di cento sonetti ritrovati da Pio Spezi,
un articolo sulla «Strenna dei romanisti
» salutò l’evento con un bell’avverbio
con punto esclamativo:
«Finalmente!». Vigolo, con qualche
eccesso di raffinatezza, era stato già
da decenni il promotore di una lettura
di Belli in chiave moderna e decisamente
maledetta, tanto da consigliare
di arrivare al poeta via Rimbaud
e viceversa. Il saggio introduttivo,
poi raccolto nel capitale Il genio
del Belli (1963), dava conto di una
lettura lunga e intensa, altamente
meditativa, iniziata già prima della
scelta curata per «I classici del ridere
» di Formiggini (1930-31).
Seguirono edizioni che, sulla scia
dell’impresa filologica di Vigolo, ma
con semplificazioni grafiche, spinsero
Belli verso una lettura diffusa: una
rapida annotazione di Bruno Cagli
(1964) e soprattutto la stampa in una
prestigiosa collana di grande diffusione
come l’Universale Feltrinelli
(1965), annotata da Maria Teresa
Lanza e con la supervisione di Carlo
Muscetta, furono i passaggi editoriali
successivi.
Qualche decennio dopo, i tempi
erano ormai maturi per l’edizione
nazionale delle opere belliane. Ad
oggi sono state stampati solo i sonetti
con l’aggiunta di altri componimenti,
col titolo di Poesie romanesche
(1988-93), in una solenne edizione in
dieci volumi (gli ultimi due doppi)
commentata da Roberto Vighi, che al
lucido, adamantino commento, annotante
grafia e varianti, aggiungeva
alcuni indispensabili strumenti (metrica,
lessico). Vighi, rispetto a Vigolo,
mutava la disposizione e l’ordine
dei testi, filologicamente rivisitati. A
questa imponente impresa si rifaceva
per il testo quella che era finora
l’ultima edizione, ampiamente commentata,
dell’opera, curata nel 1998
da Marcello Teodonio, instancabile
promotore del poeta e suo biografo
(e si vogliono qui ricordare, sulla vita,
i tre volumi dedicati a Belli e la sua
epoca da Guglielmo Ianni).
«Finalmente!» è esclamazione da
riproporre adesso che, a cura di Pietro
Gibellini, del compianto Lucio
Felici, romanista – e non solo – di valore,
e di Edoardo Ripari, della nuova
leva dei bellisti, appare un’edizione
critica e commentata che sarà di
riferimento per molto tempo, e che
molto tempo richiederà per essere
valutata pienamente, ricca di novità
come è (I Sonetti, Einaudi, «I Millenni
», pp. CLVIII-5038, con 48 tavole
introdotte da Diana Samà, € 240,00),
e della quale si auspica quanto prima
un’edizione economica perché possa
diventare strumento anche di studio.
Ciò che va segnalato come novità si
declina in vari punti, che qui si riesce
poco più che a elencare: intanto la tripla
introduzione di Gibellini, attento
filologo e acuto interprete di Belli da
mezzo secolo, che raccoglie motivi e
suggestioni critiche nell’introduzione
vera e propria, Belli, moderno Dante
(titolo non iperbolico); ricostruisce
a parte le vicende biografiche (fornendo
al lettore anche i titoli per un
percorso antologico); e infine nella
nota filologica raduna le questioni
non solo strettamente testuali, ma
anche relative alla ricezione dell’opera.
L’ordine dei sonetti (vexata quaestio)
viene risistemato sul ripercorrimento
degli autografi, così come la
recensioni 817
grafia (altra vexata quaestio); le note,
come ormai di consueto in doppia
fascia, separano quelle di mano
dell’autore – che in tal modo si costituivano
quale memoria di una lingua
morente ma mai morta – da
quelle degli attuali curatori, che puntualmente
citano dai commenti precedenti
(così che l’annotazione è un
punto di arrivo autentico, ben fondato
su un ormai più che secolare lavoro):
in più, ciascun sonetto è accompagnato
da un vero e proprio saggio,
più o meno esteso, nel quale confluiscono
osservazioni che vanno dal
momento storico alla valutazione
estetica, in dialogo con la tradizione
letteraria, tra fonti e – non di rado –
foci: la ricostruzione di un mondo
frammentato in 2279 sonetti. Va dunque
detto che la somma dei saggi si
presenta come un’enciclopedia delle
cose romane ai tempi del poeta, un
vivido e appassionante percorso brulicante
di richiami: e il gigantesco poema
costituito da sonetti, nel quale si
entra da ogni parte, diventa un impressionante
prosimetro, una città in
vita nella quale viaggiare senza sosta.
In coda, il lettore non pago troverà,
in un’appendice filologica, l’apparato
delle varianti d’autore, i sonetti
incompiuti, e le poesie romanesche
in altro metro. L’indice dei titoli
richiama per ogni sonetto la disposizione
che aveva nelle precedenti edizioni
di riferimento di Vigolo e di
Vighi (probabilmente la mole dell’opera
non ha invece consentito né un
incipitario né un indice dei nomi e
delle cose notevoli, che anche per Vigolo
apparve dalla terza edizione).
La domanda, come sempre, è: chi
parla nei sonetti di Belli? Di chi sono
quelle parole che vorrebbero presentarsi
come fermate su nastro magnetico
direttamente dalla bocca dei plebei
e soltanto scandite in endecasillabi
dal poeta? Ne consegue, ed è già
un tentativo di soluzione, la constatazione
che la grandezza di quella
poesia, la sua forza, dipende molto
dalle mani in cui va a finire, sciogliendo
ambiguità e oscillazioni ideologiche
e stilistiche in vario modo.
Così, oltre che il Belli osceno confinato
al «Sesto» in un protratto momento
di pruderie che non teneva conto
di come il motto del libro sarebbe
dovuto essere il rifacimento di lasciva
est nobis pagina, vita proba, ovvero
«Scastagnamo ar parlà, ma aramo
dritto», abbiamo avuto l’equivoco di
un Belli reazionario contrapposto a
un Porta progressista, che – per
esempio nello schema di Sapegno –
portò a una quasi liquidazione del
Belli, confuso con i suoi personaggi e
assorbito nel contesto della Roma di
Gregorio XVI («A papa Grigorio je
volevo bbene perché me dava er gusto
del potenne dì male» è scritto in
un appunto) tanto quanto Porta era
visto soltanto con lo sfondo dell’Illuminismo
lombardo (del poeta meneghino,
il poeta romano fu notoriamente
grande ammiratore, costringendosi
a grave esborso per acquistarne
le rime); e abbiamo avuto un
Belli progressista, contro tutto e tutti
e anche un po’ contro l’evidenza, a
partire dall’interpretazione friabile
di un concetto letterario difficilmente
definibile nella modernità, il realismo,
che non è quasi mai coincidente
col progressismo, ed è notoriamente,
da Auerbach in poi, un fatto di registri
linguistici e stilistici. Una volta
percepita la grandezza di questa poesia,
la domanda appare con tutta
evidenza mal posta.
La realtà di Belli è molte cose, così
818 recensioni
come il suo popolo, come insomma
la plebe di Roma. E di ciò il poeta ebbe
piena consapevolezza: la varietà
del «Commedione» (come si intitolava
la storica antologia approntata da
Antonio Baldini, 1944) o della «commedia
romana e celeste», per evocare
un titolo innovativo nella bibliografia
belliana (1969), di Giuseppe Paolo
Samonà, crea un vero e proprio sistema
di mondi che si sfiorano, interferiscono,
meditano, rappresentano; e
il coro delle migliaia di voci è sì il
coro dei dannati della terra, ma regolarmente
messo a vista dallo sfregio,
dall’invettiva, dal comico, dal sarcasmo,
dall’ironia e da un’impassibile
serietà.
Un sonetto come Un ber gusto romano,
dedicato allo sfregiare i muri
da parte di adulti con dentro sonnecchiante
ma pronto a svegliarsi un antico
monello, è stato giustamente letto
da Gibellini osservando che «gli
stessi esempi di segni tracciati a carbone
o graffiati col sasso sembrano
riassumere il ventaglio complesso
dei sonetti: cumuli pazienti di tessere
per il gran mosaico della plebe di Roma
(cifre), bozzetti e ritratti (pupazzi),
giochi ambigui di senso e raffinate
architetture formali (nodi di Gordio,
nodi di Salomone), accensioni
fantastiche (numeri e previsioni del
lotto), irriverenza di suoni e di cose
(parole e disegni osceni), ma anche la
satira incisiva, tracciata col bastone
del castigo, col sasso della selciata,
col chiodo della tenacia».
Una Wunderkammer rovesciata e
vocale, prima per l’orecchio e poi per
la vista e poi per gli altri sensi: nei
Sonetti tutto il malumore e tutta la
maldicenza del mondo sono riversati
in comico atrabiliare. La noirceur di
Belli presume di tenere a distanza la
plebe, di scrutarla come un paesaggio
di insetti, ma l’entomologo invischiato
– che voglia o no – si trova a
essere parte in causa. Chi parla nei
sonetti di Belli è la plebe di Roma,
ma chi parli davvero resta un mistero
pieno di meraviglie, uno stupore
nuovo a ogni rilettura.
Raffaele Manica
Igino Ugo Tarchetti, Disjecta. Frammenti
lirici. Edizione critica, introduzione
e commento a cura di Roberto
Mosena, Lanciano, Rocco Carabba,
2017, pp. 178.
Roberto Mosena è un sottile e limpido
critico che si è fatto già notare
per notevoli studi su Montale, Fenoglio,
Ceccardi, Campana, nonché
Goldoni.
Ora ci offre un ottimo lavoro di filologia
e critica sulle poesie di Tarchetti.
Egli ha studiato e confrontato
per anni i testi del poeta in riviste
ottocentesche sparse in numerose biblioteche
italiane.
Oltre al testo stabilito, rivedendo
le vecchie edizioni del Milelli (1879)
e Ghidetti (1967), ha corredato ogni
poesia di analisi stilistica e tematica
impeccabili. Egli ha censito tutte le
copie reperibili delle poesie del poeta
e riportato per la prima volta tutti i
testi ad una sede di pubblicazione,
oltreché a lezione più prossima possibile
alle volontà dell’autore.
Nell’introduzione al volume, il critico
colloca Tarchetti nell’ambito della
Scapigliatura, cercando consonanze
e originalità di scelte stilistiche e
tematiche con confronti con Camerana,
Stecchetti e Zendrini.
Risulta l’importanza della Scapigliarecensioni
819
tura per l’interesse portato ad «aspetti
del patologico e del brutto» per il senso
continuo dell’amore distruttivo o
fragile, spesso legato all’ossessione
del
macabro e della morte.
In alcune poesie Mosena mostra
un’interessante anticipazione della
poesia crepuscolare nell’alternarsi di
lessico letterario con lessico più quotidiano
(per esempio: baci, bisnonno,
ciaramellava, fetidi, inconscia, ladri, sozzi,
spazzo, vecchie) nel perdurante
classicismo di fondo. Meno frequente,
ma non meno significativo, l’uso
di voci provenienti da altre lingue
(alcade, alguazilli) e di voci tecniche
del bestiario mescolate a vocaboli afferenti
alla sfera irreligiosa e sepolcrale.
Inoltre, Mosena mostra con chiarezza
le costanti stilistiche del poeta
(ripetizione, cantabilità, musicalità)
che trovano più analitica disamina
nell’ampio commento che segue ad
ogni testo.
Il risultato cui il poeta aspira è
quello «di creare una musica o una
nenia cantilenante, ripetitiva fino
all’eccesso, ossessiva pur essa come
alcune sue figure e tematiche emblematiche
».
Si veda, per esempio, la poesia:
L’ellera
Virtù d’eterno amore
Nell’ellera si asconde,
Mai per mutar di verni
Muta color di fronde:
Al freddo sasso avvinti
Gli steli innamorati
Seco nei desiati
Amplessi si confonde:
– Virtù d’eterno amore
Nell’ellera si asconde.
Virtù d’amore eterna
E’ nel mio cor celata,
Né muta per inganni
L’anima innamorata
Al freddo amor degli uomini
Di caldo amor sospira,
Né si stanca osi adira
Di lor freddezza ingrata:
– Virtù d’amore eterna
E’ nel mio cor celata.
Ad essa segue questo commento
del critico: «Il testo si basa su una
struttura fortemente ripetitiva, evidenziata
dall’impiego del refrain
strofico delle coppie di versi … Inoltre
propone un parallelismo tra l’ellera
e il cuore del poeta, tra gli steli
innamorati della prima e l’anima innamorata
del secondo. In entrambi è
nascosta una immutabile virtù: l’imperituro
amore che si prolunga eternamente,
nonostante le avversità e le
illusioni della vita (i verni e gli inganni)
».
Da rilevare il recupero del motivo
leopardiano della giovinezza infelice
e perduta.
Vogliamo ricordare questa edizione
dei Disjecta citando una breve ed
efficace poesia nella quale la solitudine
del poeta si esprime in modi lucidi
e incisivi:
Amore ho in petto. Inospite
Landa attraverso io solo.
Bianca è la notte: inorano
Le pie rugiade il suolo…
Io vado, e ignoro il termine
del mio cammin qualsia
vado solingo, e lagrimo
Per la deserta via.
Ad essa segue il commento del critico:
«il tema è quello del cammino
solitario del poeta innamorato su
una landa deserta e inospitale. Tuttavia,
alla sua solitudine si oppone anche
la placida raffigurazione di una
820 recensioni
natura serena e soccorrevole: la notte
è bianca, la rugiada caritatevole indora
la terra».
Possiamo dire, in conclusione, di
avere un’edizione corretta e ampiamente
corredata di questo minore,
ma interessante poeta dell’Ottocento.
Giulio Di Fonzo
Beatrice Alfonzetti, Pirandello.
L’impossibile finale, Venezia, Marsilio,
2017, pp. 126.
In Drammaturgia della fine (2008)
Alfonzetti, con un percorso diacronico
che spazia da Eschilo a Pasolini,
aveva trattato del «finale come atto interpretativo
», secondo l’illuminante
titolo della Premessa, e ora vi ritorna
focalizzando l’attenzione su Pirandello,
autore con cui dialoga intensamente
da anni. Se invertendo il tradizionale
ordine dei coefficienti esegetici,
volti a iniziare dall’incipit, è l’epilogo
la chiave di volta per entrare
nei significati profondi di un testo
teatrale, tale assunto risulta maggiormente
attagliante per Pirandello.
Appare, allora, non del tutto contingente
che il suo primo lavoro teatrale
(1893) sia titolato L’Epilogo/Scene
drammatiche. Inizialmente e infruttuosamente
proposto a diverse compagnie,
verrà rappresentato nel 1910
con la denominazione di La Morsa
(nella prima stampa del 1922 segnatamente
il sottotitolo recupera il primo
titolo), un atto unico che si ascrive
di diritto a quella che Alfonzetti
già aveva definito, e ora la ribadisce,
la «nascita dell’epilogo» (p. 12). Sintomatico
della «nascita dell’epilogo»,
l’atto unico si può ritenere una «vera
e propria drammaturgia del finale»
poiché, non importando quanto prima
avvenuto, «la scena focalizza la
scansione ultima, la catastrofe finale,
che esprime una sorta di vertigine o
di precipizio» (p. 13). Se l’atto unico
risulta un genere assai frequentato
da Verga e da altri drammaturghi italiani,
qui inquadrati in rapide e incisive
sequenze, sicuramente Pirandello
è colui che lo ha gestito con maggiore
cognizione di causa, come dimostrano
i finali della Morsa e del
Dovere del medico. Incentrati sugli
esiti di un confessato o palese adulterio,
solo apparentemente sono accumunati
dal suicidio del personaggio
colpevole di tradimento. Nella Morsa,
la moglie adultera attua il suicidio
fuori scena, con un colpo di pistola
imprevedibile, non trovando altra
soluzione presa com’è nella morsa tra
un marito implacabile e un amante
pusillanime. Nel Dovere del medico il
marito adultero si suicida per ragioni
non riconducibili al tradimento, ragioni
che vanno al di là del senso di
colpa: le reazioni alla tanto drammatizzata
tematica della infedeltà coniugale
si staccano perciò dagli esiti
tradizionali.
La morte per suicidio sigla pertanto
i due testi, ma oltre la morte, oltre
quindi l’epilogo, si protendono gli
altri due atti unici, All’uscita (andato
in scena nel 1922) e L’uomo dal fiore in
bocca (rappresentato nel 1923): in essi
la morte si esprime in forme più misteriose
e inquietanti proiettate al di
là della morte medesima o nella subitanea
coscienza della sua prossima
venuta. Dai testi per così dire brevi
Alfonzetti passa a quelli che principalmente
hanno consacrato la fama
di Pirandello, sempre avvalendosi di
un pregnante discorso critico, sovente
e felicemente mimetizzato da acrecensioni
821
centi colloquiali tendenti a coinvolgere
apertamente il lettore nell’incalzare
della ricerca e degli interrogativi
posti e risolti. E non mancano occasioni
per rivolgersi a Pirandello se si
rilegge la chiusa della premessa: «In
un colloquio ideale, come piaceva a
lui, gli direi: è un vero peccato, signor
Pirandello, che Lei ci abbia lasciati
orfani di due finali veramente epocali,
ma noi li abbiamo “scoperti” e posti
accanto agli altri, l’epilogo, l’enigma,
il finale circolare, che a buon diritto
sono veri e propri emblemi di
un’epoca, come tutti i finali che si rispettino.
» (p. 9). E si vedrà poco più
avanti la “scoperta” di tali finali.
Con Cosi è (se vi pare) si ha un sovvertimento
assoluto dei paradigmi
teatrali per ammissione di Pirandello
che, in una lettera a Virgilio Talli, non
esita a definire «nuova» la concezione
e «audacissima» la condotta (p.
42) della propria «parabola» (come da
sottotitolo) e, infatti, in essa si frantumano
i canoni naturalistici con un
consequenziale epilogo «multiplo e
simmetrico» che filosoficamente contesta
«l’ossessiva e fallace ricerca di
una verità fondata sulle verità dei
singoli» (p. 46).
Finale filosofico per il Giuoco delle
parti, un giuoco praticato da fantocci
a cominciare da Leone Gala dal momento
che egli esprime «la vuota forma
della ragione», come asserisce il
Capocomico dei Sei personaggi. Pirandello
in apertura dei Sei personaggi
svela ciò che del Giuoco nessuno
era giunto a capire (cosa che gli «brucia
»): egli delega al Capocomico il
compito di istruire gli attori sulle significazioni
dell’incipit del secondo
atto del Giuoco quando Leone, vestito
da cuoco, «è volutamente il fantoccio
di sé stesso» (p. 62). Un finale
filosofico esonerato dal riferire i dettagli
del duello con la pistola svoltosi
fuori scena, un finale che rafforza la
totale dissociazione dai parametri
naturalistici con i quali (e Pirandello
lo constata, scrivendone a Ruggero
Ruggeri) i critici del tempo si ostinavano
a giudicare il testo, esplicitamente,
dichiarato un giuoco. Un giuoco
evidenziato dall’eloquente titolo
del capitolo quarto del libro che recita
Pistole giocattoli e spade carnevalesche
e dove nel novero delle pistole
rientrano pure quelle maneggiate
dagli autori del teatro grottesco mentre
la spada carnevalesca è prerogativa
dell’Enrico IV.
«Finale da tragedia» (e Alfonzetti
vi aggiunge anche «da dramma storico
e da melodramma fuori tempo
massimo», p. 73) per l’Enrico IV ma
risolto in pochi attimi perché la
drammaticità della stoccata mortale,
inflitta all’antico rivale, viene stemperata
dalle due dicotomiche asserzioni
dei personaggi sulla reale o simulata
pazzia del protagonista, asserzioni
che si saldano con l’interrogazione
sull’autenticità o meno della
follia, su cui sono cadenzanti i dialoghi
a partire dalla metà del secondo
atto. Solamente con colpo assestato
da una spada carnevalesca Pirandello
può rifondare nella modernità il
tragico.
Nella Premessa all’edizione Mondadori
del 1933, Pirandello afferma
che le sue tre opere metateatrali (Sei
personaggi in cerca d’autore, Ciascuno a
suo modo e Questa sera si recita a soggetto)
realizzano una trilogia giocata
sul teatro nel teatro e che i personaggi,
agenti in vari e differenti spazi
scenici, concretizzano «ogni possibile
conflitto»: si avrebbe, di conseguenza,
un finale interrotto che, in822
recensioni
vece, è disdetto dall’autore stesso
quando afferma che se i «pretesti» su
cui si basano sono incompiuti, interrotti
o impediti, i tre lavori risultano
«compiutissimi e perfetti» (p. 76). Ed
è, proprio risalendo alle parole di Pirandello
che Alfonzetti riorganizza,
con efficaci e serrate argomentazioni,
i meccanismi delle tre pièces e dimostra,
con le dovute specificità per
ognuna e con mirate digressioni volte
a rafforzare le deduzioni, come i
loro finali filosofici siano conclusi e
circolari.
Il percorso dell’impossibile finale si
chiude con Non si sa come e con i Giganti
della montagna. Per Non si sa come
l’indagine diventa appassionata
poiché Alfonzetti confessando al lettore
il proprio dubbio per un finale
non consono al concetto del non si sa
come va alla ricerca di un altro finale
e lo scopre e lo ricostruisce grazie alle
testimonianze di Pirandello; insomma,
si spiega e ci spiega Pirandello
ricorrendo a lui. Nella versione
conosciuta il protagonista colpevole
di adulterio viene ucciso con un colpo
di pistola, viceversa nell’originaria
si consumava veramente il dramma
del non si sa come, il dramma
dell’uomo freudiano, senza spargimento
di sangue. Pirandello muta il
finale su richiesta dell’attore Alessandro
Moissi, al quale aveva sottoposto
il copione, e manca l’occasione
per concludere con un finale che «sarebbe
stato un vero e proprio emblema
epocale» (p. 94). Pirandello ci defrauda
di un finale realmente «epocale
», avendo la cognizione che esso
avrebbe mostrato l’interrogativo del
come conciliare l’identificazione
dell’inconscio con la responsabilità
delle nostre azioni e le loro consequenziali
risposte da parte della società
civile normalmente intesa. Una
rinuncia confermata dal fatto che Pirandello
pubblica il testo mantenendo
la versione modificata.
All’opposto di Non si sa come, tutto
giocato sulla parola, I giganti della
montagna si muovono fra «nuvole e
abissi, luci e ombre, silenzi e suoni,
colori e oscurità» (p. 104). Ben cosciente
di dare vita a un capolavoro,
Pirandello, contrariamente all’abituale
sua prassi, rimanda, forse volutamente
e al pari inconsapevolmente,
la conclusione (come è noto la
conclusione di Giganti si deve ai ragguagli
dati al figlio Stefano): il giungere
alla conclusione avrebbe significato
per lui vergare la parola fine.
Paola Trivero
Pasquale Tuscano, Federigo Tozzi,
narratore dell’alienazione dei sentimenti
e della ragione, Soveria Mannelli, Rubbettino,
2018, pp. 194.
Prendendo le mosse dalla biografia
dello scrittore senese, figlio di un
genitore violento e prevaricatore e di
una madre debole e malaticcia, lo
studioso ne ripercorre le vicende
personali che hanno contribuito a
formare il suo carattere, soprattutto
alla luce del rapporto padre-figlio e
della relazione con Emma Palagi, sua
moglie, conosciuta tramite un annuncio
su un giornale. Attraverso
varie vicissitudini, come i due sfortunati
viaggi a Roma nel tentativo di
inserirsi nell’ambiente culturale della
Capitale, viaggi durante i quali
cerca invano di accreditarsi come romanziere
e poeta, riuscendo soltanto
a collaborare sporadicamente con alcune
testate giornalistiche, si compie
recensioni 823
la sua breve avventura di giovane
scrittore autodidatta, dalla sensibilità
esasperata, che muore di polmonite
ad appena trentasette anni. Restano
tuttavia le sue opere, che comprendono
quasi tutti i generi letterari,
romanzo, poesia, diario, teatro,
novella, prosa lirica, anche se non
secondario fu il lavoro come cronista,
tanto da fondare, insieme all’amico
Domenico Giuliotti, la rivista
«La Torre», dal cattolicesimo intransigente
virato verso un certo misticismo
reazionario che riscopriva, accanto
a Dante, i cattolici francesi
dell’Ottocento e accanto alla Divina
Commedia l’“Apocalisse” di Giovanni,
temi in realtà più sentiti dal Giuliotti
che da Tozzi, il quale aveva assunto
la responsabilità delle sole pagine
letterarie del periodico.
Egli si scaglia astiosamente contro
i crepuscolari e i futuristi, i vociani e
il Carducci, l’accademismo e l’inerzia
dell’ambiente culturale italiano
ma in verità, più che nel giornalismo,
dimostra le proprie capacità esordendo
con due raccolte poetiche, La
zampogna verde (1911) e La città della
Vergine (1913), che furono pressoché
ignorate alla critica. La prima si compone
di sonetti e ballate aventi come
sfondo il paesaggio senese da una
parte e dall’altra l’espressione di una
religiosità che oscilla tra misticismo e
“inquietudine della coscienza”, come
sottolinea lo studioso. La seconda
invece è un poema composto da
sei canti in quartine di versi endecasillabi
variamente rimate dedicato a
Siena, città posta sotto la protezione
di Maria e della quale Tozzi si vuole
fare cantore per esprimere le contraddizioni
nel bene e nel male del
suo luogo natio, esaltandone i monumenti,
i personaggi storici, le battaglie.
Ad esse si aggiungono anche i
componimenti intitolati “Fascicoli” e
“Liriche sparse” per desiderio del figlio
dello scrittore, Glauco, che li raccolse
nel volume intitolato Poesie,
quindi nelle “Opere” complete (Vallecchi,
1981).
Lo studioso prende in esame altresì
la sua produzione lirico-narrativa,
che comprende il trittico Bestie, Cose-
Persone e Barche capovolte (1910-15),
testi invero assai singolari nel panorama
letterario italiano, non privi di
originalità e attualità sia per lo stile
sia per le tematiche affrontate che rivelano
la grande umanità di Tozzi,
attento anche alle più minuscole e
insignificanti creature della natura.
Ma è nella misura breve della novella
che egli si mostra più compiutamente
autore, a partire dalla prima
intitolata “In campagna” (1910), in
cui il protagonista, Guglielmo, sembra
quasi il prototipo di tanti altri
personaggi tozziani dalla psicologia
contorta, dagli amori problematici,
segnati dalla noia del vivere, sempre
sullo sfondo di una Toscana fortemente
caratterizzata. Diverse novelle,
come “Il ciuco” e “Gli amori vani”
(1908 e 1910) «esprimono un forte
senso di frustrazione e di morte», rileva
lo studioso, ma anche numerose
altre, tutte minuziosamente analizzate,
indagano sulla natura umana
con una sottigliezza spasmodica, segno
della sensibilità quasi eccessiva
dello scrittore, il quale pone al centro
della narrazione personaggi generalmente
legati al mondo rurale, dalle
vite straziate e strazianti, segnate dal
caso inesplicabile o dal destino più
atroce, in cui la brama di possesso,
dei beni o delle donne, la miseria devastante,
l’amoralità frenata dalle
inibizioni o scatenata dalle passioni
824 recensioni
determinano ferocemente le umane
esistenze.
Su ispirazione degli amici Pirandello
e Vergani, pure il teatro fu tentato
da Tozzi nei generi del dramma,
della commedia, del mimo, della fiaba
scenica, dedicandosi alla scrittura
teatrale che praticò dal 1908 al 1919,
senza grandi esiti, sapendo che i risultati
migliori li otteneva con i romanzi,
le novelle, le prose aforistiche.
Il volume che il figlio Glauco ha
riservato al teatro, nella raccolta
completa delle Opere, comprende sedici
titoli. Tra i drammi spicca L’incalco,
considerata la sua opera teatrale
più completa, dove è riproposto
un tema tipicamente tozziano, il contrasto
col padre.
Si arriva così agli scritti più notevoli,
a partire da Ricordi di un impiegato,
pubblicato postumo nel 1920,
col quale Tozzi voleva realizzare un
romanzo “nuovo”, psicologico e memorialistico.
Il protagonista, Leopoldo,
è un po’ il precursore ideale dell’Uomo
senza qualità di Musil (1930-
1933), figura che sarà esplicata assai
bene anche dall’Alfonso Nitti di Svevo
e dal Gino Bianchi di Piero Jahier.
Insofferente al lavoro che è costretto
a svolgere, scostante nei confronti
dei colleghi, succube della passione
amorosa più vagheggiata che realizzata,
Leopoldo non riesce a sottrarsi
all’autoritarismo familiare, destinato
com’è a fallire quasi con un compiacimento
da masochista, ma è anche
simbolo del ribelle che detesta le convenzioni,
il perbenismo, l’ipocrisia
borghesi. Le opere per cui Tozzi è
maggiormente conosciuto e apprezzato
dalla critica e dai lettori più attenti
sono certamente i romanzi più
importanti, a cominciare da Gli egoisti,
scritto tra il 1917 e il 1919 e pubblicato
nel 1923. Si tratta del suo libro
più autobiografico con al centro un
giovane musicista velleitario, sicuro
del proprio talento e deciso a farlo
riconoscere ma che in effetti, scontrandosi
con la dura realtà della Capitale,
si rende presto conto del proprio
fallimento, come uomo e come
artista.
Ancora più significativo, emblematico
della scrittura fortemente tozziana,
dei contenuti più propriamente
consoni al suo carattere di scrittore
che indaga il mondo contadino della
campagna toscana, è Il podere, composto
tra il 1917 e il 1918 e comparso
nel 1921. Qui le passioni di uomini e
donne immersi in una condizione
quasi animalesca, sia per l’abietta
qualità della vita, sia per l’amoralità
pressoché spaventosa, si scatenano
senza freni di fronte alla miseria dauna
parte e alla brama di possesso
dall’altra. Il giovane Remigio, erede
della proprietà paterna, ma mai affrancato
dagli odi e dalle invidie dei
suoi sottoposti, sarà il capro espiatorio
su cui si scaglierà l’astio incancrenito
dei contadini, succubi per anni
del padre, uomo gretto e feroce. Lo
sforzo di sfuggire allo spettro opprimente
del genitoresi rivelerà inutile:
situazione più che freudiana kafkiana,
secondo lo studioso, con l’ombra
onnipresente del padre che si allunga
indefinitamente sulla sua intera
esistenza, schiacciandola, e la tentata
ribellione che viene atrocemente punita.
Adele, un abbozzo di romanzo
scritto intorno ai primi anni dieci del
Novecento, assai poco noto, rappresenta,
a detta di alcuni tra i più autorevoli
critici italianiquali Carlo Bo e
Giorgio Luti, quasi la premessa a un
altro libro fondamentale di Tozzi, osrecensioni
825
sia Con gli occhi chiusi (1919). Nel primo
l’indagine psicologica dei personaggi,
lo studio delle passioni, lo
sfondo sempre vivissimo di Siena e
della campagna senese ma anche di
Roma e Firenze, prefigurano già i
protagonisti del secondo, con lo
scontro pressoché continuo e inevitabile
tra i sessi. Qui emergono i caratteri
dei due innamorati, padrone e
serva, radicalmente diversi ma ostinatamente
decisi a rimanere tali, a
non cedere l’uno all’altra per alcuna
ragione, neanche in nome dell’amore.
Pietro resterà fino alla fine “con
gli occhi chiusi” non volendo vedere
l’abisso in cui è caduta Ghisola, per
non prendere coscienza della propria
incapacità a penetrare la realtà, a vivere,
in definitiva.
In conclusione, il romanzo Tre croci
(1920), che rappresenta uno dei vertici
più alti dell’opera tozziana. Nato
da un fatto di cronaca, il fallimento
dei tre fratelli Torrini, librai antiquari
a Siena, rinominati Gambi dall’autoreche
lo scrive in pochi giorni, ha per
protagonista la “roba”, più che i personaggi
veri e propri, ossia si ritorna
al nucleo fondante del Podere, anche
se in Tre croci, diversamente da
quest’ultimo, non è la proprietà terriera
a scatenare le contrastanti cupidigie
ma una bottega. In entrambi
però c’è la dissoluzione del patrimonio
con lo spreco dei beni ereditati e
la noncuranza di quanto affidato dagli
avi. Nella corsa incosciente verso
la perdizione, i tre fratelli sono prefigurati
quasi nella loro bestialità, più
che umanità, come tanti altri personaggi
di Tozzi. La loro crudeltà e violenza
si riverberano perfino sul paesaggio,
come fosse degna cornice allo
sfacelo morale per il quale i Gambi
saranno assolti soltanto dopo morti,
in virtù del ravvedimento dell’ultimo
fratello superstite.
Il volume si conclude con l’analisi
degli scritti più significativi della critica
tozziana, dagli anni venti del
Novecento ai giorni nostri. A Pasquale
Tuscano, illustre studioso, va
tutto il merito della magistrale rilettura
di uno dei massimi scrittori italiani.
Francesca Farina
Vittorio Bodini fra Sud ed Europa (1914-
2014). Atti del Convegno Internazionale
di Studi (Lecce, Bari; 3-4, 9 dicembre
2014), a cura di Antonio Lucio
Giannone, Nardò (Lecce), Besa,
2017, 2 tomi, pp. 724.
Antonio Lucio Giannone, ordinario
di Letteratura italiana moderna e
contemporanea presso l’Università
del Salento, da molti anni impegnato
in un’assidua e rigorosa opera d’indagine
e di ricerca volta alla riscoperta
e alla riedizione critica degli
scritti di Vittorio Bodini, ha curato il
volume n. 10 della collana Bodiniana,
da lui stesso diretta per i tipi di
Besa editrice, uscito di recente (2017).
Il volume, intitolato Vittorio Bodini
fra Sud ed Europa (1914-2014), è diviso
in due ponderosi tomi per un totale
ben 724 pagine e raccoglie gli Atti del
Convegno Internazionale di Studi,
organizzato tra Lecce (3-4 dicembre)
e Bari (9 dicembre) nel 2014 dal Dipartimento
di Studi Umanistici dell’Università
del Salento, con la collaborazione
del Centro Studi “Vittorio
Bodini” e col sostegno dell’Assessorato
alla Cultura della Regione Puglia,
in occasione del centenario della
nascita dello scrittore. Nelle quattro
826 recensioni
sessioni leccesi, l’attenzione è stata
rivolta principalmente all’esame della
produzione poetica, mentre, nelle
due sessioni baresi, si è preferito privilegiare
l’attività di ispanista e la rivista
«L’esperienza poetica», nella
quale Bodini espresse compiutamente
la complessità che la novità della
sua proposta sussumeva. E così, dopo
l’utile Prefazione di Giannone, si
susseguono trentacinque saggi (venti
nel I tomo e quindici nel II), che ricostruiscono
a tutto tondo la portata
e l’impatto che la poetica, la poesia e
la prosa di Bodini ebbero all’interno
del panorama letterario nazionale ed
europeo.
A partire dal solido contributo di
Giulio Ferroni, intitolato Luce e buio
del Sud, nel quale il critico individua
nella «vivace disponibilità sperimentale
» il nucleo portante del percorso
poetico di Bodini e sottolinea come
quello dello scrittore sia stato «uno
sperimentalismo aperto in più direzioni,
animato dalla passione per la
poesia, dalla curiosità per il mondo,
da una determinante tensione tra radicamento
nel Sud e prospettiva europea
», sempre comunque «estraneo
a programmi troppo vincolanti, disposto
a ridiscutere se stesso nella
verifica dei contesti e delle proprie
possibilità espressive».
È ciò che emerge pure dal persuasivo
saggio di Giannone, massimo
esperto dello scrittore pugliese, intitolato
Mobili prospettive della poesia
bodiniana. Qui il critico scandaglia in
profondità, spesso con il ricorso a
documenti inediti o poco noti, la
complessa fase della teoresi poetica
di Bodini, individuandone con acume
un primo snodo fondamentale
nel delicato ma decisivo soggiorno
fiorentino degli anni 1937-1940, durante
il quale conobbe alcuni degli
esponenti più significativi della letteratura
nazionale (Montale, Vittorini,
Bo, Macrì, Luzi, Bigongiari, Pratolini
e altri) e si immerse nella lettura di
«libri sconvolgenti, come Kafka,
Proust, Joyce», che gli aprirono gli
orizzonti della letteratura europea.
Orizzonti destinati ad ampliarsi in
seguito alla permanenza di Bodini in
Spagna (e siamo ad un altro snodo
fondamentale, più volte indagato da
Giannone), terra nella quale lo scrittore
(ri)trova, lontano da casa, connotati
vicini e simili alla realtà della
sua terra, quel Sud che diviene così
rappresentativo di una condizione
umana e, quindi, valore universale,
senza spazio e senza tempo, bisognoso
di una nuova epifania della
parola. Siffatte prospettive divengono
strutture portanti dell’attività più
intensa e significativa di Bodini dopo
il ritorno dalla Spagna, quando, come
sottolinea Giannone, tanto negli
scritti critici, quanto nella «produzione
creativa, in versi e in prosa, emerge
il tema del Sud che sarà al centro
delle raccolte ‘lunari’ e dei racconti
degli anni Cinquanta» (p. 83).
Strettamente legata a questa visione
del Sud è senz’altro la specifica e
singolare interpretazione di Bodini a
proposito del barocco, come emerge
dall’acuto e convincente saggio di
Andrea Battistini, Vittorio Bodini e il
demone gnoseologico del barocco, nel
quale il critico evidenzia la portata
innovativa del pensiero di Bodini,
che «opponeva a un’idea di barocco
quale periodo di decadenza rispetto
all’esclusivo parametro quattro-cinquecentesco
la concezione di una sua
alternativa, in un sistema irriducibilmente
bipolare dalla portata metastorica,
in cui all’armonia rinascirecensioni
827
mentale veniva a contrapporsi una
visione del mondo più drammatica,
inquieta, per certi versi angosciosa,
dettata da un’acuta percezione di
precarietà, di caducità, di vuoto, di
assenza» (p. 181), squadernando in
tal modo il canonico iato armoniadisordine
perpetuato dalle interpretazioni
arcadico-illuministico-romantiche
e, in ultimo, dall’idealismo
di matrice crociana.
Nella dimensione «inquieta e in
divenire della modernità letteraria»
situa la radice delle questioni che Bodini
affronta in tutta la sua opera anche
Fabio Moliterni nel suo persuasivo
saggio, Barocco, surrealismo, neoavanguardie.
Vittorio Bodini e Luciano
Anceschi (con lettere inedite), nel quale
il critico, pure con il ricorso a interessantissimi
documenti inediti, analizza
la singolare posizione assunta dall’‘
antisistematico’ Bodini nei confronti
dei fatti letterari. Emerge la
posizione di rilievo dello scrittore
all’interno del panorama letterario
del Novecento italiano ed europeo,
ribadito anche in altri saggi (Franco
Martina, Maria Teresa Pano, Dario.
Tomasello), che evidenziano la fitta
rete di rapporti tra Bodini e numerosi
altri intellettuali, come Tommaso
Fiore, Giacinto Spagnoletti, Giovanni
Giudici.
Agli aspetti più specificamente legati
alla produzione in prosa di Bodini
si interessa Giuseppe Bonifacino,
il quale, nel saggio La morte e altre figure.
Bodini in prosa, indaga con la
solita acribia un «campo tematico di
spiccato quanto fertile dominio
nell’opera tutta di Bodini»: quello
della morte, declinato nelle «diverse
fasi della sua prosa» secondo ritmi e
stilemi diversificati. Non meno interessanti
appaiono le puntualizzazioni
di Ettore Catalano a proposito delle
talvolta ‘velenose’ posizioni polemiche
di Bodini, quali si andarono
configurando sull’«Esperienza poetica
», rivista da lui fondata e diretta; la
decisa presa di posizione nei confronti
della complessa situazione politica
spagnola dei primi anni ’60
(Anna Lucia Denitto); le risultanze
cromatiche nell’opera bodiniana (Sonia
Schilardi). Né vanno sottaciuti gli
importanti contributi relativi alla
fondamentale attività di ispanista,
nella quale Bodini profuse sforzi ed
energie considerevoli.
E così, in apertura del II tomo,
Laura Dolfi, nel saggio intitolato La
Spagna: traduzione e poesia, ribadisce
il legame indissolubile tra Bodini e la
Spagna, individuando in un incontro
con Oreste Macrì, avvenuto nel dicembre
1940, le scaturigini di tale legame;
ben prima, quindi, del lungo
soggiorno del 1946-1949 in quel paese;
soggiorno che, semmai, avrebbe
confermato, «in forma esplicita e totale,
la scelta culturale operata a distanza
» (p. 392).
Davvero interessante e ricco di
spunti appare il saggio di Giuseppe
Mazzocchi, Bodini e Góngora: due vite
mangiate dalla poesia, nel quale il critico
insiste in maniera convincente
sulla novità introdotta da Bodini a
proposito di un’analisi che svincola
il grande poeta spagnolo dalle costrizioni
interpretative che lo avevano
relegato in una sorta di gabbia ‘formale,
pragmaticamente pura e avulsa
dalla storia’ per «un Góngora
umano, e dunque inevitabilmente
storico, espressione tra le più alte
della sensibilità barocca europea» (p.
412). Proprio siffatta ‘umanità’, secondo
il critico, è alla base del privilegio
accordato da Bodini al Góngora
828 recensioni
«dei romances, delle letrillas, delle poesie
popolaresche; meno a quello dei
sonetti e dei due poemi maggiori,
Soledades e Polifemo» (pp. 413-414),
come, peraltro, risulta evidente dalle
interessantissime traduzioni inedite
di Góngora, conservate nella busta
24, fasc. 113 dell’Archivio Bodini, che
qui Mazzocchi presenta in un’accurata
edizione, filologicamente sorvegliata.
In verità, pure tutti gli altri contributi
del II tomo, volti a indagare il
poliedrico ispanismo bodiniano, appaiono
convincenti e sorretti da solide
argomentazioni e rigore di metodo.
Tutti, mi sembra, colgano una
convergenza tra l’attività di traduttore
e quella di interprete e di studioso,
specie con riferimento alla dimensione
metatemporale del barocco e a
quella metageografica di un Sud universale,
costantemente presente e vivo
in tutta la produzione bodiniana,
individuato, ritrovato, spesso, lontano
da casa: in Spagna, appunto, terra
alla quale Bodini rivolge l’attenzione,
cogliendone la dimensione più
intima ma tanto vicina e simile alla
realtà della sua terra. Insomma, la
‘trasfigurazione’ del Sud in simbolo
assoluto: non semplice cronotopo ma
valore universale, senza spazio e
senza tempo, correlativo di una condizione
umana.
Pertanto, dopo la pubblicazione
degli Atti del Convegno del 2014,
nessuno potrà più accampare alibi a
proposito di una presunta, e spesso
comoda, scarsa diffusione dell’opera
di uno dei maggiori interpreti del
Novecento letterario italiano ed europeo,
figura poliedrica e, per quanto
attiene all’attività letteraria, in
prosa e in versi, dagli aspetti multiformi.
Forse, proprio tale vivacità si
traduce in oggettive difficoltà quanto
alla collocazione di questo intellettuale
all’interno del pur variegato
panorama letterario del Novecento,
ma non giustifica in alcun modo l’oblio
nel quale si è ‘preferito’ relegare
Vittorio Bodini. Ora, grazie alla pubblicazione
di questo volume di Atti,
ognuno può e deve riconsiderare l’opera
bodiniana nel suo complesso,
senza la pretesa di cercare e trovare a
tutti i costi una forzata, e direi inopportuna,
collocazione dello scrittore
in un canone (pre)definito secondo
parametri ormai sclerotizzati ed obsoleti;
pretesa che, spesso, ha causato
la rimozione di voci letterarie di assoluto
valore (penso, ad esempio, a
Calvino). Anche perché appare davvero
giunto il momento di smettere,
come sosteneva proprio Bodini, di
«studiare solo la storia degli altri
senza conoscere nulla della propria».
Fabio D’Astore
Franco Fortini, Foglio di via e altri
versi. Edizione critica e commentata
a cura di Bernardo De Luca, Macerata,
Quodlibet, 2018, pp. 368.
Polemista, osservatore acuto della
società italiana e Kulturkritik degno
della grande intellettualità mitteleuropea,
Franco Fortini ha segnato, forse
più di quanto oggi non appaia ai
nostri occhi disimpegnati, il marxismo
e in generale il pensiero critico
del Novecento italiano. Il centenario
della sua nascita ha consentito di fare
il punto sugli studi dedicati a una
personalità che ha lasciato note, articoli
e saggi ancora in grado di porre
interrogativi sul nostro tempo, così
distante da quello in cui hanno operecensioni
829
rato Fortini e altri intellettuali come
Pasolini o Volponi, eppure così vicino
per comuni incertezze economiche,
politiche e sociali.
Se il saggista Fortini è sempre stato
riconosciuto come un protagonista
del più acceso dibattito culturale,
non si può dire lo stesso del poeta. È
tutto sommato recente la riedizione,
per le cure di Luca Lenzini, di Tutte le
poesie (Milano, Mondadori, 2014),
che ha finalmente colmato un vuoto
ingombrante nell’offerta poetica del
Paese; ed è significativo che di Fortini
esista il ‘Meridiano’ contenente
Saggi ed epigrammi, ma non un volume
sull’intera opera in versi, tanto
che Romano Luperini si è chiesto se
questa assenza, solo in parte risarcita
dalla curatela di Lenzini, non debba
essere letta come una sorta di damnatio
memoriae per ragioni politiche.
Non di meno, sono stati molti, nel
2017, gli interventi dedicati alla produzione
poetica di Fortini, alle sue
ipotesi metriche, finanche alle traduzioni
dal tedesco (vale la pena menzionare
la fortuna perdurante del
suo Brecht).
Quasi a saggiare l’effettiva importanza
di una commemorazione che
ha preferito predisporre l’apertura di
cantieri di lavoro piuttosto che consumarsi
in toni celebrativi, sono molte
le recenti pubblicazioni dedicate a
Fortini: disponiamo ora di un volume
curato da Luca Daino sul lavoro
editoriale di Fortini presso la Mondadori
(La gioia di conoscere. I pareri
editoriali di Franco Fortini per Mondadori,
Milano, Fondazione Arnoldo e
Alberto Mondadori, 2017), dell’edizione
critica e commentata della prosa
inedita La guerra a Milano. Estate
1943, allestita da Alessandro La Monica
(Pisa, Pacini, 2017), e altrettanto
ricco si rivela il versante poetico, se
pensiamo alla monografia licenziata
da Francesco Diaco su Dialettica e
speranza. Sulla poesia di Franco Fortini
(Macerata, Quodlibet, 2017). Tuttavia,
a pochi mesi dalla conclusione
del centenario, è Bernardo De Luca a
licenziare un volume che potrebbe
inaugurare un nuovo filone di studi
sui testi di Fortini. Filologo di scuola
fridericiana e già autore di un notevole
contributo sulla metrica fortiniana,
De Luca è il responsabile
dell’edizione critica e del primo commento
integrale a Foglio di via e altri
versi, libro d’esordio dell’intellettuale
fiorentino.
Era il 1945 quando un allora ventisettenne
Franco Fortini consegnava
il dattiloscritto della sua opera prima
a Elio Vittorini; il libro venne pubblicato
appena un anno dopo, nel ‘46,
per poi essere oggetto di nuove edizioni
nel 1959, 1967 e nel 1978 che ne
mutano la fisionomia per mezzo di
rimaneggiamenti e sottrazioni. La
prima, originale scelta di De Luca
consiste proprio nella messa a testo
della prima edizione della raccolta,
dando conto delle successive estromissioni
e delle varianti evolutive
delle singole liriche in due fasce
d’apparato. In realtà, le fasce sarebbero
tre, ma la variantistica genetica,
desumibile da avantesti e bozze a
nostra disposizione, è piuttosto esigua,
giacché sono relativamente pochi
i materiali mano-dattiloscritti
inerenti Foglio di via – si possiedono
solo una carta velina del 1944 su cui
è vergato il testo di Italia 1942, conservata
presso la Zentralbibliothek
di Zurigo, e il dattiloscritto, oggi
presso la Fondazione Mondadori di
Milano, di una raccolta inedita (ma
leggibile in uno studio di Riccardo
830 recensioni
Bonavita) intitolata Fra due distanze,
che avrebbe dovuto comprendere
sette poesie poi confluite nell’edizione
’67 di Foglio di via.
Anziché rimettere in circolazione
le ultime volontà dell’autore, compito
ormai svolto dall’edizione Lenzini
delle Poesie, De Luca ripropone il
progetto con il quale Fortini si presenta
al pubblico, esordendo con una
fisionomia già ben definita ma di certo
lontana da quella che, successivamente,
avrebbe cercato di far assumere
alle sue pregresse prove poetiche.
L’edizione del ’67 cassa ben sette
poesie della sezione Elegie e ne aggiunge
altrettanti di carattere politico,
come A un’operaia milanese e La
gioia avvenire. Il successivo aumento
di unitarietà tematica della raccolta,
ottenuto per mezzo di estromissioni
e nuovi ingressi, serve ad allineare il
profilo esordiale alle «istanze intellettuali
e politiche del presente» (p.
31); insomma, Fortini fa autocritica
poetica alla luce delle sue idee mature,
meglio espresse in libri come Una
volta per sempre e Questo muro. De Luca
propone invece un Foglio di via che
non è (ancora) il libro dell’autocoscienza
politica, ma quello della formazione
graduale e tormentata della
stessa, costretta a fare i conti anche
con questioni religiose ed esistenziali.
Nell’introduzione al volume, il critico
sfronda molti luoghi comuni accumulatisi
sul Foglio, a cominciare da
quello relativo alle poetiche che fonderebbero
la scrittura del primo Fortini.
La questione dell’influenza ermetica,
per esempio, viene ridiscussa
alla luce delle nuove interpretazioni
dell’Ermetismo, di cui si è riconosciuta
l’esplosione in esperienze tra
loro dissimili sin dalla metà degli anni
Trenta e pertanto non più comprendente
autori un tempo accostati
al filone; emblematico è il caso di
Montale, che pure è una presenza essenziale
della prima edizione di Foglio
di via. Attraverso l’analisi macrotestuale,
De Luca profila anzi un anti-
ermetismo che sfrutta gli stilemi
tipici della corrente fondata sulla
centralità dell’io lirico per rendere,
con gusto del paradosso, «la negazione
di un’idea egocentrica e narcisistica
dell’esistenza e della poesia»
(p. 23). Ancora l’indagine sul macrotesto
consente di far luce sulle strategie
metriche attuate dall’autore, la
cui poetica trova uno dei suoi aspetti
più complessi proprio nel ragionamento
sul recupero delle forme della
tradizione. Nell’ultima sezione del
libro, intitolata con apparente genericità
Altri versi, i prodromi del ‘manierismo’
del Fortini maturo si manifestano
in titoli come Sonetto o Strofe o
nell’elezione di Torquato Tasso quale
modello per un madrigale. Tuttavia,
è osservando i ‘testi-dispositivi’, cioè
quelli che «si pongono come snodi
importanti nell’assetto macrotestuale
» (p. 38), che si può riconoscere uno
sfruttamento in chiave strutturale
del fatto metrico: i testi liminari che
aprono e chiudono le diverse sezioni
del libro presentano infatti «parallelismi
metrici» che rafforzano, sul piano
formale, un attento «sistema di
rimandi che collabora alla strutturazione
della raccolta» (ibidem).
Dato il ruolo essenziale della costruzione
interna del libro, De Luca
individua ulteriori collegamenti fra
testi e sezioni (e, a onor del vero, anche
tra liriche del Foglio e quelle della
produzione successiva) nello spazio
del commento, che si rifà alla tripartizione
canonica di cappello introrecensioni
831
duttivo, nota metrica e note ai singoli
versi. Numerose le informazioni
stilistiche che si traggono dall’analisi
ravvicinata dei testi, rapportate pur
sempre ai contenuti che esprimono e
all’economia macrotestuale; evidente
è il caso dell’apertura con la congiunzione
e, tratto tipico di Foglio di
via sin dal componimento incipitario
«E questo è il sonno, edera nera, nostra»,
che spesso assurge a «connessione
narrativa» che indica «una continuità
entro gli stati d’animo del soggetto
» (p. 345). Ma è sul fronte della cosiddetta
‘enciclopedia dell’autore’
che diventano manifeste le esigenze
del commento, giacché pochi autori
come Fortini hanno ingaggiato un
corpo a corpo con la Storia: gli ormai
remoti realia, gli eventi collettivi a cui
si riferiscono tante liriche – come l’istituzione
e la rivolta del ghetto di
Varsavia che fanno da sfondo a Varsavia
1939 e 1944 –, lo stesso linguaggio
politico chiarissimo al lettore italiano
del secondo Novecento, ma ora
anacronistico – si pensi a una parola
come «compagno», preziosa per il
comunista Fortini ma oggi caduta in
disgrazia, o ancora al «manifesto»,
un tempo veicolo privilegiato della
propaganda e oggi superato dalla comunicazione
digitale – fanno del Foglio
un libro fortemente legato al suo
tempo, che necessita di uno strumento
ermeneutico puntuale per poter
esprimere tutto il potenziale del suo
messaggio politico.
A tal proposito, è bene evidenziare
come l’originalità dell’interpretazione
deluchiana, che restituisce un libro
omogeneo ma non privo di contraddizioni
e ombre – che ne aumentano,
se possibile, il fascino – non offra
alcun destro a ‘depoliticizzazioni’
della scrittura di Fortini. Contro un
certo ‘revisionismo critico’, De Luca
osserva come Foglio di via contenga
già, in nuce e in una forma magari ancora
asistematica, i nuclei tematici e
ideologici dell’esperienza fortiniana,
come l’intenzione di «fare della poesia
il campo delle tensioni della storia,
certo da una specifica prospettiva
politica» (p. 41). Merito del curatore
è aver saputo fornire le chiavi
d’accesso a un’idea di scrittura in
versi profondamente politica, per
nulla leggera e mai onanistica, neppure
quando votata a un maggiore
lirismo. Supererebbe di gran lunga
gli intenti di questa recensione, invece,
chiedersi che senso possa avere
tornare a leggere, sia pure con l’ausilio
di una guida attrezzatissima, un
libro che sembra provenire da epoche
remote e per certi versi perdute;
eppure, solo ricordando che «La
scuola della gioia è piena di pianto e
sangue / Ma anche di eternità» si potrà
tornare a pensare – con la consapevolezza
delle difficoltà e le promesse
di liberazione che comportano
gli autentici cambiamenti – a un’idea
di futuro, o come avrebbe preferito
dire il poeta, di avvenire.
Giuseppe Andrea Liberti
Costanza Geddes da Filicaia (a
cura di), Leopardismi del Novecento,
Macerata, EUM Edizioni Università
di Macerata, 2016, pp. 120.
È noto che Benedetto Croce scrisse
il saggio su Leopardi compreso in
Poesia e non poesia (1923) per delegittimare
il «leopardismo» inteso come
modello critico-intellettuale e stilistico-
letterario.
In quelle pagine, di certo non fra le
832 recensioni
sue più felici, il filosofo napoletano
prendeva duramente posizione contro
il «fallace concetto…di un Leopardi
sommo pensatore, le cui argomentazioni
e dottrine trovino luogo
nella storia della filosofia», giacché il
complesso delle sue idee altro non
era che il riflesso di «una vita strozzata
» e il suo «sistema» si riduceva a
«proiezione raziocinante del proprio
stato infelice».
Egli individuava altresì, con un’operazione
seccamente riduttiva, il vero
accento poetico «non dove» lo
scrittore «polemizza, ironizza e satireggia,
e ride male, ma dove si esprime
serio e commosso», e quindi nei
«cosiddetti ‘idillî’, in quelli giovanili
e nei posteriori, nei ‘grandi idillî’»,
ove «la sua parola acquista colore, il
suo ritmo si fa dolce e flessuoso e pieno
di armonie e di intime rime, la
commozione trema riflettendosi nella
pura e lucente goccia di rugiada
della poesia».
Il Novecento ha sostanzialmente
respinto tale forzoso e unilaterale ridimensionamento,
valorizzando le
riflessioni teoriche del Recanatese (v.
al proposito gli studî fondamentali
di Sebastiano Timpanaro) e affermando
a più riprese la rilevanza assoluta
della ricerca artistica, sottolineandone
l’esemplare centralità, se
Mario Petrucciani, nel corso del Convegno
internazionale Leopardi e il Novecento
(Recanati, 2-5 ottobre 1972),
non esitò a riconoscere nel poeta dei
Canti «uno dei veicoli, difficilmente
sostituibile, di una…nuova epistemologia
letteraria».
Il secolo scorso è stato infatti caratterizzato
da ricorrenti, significativi
«leopardismi», cioè da richiami meditati
e intensi alla lezione lirica ed
etico-culturale del Leopardi; e di alcuni
di essi dà conto con acutezza e
rigore questo volume, espressione
dell’attività di commento testuale e
di indagine critica promossa dalla
Cattedra Giacomo Leopardi dell’Università
di Macerata.
I contributi in esso raccolti insistono
sulla ricognizione attenta dell’eredità
letteraria leopardiana, innanzitutto
a livello di trasmissione di importanti
nuclei tematici, ma pure
quale prezioso magistero linguisticoformale,
quale sorgente di immagini,
di suggestioni emotive e sentimentali,
nonché di soluzioni stilistiche e
metriche.
Ad esempio la curatrice Geddes da
Filicaia in Leopardismi campaniani si
sofferma sull’interesse indubbio dimostrato
da Dino Campana per la
poesia del Leopardi, nonostante che
lo scrittore toscano «certamente non
annoverasse l’opera del recanatese
fra le sue fonti di ispirazione primaria
» (p. 16).
La studiosa pone specificamente in
risalto alcuni motivi comuni come il
ricordo («Va tuttavia notato che, se la
memoria leopardiana ha un valore
primariamente evocativo, sorta di primigenia,
vaga rimembranza, il ricordo
campaniano assume invece le caratteristiche
di una sorta di ossessivo
rimuginare su immagini, suoni, figure,
colori», p. 12), le atmosfere notturne
di chiara derivazione romantica, le
nozioni ricorrenti del silenzio e dell’infinito,
la presenza frequente del lemma
vag- (vago, vagare…); si tratta di
annotazioni che sottintendono l’ancoraggio
di un lavoro d’arte sicuramente
innovativo come i Canti Orfici a una
determinata tradizione letteraria, la
sua collocazione entro «una precisa
‘genealogia’ poetica e intellettuale»
(p. 11): d’altronde «la scelta del sorecensioni
833
stantivo ‘canti’» (ibidem) potrebbe essere
un segnale in tal senso rivelatore.
Ha ancora un prevalente fondamento
tematico l’analisi di Simona
Costa in Leopardi, Pirandello e l’apocalisse.
Si sa che il drammaturgo e narratore
siciliano considerava Leopardi il
più grande poeta italiano e dai testi
di lui trasse numerosi spunti d’invenzione
fantastica e di serrata polemica,
a partire dall’«irrisione della
concezione antropocentrica» che «è
certo un punto focale della filiazione
Leopardi-Pirandello» (p. 28), alla
quale si connettono altri temi (l’indifferenza
della natura, l’assurdità della
vita, l’inconsistenza del cosiddetto
progresso scientifico, la spiccata infelicità
umana rispetto agli animali:
motivi ravvisabili talora allo stato di
«un tessuto citazionale volutamente
di immediata decifrazione come il Fu
Mattia Pascal», p. 30), fino all’ipotesi
distopico-apocalittica della distruzione
della terra già contemplata dal
Recanatese nella parte conclusiva del
Cantico del gallo silvestre, dominata
dalla «quiete altissima» conseguente
alla scomparsa della vita.
Coerentemente con siffatta impostazione
critico-metodologica Laura
Melosi, Valeria Merola, Carla Carotenuto
illustrano, spesso con intelligenti
rilievi intertestuali, le relazioni
fra l’opera leopardiana e la scrittura
rispettivamente di Federigo Tozzi,
Alberto Moravia e Libero Bigiaretti,
mentre Manuela Martellini (La memoria
leopardiana in Cardarelli. Ricognizioni
e riscontri) s’impegna in
un’attenta campionatura di presenze
e di echi di tanti passi di Leopardi
nella pagine di Vincenzo Cardarelli,
anche nella consapevolezza del ruolo
essenziale svolto dal riferimento
all’autore delle Operette morali nella
definizione di tutto un programma
d’arte e di cultura, nella proposta di
quel ritorno al canone classicistico
della tradizione letteraria italiana
(«Non si intende negare la modernità,
ma conferirle la continuità della
tradizione», p. 46) che ebbe nella rivista
«La Ronda» il manifesto più
esplicito e rappresentativo.
L’intervento di Nicola Merola
(Montale, visita fatta, con Leopardi sullo
sfondo) fa eccezione per l’attenzione
davvero parziale e accessoria riservata
al Leopardi, nell’àmbito di un
discorso quasi interamente dedicato
alla poesia di Eugenio Montale, interpretata
– in un linguaggio involuto
e alla luce soprattutto dei lavori
critici di Mengaldo, Blasucci e Luperini
– quale sintesi felice di problematiche
moderne e di armonia formale
di ascendenza tradizionale,
quale interessantissimo episodio di
«classicismo paradossale» e «metaforico
». Nella stessa chiave «metaforica
», a parere dello studioso, andrebbe
inteso il petrarchismo stilistico e
metrico leopardiano, percorso alternativamente
da rispetto conservativo
e da dinamiche innovatrici e per
questo originale e «paradossale».
Floriano Romboli
LIBRI RICEVUTI
“Lampada per i miei passsi è la tua parola, luce sul mio cammino”. Studi
offerti a Marcello Del Verme in occasione del suo 75° compleanno, a cura
di Pasquale Giustiniani e Francesco Del Pizzo, Bornato in Franciacorta,
Sardini, 2017, pp. 578.
Lando Ortensio, Cicero relegatus et Cicero revocatus. Dialoghi festivissimi,
a cura di Elisa Tinelli. Premessa di Davide Canfora, Bari, edizioni di
Pagina, 2017, pp. XII-168.
Le incisioni delle “Gerusalemme liberata”. Dal secolo XVI al XVIII, a cura
di Alfonso Paolella, Castellammare di Stabia, Eidos, 2017, pp. 656.
Machiavelli, a cura di Emanuele Cutinelli-Rendina e Raffaele Ruggiero,
Roma, Carocci, 2018, pp. 346.
«Misure critiche», 2017, numero 1-2, pp. 298.
Pierangeli Fabio, Emilio De marchi. Condanna e perdono, Napoli, Paolo
Loffredo, 2018 (le ricerche di «Critica letteraria», 30), pp. 266.
Rinaldo Rinaldi, Fuori tema. Inglesi e cinema, Napoli, Paolo Loffredo,
2018 («Mosaic», 3), pp. 224.
Surdich Luigi, Poesie del Novecento. Gozzano, Montale, Caproni, Sereni,
Giudici, Genova, il melangolo, 2018, pp. 320.
Taccone Stefano, Sogniloqui. Racconti, Casalnuovo, Jod, 2018, pp. 70.
Vele d’autore nell’Adriatico orientale. La navigazione a vela fra Grado e Dulcigno
nella letteratura italiana. Convegno internazionale, Trieste, 5-6 ottobre
2017, a cura di Giorgio Baroni e Cristina Benussi, Psa-Roma, F. Serra
editore, 2018 (Biblioteca della «Rivista di Letteratura italiana», 27), pp.
428.
indici dell’annata 2018 (a. xlv I)
SAGGI
Arnaldo Di Benedetto, Federico Patetta e la Nencia da Barberino
pag. 3
Cristiano Amendola, Felice Feliciano epistolografo. Sondaggi
sul codice Canon. Ital. 15 della Bodleian Library di Oxford
e ipotesi per una cronologia degli epistolari » 9
Arturo Mazzarella, «Il poeta moderno». Sulla poesia ingenua
e sentimentale di Leopardi » 49
Nunzio Ruggiero, Zumbini e Pèrcopo all’Università di Napoli.
Parabole della scuola storica meridionale tra Otto e Novecento
» 63
Virginia di Martino, «La storia della nostra vita». Autobiografia
di uno spettatore di Italo Calvino » 85
Alessandro Carandente, Pontiggia e la critica del linguaggio
» 103
Bruno Capaci, La rosa di Lucrezia Borgia » 211
Stella castellaneta, Napoli Incauta. Eroi martiri e tiranni,
tra scienza nuova teatro e utopia » 231
Francesca Bianco, Le poesie di Ossian. Osservazioni critiche
di Cesarotti a Le Tourneur » 267
Nunzia D’Antuono, Settembrini e l’antico » 293
Francesca Longo, Componenti visive e arti figurative in Kaputt
fra non fiction e fiction » 305
Giorgio Sica, Il fantasma di García Márquez in Salvatore Niffoi
» 323
Stefano Bianchi, Le rime e le lettere di Veronica Gambara e
l’edizione bresciana del 1759 » 423
John Butcher, «Dove Hippocrene è l’Istro». Antonio Abati
al servizio dell’arciduca Leopoldo Guglielmo d’Austria » 449
Giulia Tellini, Le amiche rivali: la scrittura teatrale di Angelica
Palli » 469
Dino Manca, Nuclei generativi e primitive fasi di elaborazione
di due romanzi di Giuseppe Dessì » 495
836 indici dell’annata 2018 (a. xlvi)
Angelo Castagnino, Il romanzo della positività pag. 517
Valter Boggione, Dante e l’altezza d’ingegno » 635
Alessandra Mantovani, Il carteggio Fontanini-Muratori
(1699-1716): storia di un’amicizia » 653
Silvia Tatti, La Repubblica delle Lettere in Italia dall’Arcadia
a Foscolo » 687
Gianmarco Gaspari, Il romanzo tra narrazione e storia: aggiornamenti
sul caso Manzoni » 703
Rosanna Pozzi, Ipazia e la parola » 717
Fabio Moliterni, Dar fuoco alle polveri. Sciascia e il barocco » 725
MERIDIONALIA
Aldo Maria Morace, Narrazione e memoria in Zanotti Bianco » 131
Nunzio Ruggiero, Una vittoriana della Nuova Italia. Mediazione
culturale e militanza politica nell’opera di Fanny Zampini
Salazar » 341
Marco Manotta, Un polittico narrativo di Seminara, tra favola
e mito » 539
Donato Sperduto, Dalla lotta per il matrimonio al convento:
Per Monaca di Matilde Serao e Albert Savarus di Balzac » 741
CONTRIBUTI
Ilaria Muoio, Fenomenologia del naso tra Capuana e Pirandello.
Il caso Roxa-Pascal » 145
Fabrizio Miliucci, Guido Gozzano e “la film” » 159
Valentino Baldi, Commemorazione definitiva del personaggio-
critico. Riflessione sullo stato di crisi permanente della
critica letteraria » 171
Davide Colombo, Ettore Cozzani fra Dante e Pascoli » 361
Michele Mongelli, Forma epigrammatica ed inventio letteraria
nelle Epistolae ad Hiaracum di Elisio Calenzio » 377
Franco Maiullari, Una nuova lettura dell’Ulisse dantesco
(ovvero, l’interpretazione anamorfica del canto XXVI
dell’Inferno) » 559
Marino Boaglio, Il sogno come rimozione.Il poemetto Paulo
Ucello di Giovanni Pascoli » 583
Paolo Rigo, Dante e la retorica del gesto. Primi appunti » 751
Dora Marchese, Filippo Tommaso Marinetti e l’arte degenerata » 771
Cristiano Bedin, Un’«incursione» occasionale nel territorio
della memoria: L’entrata in guerra di Italo Calvino come
testimonianza del trauma e della crescita » 781
indici dell’annata 2018 (a. xlvi) 837
Ricordi
Antonio Lucio Giannone, Ricordo di Donato Valli pag. 803
RECENSIONI
Giuseppe Chiecchi, Nell’arte narrativa di Giovanni Boccaccio,
Firenze 2017 (Erika Dumas) » 187
Carlo Vecce, La biblioteca perduta. I libri di Leonardo, Roma
2017 (Anna Cerbo) » 189
Paolo Regio, Lucrezia, edizione, introduzione e note di Anna
Cerbo, Napoli 2017 (Paola Trivero) » 193
Gianni Oliva, D’Annunzio. Tra le più moderne vicende, Milano
2017 (Claudio Mariotti) » 195
Raffaele Cavalluzzi, La crudeltà dello scrittore, Bari 2017
(Viviana Tarantino) » 198
Giulio Iacoli, A verdi lettere. Idee e stili del paesaggio letterario,
Firenze 2016 (Salvatore Renna) » 200
Fabrizio Scrivano, Oggi il racconto. Come resistere alla banalità
dell’informazione, Milano 2016 (Laura Diafani) » 201
In trincea. Gli scrittori alla Grande Guerra. Atti del Convegno
Internazionale di Studi, Firenze, 22-24 ottobre 2015, a cura
di Simone Magherini, Firenze 2017 (Ilaria Macera) » 401
Antonio Lucio Giannone, Sentieri nascosti. Studi sulla Letteratura
italiana dell’Otto-Novecento, Lecce 2016 (Pietro
Sisto) » 404
Raul Mordenti, I sensi del testo. Saggi di critica della letteratura,
Roma 2016 (Claudio Brancaleoni) » 405
L’italiano alla prova dell’internazionalizzazione, a cura di Maria
Agostina Cabiddu, prefazione di Francesco Sabatini,
Milano 2017 (Simona Lomolino) » 409
Giorgio Montefoschi, Il corpo, Milano 2017 (Gandolfo
Cascio) » 412
Fuoco. Terra. Aria. Acqua, a cura di Edoardo Sant’Elia, Lecce
2017 (Paola Villani) » 415
Antonio Iurilli, Quinto Orazio Flacco. Annali delle edizioni
a stampa. Secoli XVXVIII, 2 tomi, Ginevra 2017 (Pietro
Sisto) » 603
«Diverse voci fanno dolci note». Il Dante di Aldo Vallone, a
cura di Vincenzo Caputo, Napoli 2017 (Salvatore Di
Marzo) » 605
Francesco Tateo, Pontano poeta. Carmi scelti e frammenti
con traduzione italiana, Foggia, 2018 (John Butcher) » 607
838 indici dell’annata 2018 (a. xlvi)
La letteratura italiana e la nuova scienza. Da Leonardo a Vico, a
cura di Simone Magherini, Milano 2017 (Salvatore Di
Marzo) pag. 609
Maurizio Capone, Nievo e Tolstoj. Le Confessioni d’un italiano
e Guerra e pace: un confronto inedito, prefazione di
Simone Casini, Roma 2017 (Giuseppe Andrea Liberti) » 612
Bibliografia di Luigi Capuana (1968-2015), a cura di Mario
Bocola, premessa di Gianni Oliva, Lanciano 2016
(Bambina Chiavelli) » 614
L’archivio di Paul-Henri Michel e alcuni nuovi testimoni di commedie
sveviane, a cura di Luca Curti, Antonio Lucio
Giannone, Beatrice Stasi, «Aghios. Quaderni di studi
sveviani», 10, 2017 (Luca Mendrino) » 616
The poetics of decadence in fin-de-siecle Italy. Degeneration and
regeneration in Literature and the Arts, a cura di Stefano
Evangelista, Valeria Giannantonio ed Elisabetta
Selmi, Oxford 2018 (Paola Villani) » 622
Carlo Nitsch – Guido Trombetti, Anche le cicale sanno contare,
Roma 2018 (Matteo Palumbo) » 626
Alviera Bussotti, Forme della virtù. La rinascita poetica da
Gravina a Varano, Alessandria 2018 (Valentina Gallo) » 813
Giuseppe Gioachino Belli, I sonetti, edizione critica e
commentata a cura di Pietro Gibellini, Lucio Felici,
Edoardo Ripari, Torino 2018 (Raffaele Manica) » 814
Igino Ugo Tarchetti, Disjecta Frammenti lirici. Edizione
critica, introduzione e commento a cura di Roberto
Mosena, Lanciano 2017 (Giulio Di Fonzo) » 818
Beatrice Alfonzetti, Pirandello. L’impossibile finale, Venezia
2017 (Paola Trivero) » 820
Pasquale Tuscano, Federigo Tozzi, narratore dell’alienazione
dei sentimenti e della ragione, Soveria Mannelli 2018 (Francesca
Farina) » 822
Vittorio Bodini fra Sud ed Europa (1914-2014), Atti del Convegno
Internazionale di Studi (Lecce, Bari; 3-4, 9 dicembre
2014), a cura di Antonio Lucio Giannone, Nardò
(Lecce) 2017 (Fabio D’Astore) » 825
Franco Fortini, Foglio di via e altri versi, edizione critica
e commentata a cura di Bernardo De Luca, Macerata
2018 (Giuseppe Andrea Liberti) » 828
Costanza Geddes da Filicaia (a cura di), Leopardismi del
Novecento, Macerata 2016 (Floriano Romboli) » 831
indice dei collaborato ri
Amendola Cristiano, 9
Baldi Valentino, 171
Bedin Cristiano, 781
Bianchi Stefano, 423
Bianco Francesca, 267
Boaglio Marino, 583
Boggione Valter, 635
Brancaleoni Claudio, 409
Butcher John, 449, 609
Capaci Bruno, 211
Carandente Alessandro, 103
Casco Gandolfo, 415
Castagnino Angelo, 517
Castellaneta Stella, 231
Cerbo Anna, 192
Chiavelli Bambina, 616
Colombo Davide, 361
D’Antuono Nunzia, 293
D’Astore Fabio, 828
Diafani Laura, 204
Di Benedetto Arnaldo, 3
Di Fonzo Giulio, 820
Di Martino Virginia, 85
Di Marzo Salvatore, 612, 607
Dumas Erika, 189
Farina Francesca, 825
Gallo Valentina, 814
Gaspari Gianmarco, 703
Giannone Antonio Lucio, 803
Liberti Giuseppe A., 614, 831
Lomolino Simona, 412
Longo Francesca, 305
Macera Ilaria, 404
Maiullari Franco, 559
Manca Dino, 495
Manica Raffaele, 818
Manotta Marco, 539
Mantovani Alessandra, 653
Marchese Dora, 771
Mariotti Claudio, 198
Mazzarella Arturo, 49
Mendrino Luca, 622
Miliucci Fabrizio, 159
Moliterni Fabio, 725
Mongelli Michele, 377
Morace Aldo Maria, 131
Muoio Ilaria, 145
Palumbo Matteo, 629
Pozzi Rosanna, 717
Renna Salvatore, 201
Rigo Paolo, 751
Romboli Floriano, 833
Ruggiero Nunzio, 63, 341
Sica Giorgio, 323
Sisto Pietro, 405, 603
Sperduto Donato, 741
Tarantino Viviana, 200
Tatti Silvia, 687
Tellini Giulia, 469
Trivero Paola, 195, 822
Villani Paola, 418, 626
REFERAGGIO 2018
«Critica letteraria» applica il criterio dei due revisori anonimi; il primo è
interno al Comitato scientifico della rivista; solo dopo l’approvazione da parte
dell’interno il Direttore sottopone al revisore esterno il saggio da valutare per
la pubblicazione; il saggio viene inviato privo del cognome dell’autore e di
ogni altra citazione che possa far risalire ad esso.
I valutatori esterni sono conosciuti solo dal Direttore; ognuno si sceglie
uno pseudonimo; è con questo che il Direttore comunica il risultato della valutazione
all’autore del saggio.
Per l’anno 2016 hanno svolto tale attività i colleghi che hanno scelto questi
pseudonimi: Alfa!, Bartleby, Contessa Lambertini, Laelio, Lenòr, Levante, Galletta,
Perelà, Pietro Meloni, Sigismondo.
Questa è la tabella riassuntiva del lavoro svolto nell’anno:
SAGGI: pervenuti 31 saggi; approvati dai referees interni 23; approvati
dai referees esterni e pubblicati 23.
MERIDIONALIA: pervenuti 4 saggi; approvati dai referees interni 4; approvati
dai referees esterni e pubblicati 4.
CONTRIBUTI: pervenuti 18 saggi; approvati dai referees interni 12; approvati
dai referees esterni e pubblicati 12.
NOTE: pervenute 4 note; approvata dai referees interni 1; approvata
dai referees esterni e pubblicata 1.
Il Direttore responsabile di «Critica letteraria», a nome del Comitato direttivo/
scientifico e dell’Editore Paolo Loffredo, ringrazia i Docenti italiani e
stranieri che, generosamente, hanno accettato di collaborare alla revisione
anonima dei contributi scientifici.