10 Feb Anno XLVII (2019) Fasc. II, N. 183
SAGGi Sebastiano Valerio, Canti e silenzi dei pastori nell’Arcadia di Sannazaro pag. 213 Patrizia Pellizzari, Una inedita postilla e l’ultimo Alfieri li- rico fra Pindaro e Chiabrera » 233 Marco Dondero, “Apparizioni” primonovecentesche del Leo- pardi personaggio » 259 Cristina Zampese, «Un bel gesolreutt». «Il canto XVI del Tas- so» di Manzoni e Visconti » 271 Mario Cimini, Lo strano caso della Figlia di iorio: Mila di Codra “bagascia” e “creatura di Cristo” » 281 roberto Gigliucci, Pirandello e Josiah Royce » 293
MEriDiONALiA Claudia Corfiati, Sannazaro e Virgilio. La poetica della dif- frazione » 307
CONTriBuTi Maria Shakhray, Tra epica e storia: continuità e innovazione nel Conquisto di Granata di Girolamo Graziani e La Au- stríada di Juan Rufo » 325 Debora Carcea, Dal «secol superbo e sciocco» al «trionfo del- la spazzatura». L’ultimo Montale e il Leopardi satirico » 339 riccardo Gasperina Geroni, Donne ribelli, donne oggetto: il mondo femminile nei racconti di Alberto Moravia » 357 Francesca Fistetti, Fantasmi, simulacri, pregnant void. il pianeta azzurro di Luigi Malerba » 373
NOTE Bruno Bonifacino, Le lettere di Elena De Bosis a Camillo Sbarbaro » 395
Consiglio scientifico onorario: Guido Baldassarri (Padova) / Andrea Battistini (Bologna) / Nicola De Blasi (Napoli) / Arnaldo Di Benedetto (Torino) / Pietro Gibellini (Venezia) / raffaele Giglio (Napoli) / Gianni Oliva (Chieti) / Matteo Palumbo (Napoli) / Francesco Tateo (Bari) Comitato direttivo-scientifico: Giancarlo Alfano (Napoli – Federico II) / Beatrice Alfonzetti (Roma- Università Sapienza) / Valter Boggione (Università degli Studi di Torino) / Daniela De Liso (Napoli – Federico II) / Maria Teresa imbriani (Potenza – Università della Basilicata) / Valeria Giannantonio (Università degli Studi di Chieti) / Antonio Lucio Giannone (Lecce – Università del Salento) / Simone Magherini (Università degli Studi di Firenze) / Elisabetta Selmi (Università degli Studi di Padova) / Tobia r. Toscano (Napoli – Federico II) / Sebastiano Valerio (Università degli Studi di Foggia) / Paola Villani (Napoli – Università degli Studi Suor Orsola Benincasa) Comitato scientifico internazionale: Perle Abbrugiati (Aix en Provence, Francia – Université de Provence) / Elsa Chaarani Lesourd (Nancy, Francia – Université de Nancy II) / Massimo Danzi (Ginevra, Svizzera – Université de Genève) / Paolo De Ventura (Birmingham, England – University of Birmingham) / Francesco Guardiani (Toronto, Canada – University of Toronto) / Margareth Hagen (Bergen, Norvegia – Universitetet i Bergen) / Srecko Jurisic (Spalato, Croazia – Università di Spalato) / Massimo Lollini (Eugene, Stati Uniti – University of Oregon) / Paola Moreno (Liegi, Belgio – Université de Liegi) / irene romera Pintor (València, Spagna – Universitat de València) Redazione: Daniela De Liso, Vincenzo Caputo Segreteria di redazione: Noemi Corcione (corcione.redazione@criticaletteraria.net) e John Butcher Direttore responsabile: raffaele Giglio.
rECENSiONi
Giovanni Pontano, Actius: de numeris poeticis, de lege histo- riae, a cura di Francesco Tateo, roma, roma nel rina- scimento, 2018 («rr inedita, saggi 76») (John Butcher) pag. 401 Domenico Chiodo, Armida da Tasso a Rossini, Manziana, Vecchiarelli, 2018 (Giuseppe Andrea Liberti) » 406 Asteria Casadio, Ugo Piscopo tra critica e scena, Teramo, Evoé edizioni, 2018 (Franco Trifuoggi) » 408 Vetrine di cristallo. Saggi su Silvana Grasso, a cura di Gandol- fo Cascio, Venezia, Marsilio, 2018 (Mara Boccaccio) » 411 Sebastiano Grasso, È ancora tempo di arcobaleni?, Milano, ES, 2019 (Giuseppe Amoroso) » 413 Dario Malini, La Grande Guerra di Italo Svevo. La scoperta di una fonte letteraria ignota de La coscienza di Zeno, Mi- lano, ArteGrandeGuerra edizioni, 2018 (Giuseppe An- drea Liberti) » 414
SEBASTiANO VALEriO Canti e silenzi dei pastori nell’Arcadia di Sannazaro
il carattere lirico della narrazione nell’Arcadia di Jacopo Sannazaro, complesso prosimetrum dall’intricata vicenda redazionale, è una caratteristica fondamentale già evidenziata nel corso degli anni da diversi critici. il presente contributo intende partire proprio da questo assunto per ripercorrere i numerosi luoghi del testo dove si esprime quella contraddizione in termini che contraddistingue tutta l’opera, tra silenzio e musica, tra il tacere e il cantare.
★ The lyrical nature of the narration in Jacopo Sannazaro Arcadia, a complicated prosimetrum that had an intricate editorial history, is a fundamental feature already pointed out by many critics. The present contribution wants to start from this premise to revisiting the many places of the text where we can find that contradiction in terms which distinguishes the whole opera, between silence and music, to remain silent and to sing.
La civiltà pastorale che Sannazaro descrive nell’Arcadia si connota subito, a partire dal prologo, per la presenza del suono, della musica, dei tipici strumenti musicali, caratteristici del cantare dei pastori sin dall’antica ecloga. Le «incerate canne» [Pr. 2] della siringa, della sampogna (o fistula, piva, arena, come la si voglia chiamare), appaiono subito come strumento che allieta con un suono piacevole che supera per bellezza i «tersi e pregiati bossi», i flauti dei grandi musicisti, con la stessa naturalità con cui le ecloghe, che i pastori d’Arcadia cantano, allietano il pubblico, cosa che fa sì che tra la «umile fistula» di Coridone, di virgiliana memoria (Verg. Buc. 7, 2-4), e la «sonora tibia» di Pallade la scelta sia facile, una scelta di genere in primo luogo che, come vedremo e come ha indicato già anni fa Tateo1, finirà per segnalare una delle questioni più importanti di questo complesso prosimetrum.
Autore: università di Foggia; prof. ordinario di Letteratura italiana; sebastiano.valerio@unifg.it 1 Francesco Tateo, Tradizione e realtà nell’Umanesimo italiano, Bari, Dedalo, 1967, pp. 11-40.
Saggi
sebastiano valerio214 La fortuna critica dell’Arcadia è stata ovviamente lunga e ha finito per interrogare il testo sannazariano2, muovendosi da prospettive assai diverse tra coloro che hanno inteso la questione del senso ultimo dell’Arcadia, definibile alla luce dell’intricata vicenda redazionale, coloro che hanno privilegiato una lettura, per così dire, politica dell’opera e chi ha infine preferito metterne in luce le riflessioni metapoetiche, così importanti per gli sviluppi del genere bucolico in particolare e della lirica cinquecentesca e non solo. Si tratta, a mio avviso, di piani di indagine tutti degni di approfondimento e considerazione, che talvolta però hanno finito per far dimenticare il quadro generale, hanno finito per oscurare il senso di un percorso in cui le “contraddizioni”3, termine guida di ogni interpretazione del capolavoro del Sannazaro, lungi dall’essere un limite costitutivo del testo, ne rappresentano invece un carattere fondamentale per comprenderlo, come in verità già nel 1979 aveva sottolineato Marco Santagata nel capitolo dedicato a L’alternativa ‘arcadica’ del Sannazaro del suo fondamentale volume sulla lirica aragonese, enfatizzando dunque il carattere lirico della narrazione del Sannazaro, che in quanto tale richiede di essere letta come «una raccolta poetica», e quindi va apprezzata anche nella sua natura, composta da petrarcheschi fragmenta4. E da una contraddizione, tra le tante, vorrei anch’io muovermi, da quella contraddizione in termini, che accompagna l’opera, tra silenzio e musica, tra il tacere e il cantare. È utile partire dalle considerazioni che rinaldo rinaldi ha affidato, in maniera sistematica, al suo articolo Dal silenzio al ricordo. Conquista della scrittura nell’Arcadia, uno studio edito nel 20075. il canto corale dei pastori, da cui muove rinaldi nella sua analisi, li rende al contempo autori e pubblico delle loro performance6, costituendo così un grup
2 Cfr. per un quadro complessivo della fortuna dell’opera isabella Becherucci, L’alterno canto del Sannazaro. Ultimi studi sull’Arcadia, Lecce, Pensa Multimedia, 2012, pp. 47-59. 3 Cfr. isabella Becherucci, Modernità dell’Arcadia di Iacopo Sannazaro, in Moderno e modernità: la letteratura italiana, Atti del Xii Congresso dell’Associazione degli italianisti, roma, 17-20 settembre 2008, a cura di Clizia Gurreri, Angela Maria Jacopino, Amedeo Quondam, roma, La Sapienza, 2009 < http://www. italianisti.it/upload/userfiles/files/Becherucci%20isabella.pdf>. 4 Marco Santagata, La lirica aragonese. Studi sulla poesia napoletana del secondo Quattrocento, Padova, Antenore, 1979, pp. 356-357. 5 rinaldo rinaldi, Dal silenzio al ricordo. Conquista della scrittura nell’Arcadia, «Critica letteraria», XXXV (2007), ii, n. 135, pp. 277-294. 6 Cfr. su questo aspetto Eric Haywood, «E che parlo io? E chi mi ascolta?». Poeti
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canti e silenzi dei pastori nell’arcadia di sannazaro 215 po di esecutori-ascoltatori delle ecloghe riportate che ne fa una cerchia ristretta e colta, come d’altro canto la tradizione bucolica imponeva. È l’immagine di un’accademia, di un circolo che tende ad autorappresentarsi, sullo sfondo di una società che non può essere ridotta, per quello che è il carattere della cultura dell’epoca, a un semplice proscenio, ma è un elemento assolutamente condizionante lo stesso mondo “pastorale”, dietro la maschera del suo travestimento bucolico, come hanno colto con finezza gli studiosi più avveduti di questi anni, da Fenzi, a Vecce, autore della più recente edizione, ad Erspamer, alla riccucci7, che ha ampliato in modo originale il solco di studi tracciato da Santagata. in modo particolare, l’attenzione si è rivolta ad alcuni passaggi dell’opera, come le ecloghe i, ii, Vi, che paiono appartenere ad una fase redazionale precedente all’ideazione del prosimetro, mentre poi una fase ancora diversa sarebbe rappresentata dalle relative prose e dagli altri capitoli del testo, che nella prima redazione del cosiddetto Libro pastorale, si concludeva al capitolo X, mentre i capitoli Xi e Xii risalirebbero ad un periodo successivo al 1492, con il Congedo alla Sampogna, che appartiene invece agli anni della prima pubblicazione ufficiale dell’Arcadia, risalente al periodo in cui Sannazaro aveva seguito in esilio il re Federico nell’esilio francese di Blois, al 1503, dopo la caduta del regno aragonese. Di qui appunto l’opportunità che abbiamo di scomporre i piani compositivi dell’opera, ma anche di vedere come
e pubblico nell’Arcadia di Iacopo Sannazaro, in La Serenissima e il regno. Nel V Centenario dell’Arcadia di Iacopo Sannazaro, Atti del Convegno di Studi (Bari-Venezia, 4-8 ottobre 2004), a cura di Francesco Tateo, Davide Canfora, Anegla Caracciolo Aricò, Bari, Cacucci, 2006, pp. 383-408. 7 Cfr. Maria Corti, Rivoluzione e reazione stilistica nel Sannazaro, in Ead., Metodi e fantasmi, Milano, Feltrinelli, 1969, pp. 307-323; Marina riccucci, Il neghittoso e il fier connubio. Storia e filologia nell’Arcadia di Jacopo Sannazaro, Napoli, Liguori, 2001; Enrico Fenzi, L’impossibile Arcadia di Iacopo Sannazaro, «Per leggere», 15 (2008), pp. 156-178, poi in Iacopo Sannazaro. La cultura napoletana nell’Europa del Rinascimento, a cura di Pasquale Sabbatino, Firenze, Olschki, 2009, pp. 71-95, volume che si segnala per altri importanti contributi alla storia dell’Arcadia. Cfr. anche il numero 14 (2016) della rivista «Parole rubate» e i contributi di Eric Haywood, Virgilio e Boccaccio in Arcadia, pp. 13-31; Carlo Vecce, La “sampogna” e la “musette”. Sannazaro e Jean Lemaire, pp. 35-56; rosangela Fanara, Autori, generi e stili in Sannazaro. Citazioni fra “Arcadia” e rime volgari, pp. 57-73; Marina riccucci, Tra memoria poetica e autocitazione. Ossessioni verbali e funerarie nell’“Arcadia”, pp. 75-93. Si veda, come edizione di riferimento, iacopo Sannazaro, Arcadia, introduzione e commento di Carlo Vecce, roma, Carocci, 2013, ma cfr. anche l’edizione iacopo Sannazaro, Arcadia, a cura di Francesco Erspamer, Milano, Mursia, 1990.
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sebastiano valerio216 il senso generale di questa sia stato, deliberatamente, adattato di volta in volta dal suo autore, pur con le contraddizioni a cui si è fatto già cenno. resta il fatto che l’Arcadia si apre nella dialettica tra silenzio e canto e si chiude col passaggio tra canto e silenzio8. Nella prosa i, 7 che presenta il paesaggio arcadico, i pastori, che «sogliono sovente … con i loro greggi dagli vicini monti convenire», riproducono i “riti” di questa comunità esercitandosi «in cantare et in sonare le sampogne a pruova l’un de l’altro», eccezion fatta per «Ergasto solo» [8] che è fermo come pietra o tronco, pur essendo stato nel passato assai attivo. L’immagine del pastore, che rappresenta una delle figure dello stesso Sannazaro, tacito e solitario, crea un immediato contrasto, una contraddizione che certo trova una sua chiara spiegazione nella genesi dell’ecloga prima, concepita in un momento buio per la storia napoletana, e non privo di ambiguità, che coinvolge non solo la maschera pastorale del Sannazaro ma anche altri pastori, colpiti da “inopia” e assediati dai lupi, come sostiene il pastore Selvaggio quando lo chiama ad esprimersi:
A dire il vero, oggi è tanta l’inopia di pastor che cantando all’ombra seggiano, che par che stiamo in Scitia o in Etiopia. Or poi che o nulli o pochi ti pareggiano a cantar versi sì leggiadri e frottole, deh canta omai, che par che i tempi il cheggiano. [Ecl. i, v. 25-30]
Ergasto tace perché lui, esperto in versi leggiadri e frottole (il verso, sostiene Vecce, «tipico della poesia popolare, cortigiana e per musica, di contenuto giocoso oppure politico»)9, non vede più attorno a sé il contesto giusto per cantare, in un momento in cui la primavera, con tutto quello che ideologicamente significa per questa cultura, sembra sospesa («Primavera e suoi dì per me non riedono», ie 34) e non ci sono più i «fioretti» dell’eterna primavera, che già nel Poliziano delle Stanze caratterizzavano la primavera umanistica e che ora cedevano il posto a «pruni e stecchi che ’l cor ledono» (ie, 36). Ovviamente, il Congedo alla Sampogna appartiene, come abbiamo visto, ad altra epo
8 Sull’incipit dell’opera cfr. Claudia Corfiati, Iacopo Sannazaro, Arcadia, in L’incipit e la tradizione letteraria italiana, a cura di Pasquale Guaragnella e Stefania De Toma, Lecce, Pensa Multimedia, 2011, pp. 155-162. 9 Arcadia (ed. Vecce), p. 69.
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canti e silenzi dei pastori nell’arcadia di sannazaro 217 ca e ad altro contesto culturale, ma il riproporsi di quelle immagini viene, a mio avviso, volutamente posto in conclusione dell’opera dal Sannazaro per dare alla stessa opera, composita, una sua circolarità. il poeta, ridotto ad un sasso, giace e tace, con un cuore che non può più ergersi «a poner cura in gregge umile e povero», che anzi spera quasi sia assalito e disfatto da quei lupi che, già immagini di male e malversazione nella pastorale del De Jennaro, nell’Arcadia, come hanno dimostrato Maria Corti, Marco Santagata e Marina riccucci, rappresentano più che una minaccia astratta per il mondo dei pastori, dei nemici già schierati in campo e che hanno già dimostrato la capacità di far male. Accanto a ciò il triste Ergasto propone una vicenda d’amore, legata a «colei che ’l cor m’ha lacero» [ie, 71], che lo porta poi a riprendere il canto proprio in una frottola impreziosita da rimandi petrarcheschi. Anche qui si intrecciano canto e silenzi, il canto di Ergasto che ricorda il bagno di questa pastorella e quello “spezzato” della pastorella alla vista dell’intruso, che si trasforma in pianto e grida per richiamare l’attenzione dei pastori a prestare soccorso ad Ergasto, svenuto per la troppa bellezza vista. unanime la critica ha visto qui l’allegoria della crisi di Napoli dei primi anni Ottanta, con lo scontro, finito nell’ordito di una congiura, tra nobiltà e monarchia, con il Sannazaro in una posizione, anche in questo caso, ambigua, in bilico tra le ragioni della piccola nobiltà e la lealtà ai regnanti, ma forse ben conscio della negatività dell’azione dei funzionari regi di cui gli Aragonesi si erano circondati, che potrebbe aver rappresentato nell’immagine dei lupi10. Fatto è che il canto del silenzioso Ergasto, proprio quel canto negato che gli aveva dato fama, una frottola, riprende e narra vicende amorose, in cui il ricordo, venato da una malcelata tristezza, fornisce materia all’opera e innesca a sua volta il canto dei pastori nel cap. ii:
E per men sentire la noia de la petrosa via, ciascuno nel mezzo de l’andare sonando a vicenda la sua sampogna, si sforzava di dire alcuna nuova canzonetta, chi raconsolando i cani, chi chiamando le pecorelle per nome, alcuno lamentandosi de la sua pastorella et altro rusticamente vantandosi de la sua; senza che molti scherzando con boscarecce astuzie, di passo in passo si andavano motteggiando, insino che a le pagliaresche case fummo arrivati. [Pr. ii, 4]
Torna nella seconda ecloga, anch’essa un brano che precede l’idea
10 E. Fenzi, L’impossibile Arcadia di Iacopo Sannazaro, cit., pp. 162-163.
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sebastiano valerio218 zione del prosimetro come lo leggiamo oggi e che ha subito revisioni prima di entrarne a far parte, il tema dei lupi, con l’invito che il vecchio Montano, in cui si riconosce il poeta aragonese De Jennaro, fa a fuggire il ladro, il «lupo pien d’inganni» [Ecl. ii, 20], brano su cui non posso che riferire le parole di Santagata che pone questo, come altri brani simili, in relazione alla «situazione della piccola nobiltà cittadina, priva di indipendenza economica e politica»11 e Fenzi, procedendo oltre sulla strada di una interpretazione politica del passo, si spinge a rilevare come in effetti i grandi assenti di questa rappresentazione allegorica siano proprio i re aragonesi, fatto salvo per qualche freddo omaggio12. Tuttavia, non sul senso politico di questi passaggi, tanto acutamente delibati dalla critica moderna, intendo soffermarmi, quanto sul fatto anche in questa ii ecloga, dopo un inizio di taglio politico, la seconda parte, affidata allo scambio responsivo tra quell’uranio, dietro la cui maschera è apparso ai più di riconoscere lo stesso Pontano, e lo stesso Montano, si avvia ad una cantabilità che riprende i più tradizionali e provati topoi bucolici e lirici d’amore e non a caso inizia con citazioni che Vecce ha definito «incipit convenzionali di canzonette per musica del Tre-Quattrocento»13, temi che generano altra poesia, musica, canti e fungono da elementi di aggregazione per la comunità pastorale, che nei capitoli successivi continua ad esprimersi con il canto, il ballo [Pr. V, 19] e la musica, cedendo il passo ad uno stile che sembra più debitore alla tradizione lirica che a quella bucolica, come hanno rilevato Tateo e Carrai14 e come ha ancora sottolineato la Becherucci a proposito delle “ecloghe non ecloghe” che caratterizzano la parte centrale della prima Arcadia15. Qui il canto si impone, senza tentennamenti, viene meno quella dialettica canto-silenzio precedentemente rilevata, anche quando nella Prosa V attorno al sepolcro di Androgeo, figura di Cola Sannazaro, padre di iacopo, ridotto al silenzio dalla morte, si intona il canto consolatorio, da parte di Ergasto-Sanna
11 M. Santagata, La lirica aragonese, cit., p. 354. 12 E. Fenzi, L’impossibile Arcadia di Iacopo Sannazaro, cit., pp. 162-163. 13 Arcadia (ed. Vecce), pp. 85-86. 14 F. Tateo, Tradizione e realtà, cit., p. 22: «E uranio, presentato come solitario pastore, stanco e assorto nel sonno, dal quale improvvisamente si scuote pronto a cantare divinamente, appare una figura costruita secondo un piano simbolico per rappresentare la profonda poesia che canta, ispirata da Apollo, e nutrita di meditazioni solitarie e profonde, i grandi temi». Cfr. Stefano Carrai, La morfologia del libro pastorale prima e dopo Sannazaro, in id., L’usignolo di Bembo, roma, Carocci, 2006, p. 30. 15 i. Becheruccci, L’alterno canto, cit., pp. 61-88.
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canti e silenzi dei pastori nell’arcadia di sannazaro 219 zaro, che ridà fiato alla speranza connotata di elementi cristiani e neoplatonici nella «pietosa canzone» (anche questa un’ecloga-non ecloga) Alma beata e bella. Anche la morte, insomma, ha la propria musica, il proprio canto che rende eterno quanto la morte pare aver ridotto al silenzio:
Né sol vivrai ne la mia stanca lingua, ma per pastor diversi in mille altre sampogne e mille versi. [Ecl. V, 63-65]
E anche qui il canto genera il canto che i pastori intonano a principio della Vi prosa, in cui tuttavia il pastore Opico, di incerta identificazione (ma si ricordi che Opicus significa “Osco”), quando Carino gli chiede di cantare, risponde che il paesaggio arcadico che ricordava da fanciullo era mutato, a causa dei lupi, e che non aveva più né a memoria i versi né la voce per cantare, cose che gli avevano consigliato di appendere la sampogna al silvestre Fauno, secondo un’immagine che veniva dalle Bucoliche di Nemesiano e che ritroveremo in chiusura dell’Arcadia:
Figliuol mio, tutte le terrene cose e l’animo ancora, quantunque celeste sia, ne portano seco gli anni e la devoratrice età. E’ mi ricorda molte volte fanciullo da che il sole usciva insino che si coricava cantare, senza punto stancarmi mai; et ora mi sono usciti di mente tanti versi, anzi peggio, che la voce tuttavia mi vien mancando, però che i lupi prima mi videro ch’io di loro accorto mi fusse. Ma posto che i lupi di quella privato non mi avessono, il capo canuto e ’l raffreddato sangue non comanda ch’io adopre ciò che a’ gioveni si appertene; e già gran tempo è che la mia sampogna pende al silvestre Fauno. [Pr. Vi, 5]
Non sfugga, a questo punto, il richiamo scritturale del passo, con il calco del Salmo 136, 2, in cui Geremia ricorda come «in salicibus in medio eius suspendimus organa nostra», perché non si cantasse durante il periodo di esilio, di cattività babilonese, uno stato di allontanamento dalla patria, in termini fisici e ideali, e di esilio che nell’Arcadia è ben noto. L’ecloga Vi, anche questa appartenente all’archeologia del mondo poetico sannazariano, comunque vede Serrano riprendere il canto, ma questa volta per piangere il degrado del mondo presente, dove è morta la fede e regnano le invidie (Ecl. Vi, 4-5). Anche questo ci riporta al contesto degli anni della congiura dei Baroni e torna il tema dei lupi. interessante è la notazione di Serrano che sostiene:
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Nessun vi riguardò, perché cantavamo; ma ’nanzi cena venne un pastor sùbito al nostro albergo, quando al foco stàvamo, e disse a me: – Serran, vedi ch’io dubito che tue capre sian tutte –; ond’io per correre ne caddi sì, c’ancor mi dole il cubito». [Ecl. Vi, 25-30]
il furto è il segno di mancanza di giustizia, perché il «mondo aggravasi / di male in peggio» (v. 55), mentre ad Opico è affidato il ricordo del buon tempo andato, del «dolce tempo» e della «vita sollaccevole» (v. 96), riproposta poi col topos dell’Ubi sunt?. Nel mondo moderno prevalgono uomini come Lacinio, ladro per antonomasia, o Caco, il gigante assassino ucciso da Ercole, e il canto non celebra più la bellezza, ma è strumento di denuncia:
Tacer vorrei; ma il gran dolor me inanima ch’io tel pur dica: … [Ecl. Vi, 118-119]
il canto non è dunque più amenamente bucolico, ma stridentemente duro e impone un cambio di registro, su cui torneremo, proponendo quello che Santagata definisce come un doppio registro della crisi, quello etico-politico, che affiora occasionalmente, e quello etico-estetico, quello della voce narrante, che ora, non a caso, entra in scena più chiaramente16. Scrive Santagata: «la motivazione politica comporta il rifiuto … di una realtà che distorca i valori del ben fare e del bel cantare e l’assunzione di un mondo che dalla tradizione è indicato come il miglior depositario di questo valore»17. E infatti, all’inizio della prosa Vii, quando il processo di autobiografismo inizia a palesarsi in tutta la sua importanza e le cornici arcadica e interiore, che Angela Caracciolo ravvisa nell’opera, iniziano a coincidere e, quando entra in scena il
16 Sulla teatralità dell’Arcadia cfr. Francesco Tateo, Sulla funzione teatrale del dialogo bucolico, in Teatro, scena, rappresentazione dal Quattrocento al Settecento, Atti del Convegno internazionale di studi (Lecce, 15-17 maggio 1997), a cura di Paola Andrioli, Giuseppe Antonio Camerino, Gino rizzo, Paolo Viti, Galatina, Congedo, 2000, pp. 21-30; isabella Becherucci, “Teatralità” dell’Arcadia: prima ed ultima scena, in La letteratura degli italiani 4. I letterati e la scena, Atti del XVi Congresso Nazionale Adi, Sassari-Alghero, 19-22 settembre 2012, a cura di Guido Baldassarri et alii, roma, Adi editore, 2014: <http://www.italianisti.it/upload/userfiles/files/Becherucci.pdf>. 17 M. Santagata, La lirica aragonese, cit., p. 348.
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canti e silenzi dei pastori nell’arcadia di sannazaro 221 ricordo di Napoli, il canto poetico è «alleviamento di peso». La storia di Napoli e della sua cultura sembra qui incredibilmente (ed è un’altra delle contraddizioni dell’Arcadia) opporre il decadimento dell’Arcadia alla grandezza di Napoli, una contraddizione che solo la scomposizione dei piani temporali della redazione del prosimetro riesce, sia pure parzialmente, a sciogliere. L’Arcadia, forse nata originalmente come travestimento di Napoli18, è diventata luogo dell’alterità, trasformandosi nel luogo dell’illusione, come ha scritto Tateo19. Sannazaro, il cui cognome e il cui nome accademico di Sincero viene fuori a questo punto20, sul filo dell’affermazione autobiografica e soggettiva21 e rompendo gli schemi del mascheramento bucolico, ha abbandonato Napoli per rifugiarsi in Arcadia, dove tuttavia trova solitudini, terra di disinganno e non di illusione, dove è venuta meno la promessa stessa di una civiltà del canto, al punto tale che
Né odo mai suono di sampogna alcuna, né voce di qualunque pastore, che gli occhi miei non versino amare lacrime; tornandomi a la memoria i lieti tempi, nei quali io le mie rime e i versi allora fatti cantando, mi udia da lei sommamente comendare. E per non andare ogni mia pena puntalmente racontando, niuna cosa m’aggrada, nulla festa né gioco mi può non dico accrescere di letizia, ma scemare de le miserie; a le quali io prego qualunque idio esaudisce le voci de’ dolorosi, che o con presta morte, o con prospero succedimento ponga fine. [Pr. Vii, 28]
Sulla più preziosa sampogna di sambuco, offertagli da Carino, Sincero intona il suo canto, una sestina petrarchesca, che è un canto notturno in cui si sente l’eco dell’invito fattogli da Carino a cantare «con più alto stile» gli amori di fauni e ninfe, una poesia ancora pastorale, ma di tono più elevato22 che fa dire a Sincero:
18 F. Tateo, Tradizione e realtà, cit., p. 46: «il tentativo, poi, di spiegare quel tono malinconico e nostalgico che accompagna la narrazione e di attribuire storicità a quel simbolo porta ad indentificare l’Arcadia con il mondo della Napoli perduta. Soluzione quest’ultima, che non tiene presenti né quella struttura dinamica alla quale abbiamo accennato e che comporta una chiara distinzione fra un primo disegno descrittivo e un secondo narrativo, né il dato di fatto che quello di Sincero è un doloroso esilio in un faticoso mondo che lo delude». 19 F. Tateo, Tradizione e realtà, cit., p. 50. 20 Per una riflessione sull’onomastica nell’Arcadia cfr. Francesco Tateo, Filologia e immaginazione nell’onomastica sannazariana, «il Nome nel testo», Vi (2004), pp. 210-222. 21 E. Fenzi, L’impossibile, cit., p. 157. 22 F. Tateo, Tradizione e realtà cit., p. 29.
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Fuggite omai, pensier noiosi e foschi, che fatto avete a me sì lunga sera; ch’io vo’ cercar le apriche e liete piagge. [Ecl. Vii, 31-33]
La crisi della bucolica è a questo punto evidente, come pure nella parallela narrazione di Carino che occupa il cap. Viii, con il bifolco «che per li monti e per li boschi solea cantare», che abbandona anch’egli l’Arcadia. Siamo al cospetto della ricerca di un modulo espressivo nuovo, diverso, che ridia pienezza di senso al canto e alla parola e che restituisca voce ai pastori, andando oltre la tradizionale funzione catartica e consolatoria. La chiusura del Libro pastorale, che finiva al cap. X dell’attuale Arcadia, portando al centro il tema dell’esilio23, propone uno dei passaggi più controversi e studiati dell’opera sannazariana24, su cui molto è stato detto, specie in relazione alla crisi degli anni ’80 e alla congiura dei Baroni. Quello che emerge è un mondo pastorale in cui la sepoltura di Massilia, «madre di Ergasto», assume un ruolo centrale25, dopo che nella prosa hanno avuto spazio le descrizioni del tempio di Pan e dei remedia amoris che liberano Clonico dal mal d’amore. Proprio nella descrizione del tempio di Pan ci sono due elementi che, ai fini del nostro ragionamento, vorrei evidenziare: in primo luogo l’affermazione che «i sospiri si convertirono in dolce suono» [Pr. X, 13], modulati sul flauto di Pan, che aveva cantato l’amore per «la bella Siringa», proprio su quello strumento, fatto di sette canne, tenute insieme da «nova cera». un canto, questo, che ancora una volta era nato per consolare, come nei fondatori del genere, Teocrito e Virgilio, qui evocati, sennonché proprio Virgilio aveva abbandonato la bucolica per la georgica «forse con isperanza di cantare appresso con più sonora tromba le arme del troiano Enea» [Pr. X, 20], e aveva appeso lo strumento, come già Opico aveva fatto in Vi 12:
la appiccò quivi, ove ora la vedete, in onore di questo idio, che nel cantare li avea prestato favore. Appresso al quale non venne mai alcuno in queste selve, che quella sonare potuto avesse compitamente; po
23 Ivi, p. 47. Ma cfr. anche M. Santagata, La lirica aragonese, cit., p. 348. 24 Cfr. M. riccucci, Il neghittoso, cit., pp. 35-101. 25 Angela Caracciolo Aricò, L’Arcadia del Sannazaro nell’autunno dell’umanesimo, roma, Bulzoni, 1995, pp. 56-62. Cfr. anche raffaele Cavaluzzi, Il sogno umanistico e la morte. Petrarca, Sannazaro, Tasso, Bruno, Marino, Pisa, Serra, 2007, pp. 46-49.
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sto che molti, da volenteroso ardire spronati, tentato lo abbiano più volte e tentino tuttavia.
La poesia bucolica non aveva avuto continuatori degni degli antichi e ora tutto sembra andare in direzione di una riconsiderazione del genere stesso e della sua capacità di rappresentare il mondo moderno. La tomba di Massilia, con il suo senso, secondo qualche critico come Angela Caracciolo, assolutamente centrale nell’interpretazione complessiva dell’opera, svetta alla fine dell’Arcadia. L’ecloga X in tal senso ha un profondo senso metapoetico, ponendo Selvaggio e Fronimo a discutere della “crisi” poetica da due differenti punti di vista, col primo a sostenere che
Non son, Fronimo mio, del tutto mutole, com’uom crede, le selve; anzi risonano, tal che quasi all’antiche egual riputole [Ecl. X, 1-3]
che è quasi la negazione di quanto sostenuto descrivendo il tempio di Pan. Ma Fronimo, riprendendo il tema dell’incoronazione caro a Petrarca, ricorda come in verità i pastori «più non ragionano / de l’alme Muse, e più non pregian naccari, / per che per ben cantar non si coronano» [4-6]26. Dunque la crisi è anche del contesto, del pubblico, con un lamento che ricorda rVF 727. Selvaggio, che aveva aperto l’Arcadia e che ora, altra circolarità come l’ambientazione nel locus amoenus, la chiude (almeno in questa redazione), riporta il canto udito in Napoli da Joan Francesco Caracciolo, fatto questa volta non per consolare d’amore, ma «per isfogar la rabbia» (Ecl. X, 46). E il canto napoletano di Caracciolo demistifica anche l’idea di una salvezza in Napoli28:
i bifolci e i pastor lascian Esperia, le selve usate e le fontane amabili; ché ’l duro tempo glie ne dà materia. Erran per alpe incolte inabitabili,
26 Cfr. Enrico Fenzi, Arcadia X-XII, in Travestimenti: mondi immaginari e scrittura nell’Europa delle corti, a cura di raffaele Girardi, Bari, Edizioni di Pagina, 2009, pp. 35-70: 38. 27 Cfr. F. Tateo, Tradizione e realtà, cit., p. 41. 28 E. Fenzi, L’impossibile, cit., p. 170: «questi versi tornano a fornire un quadro aggiornato della situazione nel pieno della repressione anti-baronale». Angela Caracciolo sostiene che il canto di Caracciolo sia «il punto di non ritorno dell’esperienza arcadica» (L’Arcadia del Sannazaro, cit., p. 34).
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per non veder oppresso il lor peculio da genti strane, inique, inesorabili. [Ecl. X, 64-69]
Siamo dunque nel duro tempo, «mutata è la stagione e ’l tempo è duro», ribadirà ancora (85). Gli elementi del paesaggio bucolico sono soli e «secche son le viole in ogni piaggia» e i pastori dell’ecloga V di Virgilio sono morti, e anzi aggiunge che Pan furioso «spezzò l’amata canna», mentre Giove non ha più la lira per piangere e non restano che i sospiri. Fenzi sostiene che «in poche battute il panorama è dunque mutato […] parlare del presente significa quasi automanticamente aprire le porte all’irruzione del male che sta inquinando il mondo con il peso della sua degradata realtà»29. Questi boschi sono dunque silenti e abbandonati, non quelli di Arcadia, ma quelli di Napoli, che nella prosa Vii lo stesso Sannazaro aveva invece definito «famosa e nobilissima città, e di arme e di lettere felice forse quanto alcuna altra che al mondo ne sia», facendo di Napoli il luogo «dove i valori profondi dell’Arcadia hanno avuto modo di realizzarsi»30. Non a caso, sottolinea Fenzi, la scelta ricade su un pastore, il Caracciolo, che afferma di non essere mai stato in Arcadia e ciò lo rende, sottolinea Santagata, ancora più esemplare del mondo napoletano31; ma quel mondo è ora in crisi e questa crisi ha circostanze storiche ben determinate, come Santagata prima e poi con maggiore dovizia di particolari Marina riccucci hanno argomentato, ed è il tempo a cavallo della congiura dei Baroni, in cui, se è vero quel che sostiene Fenzi, lo stesso Sannazaro volle tenere una posizione favorevole alla piccola nobiltà, anche se probabilmente non necessariamente contraria ai re aragonesi e comunque favorevole a che la nobiltà dei seggi non perdesse le sue prerogative di governo, confusa con la turba dei traditori32. La crisi politica però coinvolge i due piani su cui, sostiene Santagata, si articola il mondo bucolico dell’Arcadia: «l’attività poetica è condizionata dalla presenza di un saldo sostrato morale, per cui uno sconvolgimento dei valori etici comporta una crisi della poesia»33. Così Caracciolo, poeta puro, viene costretto al silenzio dalla mancanza di pubblico, di poeti, di luce poetica, e alla fine Selvaggio afferma:
29 E. Fenzi, Arcadia X-Xii, cit., p. 39. 30 Ivi, p. 42. 31 M. Santagata, La lirica aragonese, cit., p. 361. 32 E. Fenzi, L’impossibile, cit., pp. 170-171. 33 M. Santagata, La lirica aragonese, cit., p. 369.
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Beata terra che ’l produsse a scrivere, e i boschi, ai quai sì spesso è dato intendere rime, a chi ’l ciel non pòte il fin prescrivere! Ma l’empie stelle ne vorrei riprendere, né curo io già, se col parlar mio crucciole; sì ratto fer dal ciel la notte scendere, che, sperando udir più, vidi le lucciole. [Ecl. X, 198-204]
Vince il silenzio, su un canto che non è più consolazione d’amore e che si connota dei caratteri della denuncia politica e storica, ma si tratta anche della denuncia di un limite oggettivo posto al genere di rappresentare quella realtà non più idealizzabile34. Sostiene Angela Caracciolo che «La festa è il senhal delle riunioni dell’Arcadia»35. Vorrei qui solo ricordare brevemente quello che musica e lirica rappresentarono per la stessa autorappresentazione della corte e del mondo intellettuale napoletano, forse sulla scorta di quanto la corte aragonese aveva in uso già nel mondo iberico, fortemente condizionato dai modelli provenzali36. Basterebbe la pagina del De cardinalatu di Paolo Cortese dedicata alla canendi ratio, in cui campeggia il ricordo delle performance di Cariteo, il poeta catalano che tanta parte ha avuto anche nell’Arcadia o ancora l’impegno dei re aragonesi a sostenere musicisti e studiosi di musica, a partire da Aurelio Brandolini, autore del De laudibus musicae, o il ricordo che fa il fratello raffaele nel De musica et poetica degli interessi musicali di re Ferrante, a partire dalla protezione offerta negli anni ’70 del Quattrocento a Franchino Gaffurio o al cantante iohannes Tinctoris, per tacere ovviamente di
34 Cfr. Claudia Corfiati, Il nostos di Sincero: riflessioni sull’Arcadia, in La Letteratura degli Italiani 3. Gli Italiani della letteratura, Atti del XV Congresso Nazionale dell’ADi, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2012, pp. 325-335: 335. La studiosa rileva che a differenza della X ecloga virgiliana, modello di questi versi, «il suo canto è interrotto, non è compiuto, è quasi sospeso dal sopraggiungere della notte e la prima Arcadia si conclude con un rimprovero nei confronti dell’empie stelle che hanno impedito al primo e ultimo pastore di questo romanzo, Selvaggio/ Sincero, di ascoltare di più». Ma sul nostos cfr. anche Pasquale Sabbatino, «La più fruttifera e dilettevole parte d’Italia». Il ritorno a Napoli nell’Arcadia del Sannazaro, in Il viaggio a Napoli tra letteratura e arti, Napoli, ESi, 2012, pp. 155-173. 35 A. Caracciolo, L’Arcadia del Sannazaro, cit., p. 23. 36 Cfr. Francesca Bortoletti, Arcadia, festa e performance alla corte dei re D’Aragona (1442-1503), «The italianist», XXXVi (2016), pp. 1-28. Più in generale cfr. Allan Atlas, Music at the Aragonese Court of Naples, Cambridge, Cambridge university Press, 1985.
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sebastiano valerio226 quanto importante fosse l’azione dell’Accademia cresciuta attorno al Pontano37. il silenzio, dunque, è l’esatta contraddizione di quel mondo, non solo una crisi poetica, ma una crisi più ampiamente culturale, il venir meno, dunque, di quel principio di civile conversazione che aveva creato la civiltà umanistica partenopea, in cui l’Arcadia, pur con le sue “contraddizioni” e la sua storia testuale, sembra star bene, se alla fine la consideriamo come luogo dello scambio intellettuale tra sodali, amici e accademici, in quanto, letta in tal senso, quella favola pastorale può ben rappresentare un altro momento di dialogo, un dialogo umanistico che, è bene ricordarlo, statutariamente presenta diversi punti di vista, non già alla ricerca di una composizione, ma per affermare appunto il valore della conversazione. Dunque, da questo punto di vista, l’estrema contraddizione, affidata ai capp. Xi-Xii, non è che l’ennesimo piano in cui il discorso si articola, col superamento della crisi che aveva chiuso il Libro pastorale, e infatti dopo quella notte risorge il sole:
Per la qual cosa, sì tosto come il sole, fornita questa notte, averà con la sua luce cacciate le tenebre, e gli animali usciranno a pascere per le selve, voi similmente convocando gli altri pastori, verrete qui a celebrar meco i debiti officii e i solenni giochi in memoria di lei, secondo la nostra usanza [Pr. Xi, 11]
e il sorgere del sole significa che i pastori hanno ripreso le “sampogne”:
E già in questo la vermiglia Aurora alzandosi sovra la terra, significava a’ mortali la venuta del sole, quando di lontano a suon di sampogna sentimmo la brigata venire, e dopo alquanto spazio, rischiarandosi tuttavia il cielo, gli cominciammo a scoprire nel piano; li quali tutti in schiera venendo vestiti e coverti di frondi, con rami lunghissimi in mano, parevano da lungi a vedere non uomini che venisseno, ma una verde selva che tutta inseme con gli alberi si movesse vèr noi. [Pr. Xi, 14]
i giochi in onore di Massilia sono l’occasione di una gara tra pastori-poeti, mentre nell’aria c’è ancora il ricordo di Napoli, rievocata qui però in senso positivo, col ricordo del Panormita, come tutta l’aria che circola pare mutata rispetto alla precedente ecloga, in cui il canto di
37 Jerry H. Bentley, Politica e cultura nella Napoli rinascimentale, Napoli, Guida, 1995, pp. 87-89.
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canti e silenzi dei pastori nell’arcadia di sannazaro 227 Caracciolo sembrava aver demistificato anche Napoli. il vecchio Opico traccia un canone di autori bucolici che vanno da Francesco Arzocchi a Girolamo Benivieni, chiamando in causa anche Petrarca, Boccaccio e Alberti. Vecce sostiene che sul piano dell’allegoria le gare dei pastori potrebbero rinviare alla dura dialettica contemporanea e la funzione di Ergasto è sempre quella di «pacificare le contese»38. Dunque ancora la rappresentazione delle discussioni, ma illustri critici, a partire da Maria Corti, hanno ravvisato qui un contesto politico, sociale e culturale che risale probabilmente ai primi anni ’90, quando la pacificazione del Regnum, dopo la congiura dei Baroni, ridava, è il caso di dirlo, fiato alla speranza39. Ma se il vecchio Opico (De Jennaro)40 era ridotto al silenzio e poteva solo ricordare gli antichi fasti dei pastori che cantavano, egli ora aveva invitato il giovane Ergasto a cantare al suo posto, a ripigliare la «sonora sampongna» [Pr. Xi, 64]. il canto di Ergasto tuttavia è pianto:
Poi che ’l soave stile e ’l dolce canto sperar non lice più per questo bosco, ricominciate, o Muse, il vostro pianto
e la «dolente sampogna» è «a pianger volta» (v. 24), perché nessuno può più sperare «gloria o vanto»:
Lasso, chi può sperar più gloria o vanto? Morta è la fé, morto è ’l giudicio fido. ricominciate, Muse, il vostro pianto. (vv. 40-42)
il tono è cupo e ancora una volta viene preconizzato che la primavera non tornerà:
Ahi, ahi, seccan le spine; e poi che un poco son state a ricoprar l’antica forza, ciascuna torna e nasce al proprio loco. Ma noi, poi che una volta il ciel ne sforza, vento né sol, né pioggia o primavera basta a tornarne in la terrena scorza. (vv. 55-60)
38 Arcadia (ed. Vecce), p. 278. 39 Maria Corti, Il codice bucolico e l’Arcadia di Iacobo Sannazaro, in Ead., Metodi e fantasmi, Milano, Feltrinelli, 1977, pp. 283-304: 302. 40 Angela Caracciolo Aricò, Per Opico e per Tirsi, «Lettere italiane», LiX, 2 (2007), pp. 236-250.
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sebastiano valerio228 Dunque, l’impasse in cui si sarebbe potuti cadere, il silenzio che incombe come minaccia su questi pastori può essere vinto, come detto nella prima terzina di questo canto, solo da un innalzamento dello stile, che è anche il tentativo di «salvaguardare l’integrità della voce poetica»41, altrimenti destinata ad essere sopraffatta dal presente, come il canto della sirena lo sarà nella prosa Xii:
E perché al fine alzar conviemmi alquanto, lassando il pastoral ruvido stile, ricominciate, Muse, il vostro pianto. Non fa per me più suono oscuro e vile, ma chiaro e bello, che dal ciel l’intenda quella altera ben nata alma gentile. [vv. 112-117]
Tale innalzamento di stile richiede ancora l’apporto del mondo poetico napoletano e ancora il canto della sirena Partenope (vv. 91-99) e quel ritorno al Sebeto che deve innalzare «il rozzo stil» (v. 99)42. in questo senso rinaldo rinaldi, facendo eco a Tateo43 e parlando della riconquista della scrittura in Arcadia, sostiene che il vero tema dell’opera sia «non la semplice malinconia del sepolcro, ma la sublimazione della perdita nella riflessione interiore»44. in conclusione, Ergasto non chiede la fine del canto (che Fenzi ha accostato più che alla lirica bucolica, al Triumphus Eternitatis di Petrarca), come nei modelli classici, avverte Vecce, ma un canto più alto: «fortunati i pastor che, desiando / di venir in tal grado, han posto l’ale» (vv. 142-144). Da questo punto di vista la ricerca di un nuovo e più alto e consono stile (Tateo), si lega senza dubbio alla volontà di non contraddire la prosa X, e anzi di proporne un seguito logico, che è però superamento del silenzio e dell’afasia dei pastori in un senso ormai non più bucolico, ma solidamente tragico, tanto che la successiva prosa Xii si apre con la definizione di questo canto come “nova armonia”, “soavi accenti”, “pietose parole”. Ciò che segue dunque non è la ripresa del canto dei pastori, come spesso era avvenuto prima, ma un “notturno” dominato da un intimo silenzio, in cui i pastori sprofondano nel sonno. A questo punto il nostos di Sincero a Napoli, come lo ha definito Claudia Corfiati, può aver luogo, un lungo viaggio sotterra
41 E. Fenzi, L’impossibile, cit., p. 159. 42 C. Corfiati, Il nostos di Sincero, cit., pp. 326-327. 43 F. Tateo, Tradizione e realtà, cit., pp. 69-70. 44 r. rinaldi, Dal silenzio, cit., p. 287.
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canti e silenzi dei pastori nell’arcadia di sannazaro 229 neo che porta dall’Arcadia a Napoli e che è preceduto da un sogno in cui Sincero viene attratto da un canto di una sirena, che però si interrompe quando un’onda travolge tutto e gli impedisce di continuare ad ascoltarne il canto: ancora un canto interrotto da un evento improvviso e infatti il riferimento è forse alle vicende del 1496 (morte di Ferrandino), forse ad altri passaggi drammatici del regno aragonese. Fatto è che Sincero vede
ultimamente un albero bellissimo di arangio, e da me molto coltivato, mi parea trovare tronco da le radici, con le frondi, i fiori e i frutti sparsi per terra. E dimandando io chi ciò fatto avesse, da alcune Ninfe che quivi piangevano mi era risposto, le inique Parche con le violente secure averlo tagliato. De la qual cosa dolendomi io forte, e dicendo sovra lo amato troncone: “Ove dunque mi riposerò io? sotto qual ombra omai canterò i miei versi?” [Pr. Xii 7-8].
Questo arangio, anagramma di Aragoni, è il segno evidente che il luogo in cui coltivare questa poesia, l’ombra sotto cui rifugiarsi, è venuta meno; e a Napoli, in un’aura cupa, incontra Barcinio (Cariteo) e Summontio (Summonte), coloro che saranno i curatori dell’edizione napoletana dell’Arcadia, che piangono le sorti di Meliseo-Pontano, addolorato per la morte di Filli, la moglie Adriana. È stato osservato che «il tema della morte e del pianto diventa dominante»45 in quest’ultima porzione dell’Arcadia e questo segna un sostanziale cambio di tono, che per un verso rappresenta quanto distingue gli ultimi capitoli del prosimetro dal resto dell’opera, ma per l’altro ne segna una naturale evoluzione che va proprio nella direzione del superamento dell’impasse del silenzio attraverso un nuovo canto, che, in sostituzione di quello interrotto dall’onda del presente, sostiene Fenzi, «potrà tornare a farsi sentire solo come canto funebre di morte: come testimone di ciò e di chi non è più»46. E infatti Barcinio ricorda che Pontano «gittò precipite / quella sampogna sua dolce e amabile» (Ecl. Xii 46-48), che è poi, come è stato notato, una traduzione dal Meliseus pontaniano, della seconda ecloga che piange la morte della moglie, dove si leggeva ai vv. 11-1347 che Pontano aveva gettato la siringa alta de rupe. il celebre verso 117 «poi che Napoli tua non è più
45 C. Corfiati, Il nostos, cit., p. 348. 46 E. Fenzi, Arcadia X-XII, cit., p. 61. 47 Giovanni Pontano, Eclogae, a cura di L. Monti Sabia, Napoli, Liguori, 1973, p. 85. Sulla lirica di Pontano e in modo specifico su questo passo del Meliseus cfr. Francesco Tateo, Pontano poeta. Carmi scelti, Foggia, il rosone, 2018, p. 39.
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sebastiano valerio230 Napoli» è il segno evidente dei tempi e della loro degenerazione, ben diversi dai tempi in cui «allegro e ilare» Meliseo diceva di aver cantato «tanta lode» di Napoli. Ora la poesia ha solo senso ove sia compianto:
Né vedrò mai per boschi sasso o tabula ch’io non vi scriva «Filli», acciò che piangane qualunque altro pastor vi pasce o stabula. [Ecl. Xi, 124-126]
E in questo senso la chiusura del congedo alla Sampogna, con il suo silenzio e il suo paesaggio spettrale non giunge inattesa, se Summontio afferma:
Moran gli armenti, e per le selve vachesi in arbor fronda, in terra erba non pulule, poi che è pur ver che ’l fiero ciel non plachesi. [Ecl. Xii, 196-198]
E poi ancora:
La tortorella, che al tuo grembo crebbesi, poi mi si mostra, o Filli, sopra un alvano secco, ché in verde già non poserebbesi; e dice: «Ecco che i monti già si incalvano; o vacche, ecco le nevi e i tempi nubili; qual’ombre o qua’ difese omai vi salvano?». [Ecl. Xii, 226-234]
Torna a questo punto, a definire il senso di questa desolazione, la mancanza di un pubblico che il napoletano Caracciolo aveva già lamentato nell’ecloga X, che sarà certo risalente ad altra epoca compositiva, ma che però rientra in questo panorama in cui la lira di MeliseoPontano si lamenta dicendo: «Di lauro, o Meliseo, più non coronomi» (v. 219). E il canto finale di Meliseo, pronunciato al cospetto della tomba della moglie morta, al centro di Napoli, è l’estremo omaggio ad un umanesimo colto nella sua parabola discendente. il Congedo alla Sampogna, aggiunto per l’edizione del 1504 da un Sannazaro in esilio in Francia al seguito del suo re48, afferma alla fine la vittoria del silenzio: quella poesia è destinata ora a «lungo silenzio» e «forse eterna quiete». Vorrei qui soffermarmi ancora sulle immagini
48 Su questo periodo della vita del Sannazaro cfr. Carlo Vecce, Iacopo Sannazaro in Francia. Scoperte di codici all’inizio del XVI secolo, Padova, Antenore, 1988.
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canti e silenzi dei pastori nell’arcadia di sannazaro 231 di canto e silenzio che percorrono questo estremo tratto dell’opera sannazariana. Le muse estinte, i lauri secchi, il Parnaso in rovina producono l’effetto di rendere le selve «mutole» e i «pastori han perduto il lor cantare», «Ogni cosa si perde, ogni speranza è mancata, ogni consolazione è morta». E allora non resta, alla sampogna, che dolersi «e notte e giorno con ostinata perseveranza attristarti». Sannazaro sta chiudendo, ciclicamente, l’opera e la sua stagione di pastore che canta, fiero di essere stato per primo lui, “coltissimo giovene”, «a risvegliare le addormentate selve, et a mostrare a’ pastori di cantare le già dimenticate canzoni», ma, come ha scritto Tateo, «il Sannazaro sembra congiungere al vanto del letterato la coscienza del fallimento»49. ricorda come proprio l’esempio antico avesse portato le umili canzoni bucoliche «sino alle orecchie de’ romani consuli». Non si può non ricordare come questo finale sia stato messo in stretta relazione con la chiusura dell’Elegia di Madonna Fiammetta50, a marcare il carattere elegiaco che esso assume, con la sequenza di pianti e sepolcri che lo costellano e tuttavia quella ciclicità, a cui più volte abbiamo accennato, qui prende il senso di una ciclicità storica, segna la chiusura di un genere che aveva voluto probabilmente, nella primigenia intenzione del poeta, rappresentare il mondo della cultura umanistica sotto il travestimento del canto pastorale e che ora, dopo aver cercato invano di rintracciarne una vena di vitalità negli immaginifici spazi dell’Arcadia e negli storici spazi di Napoli, si risolveva nel silenzio e nella desolazione e la generazione di umanisti che aveva animato quella stagione o, meglio, quanto di quella generazione sopravviveva, doveva dedicarsi ad altro, come dimostra la svolta poetica verso la poesia sacra del Sannazaro stesso o la svolta storico-etica del Cariteo o ancora l’impegno filosofico dell’ultimo Pontano, che affidava al De fortuna le sue estreme riflessioni51.
Sebastiano Valerio università di Foggia
49 F. Tateo, Tradizione e realtà, cit., p. 37. 50 Cfr. Carlo Vecce, Boccaccio e Sannazaro (angioini), in Boccaccio angioino: materiali per la storia culturale di Napoli nel Trecento, a cura di Giancarlo Alfano et alii, Bruxelles, Peter Lang, 2012, pp. 103-118: 113-114. 51 Cfr. G. Pontano, La fortuna, a cura di F. Tateo, Napoli, La scuola di Pitagora, 2012.
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PATriZiA PELLiZZAri Una inedita postilla e l’ultimo Alfieri lirico fra Pindaro e Chiabrera*
in un’inedita postilla vergata da Alfieri su di una pagina dell’esemplare, acquistato nel 1794, delle Odi di Pindaro tradotte da Alessandro Adimari (1632), il trageda riconosce in Chiabrera l’autentico erede italiano del poeta greco. L’annotazione rileva un nuovo interesse di Alfieri per la lirica pindarica riportata ai propri principi, senza le mediazioni classiciste tardo secentesche: un interesse che propizia la composizione della Teleutodía, con la quale egli chiuderà la propria esperienza poetica.
★ in an unpublished marginal note penned by Alfieri on a page of a copy, purchased in 1794, of Pindar’s Odes translated by Alessandro Adimari (1632), the tragedian deems Chiabrera to be the genuine heir of the Greek poet. The annotation shows a new interest in Alfieri towards Pindar’s lyrics according to their own principles, without late-seventeenth-century classicistic mediations. This interest propitiated the composition of Teleutodía with which Alfieri brought his poetic career to an end.
1. risoluto a «chiuder la bottega» delle Rime «al tocco dei 50» anni, Alfieri nell’estate del 1798 decise di affidare il ruolo di suggello della sua esperienza lirica alla forma metrica al vertice del genere, l’ode pin
Autore: università degli Studi di Torino; ricercatrice confermata; patrizia.pellizzari@unito.it * Devo lo spunto fondamentale di questo contributo, prima ricognizione di temi che intendo sviluppare in altra sede, alla generosità di Clara Domenici, che mi ha fornito i materiali relativi alla postilla alfieriana a Pindaro, omessa sia nel catalogo La biblioteca classica di Vittorio Alfieri (Torino, Aragno, 2013) sia nel contributo «Ed insegnava il Greco costui?». Alfieri, Pindaro e Alessandro Adimari, in “… che solo amore e luce ha per confine”. Per Claudio Sensi (1951-2011), a cura di S. Fabrizio Costa, P. Grossi e L. Sannia Nowé, Bern, Peter Lang, 2012, pp. 211-223. ringrazio Christian Del Vento, dal quale si attende l’imminente pubblicazione, per la Fondazione “Centro di Studi Alfieriani”, della ricostruzione del catalogo della biblioteca alfieriana antecedente al sequestro, per avermi fornito in anteprima molte impor
patrizia pellizzari234 darica.1 La Teleutodía (“canto della fine”) sostituirà dunque nel progetto Il severo picchiar ultimo forte, sonetto abbozzato il 23 luglio di quell’anno, in coda al quale il poeta già scrisse alcune «indicazioni per due strofe di canzone e spunti tematici […] poi effettivamente sviluppati nell’ode».2 La «trasfigurazione in senso fortemente grecizzante»3 dell’idea originaria fu senz’altro dovuta all’«invasamento» del greco, principiato nel 1795, e in particolare proprio alla prima lettura di Pindaro, iniziata nel giugno 1797 e conclusa nel 1798. Lo studio del «più difficile e scabro di tutti i greci», anzi «di tutti i lirici in qualunque lingua, senza eccettuarne Giobbe e i profeti»,4 venne condotto su più edizioni presenti nella sua biblioteca, risorta a Firenze dopo il sequestro dei libri lasciati a Parigi da Alfieri e dalla contessa d’Albany in fuga dalla Francia (18 agosto 1792).5 in particolare furono in causa l’edizione Henri
tanti informazioni relative ai volumi appartenuti al poeta e di cui tratto nel contributo. All’amicizia di Paola Luciani sono debitrice di molti preziosi suggerimenti. 1 Lettera a Tommaso Valperga di Caluso, da Firenze 15 ottobre [1798], in Vittorio Alfieri, Epistolario, a cura di L. Caretti, iii, Asti, Casa d’Alfieri, 1981, 347, p. 272. Si veda anche, più distesamente, la Vita, iV xxvii: «Perciò, volli col compiere degli anni 50 frenare, e chiudere per sempre la soverchia fastidiosa copia delle rime, e ridottone un altro tometto purgato consistente in sonetti 70, capitolo 1, 39 epigrammi, da aggiungersi alla prima parte di esse già stampate in Kehl, sigillai la lira, e la restituii a chi spettava, con un’ode sull’andare di Pindaro, che per fare anche un po’ il grecarello intitolai Teleutodia» (in Vittorio Alfieri, Opere, a cura di A. Di Benedetto, Napoli-roma-Milano, ricciardi-istituto dell’Enciclopedia italiana-il Sole 24 Ore, 2006, p. 301; d’ora in poi: Vita, seguita dall’indicazione dell’Epoca, del capitolo e della pagina). 2 rimando alla puntuale ricostruzione di Chiara Cedrati, in Vittorio Alfieri, Rime, a cura di Ead., Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2015, pp. 688-689 (da cui si è citato) e 709-717. Cfr. anche Vittore Branca, Vittorio Alfieri e la ricerca dello stile con cinque nuovi studi, Bologna, Zanichelli, 1981, che pubblicò e commentò per primo i materiali relativi alla Teleutodía (ivi, pp. 228-249). 3 Così Cedrati in Alfieri, Rime, cit., p. 710. – i termini invasarsi e invasamento sono attestati in Alfieri sia nell’accezione di ‘riempirsi’ nel senso di ‘leggere e apprendere qualcosa fino ad appropriarsene profondamente’ (per es.: «[…] e così tutto il Tasso, la Gerusalemme; poi l’Ariosto, il Furioso; poi Dante senza commenti, poi il Petrarca, tutti me gli invasai d’un fiato postillandoli tutti»; Vita, iV i, pp. 175176), sia per indicare lo stato di possessione poetica e di eccitata esaltazione creativa indotte in lui da certe letture, come quella della Bibbia, per cui non gli riesce più di «stare a segno», se «con una qualche composizione biblica non dava sfogo a quell’invasamento che n’avea ricevuto» (Vita, iV ix, p. 216). 4 Vita, iV xxvii, p. 303. 5 il vivace racconto dell’abbandono di Parigi è nella Vita, iV xxii, pp. 278-282. A Christian Del Vento si devono il ritrovamento e la pubblicazione dell’inven
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una inedita postilla e l’ultimo alfieri lirico 235 Estienne (Henricus Stephanus) del 1586, in cui il trageda appuntò le date di inizio e fine dei lavori, 28 giugno 1797 e 27 aprile 1798, quella di Glasgow del 1744, che riporta le date 28 giugno 1797-28 aprile 1798, e quella di Nicolaus Sudorius, ovvero Nicolas La Sueur (Oxford, 1698), nella quale è segnata solo la data di inizio, di nuovo il 28 giugno 1797.6 Anche le altre stampe “pindariche” da lui possedute furono coinvolte nella lettura, come mostrano segni d’uso e postille;7 inoltre, il cimento con il «durissimum opus»8 non finirà qui, perché Alfieri lo riprenderà altre tre volte: nel 1799 (peraltro a ridosso della discussione sull’ode intrattenuta con monsignor Ettore Consalvi e con Tommaso Valperga di Caluso),9 nel 1800 e nel 1801. Se le edizioni furono per la maggior parte acquistate fra il 1794 e il 1802, va rilevato che il possesso di alcune risaliva ad anni precedenti. infatti, nella biblioteca romana di Villa Strozzi si trovavano un’edizione delle Opere in-12°, registrata nella categoria Latini, la citata ed. Glasgow 1744 e «Vita, e Odi di Pindaro in 4°» ovvero la traduzione di Alessandro Adimari (Pisa, Francesco Tanagli, 1631, ma il colofone riporta 1632), presente forse in due esemplari (di cui uno senza frontespizio);10 inoltre
tario redatto dai funzionari francesi nel contributo «Io dunque ridomando alla plebe francese i miei libri, carte ed effetti qualunque». Alfieri émigré a Firenze, in Alfieri in Toscana, Atti del Convegno internazionale di Studi (Firenze 19-20-21 ottobre 2000), a cura di G. Tellini e r. Turchi, Firenze, Olschki, 2002, pp. 491-578. 6 Si tratta rispettivamente: della terza edizione greco-latina Pindari Olympia, Pythia, Nemea, Isthmia […], comprendente anche i carmi di Alceo, Alcmane, Anacreonte, Bacchilide, ibico, Saffo, Simonide, Stesicoro; di Omnia Pindari quae extant. Olympia, Pythia, Nemea, Isthmia, cum interpretatione latina; e di Pindari Olympia Nemea, Pythia, Isthmia. Una cum Latina omnium versione Carmine Lyrico per Nicolaum Sudorium […]: cfr. C. Domenici, La biblioteca classica…, cit., schede 786-788, pp. 501-503. 7 Ho qui riassunto i dati che si possono ricavare dal vol. appena citato, schede 781-793, pp. 499-509, nonché da Ead., «Ed insegnava il Greco costui?»…, cit. in generale per lo studio alfieriano del greco rinvio ai numerosi saggi dedicati negli anni da C. Domenici all’argomento e ora riuniti nel vol. La biblioteca classica…, cit., pp. 49-223. 8 Annotazione che si legge alla fine dell’ed. Glasgow 1744: cfr. C. Domenici, La biblioteca classica…, cit., scheda 788, p. 503; Ead., «Ed insegnava il Greco costui?»…, cit., p. 213. 9 Ben due letture in quell’anno sono attestate in un’altra ed., la Parigi, Guillaume Morel, 1558 (Pindari Olympia, Pythia, Nemea, Isthmia: cfr. C. Domenici, La biblioteca classica…, cit., scheda 781, pp. 499-500). Com’è noto la parte seconda delle Rime, comprendente anche la Teleutodía, non fu pubblicata in vita dell’autore ma postuma nell’ed. Piatti. Per la corrispondenza con Consalvi e Caluso si veda sotto. 10 Catalogo Alfabetico de’ libri di Vittorio Alfieri. Aprile 1783 Roma, Montpellier,
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patrizia pellizzari236 a Parigi venne acquistata l’ed. Henri Estienne 1586, anch’essa già ricordata, mentre dall’inventario dei libri sequestrati si ricava che Oltralpe rimase, oltre all’Adimari (poi rimpiazzato a Firenze), la traduzione francese di Michel Paul Guy de Chabanon (Les odes pythiques de Pindare traduites avec des remarques par M. Chabanon, Paris, Lacombe, 1772), di cui non si conosce la data di ingresso nella collezione alfieriana perché il volume non è stato reperito.11 Le edizioni Glasgow 1744 ed Estienne 1586, invece, seguirono l’autore a Firenze, dove la prima è tuttora conservata, mentre la seconda è a Montpellier.12 Comunque, è nell’edizione della traduzione di Adimari ricomprata nel 1794,13 che cade la postilla di cui si intende dare conto qui e che chiama in causa anche Gabriello Chiabrera; una postilla da leggersi nella prospettiva della preparazione e della composizione della Teleutodía, espressione della volontà di tornare al termine delle Rime ai propria principia della lirica corale greca. Tuttavia, come si può ricavare dai dati appena esposti, ben prima degli studi del greco e quando ancora Alfieri era molto lontano dall’i
Médiathèque d’Agglomération “Emile Zola” [d’ora in poi MM], ms. Alfieri 61-23 (1), cc. 39r, 40r, 51v. L’elenco fu redatto in due copie dal segretario di allora, Giovanni Viviani, nel momento in cui il poeta fu costretto a lasciare roma per non fomentare ulteriormente lo scandalo suscitato dalla relazione con la contessa d’Albany. L’altra copia è conservata nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, ms. NA 89. La doppia indicazione della versione di Adimari, una a c. 39r e l’altra a c. 51v, potrebbe per l’appunto – come mi ha suggerito Del Vento – riferirsi o a due esemplari diversi oppure essere la seconda una correzione di un errore del Viviani. Lo stesso Del Vento mi ha informata di avere reperito l’esemplare privo di frontespizio nella Bibliothèque de l’institut de France (4°Q.19b), recante sul foglio di guardia la nota di possesso «Vittorio Alfieri | 1778». Nessuna traccia dell’altra (eventuale) copia del volgarizzamento né dell’ed. in-12° delle Opere. 11 C. Del Vento, «Io dunque ridomando alla plebe francese i miei libri, carte ed effetti qualunque»…, cit., pp. 569, 575. 12 rispettivamente: Biblioteca Medicea Laurenziana, Postillati 7; MM, 32936rés: cfr., oltre a C. Domenici, La biblioteca classica…, cit., scheda 788, pp. 502503 e scheda 786, pp. 501-502, Vittorio Colombo, «Elenco dei libri lasciati in Parigi». Nuove interpretazioni di un manoscritto di Vittorio Alfieri, «Studi italiani», xvii, 2005, 2, pp. 199-224, alle pp. 204, 222, 224. 13 Le Ode (sic) di Pindaro antichissimo poeta, e principe de’ Greci Lirici […] tradotte in Parafrasi, & in Rima Toscana da Alessandro Adimari sono insieme alle Osservazioni dello stesso traduttore sopra alcuni luoghi di Pindaro che per imitazione, o per allusione sono stati tocchi da Orazio Flacco. Ponderate con l’autorità di G. Cornelio Tacito. Con la Tavola delle cose notabili, posta in fine, che, pur avendo un nuovo frontespizio, sono parte integrante delle Ode, continuandone la numerazione e la fascicolatura (MM, 10845rés).
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una inedita postilla e l’ultimo alfieri lirico 237 dea di concludere l’esperienza poetica, la conoscenza di Pindaro era stata alla sua portata non solo per tramite delle versioni francese e italiana ma anche in virtù del dibattito sul pindarismo in corso prima nel Seicento e poi nel Settecento, che si innesta in quello più ampio sulla poesia. Di tale dibattito, davvero esteso e ancora bisognoso di una sistemazione organica per quanto concerne il XViii secolo italiano,14 può essere utile richiamare alcune posizioni perché espresse da autori noti al trageda e i cui echi sono avvertibili in quanto egli scrisse sul poeta tebano nel corso del tempo. in terra francese Pindaro era stato brandito come un’arma durante le infuocate polemiche fra anciens e modernes. Boileau nel Discours sur l’Ode (1693),15 dopo avere censurato l’ignoranza del greco come causa prima dell’incomprensione di Pindaro da parte di Charles Perrault,16 mette in relazione il poeta greco con i salmi davidici – e la cosa, benché non nuova, è interessante come si vedrà, anche dal punto di vista alfieriano – e nella circostanza offre «la sua illuminazione critica più notevole» esprimendo l’idea che «la grande lirica […] rompe ogni disegno, ogni ordine metodico, per giungere al sublime, e non conosce per regola che quella di non osservare le regole»:17
Le censeur dont je parle n’a pas pris garde qu’en attaquant ces nobles hardiesses de Pindare, il donnait lieu de croire qu’il n’a jamais conçu le
14 La storia del pindarismo europeo fino a Chiabrera è efficacemente condensata da Luigi Castagna (Pindaro, le origini del pindarismo e Gabriello Chiabrera, in La scelta della misura. Gabriello Chiabrera: l’altro fuoco del barocco italiano, Atti del Convegno di Studi su Gabriello Chiabrera nel 350° anniversario della morte, Savona, 3-6 novembre 1988, a cura di F. Bianchi e P. russo, Genova, Costa & Nolan, 1993, pp. 139-175). È stato ricco di spunti per gli argomenti qui trattati il contributo di Giovanni Benedetto, I ‘Sepolcri’ nella storia della fortuna di Pindaro, in ‘Dei Sepolcri’ di Ugo Foscolo, a cura di G. Barbarisi e W. Spaggiari, Milano, Cisalpino, 2006 (“Quaderni di Acme”, 80), pp. 281-311. 15 Ma si veda anche prima l’Art poétique, cui aveva risposto per l’appunto Perrault. A Parigi venne sequestrato ad Alfieri un vol. dell’ed. 1718 delle Oeuvres (Amsterdam, David Mortier: cfr. C. Del Vento, «Io dunque ridomando alla plebe francese i miei libri, carte ed effetti qualunque»…, cit., p. 570), nel primo tomo delle quali comparivano sia l’Art poétique che le Discours sur l’Ode. All’Art poétique Alfieri fu avvicinato fin dall’estate del 1775 dall’abate Aillaud durante il soggiorno a Cesana (Vita, iV i, che a riguardo però tace): cfr. Angelo Fabrizi, “Aillaud”, in id., Rileggere Alfieri [2002], roma, Aracne, 2014, pp. 53-65, a p. 60. 16 Dei quattro libri dei suoi Parallèles des anciens et des modernes solo i primi tre erano apparsi prima del 1693, l’ultimo li seguì nel 1696. 17 Giovanni Macchia, La letteratura francese. i: Dal Medioevo al Settecento, Milano, Mondadori, 1987, p. 1004.
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sublime des psaumes de David, où, s’il est permis de parler de ces saints cantiques à propos des choses si prophanes, il y a beaucoup de ces sens rompus, qui servent même quelquefois à en faire sentir la divinité. Ce critique […] n’est pas fort convaincu du précepte que j’ai avancé dans mon Art Poétique [ii, vv. 71-72], à propos de l’ode: «Son style imperieux souvent marche en hasard: / Chez elle un beau désordre est un effet de l’art». Ce précepte effectivement, qui donne pour règle de ne point garder quelquefois de règles, est un mystère de l’art […].18
in italia, Gian Vincenzo Gravina nella Ragion poetica19 innanzitutto addita Pindaro come “inventore” dell’ode applicata a temi eroici e non più amorosi (i, xiii Della lirica),20 poi così descrive, esaltandola, la maestria dei di lui “voli”, tuttavia adombrandone l’oscura arditezza:
Sopra ogn’altro Pindaro scioglie con felice augurio la nave dal porto, e spandendo le vele ad ogni vento varca un mare di nuove ed inaspettate fantasie, per entro le quali s’aggira con tanta fiducia, che talora, quasi nel viaggio smarrito o nell’onde sommerso, s’invola affatto alla nostra veduta, ma sorto in un tratto dalle voragini, ripiglia il timone e salvo si riconduce maravigliosamente alle sponde (i xiv Del giudizio popolare).21
Più avanti, nel cap. xxi specificamente dedicato al poeta tebano, ribadisce l’ammirazione per la «singolare magnificenza di stile», ancora più notevole dal momento che riesce a «innalzare opere per altro molto mediocri» e a «sollevare perlopiù persone private senz’alterare il carattere loro e la verità delle cose», sebbene,
per dar questo aspetto grande alle cose, senz’alterarle, fosse egli costretto tirar materia di fuori, perché l’opera istessa, qual era la vittoria in un giuoco, non gliele porgeva. Onde è costretto appigliarsi alle lodi, o delle patrie o de’ maggiori, o, col protesto di qualche grave sentenza da lui tramischiata, trascorrere alle pruove di essa con gli esempi, per poi vestirne il suo soggetto, ed in tal maniera tirar più a lungo l’ode; la
18 Cit. ivi, pp. 1004-1005. 19 Presente già nella biblioteca romana (cfr. Catalogo…, cit., c. 22r: volume perduto e non rintracciato); Alfieri poi comprò a Firenze nel 1794 l’ed. Luigi Bastianelli e Compagni, 1771 (ora MM, 37715). Sempre a Montpellier (34110) vi è un esemplare, acquistato nel 1793, della Nuova raccolta di opuscoli (Napoli, Giovanni De Simone, 1741), fra i quali De disciplina poetarum, Della tragedia e il Ragionamento sopra l’‘Endimione’, dramma pastorale di Alessandro Guidi: vd. sotto nn. 23 e 25. 20 Cfr. l’ed. a cura di A. Quondam in G.V. Gravina, Scritti critici e teorici, roma-Bari, Laterza, 1973, p. 225. 21 Ivi, p. 230.
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quale, quando il poeta si fusse ristretto a quel fatto solo, sarebbe stata molto asciutta e meschina, ovvero bisognava che il poeta si fosse all’usanza della maggior parte de’ nostri trattenuto in lodi generali di virtù che si potessero applicare a tutti e che non convenissero ad alcuno.22
A parte la frecciata contro la «maggior parte de’ nostri» – fra i quali, benché qui non nominato, Chiabrera, di cui dovremo occuparci più avanti –,23 Gravina rileva lo scarto fra la “piccolezza” della materia degli epinici e la capacità di Pindaro di forzarne la limitatezza ricorrendo o a encomi non disonorevoli (le «lodi, o delle patrie o de’ maggiori», che inducono, come aggiunge poco più avanti, «a bene operare»)24 o a una gnome illustrata dal mito. E ancora per quanto concerne Chiabrera, Gravina gli preferisce Alessandro Guidi e il suo pindarismo ispirato e sublime, improntato sulla trattazione di argomenti “alti” coniugati a una classica misura, dovendo l’arte «rassomigliar il vero, e […] esprimere il naturale con modi, locuzioni e numeri adatti al suggetto che si è proposto»25. Per parte sua, Ludovico Antonio Muratori – altra presenza rilevata
22 Ivi, p. 246. 23 Lo è invece nel De disciplina poetarum, o meglio De poesi, in cui, pur riconoscendo a Chiabrera di possedere abbastanza («satis») «eruditionis et judicii novorumque luminum», «tamen, sua copia mersus, amisit limam delectumque neglexit rerum et linguae cultum, ut novitate sua nihil tamen veteribus Petrarcae imitatoribus dederit invidendum» (G.V. Gravina, De poesi, in id., Scritti critici e teorici, cit., p. 500; vd. anche id., Nuova raccolta di opuscoli, cit., p. 111). È pur vero che Gravina è un’eccezione «fra gli Arcadi», tutti concordi nell’accettare «il primato glorioso» di Chiabrera, «collocando senz’altro il suo nome accanto a quello del Petrarca» (Giovanni Getto, Gabriello Chiabrera, poeta barocco [1954; 1969], in id., Il Barocco letterario in Italia, premessa di M. Guglielminetti, Milano, Bruno Mondadori, 2000, pp. 91-122, a p. 91). 24 G. V. Gravina, Della ragion poetica, cit., p. 247. 25 id., Discorso sopra l’‘Endimione’, in id., Scritti critici e teorici, cit., p. 55 (e in G. V. Gravina, Nuova raccolta di opuscoli, cit., p. 43). Nella versione contaminata del De disciplina poetarum-De poesi (per cui cfr. la nota critica di Quondam in G. V. Gravina, Scritti teorici e critici, cit., pp. 685-687), trasmessa però dall’ed. degli Opuscoli posseduta da Alfieri, ancora di Guidi (1650-1712), arcade con il nome di Erilo Cloneo, Gravina scrive: «inventus vero est hoc aevo Alexander Guidus, noster amicissimus, qui primus mortalium tollere contra sit oculos ausus; primusque novorum insolentia, candore atque castitate veteris locutionis, et imitatorum servitutem moderata elatione spiritus, et colorum novitate declinarit. Eum excepere novi coetus Arcades, qui et ipsi Latina, Vernaculaque lingua Lyricam Graecorum inter nos, Latinorumque Poesim novo spiritu fundunt» (in G. V. Gravina, Nuova raccolta di opuscoli, cit., pp. 114-115). Su Guidi e Alfieri si veda avanti.
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patrizia pellizzari240 nella biblioteca alfieriana –26 si allinea a Boileau, esplicitamente citato, nella difesa di Pindaro dagli attacchi di Perrault («ne’ suoi Paralelli […] crede, e scrive, che Pindaro è un oscurissimo, un confuso, e uno spiritato verseggiatore»), imputando al francese, «non abbastanza intendente del Greco idioma»,27 l’incapacità di comprenderlo e proponendo una illustrazione dell’Olimpica I a ierone di Siracusa, di cui dà anche una sua parziale traduzione.28 È pur vero, però, conclude Muratori, che si può trovare «qualche Ode sua, in cui peneran molto gli stessi più acuti ingegni per discoprire i legamenti delle immagini, comparendo esse talvolta smoderatamente sciolte, e lontane dall’argomento proposto»,29 ammettendo dunque la persistenza di zone oscure, di difficile decifrazione. Per quanto può più direttamente interessare qui, occorre mettere sul tavolo ancora qualche tessera. il ritorno a Pindaro, ma all’originale, superiore a tutti i tentativi di imitazione e ripresa cinque-secenteschi, propugnato – per lo meno da alcuni, come Gravina – già sullo scorcio del XVii secolo e ancora più sostenuto e diffuso a partire dalla metà del XViii, costituisce uno degli elementi caratterizzanti questa fase della fortuna del poeta greco, in cui di conseguenza si mette in ombra, fra gli altri, Chiabrera. inoltre si riafferma, seppure con orientamenti diversi, il rapporto fra l’ispirazione pindarica e quella biblica, all’altezza del Settecento ormai di lungo corso e discendente, attraversando il Seicento, dalla linea riformata, originata dall’interpretazione in chiave sapienziale data da Zwingli, che «vide nella sublime capacità creativa delle metafore pindariche una sorta di dono divino e vi ricercò niente di meno che una verità rivelata».30 il paragone fra Pindaro
26 L’esemplare Della perfetta poesia attestato nella biblioteca romana (cfr. Catalogo…, cit., c. 30v) gli venne sequestrato a Parigi (cfr. C. Del Vento, «Io dunque ridomando alla plebe francese i miei libri, carte ed effetti qualunque»…, cit., p. 574). il suo reperimento da parte di Del Vento nella Bibliothèque de l’institut de France (4°.Q. 171) ha consentito di sapere che fu acquistato a Firenze nel 1779. Sempre a Firenze, ma nel 1794, il poeta ricomprò l’opera (ed. Venezia, Sebastiano Coleti, 1748), ora MM, 11061. 27 Ludovico Antonio Muratori, Della perfetta poesia italiana. Libro secondo, a cura di A. ruschioni, Milano, Marzorati, 1972, i, pp. 308-309. 28 Ivi, pp. 309-311. 29 Ivi, p. 312. 30 Curatore dell’ed. greca di Basilea, per Andreas Cratander, 1526, portando così a termine il lavoro di Giovanni Ceporino, scrisse le importanti prefazione e postfazione: cfr. L. Castagna, Pindaro, le origini del pindarismo e Gabriello Chiabrera, cit., pp. 152-153 (sulle edizioni dei riformatori vd. anche le pp. 147-148, da dove ho estratto la citazione).
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una inedita postilla e l’ultimo alfieri lirico 241 e le Scritture trova rinnovato alimento nel secolo dei lumi «nell’ambito delle riflessioni sul primitivismo e, in particolare, nel campo degli studi sui salmi biblici considerati come la massima rappresentazione del sublime preclassico».31 Davide e Pindaro sono accomunati nell’uso di uno stile difficile, «spezzato e sospeso»32: «scabro», scrive Alfieri nella Vita (iV xxvii),33 ed è questo uno degli elementi del grande fascino esercitato su di lui proprio dalla Bibbia e da Pindaro al cui studio, unitamente a quello di Omero, dedicherà gli ultimi anni della sua esistenza.34
2. Prima del fatale 1797, dunque, Pindaro sussiste nella cultura alfieriana attraverso numerose vie, fra cui anche il finora non ricordato qui Del sublime dello Pseudo-Longino, che buona parte ebbe nell’elaborazione dell’estetica alfieriana, nel quale, peraltro, il poeta tebano non è del tutto immune da qualche lieve appunto.35 Tuttavia è solo
31 Milena Contini, Tommaso Valperga di Caluso, ‘Prologo per la conferenza su Pindaro e Davide’, in «Nuova informazione bibliografica», i, 2018, pp. 115-120, a p. 116. Si veda anche Clara Leri, Davide e Pindaro nelle ‘Dissertazioni preliminari ai libri poetici della Bibbia’ di Saverio Mattei, in Saverio Mattei. Tradizione e invenzione, a cura di M. Montanile e r. ricco, roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2016, pp. 15-32. 32 M. Contini, Tommaso Valperga di Caluso, ‘Prologo per la conferenza su Pindaro e Davide’, cit., p. 117. 33 Si torni alla citazione proposta a p. 2 e n. 4. 34 Oltre a quanto riferisce nell’autobiografia, si veda il Rendimento di conti da darsi al tribunal d’Apollo, sul buono o mal impiego degli anni virili dal 1774 in poi: «1799 […] ho principiato a leggere e studiare a fondo in più lingue l’Antico Testamento, due giorni della settimana, e due altri studio l’Omero nel testo, il quale dopo le ostinate fatiche fatte finora sul Pindaro, mi riesce non molto difficile. […] E imparati a mente molti versi d’Omero, di Pindaro, di Anacreonte; […] 1800 […] Gli studi al solito. Lunedì, e Martedì Bibbia; Mercordì, e Giovedì, Omero. […] Venerdì e Sabato Eschilo; e la Domenica Pindaro per la quarta volta» (in Alfieri, Opere, cit., pp. 440-441). 35 Anche se, in realtà, non è che nel Del sublime si discorra molto di Pindaro; nel cap. XXiii, in cui l’autore discute se sia preferibile uno stile corretto ma non sublime o uno stile sublime seppure non corretto, non vi sono dubbi che la seconda opzione sia la preferita: nessuno vorrebbe, nella lirica, essere Bacchilide anziché Pindaro o, nella tragedia, ione di Chio anziché Sofocle, benché Pindaro e Sofocle, che «tutto incendiano col loro fervore, […] spesso si spengano senza ragione e cadano miseramente» (Dionisio Longino, Del sublime, a cura di C. M. Mazzucchi, Milano, Vita e Pensiero, 1992, p. 93). Più in generale su Alfieri e il Del sublime cfr. Guido Santato, Lo stile e l’idea. Elaborazione dei trattati alfieriani, Milano, Franco Angeli, 1994, pp. 125-130; 202-204; Vincenza Perdichizzi, L’apprendistato poetico di
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patrizia pellizzari242 sull’indiscussa fama,36 sulla mediazione o il giudizio di altri – essendogli inibita allora la possibilità di attingere direttamente alla fonte – che poteva poggiare nel Del Principe e delle Lettere l’encomio del “cigno Dirceo”, non solo in quanto poeta «sprotetto» ma anche per «la sua inagguagliabile perfezione» lirica.37 Questa condizione di conoscenza indiretta, non celata da Alfieri (anzi conclamata, con qualche esagerazione sul versante del latino – come si può vedere dal passo riportato qui sotto), rende ragione della genericità degli accenni a Pindaro presenti nel trattato. Delineando il modello ideale di «sommo poeta», corrispondente a colui che
alle immagini, agli affetti, armonia, eleganza, e giudizio del poeta di principe sapesse annettere la sublime robustezza, l’amor del vero, l’ardire, la fierezza, l’indipendenza, e il forte e giusto pensare del poeta di repubblica,
e calcato – inevitabilmente – sui maggiori dell’antica Grecia («se tale poeta vi fu mai, tali, o quasi tali, erano senza dubbio i poeti principali d’Atene»), aggiunge:
Ed in fatti (se pur mi dicono il vero quei che sanno di greco e latino; che io del primo nulla so, e nell’altro piuttosto indovino che intendere) nessuno desidera in Omero, od in Pindaro, la eleganza di Virgilio e d’Orazio; poichè quanta ne hanno costoro, tutta di quelli per imitazione l’han tolta; ma chi è che non desideri sotto il divino pennelleggiar di Virgilio, il fecondo inventare d’Omero; il dignitoso e libero dialogizzare di Sofocle, d’Euripide, e di Lucano; il robusto conciso pensare e sentire di Tucidide e di Tacito? 38
L’osservazione cade in uno dei tanti discorsi del trattato che vedo
Vittorio Alfieri. Cleopatraccia, traduzionaccie, estratti, postille, Pisa, Edizioni ETS, 2013, pp. 78-87. 36 Fama antica, com’è ben noto, benché sia stata l’ed. aldina del 1513 ad avviare la «storia» e la fortuna «moderne» del pindarismo: si veda L. Castagna, Pindaro, le origini del pindarismo e Gabriello Chiabrera, cit., p. 145. 37 Vittorio Alfieri, Del Principe e delle Lettere, ii ix, in id., Della Tirannide, Del Principe e delle Lettere, La virtù sconosciuta, introduzione di M. Cerruti, note di E. Falcomer, Milano, Bur, 20002, p. 282. 38 Ivi, p. 284 (mio il corsivo). Si noti la ripresa quasi letterale del passo pseudolonginiano parafrasato sopra nella n. 35, applicato a Omero e Pindaro contro Virgilio e Orazio; ricordo che nel medesimo cap. del Del sublime vengono citati e opposti fra loro Omero e Apollonio rodio, Archiloco ed Eratostene di Cirene (per l’Erigone).
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una inedita postilla e l’ultimo alfieri lirico 243 no contrapporsi l’eleganza alla virtù, ovvero emblematicamente Virgilio e Orazio agli «scrittori del vero» (i iii),39 discorsi dai quali emerge con chiarezza che il più profondo vulnus è inferto ad Alfieri non tanto dal pur amato poeta venosino quanto dall’ammiratissimo Virgilio, nei cui confronti, comunque, alto è il debito del trageda da lui stesso ammesso.40 il riconoscimento artistico e politico tributato a Pindaro, visibile nella sua inclusione nei “canoni” di scrittori «liberi e sprotetti» disseminati nel trattato,41 viene ribadito con enfasi in quello, consegnato all’invocazione Alle ombre degli antichi liberi scrittori, che apre il terzo libro:
Voi dunque o Socrati, Platoni, Omeri, Demosteni, Ciceroni, Sofocli, Euripidi, Pindari, Alcei, e tanti altri incontaminati e liberi scrittori, inspiratemi or voi, non meno che salde ragioni, virile e memorando ardimento.42
Nel successivo capitolo ottavo, poi, nel quale si sviluppa la pars construens di una letteratura che sia voce di «quei pochissimi», i quali, «mossi da quel naturale impulso divino […] descritto»43 nel capitolo sesto (Dell’impulso naturale), «si destinassero ad essere come i Decj della nascitura repubblica», prescrivendo gli argomenti che dovrà trattare ciascun genere, la stessa poesia lirica dovrà
39 Alfieri, Del Principe e delle Lettere, cit., p. 206. 40 È celebre la pagina della Vita (iV vii, p. 209) sull’importanza della «varietà» dei versi virgiliani – apprezzata grazie a Tommaso Valperga di Caluso – per l’elaborazione del «verso sciolto di dialogo» della tragedia. Sulla tensione alfieriana fra i due «sistemi» espressivi, energica brevità ed eleganza, si veda V. Perdichizzi, L’apprendistato poetico di Vittorio Alfieri, cit., pp. 78-93. 41 Su alcuni di questi “canoni” e sulla loro mobilità nel corso delle revisioni del trattato mi permetto di rinviare al mio (Ancora) su Alfieri, l’Inghilterra e Pope, in A Warm Mind-Shake. Scritti in onore di Paolo Bertinetti, Torino, Trauben, 2014, pp. 483491, in partic. pp. 485-486. Nel caso specifico, a supporto della nota tesi alfieriana per cui la poesia può eccellere solo dove non c’è alcun principe a proteggerla e, di conseguenza, a condizionarla («[…] si trova la poesia fatta gigante nella Grecia, dove non v’era principe niuno a promuoverla»; ii ix), il «sommo» Pindaro chiude la breve serie dei grandi lirici antichi (Orfeo, Alceo e Saffo); poi, nel cap. quarto del libro terzo, è insieme agli altri «sublimi filosofi e letterati di Grecia», in quanto tutti «figli essi stessi di libertà e di virtù» e perciò, «a chi ben li lesse e sentì, […] possente stimolo, […] irresistibile incentivo al praticare, amare, e difendere la libertà e la virtù» (Alfieri, Del Principe e delle Lettere, cit., pp. 281 e 317). 42 Ivi, p. 295. 43 Ivi, p. 337.
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dalle vicende di amore risalir anche spesso a cantare altamente quelle della virtù e del coraggio. Si udiranno allora degli inni di tal forza, e una così divina fiamma spiranti, che soli basteranno a trasfigurare gli schiavi in cittadini, ed a spingerli in battaglia per crearsi una patria, e creata, difenderla. Ed odi, e canzoni si udranno di così alto dettato, che, al rendere eterni i nomi dei guerrieri estinti per la patria, varranno più assai che le statue e i bronzi: ed a premiare la vera virtù dei rimanenti liberatori della patria, le eccellenti ed eterne poesie di ben altra possanza saranno, che i fragili infamanti onori e le viziose ricchezze, con cui possono i principi pagare soltanto gli oppressori di essa.44
Come ha notato Guido Santato, «il modello pindarico […] sembra emergere a tutto tondo in questo ideale di poesia eroica, patriottica e celebrativa», un ideale su cui peraltro converge la tradizione italiana delle grandi canzoni morali petrarchesche (da Spirto gentil a Italia mia), ma anche di Vincenzo da Filicaia,45 cui si dovrebbe aggiungere il Guidi, che tanto infiammò il giovane Vittorio.46 il programma del trattato trova corrispondenza in una fase specifica della produzione alfieriana, ovvero quella delle odi dell’America libera e del Parigi sbastigliato, in cui il modello pindarico evocato da Santato è attivo sul piano dei contenuti piuttosto che su quello rigidamente formale (triadico) e si ricollega in maniera più larga, come si è appena accennato, alla ripresa di
44 Ivi, p. 343. 45 È ancora Santato (Lo stile e l’idea…, cit., p. 119 n. 228) a ricordare come sia lo stesso Alfieri a dichiarare nella Vita (iV ix, p. 215) che a indurlo alla composizione dell’America libera fosse stata «la lettura di alcune bellissime e nobili odi» del poeta fiorentino. 46 A Lisbona, durante una delle serate trascorse col Caluso (1772), Alfieri – scrive nell’autobiografia – provò «un impeto veramente Febeo, di rapimento entusiastico per l’arte della poesia» alla lettura dell’abate della «grandiosa Ode del Guidi alla Fortuna [cioè Una donna superba al par di Giuno]; poeta, di cui sino a quel giorno io non avea neppur mai udito il nome. Alcune stanze di quella canzone, e specialmente la bellissima di Pompeo, mi trasportarono a un segno indicibile talché il buon Abate si persuase e mi disse che io era nato per far dei versi […]» (Vita, iii xii, p. 126). La stanza che più colpisce il futuro trageda è quella che inizia così: Rammentar non vogl’io l’orrida spada, nella quale – come ebbe a osservare Getto – vi è «un germinale abbozzo del vocabolario e del mondo di immagini che sarà così tipico dell’Alfieri» (Gabriello Chiabrera, poeta barocco, cit., p. 115 n. 35). Dal punto di vista metrico, Guidi pervenne a una personale declinazione dell’ode pindarica con la canzone a selva, formata da strofe indivise e di schema variabile. L’esemplare dell’ed. delle Poesie di Guidi (Venezia, Giacomo Tommasini, 1730) acquistato da Alfieri a roma nel 1782 (registrato nel Catalogo…, cit., c. 21v) venne trasportato da Parigi a Firenze nel 1792 (cfr. V. Colombo, «Elenco dei libri lasciati in Parigi»…, cit., p. 220) ed è ora a Montpellier (MM, 34249).
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una inedita postilla e l’ultimo alfieri lirico 245 argomenti “elevati” e non amorosi. una poesia lirica, dunque, dettata da un infiammato e naturale spirito, delegata non solo a eternare gli “eroi” di libertà e a premiarne imperituramente la virtù ma a suscitare volontà di azione nei popoli schiavi. Questo programma – con le distinzioni che faremo – trova definitivo compimento nella Teleutodía, la cui composizione è affrontata con ben altri strumenti tecnici rispetto a quelli messi in campo per l’America libera e il Parigi sbastigliato;47 strumenti acquisiti con la lettura diretta di Pindaro e la conseguente adozione della triade strofe / antistrofe / epodo e con un esercizio serrato sui metri di chi, fra i latini, pur esibendo di non voler azzardarsi a imitare il poeta tebano,48 aveva dispiegato una straordinaria varietà metrica alla quale aveva attinto per la sua traduzione latina degli epinici Nicolaus Sudorius, che Alfieri, come si è detto sopra, possedeva e lesse nel 1797: non è perciò un caso che proprio in quell’anno egli si accinga a studiare minuziosamente anche la metrica oraziana, per la quale disponeva dell’aureo trattatello di Aldo Manuzio De metris horatianis.49
47 Noto per inciso che, se si escludono le opere appena menzionate, l’ode non è forma metrica molto congeniale ad Alfieri (come non lo è, del resto, la canzone di stampo petrarchesco). Soprattutto va rilevato che la maggiore concentrazione di composizioni di questo tipo si attesta nei primi anni della produzione lirica (17751778) e nelle forme delle odi-canzonette anacreontiche (cfr. Alfieri, Rime, cit., 12, 17, 52, 55) o della canzone-ode (ivi, 8) che registra peraltro anche un tentativo più attardato (1780) ma abortito (ivi, 91). Bisognerà attendere gli anni del “disinganno” perché Alfieri torni all’ode, prima con la misogallica Diva feroce e torbida (cfr. Vittorio Alfieri, Il Misogallo, a cura di M. Navone, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2016, pp. 94-97) e poi nelle forme, questa volta davvero, squisitamente pindariche dell’estremo componimento lirico. 48 Orazio, Carmina, iV 2, 1-4, 25-32: «Pindarum quisque studet aemulari, / iulle, ceratis ope Daedalea / nititur pennis, vitreo daturus / nomina ponto. / […] / Multa Dircaeum levat aura cycnum, / tendit, Antoni, quotiens in altos / nubium tractus. / Ego apis Matinae / more modoque, / grata carpentis thyma per laborem / plurimum, circa nemus uvidique / Tiburis ripas operosa parvus / carmina fingo». Sul pindarismo oraziano cfr. Luigi Castagna, Il pindarismo mediato di Orazio, «Aevum antiquum», ii, 1983, pp. 183-214. 49 Di tale studio Alfieri riferisce sia nella Vita (iV xxv, p. 290) sia nel Rendimento di conti…, cit., p. 438. il De metris horatianis è pubblicato in coda alle edd. delle opere di Orazio Leida-rotterdam, Hack, 1670 (acquistata a roma nel 1782 e ora MM, 33063rés) e Amsterdam, van Thol, 1708 (comprata nel 1798; MM, 32861). L’applicazione a questo lavoro di apprendimento metrico è visibile in esemplari di altre edd., come per es. la Parigi, Barbou, 1763 (MM, 39108rés) o la Amsterdam, Joannes Janssonius, 1653 (MM, L184rés), in cui accanto all’inizio dei componimenti oraziani scrive quale sia la forma metrica. Della versione di Sudorius com
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patrizia pellizzari246 Nella Teleutodía confluiscono – lo ha opportunamente osservato Cedrati – «alcuni dei più importanti motivi che hanno caratterizzato l’ultima stagione lirica alfieriana» ed essa si lega «più in generale, […] con le aspirazioni e le idealità su cui l’autore riteneva di avere fondato la sua scrittura e la sua stessa esistenza»: tre in particolare, l’eternità della poesia che trionfa sul Tempo, l’utilità civile della letteratura, la speranza di esercitare un ruolo in grado di guidare i posteri verso la libertà,50 adempiendo alla funzione del vero scrittore enunciata nel passo sopra citato del Del Principe e delle Lettere, seppure con tutte le varianti indotte dal “disinganno” politico post-rivoluzionario e dalla feroce opposizione all’altra tirannide, quella degli schiavi, che caratterizza il misogallismo degli anni Novanta. in quanto canto celebrativo in grado di suscitare stupore e stimolare ammirazione, coagulando intorno a sé il virtuoso consenso di un’intera comunità, Alfieri recupera il valore ideologico dell’epinicio pindarico (nel quale ben presente è la consapevolezza del ruolo del poeta datore di fama imperitura),51 proiettandolo non sul presente ma sul futuro. Se spunto e oggetto degli inni tebani erano stati vincitori di giochi, talvolta altrimenti oscuri se non ci fosse stato il loro celebratore, Alfieri, non avendo nella miseria dei tempi presenti neppure quelli da magnificare (se pur anche, per assurdo, lo avesse voluto), incentra l’ode su di sé e l’oggetto diventa il soggetto protagonista, destinatario delle oracolari rivelazioni della Sibilla e di Giove stesso. il trageda dunque si avventura nei difficili territori dell’ode pindarica cui affida il suo testamento poetico e politico con la “temerarietà” che lo contraddistingue,52 mosso dalla volontà di «grandeggiare» (verbo quanto mai usato e caratterizzante il suo impulso creativo) anche
prerà nel 1800 anche l’ed. Basilea, Andreas Cratander, 1535 (MM, 32552rés), priva di segni di lettura: cfr. C. Domenici, La biblioteca classica…, cit., scheda 791, p. 504. 50 Si veda la nota introduttiva all’ode in Alfieri, Rime, cit., p. 714. 51 un esempio per tutti: «E se fasto e ricchezza / il Dio mi porga, / spero ch’io possa trovare / altissima fama in futuro. / Nestore e il licio Sarpedonte / divenuti leggenda tra gli uomini / li conosciamo dai versi sonori / che artefici saggi composero; /perdura il valore / nei celebri canti; / ma solo a pochi è facile ottenerli» (Pitica III, Epodo V, 110-115, in Pindaro, Le Pitiche, introduzione, testo critico e traduzione di B. Gentili, commento a cura di P. Angeli Bernardini, E. Cingano, B. Gentili, P. Gianni, Milano, Fondazione Lorenzo Valla-Arnoldo Mondadori Editore, 1995). 52 Mutuo il sostantivo dal titolo del vol. di Paola Luciani, L’autore temerario. Studi su Vittorio Alfieri (Firenze, SEF, 2005), che rintraccia come filo conduttore della carriera alfieriana proprio la volontà di misurarsi con diversi generi, pervenendo a soluzioni audaci e originali.
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una inedita postilla e l’ultimo alfieri lirico 247 nella lirica, per soddisfare l’aspirazione a essere un “autore totale”, che non ha lasciato alcuna delle corde poetiche intentate: con questo spirito e sempre propiziato dalla lettura dei classici, dai quali ha avuto origine ogni perfezione, si immergerà di lì a poco anche nell’impresa della scrittura comica.
3. La lettura di Pindaro che presiede la nascita della Teleutodía viene condotta su varie edizioni, fra le quali quella qui già più volte ricordata recante la versione italiana di Alessandro Adimari. Le fittissime annotazioni alfieriane reperibili nell’esemplare rivelano una generale scontentezza per il lavoro del traduttore, colpevole di imperdonabili fraintendimenti, di rese «fiacche», che sviliscono la grandiosità dell’originale, o inadeguate (fra di esse si annoverano vari sbandamenti in direzione di una leziosità secentista); ben pochi sono i commenti positivi, riguardanti soprattutto alcune felici scelte lessicali (repulsata, larveggiando, incandidisce). A tutte queste postille, riportate e illustrate doviziosamente da Clara Domenici,53 si aggiunge ora quella scritta a p. 111, nell’Argomento dell’Olimpica IX, che non solo punge ancora una volta Adimari, ma esprime un’opinione lusinghiera su Gabriello Chiabrera, chiamando così in causa la stella secentesca del pindarismo italiano, con cui il letterato fiorentino intrattenne rapporti personali.54 Entrambi, ma con ben differenti capacità, rilevanza e fortuna, furono in contatto con la corte pontificia di urbano Viii,55 peraltro autore in proprio di componimenti pindarici (i Poëmata, 1620, anteriori all’asce
53 Perciò evito di produrre una pur minima campionatura dei commenti alfieriani e rinvio al vol. La biblioteca classica, cit., scheda 793, pp. 505-509. 54 Ne fa fede un frammento di epistola del medesimo in lode della traduzione dell’Adimari, pubblicata nella prefazione di Filippo Tanaglia premessa all’ed. del 1631, c. 5r, ora in Gabriello Chiabrera, Lettere (1585-1638), a cura di S. Morando, Firenze, Olschki, 2003, p. 298. Simona Morando, al contrario di Franco Vazzoler, non è del tutto persuasa che la richiesta di un parere sull’Amedeida (o forse sul Firenze), cui Chiabrera accenna in una lettera a Giovanbattista Strozzi (27 luglio 1610), fosse stata avanzata ad Adimari, propendendo invece per Alessandro Sertini (cfr. ivi, p. 171 nn. 4 e 5, e Franco Vazzoler, Lettere inedite di Gabriello Chiabrera, «La rassegna della letteratura italiana», lxxiii, 1969, 1, pp. 27-36, alle pp. 30-32). Su Adimari si veda la voce di Arnaldo D’Addario nel Dizionario biografico degli Italiani, roma, istituto dell’Enciclopedia italiana, 1960, i. 55 Non potendo attardarmi sull’argomento, mi limito a ricordare che piuttosto di recente Clizia Carminati ha aggiunto un ulteriore tassello ai noti legami fra Chiabrera e il Barberini, riconoscendo e pubblicando una canzonetta inedita al papa (Una lirica di Chiabrera per Urbano VIII, in «Filologia italiana», v, 2008, pp. 179190).
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patrizia pellizzari248 sa al soglio di Pietro), e del cardinal-nipote Francesco Barberini, dedicatario della traduzione di Adimari. in coda alla Synopsis, o vero disposizione dell’Ode Nona dell’Olimpia, incentrata sulla vittoria del giovane lottatore Efarmosto, e alla Genealogia di Opunte, Adimari loda l’ottima consuetudine dei tempi antichi di offrire in premio ai vincitori non soltanto «Corone» ma anche «i Versi de’ buon Poeti», prima soffermandosi su Archiloco e sul suo inno callinico (preso però di mira da Pindaro nella strofe i, in quanto canto troppo umile e troppo adattabile alle più varie circostanze), poi passando – con notevole salto cronologico in direzione della contemporaneità – all’esempio di Gabriello Chiabrera, cantore delle vittorie navali delle galee del granduca di Toscana.56 il paragone, però, si ferma qui, poiché Adimari non approfondisce questo accenno e di fatto sorvola su Chiabrera, dirottando subito il discorso sul costume dei principi toscani, usi a far ascoltare, in occasioni delle nozze, «dolcissimi canti», come avvenne durante quelle di Cosimo ii con Maria Maddalena d’Austria. La cortigianesca divagazione – l’autore, infatti, si dilunga a elogiare vari personaggi coinvolti nell’organizzazione dei meravigliosi festeggiamenti –57 è costruita ad arte per inserire la versione di alcuni versi (190-197) della Medea di Euripide, nei quali il tragico greco si chiedeva come mai le poetiche «dolci recreazioni dell’animo» non fossero proposte anche in occasioni tristi allo scopo di alle
56 Si allude ad Alcune canzoni di Gabriello Chiabrera sopra alcune vittorie delle Galere toscane. E brevi postille intorno loro di Gio. Battista Forzano, Genova, Giuseppe Pavoni, 1617, e alle Canzoni di Gabriello Chiabrera per le Galere della Religione di S. Stefano. Al Serenissimo G. Duca di Toscana Cosmo Secondo, Firenze, Zanobi Pignoni, 1619. in particolare, nella dedica al granduca preposta all’ed. 1619, l’autore, pur osservando – con riferimento a Orazio, Carmina, iV 2: vd. sopra n. 48 – come Pindaro sia inimitabile, sostiene di volere tuttavia seguirne il «costume» e «celebrare l’opere d’alto valore». Seguendo il suo modello, che ha tessuto «ghirlande alla fronte de’ valorosi» consegnando i loro nomi «alla memoria et all’eternità», anch’egli, dunque, non può «tacere i veri assalti degli uomini prodi i quali sotto insegna sacrata vibrano le spade contra veri nemici» sotto il comando di Cosimo ii. E nella Canzone prima, scritta in memoria della vittoria sulle galee di Alessandria, esalta i «Prencipi d’Arno» con queste parole (vv. 31-32): «Voi dal Tirreno mar lunge spingete / i predatori infidi […]» (in Gabriello Chiabrera, Opera lirica, a cura di A. Donnini, Torino, rES, 2005, ii, pp. 317-318, 320). 57 Voluti dal granduca Francesco i, si svolsero per ben venti giorni, dal 18 ottobre al 7 novembre 1608, e culminarono con la rappresentazione sull’Arno delle Argonautiche: cfr. Camillo rinuccini, Descrizione delle feste fatte nelle reali nozze de’ serenissimi principi di Toscana d. Cosimo de’ Medici e Maria Maddalena d’Austria, Firenze, Giunti, 1608.
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una inedita postilla e l’ultimo alfieri lirico 249 viare il dolore.58 Alfieri, già molto infastidito dalla versione e dagli inopportuni commenti di Adimari, non apprezza affatto la digressione, e tanto meno la traduzione dei versi euripidei, chiosandole così:
Tutta questa filastrocca, per farci ingojare di più la traduzione di questi versi d’Euripide. E nota inoltre come freddamente accenni appena il Chiabrera, senza punto avvedersi il pedante, che nel Chiabrera sorgeva il Pindaro italiano.
L’accredito del poeta savonese come sommo esponente del pindarismo nostrano non era più, all’altezza cronologica di questa postilla alfieriana, pacifico. Qualificare Chiabrera come il Pindaro italiano equivale a riconoscere una grandezza che, se in assoluto può essere solo inferiore a quella dell’antecessore greco (e non potrebbe essere altrimenti, data la superiorità dei greci che non imitavano nessuno e “inventavano”), in termini relativi è indiscutibile.59 Lo suggerisce la condensazione del giudizio nella formula «nel Chiabrera sorgeva il Pindaro italiano»: una perentorietà che lo rende molto diverso nella sostanza dal parere, per altri versi simile, di Parini espresso in una delle Lezioni di Belle Lettere tenute nel 1770 alla cattedra milanese di Eloquenza e Belle Lettere e di cui naturalmente Alfieri non era a conoscenza: «Gabriello Chiabrera uno de’ Principi tra i nostri Poeti, che sui passi d’Anacreonte e di Pindaro si aperse una nuova strada fra i lirici nostri. Molto in vero, e più che nessun altro si avvicinò costui a que’ due antichi, ma fu ben lontano dall’agguagliarli come altri ci ha voluto far credere».60 Con la consueta icasticità espressiva, nella succosa postilla Alfieri oppone il «freddo […] pedante», incapace di accorgersi dove stia la
58 Così traduce Adimari, tradendo anche in parte il testo di partenza: «Non s’erra a dir che già prendesse errore / Chi pe’ conviti solo, e pe’ contenti / Trovò gl’inni, e le voci auree canore, / Et il trar da’ tese fila humani accenti. / Trovar dovea per l’orrido dolore / Musica da sedar pianti, e lamenti, / Ch’in tempo di tempesta, e non di calma / Più giovarebbe all’ondeggiar dell’alma». 59 Sul pindarismo di Chiabrera, che implica anche la mediazione della letteratura e della cultura francesi (da ronsard alla Pléiade a Muret), si vedano i più recenti L. Castagna, Pindaro, le origini del pindarismo e Gabriello Chiabrera, cit., e G. Benedetto, I ‘Sepolcri’ nella storia della fortuna di Pindaro, cit., pp. 297-302; ricordo anche Ferdinando Neri, Il Chiabrera e la Pléiade francese, Torino, Bocca, 1920, e G. Getto, Gabriello Chiabrera, poeta barocco, cit., pp. 98-104, 109-111. 60 Giuseppe Parini, Prose I. Lezioni. Elementi di retorica, a cura di S. Morgana e P. Bartesaghi, Milano, LED, 2003, pp. 247-248: lo ricorda G. Benedetto, I ‘Sepolcri’ nella storia della fortuna di Pindaro, cit., p. 304.
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patrizia pellizzari250 poesia, non solo al poeta oggetto del di lui giudizio ma anche a se stesso, che, invece, proprio in quanto poeta lo avverte con chiarezza. in questi termini l’apprezzamento per Chiabrera concerne non soltanto lo stile, la forma, l’abilità tecnica e, non ultimo, l’avere resuscitato l’originale triade strofica, ripresa dal trageda proprio nella Teleutodía,61 ma vi è anche il riconoscimento di una poesia ispirata e perciò autentica, che sembra mettere in secondo piano il fatto di essere il poeta savonese un letterato “protetto” (visti i rapporti clientelari intrattenuti con le maggiori signorie della Penisola), al contrario del Pindaro introdotto nel “canone” dei «liberi scrittori» del Del Principe e delle Lettere.62 Chiabrera non sarebbe potuto comparire nel trattato, dove la letteratura italiana cinque-secentesca, a parte la luminosa eccezione di Machiavelli, è proscritta e nel quale Alfieri giunge a “sacrificare” lo stesso Virgilio. Tuttavia fra il trattato e questa postilla non vi è una completa contraddizione ideologica, come si potrebbe dunque legittimamente sospettare: nel binomio Pindaro / Chiabrera si condensa l’intuizione che quest’ultimo, rifiutando il monopolio della tematica amorosa e cantando le vittorie dei suoi tempi, abbia ricondotto la lirica all’autentica ispirazione pindarica:63 «dalle vicende di amore risalir anche spes
61 La ripresa della triade strofica viene fatta risalire da alcuni ai cori trissiniani della tragedia Sofonisba (1513), da altri agli inni lionesi (1532) di Luigi Alamanni, ma si trattò di esperimenti non assimilabili alla portata del pindarismo metrico di Chiabrera. Questi adottò la tripartizione strofe /antistrofe / epodo sia negli Inni per alcuni Santi (1624) sia nelle Canzonette e nelle Canzoni composte alla maniera di Pindaro (1625 e 1628), le une e le altre per urbano Viii. in generale, sulla metrica del poeta savonese cfr. Giorgio Bertone, Appunti per una ricerca metricologica su Chiabrera, in La scelta della misura…, cit., pp. 321-341 (anticipato in id., Per una ricerca metricologica sul Chiabrera, Genova, Marietti, 1991). 62 D’altra parte, neppure il poeta tebano è risultato immune da critiche in merito alla sua compromissione con il potere e alla sua venalità già imputatagli da qualche antico commentatore e con qualche credito anche fra alcuni moderni: lo ricorda Gian Franco Gianotti, Per una poetica pindarica, Torino, Paravia, 1975, pp. 3-21. Anche, e per esempio, Tommaso Valperga di Caluso, in questo caso più alfierico di Alfieri, nel suo appena abbozzato prologo a una Conferenza su Pindaro e Davide (di datazione incerta e non meglio definibile in un arco temporale, 1776-1794, davvero amplissimo) aveva nettamente distinto «la perizia versificatoria» del greco dal suo «spessore morale», in quanto egli fu sì «straordinario poeta» ma «compositore prezzolato al servizio di munifici mecenati»: cfr. M. Contini, Tommaso Valperga di Caluso, ‘Prologo per la conferenza su Pindaro e Davide’, cit., p. 119. La stessa Contini informa che fra i manoscritti inediti del Caluso vi è anche la traduzione di un mannello di versi pindarici (Olimpica I, 1-17, e Pythica I, 1-10): La felicità del savio. Ricerche su Tommaso Valperga di Caluso, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2011, p. 33 n. 30. 63 È interessante quanto lo stesso Chiabrera asserisce nel dialogo Il Geri sulla
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una inedita postilla e l’ultimo alfieri lirico 251 so a cantare altamente quelle della virtù e del coraggio», aveva scritto Alfieri nel trattato esponendo il “programma” di una nuova e impegnata letteratura. Se a Chiabrera si potevano imputare la sua compromissione con il potere e la sostanza politica dell’oggetto poetico (si trattava pur sempre di gesta di signori cinquecenteschi), era possibile recuperarne le tematiche “eroiche” e l’idea della funzione eternatrice svolta dal poeta,64 l’invito a un sentimento di coesione comunitaria (indubbiamente ben più viva nell’antecessore tebano), e l’impulso a compiere altre e diversamente memorande azioni, degne di essere immortalate. Dietro a un Chiabrera, che, per riusare ancora le parole del Del Principe e delle Lettere, si piegava ai «fragili infamanti onori» e alle «viziose ricchezze»65 dei principi in un’italia tutta politicamente serva, come fu quella del Cinquecento e del Seicento (e come lo era anche quella del Settecento), Alfieri scorge la potenzialità di grandezza insita nella ripresa di una poesia eroica ed elevata. Come si è anticipato prima, nel suo estremo componimento lirico Alfieri farà del poeta stesso, o meglio di se stesso poeta, l’“eroe” oggetto del proprio canto, autocelebrandosi come poeta di libertà, che, nella comune e ineludibile pochezza della vita umana e dell’uomo, vince il Tempo per sé e per il suo mondo poetico, confidando, anzi sperando nella comunque non certa virtù dei posteri affinché il suo messaggio si realizzi. Proprio su questa autocelebrazione, contenuta nell’Antistrofe iV e nell’Epodo iV dell’ode, si appunta una delle critiche di monsignor Consalvi, affiancato prima dal cardinale Giulio Maria Cavazzi della
tessitura delle canzoni, che tuttavia Alfieri non poteva conoscere, essendo rimasto inedito fino all’Ottocento: la lirica, oltre a essere «tutta d’amori e di conviti» (e pertanto, si aggiunge, non dovrebbe essere di difficile comprensione ai più, come lo sono invece certi luoghi di Petrarca), può «lodare cavalieri ed alti personaggi»; questa materia richiede sì di «verseggiare liricamente con alquanto più di dignità, […] ma non già con l’alterezza del verseggiare eroico», perciò bisognerebbe attenersi all’esempio di Pindaro e di Orazio, che non hanno impiegato l’esametro; e, confrontando «il verseggiare lirico e l’eroico», Chiabrera ha trovato «alcuna volta […] l’eroico perdere di sublimità» (in Gabriello Chiabrera, Canzonette, rime varie, dialoghi, a cura di L. Negri, Torino, uTET, 1952, pp. 569-570). 64 Chiabrera insiste su questi punti in varie circostanze; si vedano, per esempio, la lettera ad Ambrosio Salinero premessa al libro primo delle Canzoni (1586) e i versi «[…] nulla non piace / Senza il coro febeo / E perde ogni trofeo / Peregrino valor, s’Euterpe il tace. / O del Tempo rapace / Figlia torbida e fosca, / Oblivion, non assalir miei versi / E i nomi in Lete non voler sommersi / De la gran gente Tosca» (canzone Quando sopra Braccio di Maina e Porto Quaglio e Lungo Sardo si predarono alcune galeotte, vv. 64-72, in Chiabrera, Opera lirica, cit., i, pp. 5-6; ii, p. 323). 65 Alfieri, Del Principe e delle Lettere, iii viii, cit., p. 343.
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patrizia pellizzari252 Somaglia poi da monsignor Giovanni Domenico Testa e chiamato da Alfieri a esprimere un parere durante l’elaborazione della Teleutodía.66 È il cardinale della Somaglia a «bandire affatto» queste due parti, perché «la lode di se medesimo vi comparisce troppo scoperta» ed esse, in sostanza, «non contengono altro che questo solo, unico scopo». La censura del cardinale è a riguardo «inesorabile», trovando «assolutamente ributtante», «per quanto sia lecito ai Poeti il lodarsi da se», «farlo così apertamente, e per scopo unico, e in tal luogo», cioè alla fine dell’ode. Consalvi, per parte sua, esprime la sua riserva sulla conclusione «fondandola sopra altre ragioni», che approdano a una «censura» «forse in fondo un poco più severa», poiché implicherebbe di dovere togliere anche una parte della Strofe iV; in sostanza egli non è persuaso del fatto che questa conclusione, tutta incentrata su di un «individuo, e quel ch’è più su se stesso» c’entri qualcosa con il «sentimento universale» delle strofe precedenti. inoltre, le tragedie scelte da Alfieri per rivestire emblematicamente lo sperato ruolo di «risvegliare il Popolo italiano», evocate attraverso le loro protagoniste femminili ovvero Alceste, Mirra (eponime) e l’Elettra dell’Agamennone e dell’Oreste (Teleutodía, v. 155), non paiono al corrispondente fra le più confacenti allo scopo. Consalvi ipotizza che l’adeguatezza al fine non sia stata un criterio dirimente nel guidare la scelta dell’autore, avendo «forse» il poeta preferito «nominare» le tragedie da lui ritenute «le migliori delle sue».67 Nella risposta Alfieri si sofferma a dimostrare le ragioni per cui la conclusione dell’ode non sia una «coda posticcia» e irrelata al resto del componimento – e allo scopo propone un’«epitome di tutte le dodici stanze in dodici righe» che dovrebbe rendere evidente la consequen
66 il carteggio intercorse fra il 19 marzo e il 6 agosto 1799: lo si legge in V. Branca, Alfieri e la ricerca dello stile, cit., pp. 228-244. Per la risposta del poeta (22 marzo) alla lettera del Consalvi del 19 marzo mi riferisco al testo datone da Caretti (Alfieri, Epistolario, iii, cit., lett. 360, pp. 10-16). Tutti questi documenti (raccolti nell’attuale ms. Laurenziano Alfieri 12) il 28 ottobre vennero poi mandati, per averne l’opinione, al Caluso (cfr. ivi, lett. 368, pp. 31-34), che rispose il 13 novembre (cfr. Vita Giornali Lettere di Vittorio Alfieri, a cura di E. Teza, Firenze, Le Monnier, 1861, pp. 542-546). Consalvi, il cardinale della Somaglia e Testa si trovavano allora a Venezia, dove si erano rifugiati dopo l’occupazione francese di roma. 67 Tutte le citazioni sono tratte dalla lettera del 19 marzo (cfr. V. Branca, Alfieri e la ricerca dello stile, cit., pp. 234-235). All’ultima obiezione l’autore replica: «lo scopo non è stato già di accennare le mie Opere di libertà più che l’altre; ma tutte insieme. E cito quelle tre Tragedie, appunto perchè di soggetti più teneri e flebili, poichè spero di raccogliere da chi verrà quelle lagrime ch’io stesso ho versate facendole» (Alfieri, Epistolario, iii, cit., lett. 360, p. 16).
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una inedita postilla e l’ultimo alfieri lirico 253 zialità del ragionamento poetico –, poi in maniera assai più secca, e a mio parere non senza una punta di risentimento, risolve la questione dell’autoelogio:
Quanto poi all’impertinenza e sfacciatezza del lodar se stesso, ella c’è nel fine, ma è temperata dai forse, e dai spero; onde ella è molto meno ributtante delle parole d’Orazio: Exegi monumentum… Non omnis moriar ecc.68
Queste parole sono, per così dire, figlie dell’idea – posta a fondamento della Vita – della scrittura di sé e su di sé che nasce dall’amore di se stesso, inteso come «quel dono […] che la Natura in maggiore o minor dose concede agli uomini tutti; ed in soverchia dose agli scrittori, principalissimamente poi ai poeti, od a quelli che tali si tengono»: un dono che è «una preziosissima cosa; poiché da esso ogni alto operare dell’uomo proviene, allor quando all’amor di sé stesso congiunge una ragionata cognizione dei propri suoi mezzi, ed un illuminato trasporto pel vero ed il bello, che non son se non uno».69 L’autoelogio non è, dunque, né impertinenza né sfacciataggine, in quanto discende non da vano, egoistico e improduttivo amor proprio, bensì dalla consapevolezza di una virtuosa unione fra «amor di sé stesso» e «illuminato trasporto pel vero e il bello», per cui il medesimo concetto di amour de soi, ben lungi dall’essere sinonimo di amour propre, si distingue e distanzia incommensurabilmente da quest’ultimo.70 Nella lettera di risposta al Consalvi, poi, la sottolineatura delle formule attenuative impiegate nell’ode (l’uso dei «forse» e degli «spero»), che trasformano in auspicio la certezza dell’autobiografia,71 evidenzia non soltanto come
68 Ivi, lett. 360, pp. 15-16. La citazione oraziana è dai Carmina, iii 30, vv. 1 e 6, ed è accuratamente scelta, in quanto anche questo componimento si poneva come conclusivo di un’esperienza poetica, quella dei tre libri di Odi che Orazio stava per pubblicare (in seguito, com’è noto, egli aggiunse il quarto). Qui il poeta latino vanta di aver innalzato un monumento che sopravvivrà all’azione demolitrice del tempo, diventando egli stesso immortale in virtù del valore eterno della poesia, e di avere per primo tratto «Aeolium carmen – ovvero Alceo e Saffo – ad italos / […] modos» (vv. 13-14). 69 Vita, Introduzione, p. 3. 70 La distinzione è fondamentale e andrebbe ancora approfondita dalla critica; si veda comunque Simona Costa, Lo specchio di Narciso: autoritratto di un «homme de lettres». Su Alfieri autobiografo, roma, Bulzoni, 1983, pp. 29-32. 71 «Avendo io oramai scritto molto […] è cosa assai naturale che alcuni di quei pochi a chi non saranno dispiaciute le mie opere (se non tra’ miei contemporanei, tra quelli almeno che vivran dopo) avranno qualche curiosità di sapere qual io mi fossi» (Vita, Introduzione, p. 3), da confrontare non solo con i versi dell’ode ma an
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patrizia pellizzari254 il risultato sia «meno ributtante»72 ma declina in senso moderno e con una esitazione tutta alfieriana (soprattutto dell’Alfieri del “disinganno”) l’esaltazione del ruolo del poeta, cui il trageda oppone le gonfie certezze oraziane. i corrispondenti di Alfieri, oltre a rilevare in alcuni luoghi della Teleutodía una inopportuna mescolanza fra “basso” e “alto”, che sarebbe «lecita in poema lungo»73 ma non nella lirica dell’ode, sottolineano più volte l’oscurità di certi passaggi. Anche in questo caso la risposta del trageda è perentoria: pur acconsentendo che vi sia «qualche oscurità»,
questo genere dell’Ode, essendo e potendo essere il più oscuro di tutti, una qualche leggiera oscurità alle volte quasi vi si cerca; od almeno in tutti i Lirici, Pindaro, Orazio, il Petrarca, e il Chiabrera, ella vi si trova in tal copia, che tutti hanno avuto bisogno di Comenti nella loro propria lingua per essere intesi; e con tutto ciò non lo sono stati, nè lo sono; poichè i loro Comentatori dissentono affatto fra loro, e danno interpretazioni diverse, e spesso contrarie; e nondimeno possibili; il che suppone molta oscurità nel Testo. Con tutto ciò, io la reputo sempre difetto; e non l’ho cercata; ma l’avrò trovata forse nel voler grandeggiare. Cercherò di rimediarvi fin dove si può.74
L’oscurità è non solo un tratto connaturato dell’ode pindarica (sgorga dalle parole e dalle immagini di un poeta ispirato e profetico), ma anche un effetto che qualche volta viene appositamente ricercato; Alfieri, opponendo alla minore oscurità della sua ode quella degli altri lirici, addita un canone (un ulteriore canone) nel quale traccia la direttrice di un genere lirico elevato, non amoroso ma nascente dal canto eroico dell’epinicio greco (nella Teleutodía, v. 114, si cita pure il Tirteo delle «maschie odi militari»)75 e dal quale nello stesso tempo si distac
che con quanto il poeta scrive nel punto 12 dell’epitome inviata al Consalvi, in cui interpreta a uso del destinatario la conclusione della Teleutodía: «[…] io, che ho fatto Tragedie in quantità, e altre cose, posso, senza esser dissennato affatto, sperare che chi verrà dopo saprà che sono stato» (Alfieri, Epistolario, iii, cit., lett. 360, p. 16; i corsivi sono miei). 72 La ripresa dell’aggettivo impiegato dal cardinale della Somaglia evidenzia tutto il disappunto di Alfieri. 73 Lettera di Consalvi del 19 marzo in V. Branca, Alfieri e la ricerca dello stile, cit., p. 232. Su questa mescolanza incide il modello dantesco, al quale l’autore indubbiamente si ispira; sembrerebbero accorgersene anche Consalvi e compagni, data la loro osservazione, appena citata, relativa alla differenza fra poema e lirica. 74 Alfieri, Epistolario, iii, cit., lett. 360, p. 11. 75 id., Del Principe e delle Lettere, iii iv, cit., p. 318. Nota C. Cedrati (in id., Rime,
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una inedita postilla e l’ultimo alfieri lirico 255 ca perché, nonostante la scorta di una così nobile tradizione, egli si vuole differenziare in nome della chiarezza comunque da conciliarsi con un’irrinunciabile intensità espressiva – che talvolta però può anche insidiarla –, rimanendo così fedele a un intento programmatico perseguito in tutta la sua carriera letteraria; in questo senso vanno pure le ammissioni, presenti nello scambio epistolare con i suoi interlocutori, di non essere talvolta riuscito a cambiare dove anch’egli lo sentiva necessario o di avere evitato di modificare per non cadere in una maggiore oscurità. Contro i richiami del Consalvi, del cardinale della Somaglia, del Testa a un “pindarismo” temperato da più fluide movenze classiciste, il trageda recalcitra; seppure in chiave un poco più morbida rispetto alla rivendicazione tagliente di Pindaro che, quasi come un colpo d’accetta, discrimina fra chi è poeta e chi no, fra chi può intendere e chi no («Ho molte / frecce veloci sotto il mio braccio / dentro la faretra: hanno voce / per i saggi, ma per la massa reclamano / interpreti. Maestro di sapienza chi molto per nascita sa, / ma sordo frastuono gracchiano / gli indottrinati come coppia di corvi. // A gara col divino uccello che a Zeus è sacro»; Olimpica II, Strofe V, Antistrofe V, vv. 82-89),76 Alfieri rimane convinto che la lirica possa e debba non essere di cristallina trasparenza:
[…] per il volgo dei lettori, che sono i due terzi e cinque sesti, non potete credere quanto nuoce all’autore anche la mezza oscurità, e quanto gli giova anche la mezza trivialità. E benchè questo sia per l’appunto l’antipode del mio pensare, pure in tutte quelle cose dove il genere lo comporta, io mi sono andato allontanando sempre più dall’oscurità anche leggierissima, per non dar fatica al lettore che n’è tanto e poi tanto nemico. Tolta adunque la poesia lirica, in tutto il rimanente io vorrei esser chiaro come l’acqua, se fosse possibile, anche col pericolo di averne tolta talvolta l’insipidità. Ma pure, sento benissimo che non ci riesco, nè riescirò mai essendo contro la natura mia.77
cit., p. 722) la probabile influenza esercitata allora dai vv. 401-403 dell’Ars poetica di Orazio («Post hos insignis Homerus / Tyrtaeusque mares animos in Martia bella / versibus exacuit»), tradotta dal trageda nel 1776 (si veda ora Vittorio Alfieri, Frammenti di traduzioni. Volume I. Frammenti dal latino, da Pope e versificazione della ‘Mandragola’ di Machiavelli, a cura di P. Pellizzari, Asti-Alessandria, Casa d’Alfieri-Edizioni dell’Orso, 2017). 76 Pindaro, Olimpiche, a cura di F. Ferraro, Milano, Bur, 20084, p. 99. 77 Lettera al Caluso del 25 novembre 1799, in Alfieri, Epistolario, iii, cit., lett. 371, p. 41 (corsivi miei). La missiva risponde a quella dell’abate del 13 novembre, in cui quest’ultimo, riferendosi alle critiche del cardinale della Somaglia, del Consalvi e del Testa (che l’amico gli aveva inviato: vd. sopra n. 66) stigmatizza le «cen
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patrizia pellizzari256 Anni prima Alfieri aveva dovuto rispondere agli appunti di Calzabigi in merito alle oscurità riscontrate in più luoghi delle sue tragedie con argomentazioni (di cui rimane qualche eco nel passo appena riportato) formulate in base alla fondamentale convinzione che la tragedia, per smuovere davvero gli affetti del pubblico, debba rapidamente pervenire alla catastrofe: «a voler essere brevissimo, cosa indispensabile nella tragedia, e che sola genera l’energia, non si può esserlo che usando molti modi contratti, che oscuri non sono a chi sa le proprietà di questa nostra sì divina lingua; ma possono ben parerlo alla lettura per chi non le sa».78 Anche allora aveva legato l’oscurità al genere letterario praticato, o per meglio dire alla sua idea del genere tragico, ma nel contempo si era detto convinto che la difficoltà di superare lo scoglio del suo stile fosse riducibile con l’educazione degli attori a una corretta recitazione, sicché i suoi versi diventassero comprensibili anche al pubblico.79 Nel sublime lirico della Teleutodía, le oscurità, anche se “temperate” e indotte dal desiderio di «grandeggiare», non richiedono di essere tutte svelate perché all’ode Alfieri non affida una funzione pedagogica – che dovrebbe essere assolta dalle tragedie evocate nei versi – ma la creazione di un’atmosfera visionaria e oracolare. Sotto questo aspetto, però, la Teleutodía non riesce a realizzare l’intento, e non solo a giudizio dei soliti Consalvi e Testa, i quali vanno a segno quando, chiudendo la corrispondenza, rilevano che, se «i pen
sure d’oscurità» da loro avanzate, le quali «non son altro, per lo più, che uno sfogo dell’amor proprio del censore che ove in un moderno è inciampato a non capire alla prima, anzichè la propria tardezza o distrazione, vuol che n’abbia la colpa l’autore. Non per altro ha potuto aver taccia d’oscuro il verso L’Etrusca lira, che tu a me non togli, ed alcuni altri, eziandio quello Poco è l’uom sempre [Teleutodía, vv. 23 e 145]; bench’io non pretenda assolverli tutti pienamente» (in Vita Giornali Lettere di Vittorio Alfieri, cit., p. 545). Per parte sua, oltre a qualche ritocco, il Caluso segnalerà come «bisognoso di correzione» il v. 24 Forse ch’io pur vieppiù sonante ascendo, proponendo «Destando a squilli più sonanti ascendo» (ibidem). 78 Vittorio Alfieri, Risposta al Calzabigi, in Alfieri e Calzabigi con uno scritto inedito di Giuseppe Pelli, a cura di A. Fabrizi, L. Ghidetti, F. Mecatti, Firenze, Le Lettere, 2011, pp. 121-122. 79 in seguito, nel Parere sulle tragedie, ribadendo la differenza fra stile lirico e tragico («la […] chiarezza e armonia» dello stile tragico devono «essere in tutto diverse dallo stile della lirica poesia»), osserverà che all’altezza della risposta al Calzabigi il difetto risiedeva nel non essere riuscito a realizzare «quello stile tragico ch’egli s’era ideato»; il limite, nonostante le revisioni, permane per difetto di origine nelle prime dieci tragedie stampate (nell’ed. Pazzini Carli 1783) ma è stato superato nelle successive (in Vittorio Alfieri, Parere sulle tragedie e altre prose critiche, a cura di M. Pagliai, Asti, Casa d’Alfieri, 1978, pp. 158, 163).
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una inedita postilla e l’ultimo alfieri lirico 257 sieri […] sono sommamente Poetici, e lirici ancora in gran parte», lo stile è «più tragico, che lirico» e della tragedia ne «ha tutta la gravità».80 È lo stesso autore, non del tutto soddisfatto, a continuare a girare attorno all’ode, attendendo impaziente la visita del Caluso, programmata per l’estate del 1802, per poterne ancora discutere.81
4. Tornando al Chiabrera, nella risposta alla prima lettera di critica del Consalvi, come si è visto, Alfieri propone un ulteriore “canone” che ha come capostipite Pindaro, cui seguono, in un ordine rigorosamente cronologico, Orazio, Petrarca e il poeta savonese, i campioni della lirica sublime. È una serie di indubbio prestigio, nonostante il rilievo di fondo proprio in merito alla loro forse eccessiva oscurità, e di cui il trageda ambirebbe porsi come ultimo esponente. Appare quasi superfluo sottolineare dopo quanto si è detto che il Chiabrera cui Alfieri pensa qui, nonché nella nota alla traduzione dell’Adimari, è quello delle “grandi” (per ispirazione, argomenti e forme) canzoni, di cui possedeva fin dal 1779 una delle edizioni che le comprendeva, ovvero le Poesie liriche, Londra 1781 (ma in realtà uscite a Livorno qualche anno prima), in tre volumi (ora MM, 34081rés) recante varie tracce di lettura e dove, sul retro del foglio di guardia del primo volume, trascrisse il celebre verso 28 di quella a Cristoforo Colombo, «Nudo nocchier, promettitor di regni» (ancora riportato più tardi sul verso del foglio di guardia del primo dei cinque volumi Delle Opere di Gabbriello Chiabrera, Venezia, Angiolo Geremia, 1757, acquistate a Firenze nel 1794; MM, 34086), segno di una dichiarata approvazione.82
80 «Questo è naturale – aggiunge Consalvi – essendo quello [cioè lo stile tragico] il suo forte, come suol dirsi»; lettera del 6 agosto 1799, in V. Branca, Alfieri e la ricerca dello stile, cit., p. 244. Anche il Caluso osserva che l’ode è «bella, forte, ardita, sublime» e «d’un carattere proprio vostro», forse proprio adombrando l’impronta tragica dello stile (lettera del 13 novembre 1799, in Vita Giornali Lettere di Vittorio Alfieri, cit., p. 545). 81 Cfr. la lettera, priva di indirizzo e data ma del mese di gennaio 1802: «Non mi sono scordato mai che l’Ode mia è cosa vostra; ma non l’ho mai ricorretta, e con sommo mio giubilo mi riserbo poi a darvela io di mano a mano quest’estate, quando sarete con noi siccome l’avete promesso» (Alfieri, Epistolario, iii, cit., lett. 416, p. 133), e la risposta del Caluso del 25 gennaio (Vita Giornali Lettere di Vittorio Alfieri, cit., p. 552). 82 La trascrizione di versi o di passi ritenuti esemplari degli autori che leggeva sui frontespizi o sulle pagine di guardia delle edizioni possedute non è infrequente: si vedano per esempio il volume Aeschyli tragoediae quae extant septem cum versione latina et lectionibus variantibus, Glasgow, r. Foulis, 1746 (MM, L98rés), dove trascrive il v. 598 (edd. moderne: 592) dei Sette a Tebe: «ΕΠΤΑ ΕΠΙ ΘΗΒΑΙΣ: […] Οὐ
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patrizia pellizzari258 Chiabrera è entrato così, in un momento ben definito nel tempo e nella stagione lirica alfieriana, fra i modelli ma non potrà naturalmente essere accolto nel davvero definitivo “canone” inanellato dal trageda nella «collana» dell’«ordin» di Omero, in cui l’ultimo dei poeti italiani “moderni” è Tasso, dopo il quale soltanto l’insignito dell’onorificenza potrà aspirare a essere un’altra gemma.83 E tuttavia le citazioni del poeta savonese legate alla nascita della Teleutodía sembrano in qualche modo segnalare e anticipare la possibilità di una interpretazione diversa del suo ruolo nella storia della lirica italiana: anni dopo, nel Della poesia lirica (1811), Foscolo, totalmente ignaro, com’è ovvio, della postilla vergata sulla traduzione di Adimari e della risposta al Consalvi, scriverà che Chiabrera «primo ritrasse la poesia lirica a’ suoi principi». Essa nasce con Pindaro «cantando con entusiasmo le lodi de’ numi e degli eroi»;84 e Chiabrera, pur con tutti i suoi limiti, ebbe il merito di sapere recuperare attraverso il poeta tebano «l’aurorale significato del genere».85
Patrizia Pellizzari università di Torino
γὰρ δοκεῖν ἄριστος, ἀλλ᾽εἶναι θέλει» (“non vuole sembrare il migliore, vuole esserlo”); oppure l’Aeschyli tragoediae VII […], s. l. [ma Ginevra], H. Stephanus, 1557, (MM, 33164rés) in cui riporta i vv. 893-894 (edd. moderne: 884-885) dell’Agamennone: «σύγγοννον / βποτοῖσι τὸν πεσόντα λακτίσαι πλέον» (“è normale che gli uomini si accaniscano su chi è caduto”); cfr. C. Domenici, La biblioteca classica…, cit., risp. scheda 11, p. 230, scheda 9, p. 229. – Noto per inciso che assai meno elogiativo è il parere di Alfieri su altre zone della poesia chiabreresca, come l’epica: ne darò conto in un contributo di prossima pubblicazione. 83 Cfr. Vita, iV xxxi, pp. 327-328. Nel ms. Laurenziano «Alfieri» 24, redazione definitiva dell’autobiografia, manca l’epigramma conclusivo cui il poeta accenna («[…] un mio distico greco, il quale pongo qui come nota ultima»; ivi, p. 327) e che sarà posto al termine dell’ed. Piatti del 1804: «Forse inventava Alfieri un Ordin vero / nel farsi ei stesso Cavalier di Omero». 84 in Edizione Nazionale delle Opere di Ugo Foscolo, Vii, Lezioni, articoli di critica e di polemica (1809-1811), Firenze, Le Monnier, 1967, pp. 325-331, alle pp. 325, 327. Ecco per intero il passaggio: «Primo il Chiabrera ritrasse la poesia lirica a’ suoi principj; ebbe contemporaneo il Testi, poco dopo il Filicaia, il Guidi e il Menzini; ma in tutti più o meno si sente o l’imitazione affettata del greco, come nel Chiabrera, o la corruzione (pervenutaci da’ romanzi spagnuoli e portata all’apice dal Marini), come nel Testi e nel Filicaia: il Guidi è gonfio ed oscuro, e il Menzini non trattò grandi argomenti» (ivi, p. 325). 85 G. Benedetto, I ‘Sepolcri’ nella storia della fortuna di Pindaro, cit., p. 302.
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MArCO DONDErO “Apparizioni” primonovecentesche del Leopardi personaggio*
il contributo analizza tre opere in cui Giacomo Leopardi, in qualità di personaggio di finzione, “appare” soprannaturalmente: come soggetto di una reincarnazione (Questo matrimonio si deve fare! di Brancati), come un fantasma (All’insegna dello Starita grande di Savinio), come un sogno (Le polpette al pomodoro di Saba).
★ This contribution analyses three works in which Giacomo Leopardi, as a fictive character, “appears” supernaturally: as a reincarnation (Questo matrimonio si deve fare! by Brancati), as a ghost (All’insegna dello Starita grande by Savinio) and as a dream (Le polpette al pomodoro by Saba).
1. Fra le molte esperienze culturali novecentesche incentrate sulla figura e sulle opere di Leopardi (dal “leopardismo” alla riscrittura delle Operette morali, fino alle “biografie romanzate”), ritengo sia possibile individuare un fenomeno particolare, cioè la presenza di una serie di testi che hanno raffigurato il “motivo” letterario del “Leopardi personaggio”: molti autori hanno rappresentato il poeta, all’interno delle proprie opere creative, in qualità di personaggio puramente di finzione, non necessariamente legato alle reali contingenze storiche1: un vero e proprio personaggio letterario.
Autore: università di Macerata; prof. associato; marco.dondero@unimc.it * Versione rivista dell’intervento tenuto al XiV Convegno internazionale di studi Leopardi e la cultura del Novecento. Modi e forme di una presenza (recanati, 27-30 settembre 2017). 1 È questo l’aspetto che distingue i testi con protagonista il Leopardi personaggio di finzione dalle “biografie romanzate”: queste ultime, nonostante facciano emergere in primo piano la voce del compilatore e sfruttino i meccanismi testuali della fiction, pure si attengono ai dati fattuali senza contraddire la realtà, presentando il poeta rigorosamente come un personaggio storico. Cfr. sull’argomento Alessandro iovinelli, L’autore e il personaggio. L’opera metabiografica nella narrativa italiana degli ultimi trent’anni, Soveria Mannelli, rubbettino, 2004, e (anche per la
marco dondero260 Su questo tema, che non ha ancora ricevuto l’attenzione che credo meriti, sto scrivendo un volumetto (intitolato appunto Leopardi personaggio), che si concentrerà su diciassette opere composte in italia a partire dagli anni Trenta del Novecento fino agli anni Dieci del Duemila (tutte a mio parere dotate di un valore letterario). i romanzi sono quattro (Michele Mari, Io venìa pien d’angoscia a rimirarti, 1990; Giampaolo rugarli, Il bruno dei crepuscoli, 1998; Vladimiro Bottone, L’Ospite della Vita, 1999; Alessandro Zaccuri, Il signor figlio, 2007), sei i racconti (Giovanni Papini, Leggenda Argentea di Giacomo Leopardi, 1937; Alberto Savinio, All’insegna dello Starita grande, 1946; umberto Saba, Le polpette al pomodoro, 1957; Giovanni Mosca, Capo Recanati, 1970; Primo Levi, Dialogo di un poeta e di un medico, 1980; Antonio Tabucchi, Sogno di Giacomo Leopardi, poeta e lunatico, 1992), cinque i testi teatrali (Vitaliano Brancati, Questo matrimonio si deve fare!, 1937; Achille Campanile, Ad Angelo, mai, 1978; Enzo Moscato, Partitura, 1988; Giuseppe Manfridi, Giacomo, il prepotente, 1989; Tiziano Scarpa, L’infinito, 2012) e due le storie per bambini (roberto Pavanello, Giacomo Leopardo, 2006; Paolo Di Paolo, Giacomo il signor bambino, 2015). È possibile ordinare i diciassette testi in sei gruppi, che corrispondono agli aspetti privilegiati dagli autori nel tratteggiare la figura di Giacomo Leopardi – tenendo ben presente naturalmente che le intersecazioni tematiche costituiscono la norma, non l’eccezione: “La luna” (Mosca, Mari, Tabucchi), “Gli ultimi giorni” (Papini, Moscato, Manfridi, Bottone), “Dopo la morte” (rugarli, Zaccuri), “Apparizioni” (Brancati, Savinio, Saba, Scarpa), “iperintertestualità” (Campanile, Levi), “Per i bambini” (Pavanello, Di Paolo). Desidero in questa sede anticipare alcuni risultati della ricerca, soffermandomi sui primi tre autori del gruppo delle “Apparizioni”, tre classici della prima metà del nostro Novecento, nelle cui opere il personaggio Leopardi “appare” soprannaturalmente in forme diverse: come soggetto di una reincarnazione (Vitaliano Brancati), come un fantasma (Alberto Savinio), come un sogno (umberto Saba)2. Si noterà come centrale nelle diverse rappresentazioni sia in ogni caso il contrasto, che si viene a creare grazie all’alterazione della cronologia (i testi sono sempre ambientati nel presente dello scrittore moderno), tra Leopardi e i secoli a lui successivi.
bibliografia recente) riccardo Castellana, La biofiction. Teoria, storia, problemi, «Allegoria», 2015, 71-72, pp. 67-97. 2 Nell’ultimo testo del gruppo, molto distanziato nel tempo dai primi tre (L’infinito di Tiziano Scarpa, 2012), Leopardi “apparirà” come un’illusione.
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“apparizioni” primonovecentesche del leopardi personaggio 261 2. il legame intellettuale con Leopardi, e la volontà di considerarlo quale inarrivabile modello, sono esibiti e apertamente rivendicati da Vitaliano Brancati lungo tutto l’arco della sua vita; e non è difficile individuare una vera e propria “funzione Leopardi” – legata all’uso dell’ironia e alla predilezione per la «ragione» – all’interno della produzione brancatiana, dagli scritti saggistici ai romanzi Don Giovanni in Sicilia (Milano, rizzoli, 1941) e Paolo il Caldo (Milano, Bompiani, 1955)3. il testo in cui l’immagine leopardiana “appare” è la commedia in tre atti Questo matrimonio si deve fare!, datata in calce «Caltanisetta 1937» (primo centenario della morte del poeta) e pubblicata nella rivista «il Convegno» nel maggio 1938. il testo mette in scena le disavventure della famiglia Monelli, in particolare della figlia Pierina e del suo continuo rifiuto di sposare Paolo Pannocchietti nonostante le insistenze di suo padre, l’onorevole Francesco, ma è ricco di altre figure comiche e anche grottesche, come il professor Volfango raimondi o il personaggio su cui mi soffermerò, l’avvocato Ferdinando Giardini. Con la commedia Brancati prosegue in forma farsesca la disamina degli “anni perduti” durante il regime fascista, iniziata in forma malinconica e ironica nel romanzo Gli anni perduti, composto fra il 1934 e il 1936 ma pubblicato, in una prima forma scorciata, nel settimanale «Omnibus» tra l’agosto e l’ottobre dello stesso 1938 (quindi in forma integrale presso Parenti di Firenze nel 1941). il legame fra romanzo e commedia è dato a livello generale, visto che anche quelli vissuti dalla famiglia Monelli e dai suoi amici sono anni perduti. Ma è dato anche dalla compresenza di alcune situazioni più specifiche, come ad esempio il discorso pronunciato nella scena XXi del ii Atto da Volfango raimondi, nel quale riecheggia l’insoddisfazione per la vita di uno dei protagonisti degli Anni perduti, Leonardo Barini; oppure l’insistenza sul carattere oppressivo dell’amore materno delle donne siciliane, che non si allenta neanche quando i figli sono ormai adulti: un tema che nella commedia caratterizza le scene iX-Xi del i Atto, e che nella narrativa brancatiana compare già nel racconto Partenza del 1933:
Ora, parlava la madre: «Enrico è il “piccino” per me: sarà sempre il “piccino”».
3 Cfr., anche per altra bibliografia, Marco Dondero, Un naso, Brancati e Leopardi, in «Un’arte che non langue non trema e non s’offusca». Studi per Simona Costa, a cura di Marco Dondero, Costanza Geddes, Laura Melosi, Monica Venturini, Firenze, Cesati, 2018, pp. 565-573 (da cui ricavo l’analisi su Questo matrimonio).
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Egli si toccò la barba, il petto, la fronte: «Ah, ah, il piccino!» e si mise a ridere. Ma aveva la bocca amara4.
il tema prosegue appunto negli Anni perduti5, dove il ventottenne rodolfo De Mei si lamenta:
io dormo tuttora nella cameretta in cui dormivo da bambino; la cameriera viene, ogni mattina, a portarmi il caffè, con la stessa aria di quindici anni fa. E del resto, perché dovrebbe avere un’aria diversa, se anche stamane, prima di entrare nella mia camera, ha sentito da mia madre: «Guardate un po’ se i bambini sono svegli!»? uno dei bambini sarei io, e l’altro il mio fratello minore che ha venticinque anni6.
e torna infine nel trentottesimo pensiero dei Piaceri della povertà, del 1939-1940:
Barbara servì per trent’anni i signori Gorgone, e per ventinove anni amò il figliuolo minore dell’avvocato, il signorino Filippo, il cui svegliarsi, al mattino, anche quando egli si trovò sugli occhi i capelli bianchi, fu sempre annunciato per il corridoio con le parole: «il ragazzo s’è svegliato!»7.
un cenno merita anche la figura del pretendente di Pierina, Paolo Pannocchietti8, il quale per rassicurare Francesco Monelli circa il futuro economico della figlia si impegna in un frenetico accumulo di cariche politiche e titoli professionali che lo porterà infine alla perdita dell’identità e alla pazzia («io ho tutte le cariche, tutti i compiti, tutti gl’impieghi della città», «io sono tutto!», «io sono tutti!», «Dentro di me, c’è un popolo! Dentro di me, vedete un’intera città! un popolo sono io, una città sono io», «Onorevole, io sono tutti, ma questi tutti invecchiano tutti insieme», afferma nella scena XXV dell’Atto iii: pp. 878-879).
4 Vitaliano Brancati, Racconti, teatro, scritti giornalistici, a cura di Marco Dondero, con un saggio introduttivo di Giulio Ferroni, Milano, Mondadori, 20042, p. 488. 5 il nesso è notato da Domenica Perrone, Vitaliano Brancati. Le avventure morali e i ‘piaceri’ della scrittura, nuova ed. riveduta e ampliata, Caltanissetta-roma, Sciascia, 2003, pp. 33-35. 6 Vitaliano Brancati, Romanzi e saggi, a cura di Marco Dondero, con un saggio introduttivo di Giulio Ferroni, Milano, Mondadori, 20053, p. 188. 7 Ivi, p. 1434. 8 La cui figura è efficacemente tratteggiata da Giulio Ferroni, Introduzione a V. Brancati, Racconti, teatro, scritti giornalistici, cit., pp. lxiii-lxv (da questa ed. cito Questo matrimonio, indicando le pp. direttamente a testo).
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“apparizioni” primonovecentesche del leopardi personaggio 263 Attraverso la satira del personaggio viene portata a livello parossistico (ma per questo in effetti stemperata) la critica all’“attivismo” di matrice futurista e fascista, dal quale Brancati aveva cominciato a prendere le distanze in forma tormentata nel romanzo Singolare avventura di viaggio (composto nel 1933 e pubblicato l’anno successivo a Milano da Mondadori) e quindi in forma ironica negli Anni perduti, dove si legge della comica decadenza del sedicente professore Francesco Buscaino da «uomo provvidenziale» a piccolo impostore9. La figura “leopardiana”, in Questo matrimonio si deve fare!, è incarnata (verbo, si vedrà, pertinentissimo) da Ferdinando Giardini: il personaggio dichiara la propria fede nella metempsicosi e sostiene di essere stato, in una vita precedente, Giacomo Leopardi. in questo testo dunque Leopardi non è presente sin dall’inizio con le proprie fattezze, però il grado di identificazione tra il personaggio in scena e il grande poeta scomparso si fa nel corso della commedia via via sempre più stretto, fino a raggiungere una piena identità. A ben vedere la stessa presentazione dell’avvocato Giardini, nella didascalia iniziale, è caratterizzata da un’aura leopardiana:
la signora Giardini e il figlio, avvocato Ferdinando – le cui qualità morali sono senza numero, ma purtroppo invisibili, mentre il solo torto che gli abbia fatto la natura, un grosso naso ricurvo, si presenta quasi prima di lui e talvolta, si direbbe, senza di lui, talmente gli nasconde i tratti del viso – (p. 801)
Nell’immagine del giovane di grandi qualità morali condannato dalla natura ad essere notato solo per un difetto fisico si riconosce immediatamente lo stigma di Saffo, così come lo stesso Leopardi lo ha descritto nell’Annuncio premesso alla ristampa delle Annotazioni alle dieci Canzoni stampate a Bologna nel 1824 sul «Nuovo ricoglitore» del settembre 1825: «una, ch’è intitolata Ultimo canto di Saffo, intende di rappresentare la infelicità di un animo delicato, tenero, sensitivo, nobile e caldo, posto in un corpo brutto e giovane»10 (e non è chi non colga in queste parole il nesso autobiografico: certo attraverso la figu
9 un’analisi più distesa sul tema dell’“attivismo” in Marco Dondero, Riverberi futuristi nella narrativa di Vitaliano Brancati (da «L’amico del vincitore» a «Gli anni perduti»), in Shades of Futurism. Futurismo in ombra. Atti del convegno internazionale (Princeton 9-10 ottobre 2009), a cura di Pietro Frassica, Novara, interlinea, 2011, pp. 329-343. 10 Giacomo Leopardi, Tutte le poesie e tutte le prose, a cura di Lucio Felici e Emanuele Trevi, roma, Newton Compton, 2018 (1a ed. 1997), pp. 221-222.
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marco dondero264 ra di Saffo Leopardi espresse anche la propria disperazione, e le proteste della poetessa greca contro l’infelicità e l’ingiustizia della vita e contro l’indifferenza della natura al dolore umano sono anche le proteste del giovane Leopardi). il “naso” rappresenta dunque nella vita di Giardini ciò che la “gobba” rappresentò in quella di Leopardi: è lo stesso personaggio a sottolinearlo quando, una volta affermata la trasmigrazione dell’anima del poeta nel proprio corpo, alla madre che gli obietta «Ma figlio mio, Leopardi era gobbo!», egli replica:
Ero gobbo, allora. Ma non si rimane gli stessi, nella vita che segue. Tuttavia non posso dire che una qualche piccola gobba non mi sia rimasta. Questo mio naso, mi domando spesso, non è la gobba di un tempo che s’è rimpicciolita ed è venuta su?… (A. i, sc. Viii; p. 815)
D’altra parte in un crescendo comico e grottesco sarà proprio l’assumere sul proprio corpo anche la deformità di quello di Leopardi che paradossalmente garantirà il benessere del personaggio: Giardini si confeziona con un cuscinetto una finta «gobba stretta e puntuta» e rivendica il proprio diritto alla coerenza tra mente e fisico:
Anch’io devo star bene, signori miei! anch’io ho il diritto di essere io e non un altro! […] io trovo sollievo nell’avere il corpo che fa per me, nel riprendere il mio vero aspetto, triste, misero quanto si voglia, ma il mio vero aspetto. (A. ii, sc. iii; p. 835)
L’identificazione sarà infine totale quando Giardini profetizzerà la propria morte, esattamente un secolo dopo quella del poeta:
Cento anni fa, nel 1837, e precisamente il 14 giugno, io morii… […] Mi chiamavo Leopardi. […] Nulla di strano che, anche questa volta, io me ne vada il 14 giugno. Eh, sto male, male, male, male! (A. iii, sc. Vii; p. 863)
Desidero infine sottolineare due momenti, all’inizio e alla fine del testo, nei quali la rappresentazione del personaggio-Leopardi si focalizza direttamente sulla poesia. il primo compare nella già ricordata scena Viii del i Atto, e vede Giardini narrare di quando si è reso conto di essere la reincarnazione di Giacomo Leopardi:
Leggevo, una sera, per la prima volta La quiete dopo la tempesta. […] Ma questi versi, cominciai a dirmi, non mi sono nuovi; […] mi si fece sempre più chiaro che, non solo avevo sentito quella poesia in un’altra vita, ma che l’avevo scritta io! […] E non solo quella, ma tutte le poesie del Leopardi. Hanno in mente Le ricordanze? […] L’ho scritta io. ricordo il
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giorno, il luogo, l’ora, l’occasione in cui l’ho scritta! ricordo il foglio su cui l’ho scritta, le parole che ho cancellato, i versi che non mi sono riusciti facili; rivedo il mio indice sinistro – accanto al foglio, sul tavolo – che batte il tempo. (p. 814)
Degni di nota mi paiono soprattutto il meccanismo dell’agnizione, che avviene appunto attraverso la lettura delle poesie leopardiane che contestualmente diventa memoria della composizione, e l’insistenza sulla rievocazione dell’aspetto anche materiale della scrittura (il foglio, le cancellature, il dito che batte il tempo). Ancor più significativo però mi sembra il secondo momento, nella scena XVi dell’Atto iii, che coincide con la definitiva uscita di scena del personaggio. Giardini si rivolge all’amico professore di lettere Volfango raimondi:
Bene, io vado. Buona fortuna. (a Raimondi) Tu, entro il 14 giugno, perderai forse la voce, ma io perderò, riperderò la vita. Pensami! E ricordati che La ginestra è la mia cosa migliore. Non credere ai critici di oggi! Sono tutti mediocri! Addio, miei cari! (esce) (p. 870)
ricordo che la commedia è del 1937, quando mancano ancora dieci anni alla famosa (tra i leopardisti) “svolta del 1947”, originata dalla concomitante pubblicazione presso Sansoni di Firenze del volume La nuova poetica leopardiana di Walter Binni e del saggio Leopardi progressivo di Cesare Luporini, “svolta” che portò al superamento delle interpretazioni (innanzitutto quella crociana) incentrate sull’apprezzamento esclusivo del versante idillico della lirica leopardiana (specie i malamente detti “grandi idilli”, ovvero i Canti pisano-recanatesi, tra i quali La quiete e Le ricordanze citate da Giardini, e anche A Silvia, alla quale fa riferimento raimondi nella scena V dell’Atto ii) rispetto al versante “eroico” del “nuovo Leopardi” degli anni Trenta. Le parole sulla Ginestra di Giardini – qui indubbiamente portavoce dello stesso Brancati – costituiscono dunque un importante intervento interpretativo (il che non capita sovente nei testi che contengono le raffigurazioni del “Leopardi personaggio”), e sono sorprendentemente all’avanguardia nella storia della critica leopardiana.
3. Giacomo Leopardi “appare” esplicitamente come «fantasma» nel racconto di Alberto Savinio All’insegna dello Starita grande, pubblicato ne «La Lettura» dell’8 giugno 194611.
11 Poi in Alberto Savinio, Opere. Scritti dispersi. Tra guerra e dopoguerra (1943
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marco dondero266 Se in altre occasioni narrative il recupero di temi e stilemi leopardiani da parte di Savinio avviene sotto il segno precipuo dell’ironia12, e se nell’articolo Il sorbetto di Leopardi, pubblicato nel gennaio 1939 nel settimanale «Omnibus» (l’articolo è famoso perché sarebbe stato la causa della chiusura del giornale, diretto da Leo Longanesi), Savinio non si perita di discettare sulla letale «cacarella» provocata a Leopardi dai gelati, sorbetti e cremolati del napoletano Caffè d’italia, in All’insegna dello Starita grande il tono è più sospeso e divagante. Nel racconto Savinio narra, in prima persona, di un viaggio a Napoli nel gennaio 1938 per tenere una conferenza: e lì, sostiene, «incontravo Leopardi a ogni passo» (p. 270). Non è vero infatti «che il fantasma di Giacomo Leopardi frequenti più assiduamente il colle dell’Infinito presso recanati, o i dintorni del Gabinetto Vieusseux a Firenze, […] o a Pisa quella via della Faggiola»: «È invece qui a Napoli che, per ragioni di clima, forse, si è ridotto il fantasma del “contino”» (una convinzione che avrebbe poi accomunato a Savinio il poeta Elio Fiore, il quale raccontava di aver incontrato Leopardi nei giardini della Biblioteca Nazionale). il poeta si mostra «trasparente sempre e traversabile, ma riconoscibile»; la descrizione fisica ne coglie i tratti tradizionali e salienti: «la fronte a baule e l’occhio infossato», e soprattutto «le spallucce del frachettino che gli salivano fin sopra le orecchie» (p. 271). il fantasma compare (senza mai parlare) in particolare in due occasioni, una legata alla sua poesia una alla sua biografia. La prima quando Savinio narra della paradossale avventura da lui patita alla «Starita grande»: una trattoria («grande» per distinguerla da un’altra trattoria, la «Starita piccola») nella quale gli sarà impossibile mangiare alcunché, ma il cui nome (come ad ogni leopardista) gli riporta alla mente l’editore dei Canti napoletani del 1835: allora, scrive, «Drizzai l’orecchio. E vidi ricomparire il patetico fantasma, leggero e la testa nelle spalle. Traversò la piazzetta curvandosi su un bastoncello di bambù» (p. 273). il «patetico fantasma» (l’aggettivo torna insistentemente) si mostra di nuovo quando nella trattoria entra un «frate colossale» che riporta alla mente di Savinio quel padre Felice, agostiniano scalzo, che secondo il racconto di Antonio ranieri constatò la morte di Leopardi, a Napoli, il 14 giugno 1837: «il caro fantasma una volta ancora si affac
1952), introd. di Leonardo Sciascia, a cura di Leonardo Sciascia e Franco De Maria, Milano, Bompiani, 1989, pp. 269-276 (da cui cito). 12 Cfr. Paola italia, A scuola di stile. Savinio e le «Operette morali», in «Quel libro senza uguali». Le «Operette morali» e il Novecento italiano, a cura di Novella Bellucci e Andrea Cortellessa, roma, Bulzoni, 2000, pp. 113-162.
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“apparizioni” primonovecentesche del leopardi personaggio 267 ciò alla finestrella dello Starita grande, affondato il testone nelle spallucce infantili». La strana avventura di Savinio si conclude proprio sotto il segno della poesia leopardiana: «poiché alla speranza di mangiare non potevo più credere, cavai di tasca un libretto turchino che il mio amico Gaspare Casella mi aveva donato» (p. 276): un’edizione dei Canti, collazionata sull’edizione Starita, stampata con l’indicazione tipografica Compagnia degli illusi di Napoli (di cui Casella era membro ed editore con la Gaspare Casella Editore) nel 1934.
4. Quanto Leopardi sia stato essenziale nella formazione di umberto Saba è esplicitato dallo stesso scrittore nel contributo autocritico Storia e cronistoria del Canzoniere (pubblicato con lo pseudonimo di Giuseppe Carimandrei nel 1948), dove si legge: «Non sembra dubbio che, nell’età della sua formazione, il poeta che l’ha più impressionato sia stato il Leopardi. Fra i 16 e i 19 anni egli deve aver avuto per lui una vera passione. […] il processo assimilativo al maestro è così impressionante da far pensare ben più ad un’immedesimazione amorosa che ad una banale imitazione»13. Fra le altre occasioni leopardiane che si potrebbero citare, vi è il divertente scritto Una poesia in tre stati (1951), nel quale Saba propone una riscrittura poetica della «Favola» L’uccello del Leopardi fanciullo in cui «ha sacrilegamente introdotta qualche immagine sua»14. Ma l’“omaggio” più particolare è rappresentato dal racconto Le polpette al pomodoro, pubblicato nella «Stampa» il 16 aprile 1957 (solo quattro mesi prima della morte di Saba)15, nel quale Leopardi “appare” come un personaggio di finzione. Saba nel racconto narra alla figlia Linuccia di due inviti: il primo, a pranzo, legato alle polpette al pomodoro evocate dal titolo; il secondo, a cena (la sera del 5 giugno 1952), «più straordinario»: l’invitato dai Saba, con l’amica di famiglia Noretta, era infatti «il Conte Giacomo Leopardi». il giudizio sull’attendibilità della «favola» è lasciato alla figlia: «Fu realtà? Sogno? Giudicherai tu stessa, in fine» (p. 1097). Lungo spazio è destinato alla descrizione del menù (brodo con riso, triglie, l’immancabile «dolce al gelato», e caffè: tutto gradito dall’ospite), alla preparazione dei cibi, ai problemi del servizio (risolti facendo camuffare da cameriera la nipote Paoletta). L’apparizione di Leopardi,
13 umberto Saba, Tutte le prose, a cura di Arrigo Stara, con un saggio introduttivo di Mario Lavagetto, Milano, Mondadori, 2001, p. 126. 14 Ivi, pp. 1037-1043. 15 Ivi, pp. 1095-1101.
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marco dondero268 il quale pure giunge all’appuntamento in una carrozza «con un servitore incipriato a cassetta», costituisce una sorpresa, per il suo abito moderno e la sua buona forma fisica: «La deformità, che tanto lo fece soffrire, era quasi del tutto scomparsa, ne rimaneva appena una traccia, ed anche quella appena visibile. Vestiva un abito grigio da passeggio, di un taglio quasi sportivo». il volto, invece, «era quello di sempre. un sorriso pieno di mestizia e di dolcezza gli errava sulle labbra; gli occhi indicavano una grande bontà ed una, al tempo stesso, intollerabile stanchezza, come di persona troppo forte per morire e troppo debole per sopportare» (p. 1099; nelle ultime parole si può leggere una «minima proiezione» di Saba nel personaggio16, come anche un ricordo dell’ultima lettera scritta da Giacomo, al padre, il 27 maggio 1837: «i miei patimenti fisici giornalieri e incurabili sono arrivati con l’età ad un grado tale che non possono più crescere: spero che superata finalmente la piccola resistenza che oppone loro il moribondo mio corpo, mi condurranno all’eterno riposo che invoco caldamente ogni giorno non per eroismo, ma per il rigore delle pene che provo»17). Così come il volto e lo sguardo, anche il temperamento e le idee del recanatese non sono cambiati (il suo animo non è influenzato, insomma, dalla presenza o dall’assenza della «deformità»): è grato a chi gli rende un servizio («il sorriso con il quale il poeta di Silvia la ringraziò, lo sguardo […] furono quasi il punto culminante della cena»); diffidente alla sola menzione del vocabolo «piacere», anche quando riferito semplicemente alla stagione dell’anno («alla parola “piaceri” il volto dell’ospite si oscurò; si fece, un attimo, quasi ostile»); naturalmente, golosissimo («Si animò un poco quando vide il dolce al gelato. […] chiese (quasi implorò) una seconda [porzione]») (pp. 1099-1100). La buona riuscita della serata è impedita dalla reverenza dei padroni di casa: «eravamo tutti intimiditi; nessuno osava, o appena, rivolgergli la parola»; Saba desidererebbe anche dimostrare le proprie capacità di attore leggendo a Leopardi uno degli idilli, «Ma era facile comprendere che non era il caso». L’incontro si chiude con il desiderio di Saba di chiarire un dubbio riguardante il Sabato del villaggio: «Dire “rose e viole” per indicare i fiori che, di ritorno dalla campagna, la donzelletta recava in mano, era sembrato, a me e ad altri, lezioso e generico: una piccola menda in una celeste poesia». Con le parole «e ad altri» Saba implicitamente si riferisce a Giovanni Pascoli, il quale in uno suo famo
16 Cfr. Stefano Carrai, Saba, roma, Salerno Ed., 2017, p. 232. 17 G. Leopardi, Tutte le poesie e tutte le prose, cit., p. 1445.
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“apparizioni” primonovecentesche del leopardi personaggio 269 so Discorso su «Il sabato del villaggio» (1896) diede avvio alla “questione rose e viole” che ancora è al centro di numerosi studi critici: «Donzellette» non vidi venire dalla campagna col loro fascio d’erba: […]. Avrei voluto vedere il loro mazzolino, se era proprio «di rose e di viole»! rose e viole nello stesso mazzolino campestre d’una villanella, mi pare che il Leopardi non le abbia potute vedere. A questa, viole di marzo, a quella, rose di maggio, sì, poteva; ma di aver già vedute le une in mano alla donzelletta, ora che vedeva le altre, il poeta non doveva qui ricordarsi. Perché il poeta qui rappresenta a noi cose vedute e udite in un giorno, anzi in un’ora; e bene le rappresenta, come non solevano i poeti italiani del suo tempo e dei tempi addietro. […] No: non ci ha detto quali fiori erano quelli, perché io sospetto che quelle rose e viole non siano se non un tropo, e non valgano, sebbene speciali, se non a significare una cosa generica: fiori. E io sentiva che, in poesia così nuova, il poeta così nuovo cadeva in un errore tanto comune alla poesia italiana anteriore a lui: l’errore dell’indeterminatezza18.
Saba scrive al proposito parole ironiche e inventive: Esposi, coi dovuti riguardi, il mio dubbio all’autore del Sabato del villaggio aggiungendo che avevo interrogati diversi fioricultori, […]. Nessuno – gli dissi – seppe darmi una risposta esatta: un amatore al quale esposi le ragioni della mia inchiesta, mi rispose: «Qui da noi, no; provi, se mai, a recanati…». (p. 1100)
in quel momento Leopardi svanisce, evitando così di dirimere la questione: «rientrava, in quel punto, tua madre, […]. Ma, come miracolosamente venuto, così il poeta era miracolosamente sparito». il racconto si avvia alla conclusione con la descrizione della strada vista dalla finestra di casa Saba, in cui si riconosce un rovesciamento dell’immagine “idillica” della recanati proposta proprio nel Sabato del villaggio (di cui si cita il v. 27: «i fanciulli gridando / su la piazzuola in frotta, / e qua e là saltando, / fanno un lieto romore»): «i soliti ragazzi che giocavano al calcio, automobili, camion alti come case, motociclette, lambrette facevano tutt’altro che un “lieto romore”» (p. 1100). La chiusura è affidata a un verso della tragedia Marion de Lorme di Victor Hugo (1831), citato dall’amica Noretta, in cui torna la parola «sogno» con cui Saba aveva introdotto la narrazione alla figlia: «Tout s’est évanoui comme un rêve qu’on a…» (p. 1101). Per concludere, andrà notato come una breve anticipazione della
18 Giovanni Pascoli, Poesie e prose scelte, a cura di Cesare Garboli, Milano, Mondadori, 2002, i, pp. 1114-1116.
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marco dondero270 novella fosse stata scritta da Saba già cinque anni prima della sua pubblicazione, il 24 luglio 1952 (pochi giorni dopo, dunque, rispetto alla data della cena indicata nel racconto), in una lettera spedita ad Alfredo rizzardi19. Oltre alla lunghezza, tre sono le principali differenze tra i due testi. innanzitutto, viene lasciata cadere nella redazione pubblicata quella che nell’abbozzo era stata descritta come la «scena centrale», una divertente riscrittura della classica rivalità Leopardi-Manzoni:
la scena centrale (rimproverato lui ed il Manzoni per quello che dicevano l’uno dell’altro; come sai, il Leopardi scrisse a suo padre che a Firenze «Le persone di gusto trovavano i Promessi Sposi molto inferiori all’aspettativa» e stop) e, quando il Manzoni lesse le poesie del Leopardi, domandò a persona che gli stava accanto se quella era poesia: aggiungevo che si meritavano, l’uno e l’altro, le sculacciate;
in secondo luogo, la scomparsa del «fantasma» nell’abbozzo avviene non quando Saba esprime la propria perplessità sulle «rose e viole» ma quando sta aggiornando Leopardi sugli accadimenti seguiti alla sua assenza («io gli stavo parlando per la prima volta delle cose accadute nel mondo durante la sua assenza, egli spariva come un fantasma…»): come se Leopardi rifiutasse la conoscenza della modernità. infine, nell’abbozzo Saba si rappresenta molto meno intimidito che nella versione a stampa: esprime a Leopardi la propria ammirazione per le sue poesie, riferendosi anche alla modificazione delle proprie preferenze col trascorrere del tempo, e si produce infine nella recitazione di versi, ottenendo da Leopardi non solo lodi ma anche una dimostrazione di confidenza:
un particolare ancora: non so se egli sapeva o no che io avevo scritte delle poesie; ma, come gli parlavo di quelle sue che oggi preferisco a quelle che amavo di più da ragazzo (p. es. Il sabato del villaggio, che mi è più cara oggi che allora Amore e Morte) e gli citavo alcune strofe, egli, da quel momento, mi lodava per il mio modo di dire le sue poesie, e, invece che del lei, io del voi, mi dava del tu (come io a lui dal principio della cena).
Marco Dondero università di Macerata
19 in umberto Saba, La spada d’amore. Lettere scelte 1902-1957, a cura di Aldo Marcovecchio, presentazione di Giovanni Giudici, Milano, Mondadori, 1983, p. 244. Cfr. al proposito Carlo Vecce, Un invito a cena (Leopardi e Saba), in id., Tre letture leopardiane, recanati, Edizioni CNSL, 2000, alle pp. 61-63 e 113-114, e S. Carrai, Saba, cit., pp. 230-232.
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CriSTiNA ZAMPESE «Un bel gesolreutt». «Il canto XVI del Tasso» di Manzoni e Visconti
Questo testo non molto noto, scritto a quattro mani da Alessandro Manzoni ed Ermes Visconti, è un raffinato gioco intertestuale sull’episodio di Armida e rinaldo nel giardino (dal XVi canto della Gerusalemme Liberata), rivisitato in forma drammatica. il risultato è una parodia lieve ed arguta, nella quale sapienti smontaggi e calibrate forzature, accompagnati da una ricca sperimentazione linguistica, producono gustosi effetti di straniamento, anche in direzione metaletteraria.
★ This little-known text, jointly penned by Alessandro Manzoni and Ermes Visconti, is a subtle intertextual play on the episode of Armida and rinaldo in the garden (canto XVi of Jerusalem Delivered), revisited in a dramatic form. The result is a light and witty parody in which sapient dismantlement and measured twisting of the plot, accompanied by a lively linguistic experimentation, produce amusing effects of estrangement, not least in a metaliterary direction.
Sono trascorsi giusto due secoli da quando Alessandro Manzoni ed Ermes Visconti realizzarono questo piccolo testo raffinato, che ci è giunto attraverso tre manoscritti, nessuno autografo: due conservati presso la Biblioteca Nazionale Braidense, l’altro nella Biblioteca Comunale di Mantova1. Si tratta di un’arguta parodia del XVi canto della Liberata2. in aper
Autore: università degli Studi di Milano; prof. associata di Letteratura italiana; cristina.zampese@unimi.it 1 Cito da Alessandro Manzoni, Tutte le poesie, a cura di Luca Danzi, Milano, Bur Classici, 2012; Torquato Tasso, Gerusalemme liberata, a cura di Franco Tomasi, Milano, Bur Classici, 2009 [abbrevio in GL]. i corsivi sono sempre miei, ad esclusione delle didascalie. 2 L’operetta ha suscitato un dibattito critico relativamente nutrito, in particolare grazie agli studi di Paolo Di Sacco, L’impossibile idillio. Tasso in Manzoni e Porta, «Studi tassiani», XXXiV (1986), pp. 83-99; Luca Badini Confalonieri, Un inedito Manzoni parodico, in Lo specchio che deforma: le immagini della parodia, a cura di Gior
cristina zampese272 tura assistiamo al malumore di rinaldo per il clima («Oh!… che caldo fa in questo paese!», 1) e soprattutto per il disagio provocato dalla noiosa solitudine delle sue giornate. i successivi dialoghi, prima con Armida e poi con ubaldo e Carlo, ribadiscono l’aspirazione del cavaliere a «un tantin di compagnia» (123, 131, 139, 147)3: un desiderio che lo porta ad accettare dai due inviati, dopo qualche perplessità, l’incarico di andare a «tagliare un bosco» (172), pur di lasciare il giardino della maga. La pièce si chiude sullo svenimento di Armida, incidente che non rallenta la partenza di rinaldo. il paratesto con il quale il componimento è giunto a noi, sia o meno d’autore, fornisce preziose indicazioni di lettura: si tratta, certo, di uno «scherzo di conversazione», ma abilmente strutturato in «dramma» e solo antifrasticamente «quasi improvvisato per celia», perché in realtà sapientemente costruito e ricco di suggestioni intertestuali non solo dall’intero poema tassiano, ma da altri autori, come Dante, Petrarca, il Galileo delle pungenti Considerazioni al Tasso, gli Arcadi, e in larga misura i librettisti per melodramma. Coerentemente con le intenzioni di poetica dello Scherzo, come vedremo, i due autori si accostano inoltre alle tendenze del teatro comico settecentesco, in prosa o per musica. La didascalia della prima scena non lascia dubbi sull’atteggiamento di rinaldo, colto «col ventaglio in mano». i versi che seguono, dopo la già citata lamentela sul caldo, rappresentano l’escursione di registro più bassa del dramma:
E quand’ho la camicia sudata non v’è alcun che me l’abbia cambiata: mi s’asciuga sul corpo il sudor. (4-6)
Tuttavia, essi hanno un aggancio tematico all’interno della stessa Liberata, nel passo in cui si descrive come Armida sia stata catturata dalla sua vittima, addormentata dalle sue arti magiche:
gio Bàrberi Squarotti, Torino, Tirrenia, 1988, pp. 217-232; Giorgio Bàrberi Squarotti, Il Tasso fatto eroicomico dal Manzoni, «Studi tassiani sorrentini», Viii (2001), pp. 7-32; Wanda De Nunzio Schilardi, Il canto XVI del Tasso: una ‘ambigua’ pagina critica di Manzoni, in Confini dell’Umanesimo letterario. Studi in onore di Francesco Tateo, a cura di Mauro De Nichilo, Grazia Distaso e Antonio iurilli, roma, roma nel rinascimento, 2003, vol. i, pp. 467-480; Matteo Palumbo, Manzoni lettore di Tasso, «Cahiers d’études romanes», n. s. Xiii (2005), pp. 85-95. Per brevità non indicherò di volta in volta i riferimenti agli studi che ho appena elencato, che si intendono sullo sfondo delle mie considerazioni. 3 il verso fa parte del ritornello «Ma un tantin di compagnia / mi farebbe un gran piacer» dell’aria che apre il secondo atto.
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«un bel gesolreutt». «il canto xvi del tasso» di manzoni e visconti 273
E quei ch’ivi sorgean vivi sudori accoglie lievemente in un suo velo, e con un dolce ventillar gli ardori gli va temprando de l’estivo cielo. (XiV 67)
il collegamento ci riporta dunque all’esterno del XVi canto, con un meccanismo frequente nello Scherzo, nel quale il ricorso a un ipotesto allargato ad altre zone del poema consente svariati effetti di straniamento, dai più immediati giochi linguistici a più complesse rivisitazioni tematiche. Prendiamo il caso del primo scambio di battute fra i due amanti:
A.: Che fai, bell’idol mio? R.: il solito, o mia stella: in questa parte e in quella vado portando il piè. E tu che fai, mio bene? Se la domanda è onesta. A. (accennando il casotto): Da quella parte a questa ho già portato il piè.
L’affermazione di rinaldo è congruente con il tono disimpegnato della conversazione, ed è allusiva a due luoghi tassiani: il divieto di «por orma o trar momento in altra parte» (XVi 26) e la raccomandazione «Ma come essa lasciando il caro amante / in altra parte il piede avrà rivolto / vuo’ ch’a lui vi scopriate» (XiV 77), rivolta da Pietro l’Eremita a Carlo e ubaldo. Se si osserva il ‘botta e risposta’ dal punto di vista sintattico-logico, ci si accorge che, mentre l’affermazione di rinaldo «vado portando il piè» è genericamente ragionevole, suggerendo un movimento iterato e indefinito, la risposta di Armida «ho già portato il piè» produce un effetto comico. Sono numerosi nel dramma i riusi lessicali, fino alla citazione letterale di interi versi, a volte segnalata nei manoscritti dalle virgolette: «l’imitatrice sua scherzando imiti» (34, da GL XVi 10); «se non quando è con te romito amante» (60, da XVi 26, con lievi varianti, mentre il verso precedente «a parlar colle belve e colle piante» riformula il tassiano «e tra le fère spazia e tra le piante», XVi 26); ma spesso lasciata alla memoria del lettore, come negli esempi che seguono:
R.: «Ma quest’estranio arnese? / Certo per nulla al fianco mio s’appese» (96-7), da GL XVi 20. in generale, il trasferimento delle descrizioni diegetiche alle battute dei personaggi, in assenza di un narratore ester
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cristina zampese274
no, produce effetti divertenti (un altro esempio: A.: «Ma cado tramortita, e mi diffondo / di gelato sudor», 252-253);
A.: «Scudiero o scudo / col petto ignudo/ ti coprirò.» / R.: «Non farem nulla: / un turco crudo, / bella fanciulla, / ti piglierà.» (226-227 e 230, da GL XVi 50: «Sarò qual più vorrai scudiero o scudo : [collo] ignudo : [barbaro sì] crudo»);
A.: «Vattene pur crudele, / vattene, iniquo, omai, / me ignudo spirto a tergo / eternamente avrai» (246-49), riduzione in cantabili settenari dell’invettiva di respiro epico: «Vattene pur, crudel, con quella pace / che lasci a me; vattene, iniquo, omai. / Me tosto ignudo spirto, ombra seguace / indivisibilmente a tergo avrai» (XVi 59).
un vero capolavoro di parodia, giocato sull’annominazione, è il verso 225: «Parla la bella donna, e par che dorma», risenta o meno – come è stato suggerito – del giudizio di Madame de Staël sul corrispettivo verso tassiano «Passa la bella donna, e par che dorma» (GL Xii 69), che «trop harmonieux, trop doux, glisse trop mollement sur l’âme» per rappresentare adeguatamente l’effetto prodotto dalla morte di Clorinda4. Andrà anche osservato che l’affermazione sentenziosa – divenuta offensiva – è pronunciata qui da rinaldo, non dal narratore; ed è ovviamente riferita all’ormai decaduta seduttrice. Analoghi interventi dissacranti avvengono in altre rielaborazioni, nelle quali il rimescolamento del dettato produce effetti di nonsense. il primo è il discorso sullo specchio, già prova virtuosistica del concettismo tassiano (GL XVi 20-22):
R.: […] Questo cristallo netto, che nell’argento vivo ripete l’oro fin della tua chioma, guardar non lo dovresti; ma guardarti ne’ specchi almi celesti. A.: No, mio fedel, favellami sul sodo. R. (a parte): Oh! quanto di parlare un poco io godo! A.: Se fosse proprio vero quel complimento che tu m’hai suonato, il venditor di specchi è rovinato. R.: Scusa se in geroglifico io favello, amabile fanciulla, per dire il vero, anch’io ne intendo nulla.
4 Si veda Alessandro Manzoni, Poesie e tragedie, a cura di Valter Boggione, Torino, unione Tipografico-Editrice Torinese, 2002, p. 486.
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«un bel gesolreutt». «il canto xvi del tasso» di manzoni e visconti 275 il volo d’ingegno, pigra emulazione del modello – in linea con l’indolenza del nuovo rinaldo – viene messo in discussione dall’inedita ingenuità di Armida e poi definitivamente affossato con la spudorata confessione finale. “Parlare in geroglifico” è formula famigliare per definire un discorso artatamente ermetico, ma nel caso specifico potrebbe essere anche un’allusione autoironica agli interessi storico-linguistici di Ermes Visconti, che a lungo attese a un trattato filosofico sull’origine del linguaggio5 e che avrebbe cercato e ottenuto contatti con Jean-François Champollion. il secondo caso è l’invettiva finale di Armida, nutrita in Tasso di una densa stratificazione intertestuale classica:
Né te Sofia produsse e non sei nato de l’azio sangue tu; te l’onda insana del mar produsse e ’l Caucaso gelato, e le mamme allattàr di tigre ircana. (XVi 57).
Sotto la penna dei nostri due autori la ricostruzione genealogica, saltellante nelle due quartine di quinari (il quarto e l’ottavo tronchi), perde il sia pur minimo senso, a dispetto di un convinto «la cosa è piana» (243):
Tu non sei nato in casa d’Este: nelle foreste ti fece il mar, allor che il Caucaso, la cosa è piana, coll’onda insana si maritò.
Anche in assenza di reminiscenze testuali, l’intreccio del dramma rielabora in modo estensivo la materia tassiana, per esempio facendo direttamente informare rinaldo dell’incarico di tagliar legna per ricostruire «una macchina stupenda», con il gustoso equivoco della degradazione del suo ruolo a buona schiena da fatica; mentre nella Liberata il cavaliere ormai redento ha da Goffredo notizia della selva incantata solo all’inizio del XViii canto. Conseguenza immediata, la
5 Matilde Baravelli, La vita e il pensiero di Ermes Visconti, Firenze, Le Monnier, 1943, p. 39; Ermes Visconti, Dalle lettere: un profilo, a cura di Sonia Casalini, Milano, Centro Nazionale Studi Manzoniani, 2004, pp. XXX-XXXiV, 97-101.
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cristina zampese276 momentanea resistenza di rinaldo, dettata da un risentimento aristocratico:
Carlo, ubaldo, voi tutti6, ospiti, amici, guerrieri, pellegrini, ditemi: al campo non vi son Trentini? Quando io venni a Gerosolima, mi diceva il Signor Padre: A fugar le ostili squadre io ti mando, o mio figliuol. Non mi disse: O mio figliuolo, io ti mando a spaccar legna.
il riferimento domestico all’autorità del «Signor Padre» – che sostituisce la seria esortazione di ubaldo, «o figlio di Bertoldo» (GL XVi 32) – concorre a delineare il quadro di una scarsa autodeterminazione del personaggio, che si inserisce in una generale svalutazione della missione crociata7: U.: «Siam mandati / dal pio Goffredo…» / R.: «Appunto, cosa fa?» / U.: «Ove tu lo lasciasti, ancora sta. / Seda sedizïoni col mostrarsi. / […]» […] U.: «Dirò. Venne un’arsura / che disseccò ogni fonte, ed ogni roggia.» R.: «Oh Dio! com’è finita?» / U.: «Colla pioggia. / il pio Goffredo la lasciò cadere / affrettandola un po’ colle preghiere.» (152-155; 158-162). La stessa «coppia […] rigida e costante» (GL XVi 17) riserva qualche divertente sorpresa al lettore ben attrezzato, che può per esempio apprezzare la risposta stizzita di Carlo: U.: «Ei viene, oh giubilo! / Che dici, o Carlo?» / C.: «Per me non parlo: / tu dei parlar.» (193-196). È la seconda e ultima battuta del personaggio, e anche la prima era stata telegrafica (149). Perché è così laconico? Forse perché scottato dai suoi precedenti poco felici nella Liberata: a XVi 38 fa una richiesta inopportuna, che viene respinta dalla Fortuna; a XV 49 ubaldo frustra un’altra sua iniziativa. Parla infine, ma brevemente, solo per consegnare a rinaldo la spada di Sveno (XVii 83-84). A giudizio di Armida, che bisticcia con rinaldo invidioso del trattamento riservato altrove al suo antenato ruggiero, il severo Goffredo
6 Come osservano i commentatori, l’appello oratorio a un pubblico decisamente plurale («voi tutti») è incongruo. 7 Argomento, come è noto, caro alla cerchia manzoniana, e non solo per il futuro poema di Grossi: «Delle crociate Visconti si era occupato in una serie di quattro articoli apparsi nel 1819 sulle pagine del “Conciliatore”», molto critici nei confronti della GL (E. Visconti, Dalle lettere: un profilo, cit., pp. LiX-LXX).
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«un bel gesolreutt». «il canto xvi del tasso» di manzoni e visconti 277 è il «re de’ galantuomini», che «sa conoscere il merito degli uomini» (81-82; il riferimento è al quinto canto del poema). L’effetto straniante qui è doppio: da un lato si mescolano, come cosa salda, le vicende fantastiche del Furioso e della Liberata (R.: «vedete che il trovato non è nuovo. […] Che invenzioni son queste? / Non si tratta così con Casa d’Este», 66; 71-72); dall’altro la maga pagana assume disinvoltamente il punto di vista dell’autore cristiano, e anzi ne ostenta la complicità nelle «cento altre cose» (84) che la occupano:
Solo al Tasso io le rivelo, al mio fido consigliere: quello è un uom che sa tacere e a nessuno le dirà. (86-89)
L’intrusione metaletteraria fa il paio con un’analoga menzione da parte di rinaldo, quando afferma
[…] È tempo alfine ch’io parli, e tu m’ascolti, e se finora fui di poche parole… basta: so quel che dico, la colpa non fu mia, ma d’un amico. (51-55).
Questo procedimento porta a oltranza un meccanismo già frequente nel travestimento milanese di Domenico Balestrieri, che «consiste nella vistosa intrusione del traduttore nel tessuto del poema, sotto forma di riferimento ora alla propria persona […], ora al Tasso stesso8» (un esempio dal canto XVi: «E anch ch’el le diga el Tass, mi el stanti a cred», 24)9. Ancora più sottile è lo scarto fra la seguente domanda di rinaldo, dettata dal clima salottiero della conversazione (già di per sé stridente con il contenuto) e la risposta di ubaldo, che frantuma la quarta parete del dramma: «E il solitario Piero / comandava gli eserciti frattanto?» /«Credo non combattessimo in quel canto.» (163-165). Lo humour dei due amici milanesi non poteva lasciar cadere lo spunto manieristico capace di tramutare in un attimo l’infelice Armida in una primadonna del bel canto (202-214):
8 Michele Mari, Momenti della traduzione fra Settecento e Ottocento, Milano, istituto Propaganda libraria, 1994, pp. 79-80. 9 Cito da Domenico Balestrieri, La Gerusalemme liberata, in id., Opere, Milano, Pirrotta, 1816, iii, p. 366.
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cristina zampese278
Qual musico gentil, prima che chiara altamente la voce al canto snodi, a l’armonia gli animi altrui prepara con dolci ricercate in bassi modi, così costei, che ne la doglia amara già tutte non oblia l’arti e le frodi, fa di sospir breve concento in prima per dispor l’alma in cui le voci imprima.
Poi cominciò: – Non aspettar ch’io preghi, […] GL XVi 43-44
A.: il musico gentile pria che la lingua snodi, susurra in bassi modi, un bel gesolreutt. Tal l’infelice Armida or che pregarti deve forma un concento breve per prepararti il cor. Attenti miei signori, ed incomincio. Non aspettar… R.: Signora, altro non chiedo. Me ne andava. A.: Ch’io preghi, volea dire. Deh! non m’interrompete almen l’esordio: è la metà dell’opra un buon primordio. L’inizio della terza scena è una ripresa centonaria di XVi 43, ma c’è subito un ammiccamento parodico, perché il «musico gentile» della comparazione non snoda «la voce», come nella corrispettiva ottava del poema, bensì «la lingua», come fa l’uccello parlante dell’ottava 1310, non a caso evocato scherzosamente un attimo prima: U.: «Se qualcuno ci scopre…» R.: «Eh! che non v’è nessuno… / se per caso non fosse il papagallo.» / U.: «Ecco Armida che viene.» R.: «Or siamo in ballo.». Nel loro intento irriverente, i due scrittori sostituiscono poi il tecnicismo rinascimentale ricercate con un altro – gesolreutt – dal suono aspro e bizzarro. Armida fa da sé: prepara la voce, apostrofa il pubblico e annuncia l’inizio della sua esibizione; e qui si innesta lo spassoso equivoco che porta rinaldo a interrompere frettolosamente il canto, suscitando la lagnanza della maga. il commento da metalibretto sembra debitore a Balestrieri:
Come on sopran che prima de dà foeura A bescantà su fort on’arietta, Con cert gorgh delicaa el par ch’el moeura, E el fà vegnì la vos d’ona scaretta; inscì costee che l’è de bona scoeula, Anch in mezz a l’affann e a la rabbietta, inanz che col descors la vegna a tir, La manda inanz l’esordi di sospir11.
10 Tasso lo introduce nel poema solo attraverso la perifrasi, benché parli delle «stanze del pappagallo» nella lettera a Scipione Gonzaga del 14 aprile 1576. Nello Scherzo manzoniano, invece, la presenza di «un papagallo / che nel periodar non fe’ mai fallo» viene annoverata da Armida fra le attrattive del suo giardino (39-40). 11 D. Balestrieri, La Gerusalemme liberata, cit., p. 371.
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«un bel gesolreutt». «il canto xvi del tasso» di manzoni e visconti 279 Come è ben noto, Manzoni e Visconti manifestarono nei confronti del dialetto milanese un profondo interesse12, che ha riscontro già in questa prova giocosa, in certe movenze sintattiche (per esempio nella conclusione spiccia degli ultimi due versi: R.: «sta pur lì fino a dimane / che per me già me ne vo», 261 (Balestrieri: «Mì voo, tì fermet», p. 374) contro «rimanti in pace, i’ vado», GL XVi 56; o in alcuni maliziosi calchi linguistici. Sempre nel frettoloso congedo, rinaldo rivolge ad Armida (tacita perché svenuta) una curiosa rimostranza: «Non mi dici: schiavo cane». La locuzione, come riconosciuto da alcuni commentatori, ricalca il milanese «Senza neanch dì Ciavo can», cioè “insalutato”, a norma di Cherubini13; ma non mi sembra sia stato osservato che l’arguzia consiste nell’ipercorrettismo del calco, che produce un effetto da traduttore automatico: Ciavo significa infatti “addio”, ma la voce (come il moderno ciao) «pare corrotta da Schiavo»14. Con maggiore cautela, proporrei di interpretare anche la minacciosa previsione, già parzialmente citata: «un turco crudo, / bella fanciulla, / ti piglierà. / E ti dirà: / Signore scudo, / signor scudiere, / venga al quartiere / di Mustafà» (230-237) come allusione all’espressione idiomatica milanese Mostafà o Brutto Mostafà15 nel senso di “brutto ceffo”, combinata con l’ambiguità semantica di quartiere, “alloggiamento militare” o “appartamento privato”. un altro campo di interesse comune ai due amici e alla loro cerchia è la musica16. Viene sempre sottolineato l’intento parodico dello Scherzo nei confronti del melodramma, che si realizza attraverso la ripresa di clichés linguistici (è dessa; bell’idol mio) e soprattutto di impronte
12 Dante isella, I Lombardi in rivolta. Da Carlo Maria Maggi a Carlo Emilio Gadda, Torino, Einaudi, 19842, pp. 182-183. 13 Francesco Cherubini, Vocabolario milanese-italiano, Milano, dall’imperial regia Stamperia, 1839, s.v. Càn. 14 Ivi, voce Ciàvo. 15 Ivi, ad v., con il significato di “Mostacciaccio”. 16 «un Borsieri, un Pellico, un Visconti spostano sulla scena – tra attori, coreografi, compositori – le loro proposte teoriche, le loro discussioni polemiche, lo stesso dibattito tra classici e romantici». (Luciano Bottoni, Il teatro del «Conciliatore». Antecedenti e retroscena, in Idee e figure del «Conciliatore», a cura di Gennaro Barbarisi e Alberto Cadioli, Milano, Cisalpino, 2004, pp. 325-342, a p. 325). La Proposizione ai Critici per una sincera difesa dell’Opera Seria, uscita anonima sul n. 21 del foglio azzurro, ma ora riconosciuta a Pietro Borsieri, concentra nei «toni di una garbata, e a tratti paradossale, arguzia settecentesca» (William Spaggiari, Due schede romantiche, in id., «In mezzo a’ lumi de’ Gonzaghi heroi». Note e ricerche di letteratura moderna, Catanzaro, Pullano, 1993, pp. 76-94, a p. 87) una decisa insofferenza verso la maniera metastasiana.
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cristina zampese280 metrico-ritmiche, e che si manifesta anche in altri scritti (lettere di entrambi, poesie ‘rifiutate’ di Manzoni). Ma il tessuto lessicale di questo breve testo, come accennavo all’inizio, è anche sorprendentemente ricco di espressioni colloquiali (camicia sudata; casotto; dall’otto del mattino all’otto / della sera; è troppo giusto; non me ne importa un corno; sul sodo; siamo in ballo) e tecniche (periodare, contingente, proposta in forma, geroglifico, gesolreutt; venditor di specchi, argento vivo [l’impasto al mercurio sul retro dello specchio], cacciator senza fucile / giardinier senza badile; inventor di macchine), nella direzione di una disinvolta varietà che lo accosta alla modernità dell’opera comica (Goldoni, Da Ponte)17. Felice assaggio di una appassionata ricerca linguistica, destinata a portare lontano.
Cristina Zampese università di Milano
17 Anche come librettista, «Goldoni diede vita a un codice molto caratterizzato, che, passando per figure di grande spicco come Lorenzo da Ponte, restò vivo a lungo: una lingua che accoglie largamente forme, costrutti, parole, espressioni dell’uso corrente, pratico, popolare, regionale, settoriale». (ilaria Bonomi e Edoardo Buroni, La lingua dell’opera lirica, Bologna, il Mulino, 2017, p. 71).
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MAriO CiMiNi Lo strano caso della Figlia di iorio: Mila di Codra “bagascia” e “creatura di Cristo”
Sullo sfondo di un Abruzzo arcaico e senza tempo, l’azione drammatica della Figlia di Iorio di Gabriele D’Annunzio ruota intorno alla singolare figura di Mila di Codra, prostituta “campestre”, maga, ma anche, per certi versi, amante casta e creatura angelica. il saggio mira a mettere a fuoco le caratteristiche di questo ambivalente personaggio, insistendo in particolare sulle fonti letterarie e folcloriche di cui lo scrittore si servì nella sua costruzione.
★ To the backdrop of an archaic and timeless Abruzzo, the dramatic action of Gabriele D’Annunzio’s La figlia di iorio revolves around the singular personality of Mila di Codra, a “country” prostitute, a witch, but also, in a sense, a chaste lover and angel-like being. The essay aims to illustrate the nature of this ambivalent character, underscoring the literary and folk sources employed by the writer in creating it.
A prestar fede alle parole di Gabriele D’Annunzio, il personaggio di Mila di Codra, protagonista della tragedia del 1904, La figlia di Iorio, è il frutto di una quasi naturalistica osservazione della realtà. in una nota intervista rilasciata al giornalista Filippo Surico nel 1921, con l’obiettivo di smentire le solite critiche maligne di quanti lo accusavano di aver ripreso il soggetto dell’opera da un omonimo quadro del pittore Francesco Paolo Michetti, lo scrittore dichiara:
Michetti non mi ispirò, con la sua famosa tela, la tragedia. C’è un precedente. io ero col mio divino fratello Ciccio in un paesetto d’Abruzzo, chiamato Tocco Casauria, dove, appunto era nato il pittore dal magico pennello. Ebbene, tutti e due, d’improvviso, vedemmo irrompere nella piazzetta una donna urlante, scarmigliata, giovane e formosa, inseguita da una torma di mietitori imbestiati dal sole, dal vino e dalla lussuria. La scena ci impressionò vivamente: Michetti fermò l’attimo nella
Autore: università “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara; prof. associato di Letteratura italiana; m.cimini@unich.it
mario cimini282
sua tela ch’è un capolavoro: ed io rielaborai nel mio spirito, per anni, quanto avevo veduto su quella piazzetta: e infine scrissi la tragedia1.
in verità, persino chi ha minime nozioni del sistema mitopoietico dannunziano sa bene che in esso le suggestioni che promanano dalla realtà sono costantemente proiettate in un processo alchemico il cui ingrediente fondamentale è costituito da tanta letteratura. E, dunque, quella «donna urlante, scarmigliata, giovane e formosa, inseguita da una torma di mietitori imbestiati dal sole, dal vino e dalla lussuria» è solo una figura grezza, utile sì a far scattare una scintilla nella fantasia poietica ma che per diventare la Mila della tragedia avrebbe richiesto un articolato procedimento di costruzione assommando in sé una considerevole quantità di marche culturali (e non solo di natura esclusivamente letteraria). Già nell’incipit dell’opera, del resto, nonostante i particolari folclorici dell’ambientazione scenica – con una congerie di dettagli che mirano a ricreare veridicamente l’interno di una casa contadina e i riti pseudocristiani di una celebrazione nuziale – è presto sfatata qualsiasi tentazione naturalistica: Mila irrompe sulla scena, come la ragazza dell’episodio rievocato dallo scrittore, «in corsa, ansante di fatica e di spavento, coperta di polvere e di pruni, simile alla preda di caccia inseguita dalla muta»2. Tuttavia, presto assume una fisionomia miticoleggendaria incarnando – come scrive Barberi Squarotti – un primo «motivo tragico, che è quello della diversità, dell’estraneità alla comunità, di opposizione, anzi, a essa in quanto Mila è partecipe di un mondo diverso e di un modo di esistenza non compatibile rispetto a quello della cultura contadina»3. Mila è, appunto, la sconosciuta che, come un maleficio, giunge a compromettere la sacralità delle nozze tra il pastore Aligi e Vienda, ed è per questo respinta dalle altre donne della comunità (che non esiterebbero a darla in pasto agli infoiati mietitori che «fanno l’incanata»4); con l’eccezione delle innocenti sorelle di Ali
1 in Interviste a D’Annunzio (1895-1938), a cura di Gianni Oliva, Lanciano, Carabba, 2002, pp. 598-599. 2 Gabriele D’Annunzio, La figlia di Iorio, in id., Tutto il teatro, a cura di Giovanni Antonucci e Gianni Oliva, vol. i, roma, Newton Compton, 1995, p. 422 [d’ora in poi citata FDG]. 3 Giorgio Barberi Squarotti, I miti della Figlia di Iorio, in Gabriele D’Annunzio, La figlia di Iorio. 1904-2004, Pescara, Centro Nazionale di Studi Dannunziani, 2004, p. 15. 4 Si tratta di uno degli elementi folclorici più caratteristici in cui D’Annunzio combina la suggestione reale rievocata all’inizio nel pezzo di intervista con Filippo
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lo strano caso della figlia di iorio 283 gi, Favetta, Splendore e, in particolare, Ornella che subito vede in lei una «creatura di Cristo»5 da soccorrere amorevolmente (e a loro chiede aiuto chiamandole «Sorelle in Cristo»6). Non basta che ella, implorando pietà e protezione, parli un linguaggio cristiano: «Gente di Dio, – dice – salvatemi voi! / […] Mi vogliono prendere, me / creatura di Cristo, me / sventurata che male non feci. / […] Sono un’anima battezzata. / Aiuto, per Santo Giovanni, / per Maria dei Sette Dolori / per l’anima mia, per l’anima vostra!»7. il progressivo accertamento della sua identità, però, accresce i motivi della sua diversità attraverso l’incrocio delle prospettive dei personaggi in scena che la qualificano come prostituta e maga. Per i mietitori, Mila, «la figlia di iorio», altro non è che una prostituta campestre, anzi, spregiativamente, una «bagascia di fratta e di bosco, / putta di fenile e di stabbio, […] / la svergognata che fece / da bandiera a tutte le biche»8 (ossia che si è data ad innumerevoli uomini sui covoni di grano). Per la Catalana, una delle donne che partecipano al rito nuziale, ella è inequivocabilmente strega e «magalda», affatturatrice di uomini e parricida: «Ti conosco, Mila di Codra. – le dice – Alle Farne t’han per flagello. / io ben ti conosco. Sei tu, / sei tu che facesti morire / Giovanna Camètra e il figliuolo / di Panfilo delle Marane, / e Afuso togliesti di senno, / e desti il male a Tillùra. / E di te morì anco il tuo padre, / che è in dannazione e ti danna!»9. La dimensione tragica della situazione ora viene approfondita proprio dallo scontro dei punti di vista; Mila nega recisamente di fronte alle accuse: «No, no, non è vero. Menzogna! – replica allo sproloquio ingiurioso del mietitore – Menzogna! Non gli credete, / non gli credete a quel cane. / È il maledetto suo vino / che gli fa regurgito in bocca»10.
Surico con l’attestazione contenuta negli Usi e costumi abruzzesi del demologo Antonio De Nino (Firenze, Barbera, 1881, vol. ii, p. 157) il quale così la definisce: «Per diritto consuetudinario, è permesso ai mietitori di dire quante più male parole vogliono a chi passa: lupa, scrofa, cornuto, e simile zizzania! E questo gridare, come farebbero i cani, si dicono incanate […]». un attento studio di questo fenomeno antropologico (anche nelle sue declinazioni letterarie, tra cui quella dannunziana) è offerto da Alfonso Maria Di Nola in L’incanata abruzzese. Parallelismi e interpretazione antropologica, «rivista abruzzese», XXX (1977), n. 3-4, pp. 102-114, XXXi (1978), n. 1, pp. 1-14; n. 2, pp. 57-69 e n. 3-4, pp. 129-136. 5 FDG, p. 424. 6 Ivi, p. 434. 7 Ivi, pp. 422-23. 8 Ivi, p. 427. 9 Ivi, p. 429. 10 Ivi, p. 427.
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mario cimini284 E alla Catalana: «il demonio è dietro di te, donna, / e hai la bocca nera di frode»11. Ella protesta la sua innocenza, si definisce «povera carne di doglia» ma «battezzata in Gesù»12, si dice guidata dal Signore, protetta dall’«Angelo muto» che ne custodisce l’anima. Siamo dunque di fronte – in linea con lo statuto autentico del genere tragico – non solo e non tanto ad un conflitto di destini, ma anche ad una sorta di kierkegaardiana “angoscia” con la messa in campo di un’immagine archetipica dell’esistenza come ambiguità e grumo di possibilità. Mila è pirandellianamente quello che di lei dicono i suoi detrattori e, nello stesso tempo, è la negazione di tutte le infamanti accuse che le vengono rivolte. il secondo atto della tragedia non fa che dilatare questa condizione di incertezza ed ambiguità. La ragazza si è rifugiata con Aligi in una caverna montana e, nonostante la sua fama di divoratrice di uomini, vive castamente con lui, contesa tra un sentimento d’amore puro e oscuri presagi sulla possibilità di realizzare il sogno di una vita felice. L’arrivo di Ornella, che le riferisce come l’abbandono della casa da parte di Aligi e la conseguente disperazione della madre, delle sorelle e di Vienda abbiano creato un insopportabile clima luttuoso (aggravato dalle cupe ossessioni del padre Lazaro), mette di nuovo Mila al cospetto di una scelta drammatica, che è poi una non-scelta, quella dello scomparire, dell’annullarsi, del non-essere. «in questa prospettiva, – commenta a tal proposito Barberi Squarotti – Mila è la figura per eccellenza tragica dell’opera dannunziana: quella appunto che sa scegliere la propria morte nel modo e nel tempo che ha deciso»13. L’atto terzo porterà alle estreme conseguenze l’assurdità di questa opzione. La catarsi tragica la vedrà accusarsi dell’assassinio di Lazaro (delitto compiuto dal figlio Aligi), rivendicando su di sé tutto il male che gli altri le attribuiscono e invocando la sua condanna al rogo: «Son figlia di mago. Non v’è / sortilegio ch’io non conosca, / ch’io non operi. […] / Voglio il castigo, e sia grande! / Per fare ruina, per rompere / vincoli distruggere gioie / prendere vite, in giorno di nozze / varcai quella soglia che è là, / del focolare mi feci / padrona e lo sconsacrai»14. Eroicamente si fa anche carico di raccontare l’amore di Aligi come frutto delle sue arti stregonesche – «io gli voltai la ragione / io gli voltai la memoria» – mistificando persino la purezza di quel
11 Ivi, p. 431. 12 Ibidem. 13 G. Barberi Squarotti, I miti della Figlia di Iorio, cit., p. 34. 14 FDG, pp. 478-479.
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lo strano caso della figlia di iorio 285 sentimento, impossibile da credersi per lei che è pur sempre prostituta nel profondo:
Non ti sovviene – dice all’uomo – che mai ci contaminammo, che monda presso il tuo giaciglio rimasi? E come, come (tu non pensasti) tanta purità, tanta temenza nella straniera malvagia che i mietitori di Norca avevan svergognata al conspetto della madre tua? Bene opravo, bene opravo con l’arte mia falsa.15
Merita dunque il supplizio estremo e l’esecrazione del popolo che può tornare a ingiuriarla al grido di «Magalda! Bagascia! Carogna!».16 il sacrificio di Mila sancisce la rimozione di un’anomalia, esorcizza la paura del diverso e ristabilisce l’ordine infranto all’interno della comunità, ma chiude anche circolarmente la storia di un personaggio che a tutti gli effetti è un capro espiatorio delle insanabili contraddizioni dell’esistenza su questa terra. L’aura mitico-leggendaria che avvolge tutto il dramma, lo spessore simbolico-rituale delle azioni, l’atemporalità stessa della vicenda (ben fissata già dalla iniziale didascalia «Nella terra d’Abruzzi, or è molt’anni») sono, però, tutti elementi che riconducono il plot narrativo ed i personaggi ad una dimensione archetipica in cui, come si diceva all’inizio, il codice letterario e culturale gioca un ruolo fondamentale. Giustamente sono stati evocati come modelli della tragedia drammi di Eschilo e di Sofocle (Edipo re, in particolare per il tema del parricidio)17, della tradizione pastorale cinquecentesca (in primo luogo, il Pastorfido di Giovan Battista Guarini in cui Corisca, «impurissima e malvagia / incantatrice»18, ha connotati che ben ricordano Mila19), fino alle contaminazione con tragedie quasi coeve come La lépreu
15 Ivi, p. 481. 16 Ivi, p. 477. 17 Cfr. G. Barberi Squarotti, I miti della Figlia di Iorio, cit. 18 Giovan Battista Guarini, Il pastorfido, a cura di Marziano Guglielminetti, Torino, uTET, 1971, p. 554. 19 Le relazioni tra la Figlia di Iorio e il Pastorfido sono state puntualmente analizzate da Carla Molinari (La tradizione pastorale, in G. D’Annunzio, La figlia di Iorio. 1904-2004, cit., pp. 151-162) la quale osserva: «È difficile, credo, pensare alla figura di Mila di Codra, per la fama sinistra di maga e bagascia che l’accompagna
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mario cimini286 se (1896) di Henry Bataille e La socière (1903) di Victorien Sardou (tangenze che rinfocolarono all’epoca delle prime rappresentazioni della Figlia di Iorio la nota polemica sui plagi dannunziani)20. Per non parlare della consistente letteratura critica sulle fonti folcloriche abruzzesi, capitolo densissimo di materiali che senza dubbio costituirono ingredienti basilari per la definizione di tanti dettagli dell’opera21. Nonostante l’insieme di questi accertamenti abbia contribuito a riportare la tragedia dannunziana nell’alveo di una tradizione letteraria di lunghissimo corso – e dunque a farne un classico che ha il suo punto di forza in una visione universalistica del destino umano attraverso la costruzione di personaggi e situazioni dallo spessore mitico – non mi sembra, tuttavia, che finora sia stato dato il dovuto risalto ad un altro fondamentale palinsesto culturale che pure affiora con insistenza, ed è quello biblico-cristologico22. Di certo, D’Annunzio non è scrit
sulla scena, cioè per come la chiamano gli altri personaggi, senza riconoscervi i connotati della Corisca guariniana»; analogamente, la tentata violenza di Lazaro nei confronti di Mila (atto ii) ricorda, nei modi e negli atteggiamenti dei personaggi, i «canoni comportamentali dei loro antenati cinquecenteschi, che sono poi quelli classici, assunti nelle pastorali e adoperati, pur con qualche variante, secondo un rituale stereotipo: il satiro coglie la ninfa in un luogo solitario […], ma prima di farle forza tenta di convincerla con profferte di doni e con la lode di sé e della propria agiata condizione […] (ivi, p. 154). 20 Su tale questione mi permetto di rinviare al mio saggio La figlia di Iorio: spunti metaletterari nel carteggio con Hérelle e nelle note autografe per l’edizione francese, in Mario Cimini, D’Annunzio, la Francia e la cultura europea, Lanciano, Carabba, 2016, pp. 125-140. 21 La figlia di Iorio è, in effetti, tramata di particolari ripresi dalle tradizioni popolari – prevalentemente abruzzesi, ma non solo – attraverso i citati Usi e costumi abruzzesi di Antonio De Nino e opere consimili di altri demologi (come le Tradizioni popolari abruzzesi di Gennaro Finamore). un esauriente quadro di tali fonti – per riconoscimento dello stesso D’Annunzio – era stato fornito già nel 1904 da rodolfo renier in un puntualissimo articolo, Per «La figlia di Iorio», pubblicato sul «Fanfulla della domenica» (3 luglio); ma sulla questione esiste una consistente letteratura critica, per cui cfr. almeno: Paolo Toschi, Le tradizioni popolari nell’opera di Gabriele D’Annunzio, in L’arte di Gabriele D’Annunzio, Atti del convegno internazionale di studi, Venezia – Gardone – Pescara, 7-13 ottobre 1963, Milano, Mondadori, 1968, pp. 575-578; Aldo rossi, «La figlia di Iorio» e il Tommaseo, in La figlia di Iorio, Atti del Vii convegno internazionale di studi dannunziani, Pescara 24-26 ottobre 1985, Pescara, Ediars, 1993, pp. 149-164. 22 Tra i tanti studiosi che si sono occupati della Figlia di Iorio, quasi nessuno – con l’eccezione di Barberi Squarotti (I miti della Figlia di Iorio, cit.) che tocca marginalmente il tema e di Gibellini che, invece, parla esplicitamente di un «modello culturale cristiano entro cui la tragedia gioca la sua partita archetipale» (Le altre Mile, in La figlia di Iorio, Atti del Vii convegno internazionale di studi dannunziani,
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lo strano caso della figlia di iorio 287 tore a cui si possono attribuire tendenze religiose, ma è innegabile che egli abbia fatto un uso estetico del cristianesimo (basti pensare alla filigrana francescana delle Laudi)23. Chiediamoci allora chi è obiettivamente Mila di Codra. È senza dubbio una reietta, all’inizio perché sconosciuta ed estranea alla comunità, poi perché identificata come strega e prostituta, e dunque esperta di arti magiche e di seduzione che generano ambivalenti sentimenti di attrazione e repulsione. Ma è anche un personaggio capace di altruismo, amore disinteressato, purezza, castità, sacrificio di sé. Ed è proprio nel sovrapporsi e contrapporsi di queste identità – supposte o reali che siano – che finisce per assumere i tratti di una figura Christi. il livello semiotico del testo è denso di segnali che ne orientano in tal senso la struttura semantica. Da subito, Mila si definisce, con richiamo alla sua innocenza, «creatura di Cristo» («Mi vogliono prendere, me / creatura di Cristo, me / sventurata che male non feci»24). Chiaramente allusivo è il fatto che sia la sola Ornella, sorella di Aligi, a riconoscerla come tale, assolvendo una funzione che richiama quella del Battista nei confronti di Gesù25 (non è un caso che i richiami a San Giovanni siano così frequenti, sia nelle invocazioni dei personaggi sia nell’ambientazione temporale del i atto che si svolge nel giorno del calendario cristiano a lui dedicato, ossia il 24 giugno): «Bevi, creatura
cit., p. 143) – fa riferimento a questa dimensione religiosa; stupisce il fatto di non trovarla sottolineata nel saggio di Emilio Mariano, Il primo autografo della «Figlia di Iorio» (in La figlia di Iorio, Atti del Vii convegno internazionale di studi dannunziani, cit., pp. 7-41), che pure offre una interessante lettura in chiave mitico- archetipica delle linee portanti dell’opera. 23 A tal proposito, Gibellini (Le altre Mile, cit., p. 145), rimarca come «il modello culturale cristiano, dopo la poderosa prova della Figlia di Iorio» lasciasse «segni nella fede di d’Annunzio», ovviamente «nella sua fede letteraria». E riferisce di una interessante scoperta nel mare magnum delle carte del Vittoriale, un abbozzo di testo che lascia chiaramente capire come lo scrittore progettasse una vera e propria tragedia “cristologica”: «una lunga prosa autografa conservata al Vittoriale, e tuttora inedita, reca per titolo I sacrifizii umani e la data del 1906: tra Mila e Fedra. una cinquantina di cartelle, le prime in scrittura distesa, le ultime in forma d’appunti: queste adunano dati, diremmo, antropologico-religiosi tolti dalla Bibbia (i precetti dei Leviti, i dettagli delle norme sacrificali: non si consumi il grasso né il sangue delle vittime…). Ma la parte distesa svolge una narrazione che investe l’agnello di Dio». 24 FDG, p. 423 (atto i, scena V). 25 A parlare di Ornella come «figura autenticamente cristiana», espressione di «una religiosità autentica di fronte a quella superstiziosa del mondo ov’essa vive» è anche Ettore Paratore in La figura di Ornella (in La figlia di Iorio, Atti del Vii convegno internazionale di studi dannunziani, cit., p. 263).
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mario cimini288 di Cristo»26, le dice per alleviarle l’arsura e l’ansia provocatele dalla persecuzione dei mietitori. Lo stilema è significativamente replicato nel ii atto, scena iV, durante il colloquio tra Mila e Ornella che usa le stesse parole: «Ah, creatura di Cristo, / a questa pena non reggo. / Che posso io fare per te?»27. Altrettanto emblematicamente Mila riconosce in Ornella la «passeggiera» e la «viatrice di Cristo» a cui è necessario baciare «i piedi umilmente»28. Anche Aligi, dopo un iniziale disorientamento, finisce per riconoscerla come «sorella in Cristo»29 e invita le sorelle “biologiche” a confortarla e a compiere nei suoi confronti un atto d’umiltà denso di valenze mitico-religiose: «E quella che patì l’onta e l’ambascia / consolatela voi. Datele a bere, / toglietele la polvere, con l’acqua / e con l’aceto i suoi poveri piedi / confortate, che forse le dorranno»30. È tuttavia il livello simbolico a far registrare una progressiva convergenza di segni cristologici sulla protagonista del dramma. il suo rifugiarsi sulla montagna insieme ad Aligi (sempre fratello più che amante), nel secondo atto, rimanda al ritiro di Gesù sul monte degli ulivi; e in questo frangente le sue parole si intridono di biblica eloquenza preconizzando il compiersi dei tempi: Affretta, affretta, – dice ad Aligi – ché il tempo sen viene […]. in verità, in verità ti parlo, o fratel mio, caro della sorella, quant’è vero che non commisi fallo con te ma stetti accesa come un cero dinanzi alla tua fede e fui lucente d’amore immacolato al tuo conspetto. […] Venuta è l’ora della dipartita per la figlia di iorio. E così sia.31
il fatto poi che Mila sia insultata e perseguitata per colpe che sono frutto di dicerie la proietta idealmente nell’olimpo delle beatitudini cristiane, secondo uno dei precetti fondamentali del Discorso della montagna di Cristo: «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi» (Matteo, 5,1-12). È tuttavia l’epilogo della vicenda che sancisce la perfetta equipara
26 FDG, p. 424. 27 Ivi, p. 454. 28 Ivi, p. 451 (atto ii, scena iV). 29 Ivi, p. 435 (atto i, scena V). 30 Ivi, p. 434. 31 Ivi, pp. 440-441 (atto ii, scena ii).
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lo strano caso della figlia di iorio 289 zione del personaggio tragico con la figura di Cristo. Mila che si fa carico di colpe non commesse per salvare gli altri, che va coscientemente incontro al martirio in solitudine – essendo rinnegata persino da chi, come Aligi, in lei ha creduto (ed opportunamente Barberi Squarotti osserva che questo ripudio «s’ha da leggere come omologo di quello di Pietro che rinnega Gesù»32) – diventa, al di là di ogni ragionevole dubbio o possibili suggestioni estemporanee, agnello sacrificale, emblema di una totale imitatio Christi. resta da chiedersi allora, per chiudere il cerchio di queste considerazioni, quale possa essere il valore da attribuire alla connotazione del personaggio come maga e soprattutto prostituta. Si tratta, indubbiamente, di una caratterizzazione che, come si diceva, palesa molti debiti nei confronti della tradizione letteraria antica e recente (gli estremi possono essere rappresentati da un lato dalla Circe omerica e, dall’altro, da certi personaggi del romanzo e del dramma borghese del secondo Ottocento). Ma Mila «non è il personaggio della prostituta che si redime, secondo il modello tipicamente ottocentesco della dame aux camélias»33; anzi, non ha nulla di cui pentirsi perché è nel profondo innocente. E dunque, per comprendere il significato di una simile caratterizzazione è nuovamente necessario mettere da parte qualsiasi tentazione realistica e fare appello alla chiave simbolica. in altri termini, i supposti facili costumi di Mila non sono che un ulteriore contrassegno della sua diversità, un marchio di infamia che accresce la sua aura eslege, il suo essere pietra dello scandalo. rientra come tale in una casistica cristologica che esalta la categoria dello scandalo come elemento centrale della paradossale condizione cristiana; per San Paolo, Cristo è «scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani», incarna cioè una serie di contraddizioni – essere nello stesso tempo dio e uomo, un sovrano e l’ultimo degli uomini, un semplice in conflitto con l’ordine costituito (sono queste le tre forme dello “scandalo di Cristo” secondo Kierkegaard34) – difficili da accettare in base ai principi della logica comune. Anche Mila è un insieme di contraddizioni – che poi fondano le ragioni stesse della sua dimensione tragica – e quindi, scandalosamente, lei può essere «bagascia» e «creatura di Cristo», e in
32 G. B. Squarotti, I miti della Figlia di Iorio, cit., p. 40. 33 Ivi, p. 32. Di diverso avviso è invece ivan Pupo che nel saggio Un uomo d’ingegno e una donna di cuore. Ipotesi sul repertorio di Marta Abba («Angelo di fuoco», (2002), n. 2, p. 72) parla di Mila come di una figura emblematica di prostituta redenta. 34 Cfr., per esempio, Søren Kierkegaard, Esercizio del cristianesimo, roma, Editrice Studium, 1971.
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mario cimini290 ciò rappresentare un synolon impossibile da accettare per la farisaica mentalità della comunità. Siamo giunti, in definitiva, all’identificazione di un archetipo di natura mitico-religiosa. Non è escluso, tuttavia, che verso questa immagine confluisca anche qualche suggestione di carattere mitico-antropologico attinta da quel poderoso serbatoio di tradizioni e riti popolari che costituiscono un indubbio e riconosciuto retroterra culturale della Figlia di Iorio. La fantasia poietica dannunziana è notoriamente prensile, capace di combinare elementi disparati secondo logiche imprevedibili, di “inventare” immagini e situazioni risemantizzando il noto35 (non per altro lo scrittore amava presentarsi come “l’imaginifico”). Esiste in alcuni paesi d’Abruzzo – in particolare a rapino, in provincia di Chieti – una tradizione popolare, ormai evanescente (e non sappiamo dire fino a che punto solida a fine Ottocento, quando lo scrittore visitava questi luoghi), che tramanda di una “sacra prostituzione”, rituale pagano che sarebbe attestato in un santuario pagano di epoca italica alle pendici della Maiella. Secondo questa pratica antica – assai discussa in verità in sede scientifica, nonostante testimonianze in merito si trovino in storici antichi come Erodoto e Strabone, ed anche nell’Antico testamento36 – fanciulle consacrate ad una divinità offrivano il loro corpo al fine di raccogliere fondi per sostenere un tempio o per altri scopi religiosi. Ora, per alcuni storici locali37, tale ritualità antica sarebbe sopravvissuta in forme sincretiche in epoca cristiana e sino ai nostri giorni, come nella singolare processione “delle verginelle” di rapino, che si tiene in occasione dei festeggiamenti in onore della Madonna del Carpino (8 maggio), e in cui sfilano le bambine del paese agghindate con abiti ed acconciature dall’indubbio valore simbolico. Per la circostanza, le fanciulle distribuiscono pagnottelle ricevendone in cambio somme di denaro che vengono devolute alla chiesa. È ora arduo sottrarsi alla suggestione di vedere nel rito cristiano una permanenza dell’antico38, per quanto bisogna sempre guardarsi
35 Per questi aspetti della personalità intellettuale di D’Annunzio è d’obbligo il rimando a Gianni Oliva, D’Annunzio e la poetica dell’invenzione, Milano, Mursia, 1992 (cfr. in particolare il capitolo L’invenzione dei luoghi nella «Figlia di Iorio», pp. 80-92). 36 Cfr. Stephanie Budin, The myth of sacred prostitution in antiquity, New YorkCambridge, Cambridge university Press, 2008; ed anche Cristiano Panzetti, La prostituzione sacra nell’Italia antica, imola, Angelini, 2006. 37 Cfr. Maria Concetta Nicolai, Signore della Montagna. La femminilità consacrata sulla Maiella, in Sassi e templi. Il luogo antropologico tra cultura e ambiente, a cura di Lucilla rami Ceci, roma, Armando Editore, 2003, pp. 393-399. 38 «A nessuno sfugge il sincretismo – scrive la Nicolai (ivi, p. 398) – che perva
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lo strano caso della figlia di iorio 291 dal facile comparativismo. Ma il punto è un altro. Quante probabilità ci sono che D’Annunzio nel costruire il suo personaggio tragico e nel farne una figura di “casta prostituta” abbia attinto anche da questa tradizione popolare? Difficile dirlo. Sta di fatto che lo scrittore aveva visitato già dal 1887 la zona di rapino e della limitrofa Guardiagrele (sfondo ambientale poi della prima parte del Trionfo della morte) insieme al solito Michetti39; quest’ultimo era tornato nel paese a più riprese fotografando la processione delle “verginelle” e utilizzando alcuni particolari del rito religioso per la realizzazione della grande tela Le serpi (presentata nel 1900 all’Esposizione di Parigi). Dunque, è lecito pensare che D’Annunzio, direttamente o indirettamente, avesse potuto aver avuto notizia di quella usanza religiosa e del suo significato recondito. Ovviamente, per l’insieme delle cose che abbiamo detto fin qui, non si tratta di un dettaglio naturalistico, ma di un elemento che va riportato alla sostanza mitica ed archetipica delle forze che innervano il dramma: «Tutto è nuovo in questa tragedia e tutto è semplice: – scrive D’Annunzio a Michetti il 29 luglio 1903, appena conclusa l’opera – tutto è violento e tutto è pacato nel tempo medesimo. L’uomo primitivo, nella natura immutabile, parla il linguaggio delle passioni elementari. […] La sostanza di queste figure è l’eterna sostanza umana: quella di oggi, quella di duemila anni fa»40. Nessuna meraviglia, quindi, che una ragazza come Mila possa essere nello stesso tempo prostituta e santa.
Mario Cimini università di Chieti-Pescara
de questa festa e la sopravvivenza degli aspetti antichi nelle espressioni attuali». Del resto, in un contesto mitico-archetipico – come scrive autorevolmente Mircea Eliade (Trattato di storia delle religioni, [1948], Torino, Boringhieri, 1976, p. 254) – non esistono «soluzioni di continuità dalla preistoria ai giorni nostri». 39 Ne scrive, per esempio, in una lettera del 15 giugno 1887 a Barbara Leoni (Lettere a Barbara Leoni (1887-1892), a cura di Vito Salierno, Lanciano, Carabba, 2008, p. 71): «Jeri mattina partimmo a cavallo per Guardiagrele, dov’è una Santa Maria Maggiore, antico duomo gotico, tutto coperto di fiori marmorei e di fiori vivi. Di là per rapino, il paese delle majoliche, e per Fara Cipollara, il paese tutto canoro d’acque e di uccelli. Le montagne ci seguivano variando; e la gran madre Majella ci proteggeva della sua ombra solenne, al fondo tutt’azzurra e dorata». Più o meno negli stessi termini D’Annunzio riferisce della gita ad Olga Ossani (lettera del 16 giugno 1887, in Guglielmo Gatti, Lettere di Gabriele d’Annunzio a Febea e a Luigi Lodi, «L’Osservatore politico-letterario», Viii (1962), n. 7, pp. 55-82). 40 in Franco Di Tizio, D’Annunzio e Michetti. La verità sui loro rapporti, Pescara, ianieri Editore, 2002, p. 293.
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rOBErTO GiGLiuCCi Pirandello e Josiah Royce
il saggio pone a confronto il pensiero del filosofo americano Josiah royce, citato espressamente da Pirandello nei suoi scritti, con alcuni aspetti della visione della realtà pirandelliana. Ne emergono suggestioni possibili o probabili e qualche certezza, che si aggiunge al quadro complessivo della ricostruzione della “biblioteca” del nostro.
★ This essay compares the thinking of the American philosopher Josiah royce, expressly mentioned by Pirandello in his writings, with various aspects of Pirandello’s view of the world. Possible and probable suggestions emerge, as well as a few certainties that go some way to enriching the overall picture of Pirandello’s library.
C’è un nodo centrale, a nostro parere,1 nella poetica filosofica di Pirandello, quello del “pensiero produttivo”, o “pensiero attivo”, per cui l’intenzione occasionale che, rendendosi inevitabilmente ossessiva o solo momentanea, ma quasi conficcata nella mente a mo’ di clavus crucis, crea realtà, produce evento – è essa stessa fatto. Quando parliamo di “pensiero produttivo” in Pirandello non ci riferiamo assolutamente alla teoria psicologica gestaltica di Wertheimer,2 né alle elaborazioni del concetto più o meno scientifico di “legge dell’attrazione” oggi così di moda. il nodo su cui vogliamo invitare a riflettere è il seguente: si può ritenere che in Pirandello il pensiero, massime quando ossessivo, ma anche quando improvviso, guizzante e penetrante, sia esso stesso un fatto, o meglio produca un evento a prescindere dalla volontà del soggetto pensante?
Autore: Sapienza univ. di roma; professore associato; roberto. gigliucci@uniroma1.it 1 Chiedo venia se riassumo preliminarmente quanto già espresso nell’introd. alla mia edizione dell’Innesto pirandelliano (roma, Lithos, 2017, pp. 27-29) e in Pirandello, Milano, rCS, 2017, pp. 69 sgg. («Grandangolo Letteratura», n° 8). 2 Max Wertheimer, Productive Thinking, New York, Harper & Bros., 1945.
RobeRto GiGliucci294 il modello interpretativo in questione è stato soprattutto applicato alla intelligenza creativa (apud Séailles ecc.),3 cioè alla capacità di produrre pensieri creativi plastici, personaggi, oggetti, situazioni, e su questo gli studi sono numerosi, da Macchia a Vicentini, Barbina ecc. Ma è possibile ritenere che questo pattern modernistico e geniale sia in realtà una metafora dell’effettivo comportamento della mente negli uomini in rapporto al reale? Si tratterebbe forse di una traslazione di un modo patologico o artistico in un modo universalmente umano? Pensiamo a una moglie che accusa ossessivamente il marito di infedeltà. Questa infedeltà è solo pensiero o ha la forza di produrre una realtà? O comunque un sentimento di realtà nel marito? Come un effet du réel psichico? Ancora, pensiamo alla stessa moglie che concepisce un incesto fra il marito e la figlia. Sembra una follia, ma può essere alla fine produttiva di una realtà o di un senso di realtà – che è lo stesso, in Pirandello? Sono evidenti i riferimenti personali alla vita coniugale del nostro, e chiediamo venia se utilizziamo il dato biografico per interferire in quello esegetico. Ma torniamo al primo capolavoro narrativo dell’autore, L’esclusa. Non abbiamo qui un pensiero irrealizzato, espresso attraverso un carteggio innocente (ma forse no?), che provoca una catastrofe e infine getta la protagonista proprio fra le braccia dell’amante presunto? un paradosso, certo, che riecheggia la narrativa naturalista minandone le fondamenta. Ma un punto di partenza. il pensiero, come il fatto occasionale, è anch’esso un gancio da cui non ci si può più staccare. Dunque il pensiero, come il fatto, è produzione di realtà, anzi pensiero ed evento si sovrappongono malignamente nel flusso della vita anche agli occhi della società, deviata e strabica ma determinante perché il processo di cui parliamo si verifichi. il pensiero del passato, come quello del futuro, o un pensiero assolutamente presente, possono risultare eruttivi, incontenibili, e attraverso soprattutto la verbalizzazione inesausta producono esplosioni, come in Enrico IV o in Non si sa come. in tal modo, poi, strutturalmente, il pensiero-intenzione (innocente, ma forse no) che scatena la serie fat
3 Cfr., nella sterminata bibliografia in proposito, almeno renato Barilli, Pirandello. Una rivoluzione culturale, Milano, Mondadori, 2005, pp. 271-292. Fondamentale il contributo, a proposito di Pirandello traduttore di Séailles, di Alfredo Barbina, L’ombra e lo specchio. Pirandello e l’arte del tradurre, roma, Bulzoni, 1998, pp. 231-288; vd. ad es. il seguente passo dalla versione pirandelliana: «il sentimento, il desiderio, l’idea stessa non son più qualcosa d’astratto, ma si creano un corpo che essi animano e che li manifesta» (Ivi, p. 240).
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Pirandello e Josiah royce 295 tuale riconduce in genere al punto di partenza, crea cioè un circuito, come nel Fu Mattia Pascal, romanzo disperatamente e umoristicamente circolare. E su questo potremmo continuare. Ma c’è un filosofo, almeno fra quelli che Pirandello nomina di tanto in tanto, che predichi la “realtà” consustanziale di pensiero e “realtà”, appunto? Forse potrebbe trattarsi dell’americano neoidealista e insieme pragmatista (a modo suo) Josiah royce.4
La prima volta che Pirandello cita il nome di Josiah royce risulta trovarsi in un articolo della rivista «Marzocco» del 7 marzo 1897,5 in risposta a un pezzo apparso sulla medesima testata (28 febbraio 1897) di ugo Ojetti il quale a sua volta polemizzava con un lungo contributo di Domenico Gnoli apparso sulla «Nuova Antologia» (16 febbraio 1897, pp. 594-613). Vediamo di ricostruire rapidamente la discussione. il poeta, erudito, fiero Gnoli nel suo intervento Nazionalità e arte critica i tempi presenti,6 in cui non si coltiva più la lettura e l’appren
4 il concetto base di Mach, ovvero «il principio del perfetto parallelismo fra il fenomeno fisico ed il fenomeno psichico», è qualcosa di alquanto diverso da ciò che qui cerchiamo in royce rapportandoci a Pirandello (vd. Ernesto Mach, Analisi delle sensazioni. Traduzione sulla terza edizione tedesca di Antonio Vaccaro e Camillo Cessi, Torino, Bocca, 1903, p. 75). Questo non toglie che certe affermazioni machiane risultino sorprendentemente vicine al pensiero pirandelliano, soprattutto in merito alla natura plastica e mai statica dell’io: «Certamente anche l’io è una persistenza soltanto relativa. [ ] Difficilmente si può dare che si presentino maggiori varietà nell’io di individui diversi che non in un solo individuo nel corso della sua vita. [ ] L’io non è un’unità invariabilmente determinata con confini profondi e netti» (Ivi pp. 4, 28). L’impersistenza dell’io è esemplificata in una nota dal Mach con l’esempio incredibilmente pirandelliano dell’osservarsi in uno specchio: «una volta, da giovane, osservai il profilo di un volto che mi riuscì fortemente spiacevole, ributtante, e non poco mi spaventai come riconobbi non esser quel volto se non il mio, che io aveva percepito passando innanzi a due specchi fra loro inclinati in un magazzino di specchi. un’altra volta, di ritorno da un viaggio molto faticoso in ferrovia, di notte, essendo di molto stanco, salii in un omnibus, mentre dall’altra parte saliva un altro signore: “Che razza di maestro disperato è mai costui!”, dissi tra me: ed era proprio io, che mi riflettevo nello specchio posto di fronte a me nel fondo della vettura. Per me dunque era più comune la caratteristica di classe che non la mia fisionomia speciale» (Ivi, p. 5, n. 1). Sui sogni: «Anche il più bizzarro de’ nostri sogni è un fatto, come qualsiasi altro» (Ivi, p. 13, c.vo mio). 5 Ne parla Gösta Andersson, Arte e teoria. Studi sulla poetica del giovane Luigi Pirandello, Stockholm, Almqvist & Wiksell, 1966, pp. 125-128, ma senza nominare royce; vd. poi Claudio Vicentini, L’estetica di Pirandello, Milano, Mursia, 1980, pp. 35-36, 79. 6 Gnoli esibì una giovanilità provocatoria in età avanzata, pubblicando nel 1903 con lo pseudonimo di Giulio Orsini un libro di poesie spacciate per opera di
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RobeRto GiGliucci296 dimento dei classici italiani, da Dante a Manzoni; affermava che l’arte non è fondata sull’individualismo ma sulla nazionalità, quindi l’arte è popolare, ha un ufficio e un senso in seno alla collettività. Nell’età post-unitaria, dopo gli entusiasmi e gli spasmi del risorgimento, l’italia si è affannata ad aprire i propri confini alle letterature straniere, se ne è ubriacata e ha dimenticato il suo passato, prossimo e remoto. Si è persa l’italianità delle lettere, mentre il popolo restava italiano e quindi girava le spalle a un’arte non più degna di lui. Ma questo è un vicolo cieco. «il pubblico vuole arte nazionale» (p. 603), sentenzia Gnoli. Non c’è europeismo o cosmopolitismo che tenga, per il nostro, la nazionalità è un sentimento sincero e radicato, anche se – pare – non di moda in italia. in effetti Gnoli riconosce che nel «concerto europeo» le singole voci nazionali debbano risuonare, ma ciascuna con i suoi timbri propri. L’italia ha bisogno di ritrovarli, e lo può fare immergendosi «in un bagno di italianità», riagganciandosi alla vita nazionale, ritrovando il popolo, ritrovando l’equilibrio tra l’idealità e la realtà (pp. 612-613). La risposta di Ojetti esce poco più di dieci giorni dopo con un titolo provocatorio che ribalta quello di Gnoli: Individualismo e arte. Distingue popolo da pubblico, e in questo ha buon gioco, effettivamente. inoltre del dibattito fra lui e Gnoli fa una discussione generazionale, fra i nati prima del ’70 e quelli nati dopo. i più giovani, come sempre, devono subire e metabolizzare pesanti eredità. E comunque per Ojetti un pubblico per i nuovi letterati c’è, come c’è una vita letteraria in italia. Piuttosto, argomenta Ojetti, «L’italia non ha, intellettualmente parlando, una personalità nazionale». Se manca un’anima nazionale, se c’è una dispersione angosciosa nello spirito della penisola, i letterati non possono che registrare questa realtà nelle loro opere, non possono improvvisarsi artisti nazionali e popolari. L’artista deve essere sincero, e soprattutto, questa è l’estetica di Ojetti, deve guardare dentro se stesso: «L’arte non è nazionale, non può essere volutamente nazionale. L’arte è individuale». E aggiunge, ampliando di molto la portata gnoseologica del suo discorso, che «il mondo è la mia rappresentazione».
un “nuovo” poeta, che apriva con versi quali: «Giace anemica la Musa / sul giaciglio de’ vecchi metri: /a noi, giovani, apriamo i vetri, / rinnoviamo l’aria chiusa!» (citiamo dalla ristampa, con l’indicazione del vero autore, Poesie edite e inedite, Torino-roma, Società Tipografico-Editrice Nazionale, 1907, p. 9). Non si dimentichi che sempre a Gnoli penserà Pirandello quando inventerà il personaggio innominato *** di Quando si è qualcuno (cfr. Maschere nude, a cura di Alessandro D’Amico e Alessandro Tinterri, vol. iV, Milano, Mondadori, 2007, pp. 617-618).
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Pirandello e Josiah royce 297 Proprio qui si appunta il rilievo critico più importante di Pirandello nel suo saggio in replica a Ojetti, Sincerità e arte, citando le sue stesse parole:
«il mondo è la mia rappresentazione, e il mondo è una idealità. il mondo è la mia rappresentazione, e, rispetto all’uomo pensante, il mondo (e cioè tutto quel che è esteriore all’io) non esiste che secondo l’idea che uno se ne fa. io non vedo quello che è; ma quello che vedo, è». – O non è, mio caro ugo, poiché tu puoi veder male. Che le esistenze oltre alla nostra sieno quasi apparenze senza realtà all’infuori dell’io, lo pretendono i partigiani di un idealismo che gl’inglesi chiamano solipsismo; e tu sai che non è concetto nuovo: gli han dato forma fantastica gli scrittori inglesi seguaci della filosofia del Berkeley. E tu conoscerai il Through the Looking Glass. Pretendi, caro ugo, che io, poniamo, fuori del tuo io non sia se non come tu mi vedi? Vuol dire, che la tua coscienza è unilaterale, che tu non hai coscienza di me, che tu non mi realizzi in te, per usare un’espressione di iosiah royce, con una rappresentazione vivente per me. E dev’essere così. E qui, per tornare all’arte, è il vero punto della nostra divergenza. Per me il mondo non è solo un’idealità, non è cioè limitato all’idea ch’io posso farmene: fuori di me, il mondo esiste per sé e con me; e nella mia rappresentazione io debbo propormi di realizzarlo quanto più mi sarà possibile, facendomene quasi una coscienza, in cui esso viva, in me come in sé stesso; vedendolo com’esso si vede, sentendolo com’esso si sente. E allora più nulla di simbolico e di apparente per me: tutto sarà reale e vivente. E non farò pensare, sentire, parlare, gestire tutti gli uomini a un modo, cioè a modo mio, come fanno gli scrittori che tu, secondo me, hai il torto di prediligere;7 ma a ciascuno m’ingegnerò di dar la sua voce, e a ogni cosa il suo aspetto e il suo colore: la sua vita, insomma non la mia maniera, lo stile attemprando al soggetto, guardando senza gli occhiali del pregiudizio, domando l’ingegno con l’esperienza.
Parole molto simili sono riproposte nel saggio Illustratori, attori e traduttori ospitato dal grande libro Arte e scienza del 1908. Si legga:
7 un po’ sopra aveva scritto: «Se poi il letterato italiano anziché proporsi di mettersi a fare un romanzo alla maniera del Tolstoi o del Dostojewsky, alla maniera dello Zola o del Bourget, o una poesia alla maniera del Verlaine; o un dramma alla maniera dell’ibsen, ecc.; si proponesse di mettersi a fare un po’ d’arte italiana, non mi sembrerebbe in vero tanto ridicolo». Anche qui si sente risonare soprattutto l’avversione per D’Annunzio, celebrato invece da Ojetti. il quale peraltro citava nel suo articolo numerosissimi letterati, fra cui De Amicis, Fogazzaro, rovetta, Mantegazza, Serao, Verga, Pascoli, Annie Vivanti, Ada Negri, Oriani, Fucini, Giacosa e altri.
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Consiste appunto in questo la somma difficoltà della critica. Bisogna innanzi tutto non presumere che gli altri, fuori del nostro io, non siano se non come noi li vediamo. Se così presumiamo, vuol dire che abbiamo una coscienza unilaterale; che non abbiamo coscienza degli altri; che non realizziamo gli altri in noi, per usare un’espressione di Josiah royce, con una rappresentazione vivente e per gli altri e per noi. il mondo non è limitato all’idea che possiamo farcene: fuori di noi il mondo esiste per sé e con noi; e nella nostra rappresentazione dunque dobbiamo proporci di realizzarlo quanto più ci sarà possibile, facendocene una coscienza in cui esso viva, in noi come in se stesso; vedendolo com’esso si vede, sentendolo com’esso si sente.8
il 18 aprile 1809, sul «Marzocco» (XiV, 16),9 Pirandello pubblicava la novella Stefano Giogli, uno e due, poi non inclusa nel sistema delle Novelle per un anno. Qui la parafrasi royciana veniva replicata, se pure in un contesto umoristico, come discorso ipotetico del protagonista alla moglie:
– Cara, non bisogna presumere che gli altri, fuori del nostro io, non siano se non come noi li vediamo. Chi così presume, Lucietta mia, ha una coscienza unilaterale; non ha coscienza degli altri; non effettua gli altri in sé con una rappresentazione vivente e per gli altri e per sé. il mondo, cara, non è limitato all’idea che possiamo farcene: fuori di noi il mondo esiste per sé10 e con noi; e nella nostra rappresentazione dunque dobbiamo proporci di effettuarlo quanto più ci sarà possibile, facendocene una coscienza in cui esso viva in noi come in sé stesso, vedendolo com’esso si vede, sentendolo com’esso si sente.
8 Saggi e interventi, a cura di Ferdinando Taviani, Milano, Mondadori, 2006 (d’ora in poi: SI), p. 654. il nucleo di pensiero espresso da Pirandello nel ’97 e nell’08 viene spesso ripreso dallo scrittore, nelle novelle e nei romanzi: vd. C, Vicentini, L’estetica di Pirandello, cit., pp. 35-40 (senza però mai coinvolgere il pensiero di royce). 9 Da cui citiamo direttamente. 10 Senza accento nell’edizione a cura di Mario Costanzo, Novelle per un anno, Milano, Mondadori, 1990, iii, 2, p. 1123. Si tratta evidentemente di un adeguamento all’uso oggi corrente (ancorché contestato da voci autorevoli), giacché comunque Costanzo seguiva il testo dell’edizione in rivista (cfr. p. 1466). Stefano Giogli è esperto di «scienza psicofisiologica» ed è ben consapevole dei «giochetti dello spirito che, non potendo uscire fuori di sé, pone come realtà esteriori le sue interne illusioni». La moglie, che si costruisce una propria unilaterale immagine di lui, che ha arredato il villino dove essi vivono come «una scatola di cartone messa su per ischerzo» dove «solo un matto avrebbe potuto raccapezzarcisi», si chiama Lucietta Frenzi. L’onomastica pirandelliana è spesso parlante: Lucietta fa pensare ad Antonietta (ed anche alla figlia Lietta, come Stefano è il nome del primogenito) e Frenzi è italianizzazione dell’inglese frenzy, cioè follia, attacco di pazzia furiosa.
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Pirandello e Josiah royce 299 Come si può vedere, l’argomentazione e il linguaggio filosofico è il medesimo delle precedenti citazioni, in cui il nome di royce veniva direttamente evocato. Soltanto il verbo realizzare viene sostituito da effettuare. Per il resto la condanna della «coscienza unilaterale» permane solida, ed è inutile enfatizzare quanto essa si riverberi per tutta l’opera del nostro.
Orientandoci nel pensiero del californiano Josiah royce, possiamo quindi ipotizzare11 un vivo interesse da parte di Pirandello per il filosofo neoidealista,12 credente ma fortemente impostato pragmatisticamente. Potremmo dire preliminarmente che Pirandello adatta robustamente alle proprie idee, già formate in buona parte, il concetto centrale royciano per cui to be is uniquely to be related to a wholeness. Quindi l’idea che l’individuo non può esistere autonomamente, ma nella universalità, pur mantenendo la propria individualità (siamo negli u.S.A. e nella loro peculiare dimensione mentale, nonostante la cultura germanica che royce acquisì riccamente). L’essere vivente ha volizioni, scopi e si muove nel mondo, ovvero esprime il suo essere che è un essere nel mondo, del mondo, realizzando, chiosa Pirandello, l’altro in sé grazie a un significato generale che c’è nell’azione dell’altro, di sé, di tutti, della mente universale, di Dio. L’ulteriore concetto fondamentale su cui il pensiero di royce si fonda è ancor più interessante, forse, per Pirandello. Si tratta della idea di realtà di concetto e di reale, cioè di soggetto e oggetto, di pensiero e azione/cosa. un pensiero non è meno reale di un evento. D’altronde non esistono, o almeno non hanno valore, pensieri che non puntino a un agire in qualchesia modo, quindi a una modificazione della realtà esterna. Nulla di più lontano dal solipsismo inglese cui accenna Pirandello (annettendovi pure la povera Alice attraverso lo specchio!). Dunque una forma di pragmatismo ideale, non propriamente realismo per royce, bensì un valore etico-spirituale conferito a tutta l’universalità. Pirandello arriverà a declinare questo realizzarsi anche in forme spiritiche e panteistiche. Ma probabilmente non dimenticherà, se pure secondario nella sua libreria, il pensiero di royce. Veniamo a un maggiore dettaglio.13
11 Certo, non è mai da escludere una conoscenza anche superficiale di seconda mano. Ma pure in un caso come questo, crediamo, l’impianto del nostro lavoro può tenere (ai lettori la sentenza). 12 Nulla a che vedere con questa impostazione royciana ha il saggio del 1896 di Pirandello Il neo-idealismo (SI pp. 212-221). 13 Citiamo le opere di Josiah royce da: The Spirit of Modern Philosophy (=
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RobeRto GiGliucci300 «The whole universe, precisely in so far as it is, is the expression of a meaning, is the conscious fulfilment of significant in life, precisely as the melody present at a given moment to the singer is for his consciousness the momentary expression of a meaning» (WI p. 443, c.vo d’autore). royce nega quindi valore al principio meccanicistico di causalità, perché l’individuale è unico e non è spiegabile con criteri di causa-effetto. L’individuo è libero, perché la sua volontà esprime la volontà totale di Dio: «this divine unity is here and now realized by me, and by me only, through my unique act» (p. 468, c.vo mio). Per quanto riguarda la ulteriore citazione di royce in Sincerità e arte e in Arte e scienza, il realizzarsi dell’uno nell’altro, questo dovrebbe essere il fulfilment di cui royce parla nell’ultima lezione di World and Individual. L’esempio che il filosofo propone è quello dell’Affection: ciascuno sceglie e in base alla propria scelta ritiene unico vuoi l’amante, vuoi il figlio, vuoi l’amico loyal (parola chiave, come vedremo) ecc. (cfr. anche CI p. 25). Tutte queste volizioni e integrazioni fra soggetti sono parte del grande e totale «final meaning and fulfilment of the world. […] And thus the category of individuality would be fulfilled in the whole precisely in the sense in which our finite affection presupposes its fulfilment in individual cases» (p. 459 sg.). Ovviamente garanzia di tutta questa infinita volontà è Dio, per royce, ma non per Pirandello. un Dio espressione del fulfilling della volontà totale, non trascendente però le volontà individuali. «The Many must, despite their variety, win harmony and perfection by their coöperation. But this principle so far, gives us no limit either to the empirical variety of will, or of interest and of experience in the absolute, nor any limit to the relative independence which the uniqueness of the individual elements makes possible» ecc. (p. 466). La volontà individuale esprime quella divina, e l’individuo è la divina volontà. Per questo è libero (p. 468). in Conception of Immortality royce esprime ulteriori pensieri che potrebbero aver incuriosito Pirandello. Ad esempio la considerazione che ogni individuo è unico e che tutti gli altri individui intorno al mio Self sono unici, e questo è dato di realtà. Ma permane il mistero di tale realtà, la sua inspiegabilità: perché questo reale è così? «And the play with these mysteries constitutes a great part of the poetic arts» (CI p. 31). il fatto è che «the unique eludes us», ma ciononostante è una real
SMP), Boston & New York, Houghton Mifflin, 1892; The World and the Individual (= WI), New York, MacMillan, 1900; The Conception of Immortality (= CI), Boston & New York, Houghton Mifflin, 1900; The Philosophy of Loyalty (= PhL), New York, MacMillan, 1908.
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Pirandello e Josiah royce 301 tà e noi la perseguiamo, come ogni amante l’oggetto amato (pp. 39 sg.). Allora l’unico modo di concepire non astrattamente un essere vivente individuale è coglierlo attraverso la sua volontà e la soddisfazione della sua individua volontà (pp. 47 sg.). La volontà e il perseguimento dei purposes formano l’intera realtà e il suo significato.
un mondo in cui tutto ha senso è l’inverso del mondo pirandelliano. D’altra parte il particolare “panteismo pessimistico” cui Pirandello tende, sempre più col trascorrere degli anni, è una sorta di versione “atea” (cioè senza fede nell’Assoluto che include tutte le nostre individualità) dell’altrettanto particolare “idealismo” americano di royce. Tuttavia Pirandello aspira a perdersi, dissolversi, svanire nel tutto, mentre royce ammonisce: «You are in God; but you are not lost in God» (WI p. 465). il significato universale e unico di ogni atto («for all is divine, all expresses meaning», p. 469), secondo royce, garantisce la libertà assoluta; per Pirandello ugualmente possiamo trovarci in regime di libertà, ma solo se siamo condannati ad essa, in una vertigine da incubo, al punto che non si sa se è meglio essere agganciati a un fatto reale o illusoriamente svincolati e vagolanti in memorie di fatti forse solamente pensati. O forse no. Non si sa come.14 D’altra parte, la libertà degli uomini/personae/personaggi è per Pirandello quantomeno garantita dal fatto che «in ogni nostro atto è sempre tutto l’essere», e quindi in ogni parola e azione teatrali, pur nella concatenazione con altre parole e azioni, si può esprimere «la totalità dell’essere della persona».15 Tale concetto è di marca prettamente idealistica; oltre che da Hegel, potrebbe pervenire a Pirandello da Josiah royce, particolarmente dalle lezioni in The Spirit of Modern Philosophy del 1892. Però la convinzione che le idee siano parte dell’essere («an idea also is an existent fact, and is as independently real as is the supposed independent object», WI p. 142) e non dualisticamente separate dalla realtà, come vorrebbe il pensiero “realistico”, si traduce, negativamente, nella concezione pirandelliana che pensiero e fatto possano essere interscambiabili, che il secondo possa essere assimilato al primo e viceversa. insomma, l’altro elemento cardine del pensiero royciano, quello che vede una consustanzialità di idea e di fatto, o meglio che sussume nella categoria unica di reale entrambi, potrebbe aver suggestionato
14 Cfr. SI, pp. 1494-1495. 15 SI, p. 451, L’azione parlata, 1899.
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RobeRto GiGliucci302 Pirandello. «Every proposition, every assertion that anybody can make, is a deed; and every rational deed involves, in effect, an assertion of a fact» (PhL p. 362). il neo-idealismo pragmatico, nutrito dalla fede in una eterna coscienza unitaria di Dio-uomini-natura, proprio del singolare e generoso filosofo royce, è distante col suo ottimismo fondamentale dall’antropologia inquieta di Pirandello. Tuttavia anche Pirandello, crediamo, intravede una assimilabilità di fatti e pensieri, una interscambiabilità fra essi e una analoga gogna cui entrambi condannano l’essere umano. Si può rimanere uncinati per sempre a un’azione compiuta quasi in sogno, un’azione che sembra immateriale come un pensiero, eppure è stata compiuta, e condiziona ogni nostra “storia” futura. Ma si può anche restare legati a un pensiero che nel suo potere plastico produce – se non è già – un fatto. un fatto può essere taciuto, e diventa un mero pensiero, ma il pensiero, lavorando dentro la coscienza, induce alla denunzia, e il pensiero che era fatto ritorna fatto, esplode, alla luce abbagliante del sole o nel pallore lunare, e produce ancora un ulteriore fatto, una morte, un nuovo omicidio (pensiamo, ovviamente, a Non si sa come). in una commedia un po’ negletta ma singolarissima, L’amica delle mogli, il pensiero (come sempre un pensiero di tradimento, di essere traditi) viene inoculato da Francesco Venzi quasi come per un contagio, ma un contagio di sofferenza, perché il pensiero viene esplicitamente definito quale sofferenza. in uno scambio vivace di battute nell’atto secondo, in cui Venzi viene appunto accusato di aver suggerito a Elena che la sua prossima morte sarà l’occasione per l’unione di suo marito con Marta, l’amica delle mogli, c’è un intreccio rivelatore e ossessivo dei lessemi soffriresofferenza-pensare, con al centro la parola contagio: «si pensano, certe cose», esclama Venzi,16 e pensare una cosa (un tradimento) è farla venire alla luce, rivelarne la vivente mostruosità, anche se i colpevoli sono inconsapevoli e quindi paradossalmente colpevoli-incolpevoli. Non si sa come: il motivo che darà il titolo alla pièce di qualche anno dopo è già qui sulla scena della tortura teatrale pirandelliana. La capacità produttiva del pensiero è ben espressa in una battuta di Lazzaro: «tante volte tu – guarda: supponi in qualcuno un pensiero? fàttene accorgere, e il pensiero che prima in quello non c’era, gli nasce per davvero».17
16 Maschere nude, a cura di Alessandro D’Amico e Alessandro Tinterri, vol. iii, Milano, Mondadori, 2004, p. 727. 17 Maschere nude, vol. iV, cit., p. 182.
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Pirandello e Josiah royce 303 Nello stesso 1909 di Arte e scienza esce la Philosophy of Loyalty del royce. Qui l’idea cardine della morale royciana, la lealtà a una causa come valore etico unificante, ripropone il contesto umano come una «union of selves» (p. 53), in cui qualcosa di «superpersonal» (p. 53) come oggetto di loyalty permette la comunione del sé con la società, in un regime di razionalità, non di devozione irrazionale. È proprio questa fiducia nella realtà e nella razionalità, di marca neo-idealistica e insieme religiosa, a distinguere royce dall’universo pirandelliano. Certe suggestioni che Pirandello può aver ricevute, sono magari svisate e ribaltate dal nostro. Si veda ad esempio un effato come il seguente: «The world as interpreted by me is a fact different from the world as interpreted by you; and these different interpretations have all of them their basis in the truth of things» (p. 78). La pluralità di visioni che royce mantiene e insieme fa collaborare in una unità superiore basandosi sulla realtà delle cose, di cui egli non dubita, diventa relatività abissale per Pirandello che nell’ultimo romanzo addirittura annichila l’identità puntando, Moscarda, consciamente o inconsciamente, alla morte.18 royce insiste sulla natura sociale dell’uomo, il cui sé è irrealizzabile nella solitudine. Pirandello insiste nell’impossibilità di stare nel gruppo se non come automa ipocrita. Le distanze dunque sono grandi fra il pensiero dell’americano e del siciliano. Questo però non toglie che Pirandello possa aver colto certe suggestioni che andiamo spicilegiando, anche allorché le inverte sul piano degli esiti o su quello valoriale. La lealtà non esiste reclusa nell’individuo, ma è virtù suprema in quanto sociale: «And so, a cause is good, not only for me, but for mankind, in so far as it is essentially a loyalty to loyalty» (p. 118). L’isolamento è impraticabile, per royce, addirittura insensato per un essere vivente. Per Pirandello l’isolamento è impossibile, quindi l’essere one e many è una condanna, qualcosa che fa diventare pazzi. Per royce la verità su cui si fonda la lealtà a una causa che è sempre sovraindividuale garantisce che gli esseri umani «can be linked in some genuine spiritual unity» (p. 307). Per Pirandello non c’è verità se non un tragicomico simulacro velato, non ci sono cause per cui combattere, neppure cause perse e annientate nel processo fangoso della storia, non c’è una unità spirituale degli esseri nell’Essere. Sopravvive solo la fiducia nell’arte, la lealtà al processo creativo.
18 Vd. Luigi Pirandello, Opere, i, a cura di Simona Costa, Milano-Napoli, ricciardi, 2015, pp. 608 sgg.
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RobeRto GiGliucci304 una postilla. Pirandello conosceva la lingua inglese, sufficientemente da poter leggere già nei suoi anni di gioventù e prima maturità testi come quelli di royce? il dubbio potrebbe venire scorrendo le assai posteriori missive alla Abba da cui emerge un Pirandello anziano alle prese con la lingua inglese, quasi alle prime armi.19 Ma ad es. nel ’24 Pirandello, nel suo importante saggio su Teatro vecchio e teatro nuovo,20 parafrasava-traduceva una pagina del volume di Clive Bell Art,21 come si può desumere dal seguente confronto:
Here and there, a man of power may force the door, but culture never loves originality until it has lost the appearance of originality. The original genius is ill to live with until he is dead. Culture will not live with him; it takes as lover the artificer of fauxbon. it adores the man who is clever enough to imitate, not any particular work of art, but art itself. it adores the man who gives in an unexpected way just what it has been taught to expect. it wants, not art, but something so much like art that it can feel the sort of emotions it would be nice to feel for art. To be frank, cultivated people are no fonder of art than the Philistines; but they like to get thrills, and they like to see old faces under new bonnets. They admire Mr. Lavery’s seductive banalities and the literary and erudite novelettes of M. rostand. They go silly over reinhardt and Bakst.22 These confectioners seem to give the distinction of art to the natural thoughts and feelings of cultivated people. Culture is
Ho goduto molto leggendo di recente uno scritto di Clive Bell contro codesta gente colta e perbene. Qua e là – egli dice – un uomo di potente ingegno può riuscire a forzar le porte; ma la gente colta non ama l’originalità finché non ne abbia perduto almeno l’apparenza. La compagnia dell’uomo d’ingegno originale non è piacevole, almeno fintanto che non sia morto. La gente colta adora chi le dà, in qualche modo impensato, proprio quello che le hanno insegnato ad aspettarsi, e in fondo non ama l’arte più di quanto l’amino i filistei: se non che vuole aver la sensazione di vedere il vecchio ammantato da nuovo; e predilige perciò quei dolcieri che danno lo spolvero dell’arte ai loro comuni pensieri e sentimenti. Ben per questo la coltura (così intesa) è assai più pericolosa del filisteismo: si dà l’aria di star dalla parte dell’artista; ha lo «charme» del suo gusto squisito, e può corrompere perché può parlare con un’autorità negata ai filistei: e perché pretende d’interessarsi al
19 Cfr. Lettere a Marta Abba, a cura di Benito Ortolani, Milano, Mondadori, 1995, pp. 466, 856 e regesto p. 1548 alla voce «Studio delle lingue». 20 in Si p. 1156. 21 Citiamo da Clive Bell, Art, New York, F. A. Stokes, s.d. (pref. datata novembre 1913), pp. 272-273 conforme alla prima ediz.: London, Chatto & Windus, 1914. Cfr. la recente edizione italiana L’Arte, a cura di Claudio Zambianchi, Palermo, Aesthetica, 2012, pp. 145-146.
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Pirandello e Josiah royce 305
far more dangerous than Philistinism because it is more intelligent and more pliant. it has a specious air of being on the side of the artist. it has the charm of its acquired taste, and it can corrupt because it can speak with an authority unknown in Philistia. Because it pretends to care about art, artists are not indifferent to its judgments. Culture imposes on people who would snap their fingers at vulgarity. With culture itself, even in the low sense in which i have been using the word, we need not pick a quarrel, but we must try to free the artist and the public too from the influence of cultivated opinion. The liberation will not be complete until those who have already learned to despise the opinion of the lower middle-classes learn also to neglect the standards and the disapproval of people who are forced by their emotional limitations to regard art as an elegant amenity.
l’arte, gli artisti spesso non sono indifferenti ai suoi giudizi. Bisogna insomma liberare l’artista e anche il pubblico dall’influenza dell’opinione dei colti. E la liberazione non sarà completa finché quelli che han già imparato a disprezzare l’opinione dei piccoli borghesi non imparino anche a trascurare la disapprovazione della gente che è costretta dalle sue limitate capacità emotive a considerare l’arte come uno svago elegante.
22 Se nel 1924 Luigi poteva procedere così autonomamente nella traduzione piuttosto fedele di un testo in inglese,23 perché escludere una sua acquisizione ben anteriore di quella lingua? Per un conoscitore del tedesco e del francese, per un linguista e glottologo come era il giovane Pirandello, non è così ardito ipotizzare una capacità di lettura24 dei testi royciani, a nostro parere.
roberto Gigliucci Sapienza università di roma
22 rostand, reinhardt e Bakst sono citati nella stessa pagina anche in Clive Bell, Pot-Boilers (London, Chatto & Windus, 1918), p. 129, dove si parla del fauxbon. il pittore John Lavery era evocato in Art già precedentemente, p. 172 ediz. cit. 23 Ci sembra poco economico supporre che Pirandello avesse dovuto ricorrere a qualcuno che lo aiutasse. 24 Non competenza di conversation, che è ben altra cosa, e di cui si parla nelle Lettere a Marta Abba, cit.: «Mi son messo a studiare l’inglese, un’ora al giorno» (18.V.1930); «A Parigi imparerò anch’io l’inglese, per poterTi parlare in inglese, e Tu mi correggerai!» (11.Viii.1931, c.vo mio).
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CLAuDiA COrFiATi Sannazaro e Virgilio. La poetica della diffrazione
il saggio si propone di rileggere alcuni luoghi dell’Arcadia di Jacopo Sannazaro alla luce della presenza ‘ingombrante’ del modello virgiliano, riscoprendo citazioni, traduzioni e riscritture, per non dire tradimenti, già ampiamente studiati dalla critica, ma non ancora organicamente correlati. L’ipotesi di lettura, già formulata a suo tempo da Francesco Tateo, e che dovrà essere rinforzata da ulteriori indagini su tutto il tessuto del testo, è che il prosimetro parli soprattutto di critica letteraria e di scrittura poetica.
★ This essay aims to reread several passages from Jacopo Sannazaro’s Arcadia from the standpoint of the “intrusive” presence of the Virgilian model, rediscovering quotations, translations and rewritings, not to mention betrayals, already studied in depth by scholars but not yet properly correlated. The hypothesis set out – previously formulated by Francesco Tateo and which ought to corroborated through further investigations into the text – is that the prosimetrum deals essentially with literary criticism and poetic composition.
«La sua fantasia è come un prisma che, ricevendo in una faccetta varii raggi di una luce variamente intensa, li riflette dall’altra scomposti e coi colori dell’unica iride confusi con quelli di tutte le altre. La risultanza è un guazzabuglio di tinte»1: con queste parole Michele Scherillo si cimentava in una descrizione del metodo utilizzato dal Sannazaro
Autore: università degli studi di Bari; prof. associato; claudia.corfiati@uniba.it. 1 Michele Scherillo, Introduzione, a Arcadia di Jacobo Sannazaro, Torino, Loescher, 1888, p. L. Giuseppe Velli, agli inizi degli anni ottanta, ancora scriveva, nell’introduzione al saggio, per altro dedicato alla struttura complessiva e alle vicende compositive del testo: «Non occorre, credo, la porosa memoria del lettore umanista per cogliere nell’Arcadia un aspetto maiuscolo (basta solo per questo anche una scorsa del folto apparato di Michele Scherillo): essa è costituita, quasi senza residui, di materiali preesistenti» (Giuseppe Velli, Sannazaro e le «partheniae myricae»: forma e significato dell’«Arcadia», in id., Tra lettura e creazione. Sannazaro Alfieri Foscolo, Padova, Antenore, 1983, p. 2).
Meridionalia
claudia corfiati308 nel trattare la materia poetica della tradizione classica e romanza, che lo studioso, con meticolosa attenzione, rintraccia tra le righe del romanzo pastorale, rendendone conto – anche se in maniera un po’ disordinata – nella sua ampia introduzione al testo, nonché nelle note a piè di pagina. Non vi è dubbio che, se fino a quella data, siamo nel 1888, i critici avevano espresso sull’Arcadia giudizi superficiali e spesso non lusinghieri, nonostante il riconosciuto immediato successo di lettori ed imitatori, fu a partire da questa edizione che si cominciò a guardare a quelle densissime pagine con una attenzione diversa anche se discontinua, benché la sempre più facile individuazione di loci similes nella trama del testo, invece che facilitare l’approccio interpretativo, sembri rappresentare oggi un inesorabile ostacolo alla sua lettura. Quell’edizione, che va sicuramente interpretata come uno dei migliori frutti della scuola storica, prima che nascesse in italia la filologia moderna in senso stretto, indicava un percorso possibile di interpretazione del testo, che oggi, in un contesto in cui importanti acquisizioni sono state fatte in merito alla biografia del Sannazaro, alla sua biblioteca, al suo modo di lavorare e soprattutto al contesto culturale in cui si alimentò questo suo particolarissimo genio, ché non altrimenti può essere definita la sua indole di poeta, reclama a mio modo di pensare un cambiamento2. Ogni tentativo di avvicinarsi ad un testo può essere paragonabile ad un esperimento di fisica o di chimica, per realizzare il quale sono necessari strumenti specifici (ovvero una adeguata e aggiornata bibliografia), gli ‘ingredienti’, la così detta materia prima, che nel caso della letteratura è l’immensa moltitudine degli ipotesti (di cui, come si sa, l’Arcadia è infinitamente ricca), ma soprattutto è necessaria una ipotesi, da sottoporre a verifica. Gli scienziati falliscono mille volte prima di trovare la formula giusta, probabilmente perché è una sola; gli umanisti è difficile che si trovino davanti ad una sconfitta, perché il risultato (ovvero la perfetta conoscenza del pensiero dell’autore, della
2 Alcuni interessanti spunti ci provengono dalle due più recenti edizioni critiche annotate: Jacopo Sannazaro, Arcadia / L’Arcadie, édition critique par Francesco Erspamer, introduction, traduction, notes et tables par Gérard Marino, avec une préface de Yves Bonnefoy, Paris, Les Belles Lettres, 2004 e iacobo Sannazaro, Arcadia, a cura di Carlo Vecce, roma, Carocci, 2013 [d’ora in poi citata i. Sannazaro, Arcadia]. E si vedano inoltre gli interventi più recenti: Eric Haywood, Virgilio e Boccaccio in Arcadia, «Parole rubate», n. 14 (2016), pp. 13-33, rosangela Fanara, Autori, generi e stili in Sannazaro. Citazioni fra “Arcadia” e rime volgari, Ivi, pp. 57-73 e italo Pantani, Per Montano, e altri pastori d’Arcadia, «Filologia e critica», XLii (2017), n. 1, pp. 144-160.
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sannazaro e virgilio. la poetica della diffrazione 309 sua volontà, del suo messaggio) si tocca solo e sempre per approssimazione. Avvicinarsi giova, e non solo alla causa, ma anche a chi compie l’esperimento o vi partecipa più o meno direttamente, ma raggiungere la meta è un esito molto raro, qualcuno dice impossibile. Questa tensione, che già il Petrarca (Fam. i 9) aveva riconosciuto come peculiare dello studioso di humanitas, rappresenta insieme il pregio e il difetto delle nostre ricerche. È mia intenzione dunque provare a fare un esperimento, partendo proprio da una immagine offerta da un fenomeno fisico, quello appunto della diffrazione, e applicandolo al testo dell’Arcadia. La diffrazione è un termine che fu coniato nel Seicento dal verbo latino diffringo, che vuol dire letteralmente ‘spezzare’, ‘fare in frammenti’, ad indicare il fenomeno consistente nel fatto che, se vi sono ostacoli sul cammino di un fascio luminoso (corpi opachi, diaframmi forati, ecc.), la luce si ripartisce al di là dell’ostacolo pervenendo anche in punti ‘in ombra’, nei quali essa non potrebbe giungere se la propagazione avvenisse per raggi rettilinei; sempre nel caso delle onde luminose, se si raccoglie su uno schermo la luce ‘diffratta’ dall’ostacolo si forma una figura caratteristica, di conformazione variabile da caso a caso, detta ‘figura di diffrazione’. Questa ‘figura’ muta naturalmente non solo in relazione alla qualità della ‘fonte’, ma anche e soprattutto rispetto alla qualità dell’oggetto che ne viene attraversato. Lasciando da parte l’utilità di questa ‘scoperta’ nella fisica, nella medicina e nelle così dette scienze esatte, vorrei provare a tradurre questa ‘formula’ in una ipotesi di lettura di un testo letterario, che naturalmente fa in questo esperimento la parte dello schermo, il luogo materiale, contingente, oggettivo, dove si legge la figura di diffrazione, l’immagine un po’ misteriosa che una fonte – sulla quale si deve divinare – genera passando attraverso l’oggetto. L’oggetto in questione non può essere identificato con l’autore tout court, ma potremmo definirlo come la sua parte conoscibile, la sua fantasia – come diceva Scherillo – il suo genio o ingenium alla latina, come avrebbero detto Pontano e il suo allievo prediletto, il Sannazaro appunto. Fatte queste premesse, possiamo avvicinarci all’Arcadia. il prosimetro non nacque come tale: la critica ha oramai da tempo stabilito che l’autore raccolse, opportunamente modificandole, nel Libro pastorale nominato Arcadio, una serie di egloghe sparse che aveva composto poco tempo prima e che ebbero anche una loro circolazione autonoma3.
3 Sulle vicende redazionali la letteratura è ampia; rimando ai saggi più impor
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claudia corfiati310 E dobbiamo anche ricordare che non tutte sono in senso stretto ‘bucoliche’, dal momento che alcune di esse sono invece palesemente ‘liriche’, sia nel contenuto, sia nella forma, come la iii, la V e la Vii, ovvero ‘solo’ nella forma, come nel caso della iV4. All’inizio comunque e almeno fino a metà degli anni ottanta del Quattrocento erano dieci, come le dieci egloghe di Virgilio; poi, non si sa esattamente in quale circostanza, ma tardi, in anni probabilmente vicini alla prima stampa napoletana del 1504, Sannazaro ne scrisse altre due, accompagnandole con le ultime due prose e un congedo. Per l’indagine che ci interessa ci dobbiamo fermare necessariamente alla prima redazione (quello che ci interessa per ora è il momento costitutivo dell’opera, non ‘l’ultima volontà dell’autore’), quella con i dieci componimenti, e cominciare a rintracciare in essa i ‘frammenti’ di quello che, fonte ‘luminosa’ che attraversa l’inconoscibile oggetto dell’ingenium autoriale, sarà il particolare ingrediente del nostro esperimento, ovvero le Bucoliche di Virgilio5. La prima egloga di Virgilio, autobiografica, piena di allusioni al
tanti: Maria Corti, Le tre redazioni della «Pastorale» di P.J. De Jennaro con un excursus sulle tre redazioni dell’«Arcadia», «Giornale storico della letteratura italiana», CXXXi (1954), n. 395, pp. 305-351; Eduardo Saccone, Il «soggetto» del Furioso e altri saggi tra Quattro e Cinquecento, Napoli, Liguori, 1974, pp. 9-69; G. Velli, Sannazaro e le «partheniae myricae», cit.; Giovanni Villani, Per l’edizione dell’«Arcadia» del Sannazaro, roma, Salerno, 1989; Angela Caracciolo Aricò, Critica e testo. L’avventura della prima edizione dell’«Arcadia» di Jacopo Sannazaro, in Saggi di linguistica e letteratura in memoria di Paolo Zolli, a cura di Giampaolo Borghello, Manlio Cortellazzo e Giorgio Padoan, Padova, Antenore, 1991, pp. 507-522; Giovanni Villani, Ancora sul testo dell’«Arcadia»: come fare l’edizione, in La Serenissima e il Regno. Nel V centenario dell’«Arcadia» di Iacopo Sannazaro, a cura di Davide Canfora e Angela Caracciolo Aricò, prefazione di Francesco Tateo, Bari, Cacucci, 2006, pp. 729752. 4 isabella Becherucci, Le egloghe non egloghe dell’Arcadia, «Per Leggere», Xi (2011), n. 20, pp. 109-127, e Ead., L’alterno canto del Sannazaro. Primi studi sull’‘Arcadia’, Lecce, Pensa Multimedia, 2012. 5 «Ma il vero maestro ed autore del Sannazaro, colui al quale ei si diede per sua salute, il suo dolcissimo padre, è Virgilio»: così Scherillo (Introduzione, cit., p. LXXXi). in questa sede ci limiteremo a raccogliere i risultati più evidenti di questo esperimento, riservando un’ulteriore indagine estesa a tutto il testo ad altro luogo. Per quanto riguarda il testo di Virgilio e un censimento degli studi più recenti rimando all’edizione Publio Virgilio Marone, Le Bucoliche, introduzione e commento di Andrea Cucchiarelli, trad. di Alfonso Traina, roma, Carocci, 2012 (da cui tutte le citazioni infra nel testo); sulla fortuna di Virgilio nel contesto napoletano in generale si veda il recente volume miscellaneo L’Exemplum virgilien et l’Académie napolitaine à la Renaissance, sous la direction de Marc Deramaix et Giuseppe Germano, Paris, Classiques Garnier, 2018, e bibliografia citata.
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sannazaro e virgilio. la poetica della diffrazione 311 contesto preciso in cui fu composta l’intera raccolta, è il testo più riscritto in assoluto di tutta la tradizione della cultura europea: l’incontro tra Titiro e Melibeo, uno che siede tranquillo all’ombra di un faggio, l’altro turbato, sfortunato, errante, ha subito una varietà di metamorfosi tale che nemmeno il mostro Proteo, sempre di virgiliana memoria, riuscirebbe a stargli dietro6. La prima egloga dell’Arcadia, sembra alludervi in maniera indiretta, rovesciando – se così si può dire – la situazione, perché il giovane Ergasto, tormentato da un crudele amore, è seduto «appiè di un albero, dimenticato di sé e dei suoi greggi»7, quando lo raggiunge un premuroso e compassionevole Selvaggio che lo invita a cantare. Titiro felice cantava della sua Amarillide8, Ergasto istigato e forzato quasi dal suo interlocutore canterà del suo amore per una misteriosa fanciulla, che ha incontrato per caso e che lo ha reso un altro da quello che era. il contrasto che Virgilio poneva tra il «fortunatus senex» e il povero errante Melibeo si traduce nell’ossimoro tra un contesto ameno e lieto della campagna primaverile, descritto dalle parole di Selvaggio e il paesaggio interiore di Ergasto, tenebroso, tempestoso e lugubre, nonché portatore di cattivi augurî, proiezione – diremmo noi – del suo animo inquieto e della sua triste vicenda amorosa. il tono dell’egloga sannazariana è per il resto decisamente ‘comico’ e rusticale, rispetto al modello ‘serio’ della prima bucolica autobiografica del maestro latino. Non forziamo sicuramente la sensibilità del Sannazaro, tuttavia, se facciamo notare come la penultima terzina del componimento reciti una traduzione libera, con amplificatio, del v. 5 della prima virgiliana («formosam resonare doces Amarillida silvam)9.
Eco rimbomba, e spesso indietro voltami le voci che sì dolci in aria sonano, e nell’orecchie il bel nome risonami10.
O ancora se sottolineiamo come il paesaggio positivo evocato da
6 Si pensi soltanto alla riscrittura petrarchesca in BC i, preceduta dalla prima ‘egloga’ di Dante Alighieri, ma anche al primo dei Pastoralia del Boiardo, o ai meno noti esempi di Ludovico Lazzarelli, Egidio da Viterbo, Paracleto Malvezzi. 7 i. Sannazaro, Arcadia, p. 65. 8 L’amore per Amarillide è cantato in verità nel terzo idillio di Teocrito e in Virgilio manca la serenata pastorale, se non nell’esperimento della seconda egloga, dove Coridone dichiara il suo amore per Alessi. 9 Segnalo che Cristoforo Landino, nel suo commento a Virgilio (edito a Firenze già nell’aprile del 1487), ad locum scriveva: «id est “doces sylvas ut resonent”, id est, “per reboatum referant tuum carmen”». 10 i. Sannazaro, Arcadia, pp. 73-74.
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claudia corfiati312 Melibeo ai vv. 46-58, pur attingendo ad una diversa topica, s’assomigli a quello descritto da Selvaggio nell’incipit dell’egloga, e produca il medesimo ossimoro con i vv. 64-78, dove l’umor nero del pastore cacciato dai suoi campi si traduce in una immagine desolata e desolante delle sue terre. Stabilito questo primo punto di contatto, o meglio questa prima risultanza del processo di diffrazione (la prima egloga ha depositato parte del suo tessuto o dei suoi colori nella prima egloga dell’Arcadia), proseguendo nella lettura, dobbiamo arrivare alla quinta posizione per ritrovare un altro luogo virgiliano importante. La V egloga virgiliana canta il pastore Dafni, già morto e ricordato dal duplice canto di Mopso e Menalca, la V del Sannazaro canta il morto Androgeo, evocato durante un rito funebre in suo onore, al quale i pastori si trovano, per caso, ad assistere11. Per la prima egloga, abbiamo riconosciuto una sottile corrispondenza con la prima di Virgilio, aiutati anche dalla prosa (postuma però rispetto ai versi), che ci descrive l’atteggiamento di Ergasto, stravagante rispetto al contesto, nel caso della V stazione, in cui prosa e poesia nacquero insieme, abbiamo una situazione più complessa. Comunemente, a partire dagli studi di Maria Corti fino al recentissimo volume di Becherucci, si considera il rapporto di prosa e versi in maniera abbastanza semplificata: la prosa, quando è stata scritta dopo l’egloga che presenta, ha un carattere fondamentalmente descrittivo, almeno fino alla settima, quando invece prosa e versi sono nati ‘insieme’, essa assume un carattere più propriamente narrativo distaccandosi dalla sua egloga che finisce alla fine per diventare a sua volta l’ornamento della prosa stessa. Da questo assunto deriva in verità una considerazione di non poco conto: prosa ed egloga rappresentano una unità di tempo, o potremmo dire una battuta, un movimento, anche se preferirei addirittura il termine di stazione, immaginando la scrittura come percorso per tappe, vero e proprio pellegrinaggio. in quinta posizione dunque Sannazaro rivela in maniera più o meno consapevole, a mio parere, uno degli aspetti fondativi del progetto Arcadia, che poi lui stesso in parte forse tradirà nelle successive riscritture. La prosa infatti traduce il testo virgiliano, che l’ha generata, quasi alla lettera, e ad esso si rapporta molto meglio – direi – della canzone cantata sulla
11 il primo a costruire un’analisi di questi rapporti, pur rimandando alla bibliografia precedente, fu Francesco Torraca (La materia dell’«Arcadia» del Sannazaro, Città di Castello, S. Lapi Tipografo Editore, 1888, pp. 63-71).
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sannazaro e virgilio. la poetica della diffrazione 313 tomba del pastore da Ergasto12. il contesto è anch’esso significativo: i pastori, in gruppo, il giorno dopo aver celebrato la festa di Pales, seguono Opico, il più anziano e il più saggio di loro, verso una meta che egli definisce in questo modo:
Se voi vorrete ch’io vostra guida sia, io vi menarò in parte assai vicina di qui, e certo al mio parere non poco dilettosa; de la quale non posso non ricordarmi a tutte ore, però che quasi tutta la mia giovenezza in quella tra suoni e canti felicissimamente passai; e già i sassi che vi sono mi conoscono, e sono ben insegnati di rispondere agli accenti de le voci mie. Ove, sì come io stimo, trovaremo molti alberi, nei quali io un tempo, quando il sangue mi era più caldo, con la mia falce scrissi il nome di quella che sovra tutti gli greggi amai; e credo già che ora le lettere inseme con gli alberi siano cresciute; onde prego gli Dii che sempre le conservino in esaltazione e fama eterna di lei13.
Questo locus amoenus che dista circa duemila passi dal villaggio e che è pieno di alberi ‘parlanti’, cortecce (codici) segnate dal nome della donna amata in giovinezza da Opico, assomiglia molto ad una biblioteca, anzi ad un liber, un canzoniere, una raccolta di carmina iuvenilia. E non dimentichiamo la chiusura della prima egloga dell’Arcadia, dove – subito dopo la riscrittura virgiliana citata supra – Ergasto recitava:
Quest’alberi di lei sempre ragionano e ne le scorze scritta la dimostrano, ch’a pianger spesso et al cantar mi spronano14.
Si crea un legame virtuale tra il liber di Ergasto e quello di Opico. Forse è azzardata questa interpretazione ‘allegorica’ ed esula dalle intenzioni dell’autore, anche se ci costringe a considerare la quinta posizione come un luogo fondamentalmente letterario e di memoria, più che reale. La riscrittura del canto virgiliano si inizia fin da subito. racconta infatti il Sannazaro:
Ove trovati da dieci vaccari, che intorno al venerando sepolcro del pastore Androgeo in cerchio danzavano, a guisa che sogliono sovente i lascivi Satiri per le selve la mezza notte saltare, aspettando che dai vi
12 Carlo Vecce fa notare che questa prima parte dell’Arcadia si configura come un unico ciclo, con protagonista appunto Ergasto, ‘controfigura’ dell’autore (Viaggio in Arcadia, in i. Sannazaro, Arcadia, p. 22). 13 i. Sannazaro, Arcadia, p. 126. 14 i. Sannazaro, Arcadia, p. 74.
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claudia corfiati314
cini fiumi escano le amate Ninfe, ne ponemmo con loro inseme a celebrare il mesto officio. De’ quali un più che gli altri degno stava in mezzo del ballo, presso a l’alto sepolcro in uno altare novamente fatto di verdi erbe. E quivi, secondo lo antico costume, spargendo duo vasi di novo latte, duo di sacro sangue, e duo di fumoso e nobilissimo vino, e copia abondevole di tenerissimi fiori di diversi colori15.
Sta ripetendo Virgilio Bucolica V 67-73:
Pocula bina novo spumantia lacte quotannis craterasque duo statuam tibi pinguis olivi, et multo in primis hilarans convivia Baccho, ante focum, si frigus erit, si messis, in umbra vina novum fundam calathis Ariusia nectar. cantabunt mihi Damoetas et Lyctius Aegon; saltantis Satyros imitabitur Alphesiboeus.
il Sannazaro ha immaginato dieci ‘vaccari’, allevatori di buoi, che danzano in cerchio saltando come satiri (come Alfesibeo in Virgilio) e che eseguono un rito funebre non dissimile – anche se con una variante significativa – da quello virgiliano (si versano «duo vasi»/«pocula bina» di «novo latte»/«novo … lacte», due di «sacro sangue»/«pinguis olivi», e due di vino/«multo …Baccho»16): uno di essi poi recita un’orazione commemorativa (e Virgilio nomina Dameta ed Egone, futuri celebratori di Dafni), seguita dai dolcissimi versi della canzone di Ergasto (la V egloga), la quale ripete il medesimo schema del canto (in prosa) dell’anonimo bifolco con un effetto di ridondanza nei contenuti che il lettore moderno non può certo ascrivere a poca cura o attenzione da parte dell’autore. L’eco, il ri-suonare, è fortemente voluto perché qui il poeta napoletano sta in verità sfidando il suo modello latino. Ma vediamo nel dettaglio come questa emulazione si costruisce. il misterioso, perché anonimo, pastore che celebra in prosa Androgeo si rivolge alla sua anima, invocandola, e quindi descrive la situazione di abbandono in cui versa l’intera campagna dopo la sua morte:
15 i. Sannazaro, Arcadia, pp. 128-129. 16 Per questo tipo di offerta, già presente nel quinto idillio di Teocrito, il Sannazaro attua una innovazione (sostituisce il sangue all’olio e aggiunge le due coppe di vino) che potrebbe essere letta (ma la questione merita ulteriori indagini) come desiderio consapevole o meno di cristianizzare il rito: sangue e vino, infatti, accostati rimandano al rito della comunione.
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sannazaro e virgilio. la poetica della diffrazione 315
Oimè, che appena i nostri armenti sanno senza la tua sampogna pascere per li verdi prati; li quali mentre vivesti solevano si dolcemente al suono di quella ruminare l’erbe sotto le piacevoli ombre de le fresche elcine17.
Con queste parole sta riscrivendo Bucolica V 24-5:
Non ulli pastos illi segere diebus frigida, Daphni, boves ad flumina; nulla neque amnem libavit quadripes nec graminis attigit herbam.
Quindi continua:
Oimè, che nel tuo dipartire si partirono inseme con teco da questi campi tutti li nostri Dii. E quante volte dopo avemo fatto pruova di seminare il candido frumento, tante in vece di quello avemo ricolto lo infelice loglio con le sterili avene per li sconsolati solchi; et in luogo di viole e d’altri fiori sono usciti pruni con spine acutissime e velenose per le nostre campagne.
E qui traduce Bucolica V 34-39:
postquam te fata tulerunt ipsa Pales agros atque ipse reliquit Apollo. grandia saepe quibus mandavimus hordea sulcis, infelix lolium et steriles nascuntur avenae; pro molli viola, pro purpureo narcisso carduos et spinis surgit paliurus acutis.
Poi ancora dice:
Per la qual cosa, pastori, gittate erbe e fronde per terra, e di ombrosi rami coprite i freschi fonti, però che così vuole che in suo onore si faccia il nostro Androgeo. O felice Androgeo, addio, eternamente addio!18
in Virgilio Bucolica V 40-42 leggiamo:
spargite humum foliis, inducite fontibus umbras, pastores (mandat fieri sibi talia Daphnis), et tumulum facite…
Segue quindi una amplificatio con l’elencazione delle divinità pa
17 i. Sannazaro, Arcadia, p. 131. 18 i. Sannazaro, Arcadia, pp. 131-132.
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claudia corfiati316 storali che porgono omaggio al sepolcro di Androgeo, ovvero Apollo, i Fauni, le Ninfe (ricordate peraltro da Virgilio in apertura del canto di Mopso, v. 20) e le Muse, e quindi la conclusione:
e noi con le nostre sampogne ti cantamo e cantaremo sempre, mentre gli armenti pasceranno per questi boschi. E questi pini e questi cerri e questi piatani che dintorno ti stanno, mentre il mondo sarà, susurreranno il nome tuo; e i tori parimente con tutte le paesane torme in ogni stagione avranno riverenza a la tua ombra, e con alte voci muggendo ti chiameranno per le rispondenti selve. Tal che da ora inanzi sarai sempre del numero de’ nostri Dii; e sì come a Bacco et a la santa Cerere, così ancora a’ tuoi altari i debiti sacrificii, se sarà freddo, faremo al foco, se caldo, a le fresche ombre. E prima i velenosi tassi sudaranno mèle dolcissimo, e i dolci fiori il faranno amaro; prima di inverno si meteranno le biade, e di estate coglieremo le nere olive, che mai per queste contrade si taccia la fama tua19.
Anche questa parte dipende direttamente da Virgilio, Bucolica V 74-78, anche se la topica similitudine pastorale è posticipata, rispetto alla promessa di eterna devozione:
haec tibi semper erunt, et cum sollemnia vota reddemus Nymphis, et cum lustrabimus agros. Dum iuga montis aper, fluvios dum piscis amabit, Dumque thymo pascentur apes, dum rore cicadae, Semper honos nomenque tuum laudesque manebunt. ut Baccho Cererique, tibi sic vota quotannis agricolae facient: damnabis tu quoque votis.
Questo ‘duello’ tra antico e moderno è impostato in maniera impari perché Virgilio è tradotto in prosa, mentre Sannazaro, attraverso il suo alter ego Ergasto, si esprime non in metro pastorale ma in quello lirico, anzi in una canzone di ritmo decisamente petrarchesco (riproponendo lo schema della famosa Rvf 27, Chiare fresche e dolci acque). Naturalmente anche in questa sezione potremmo trovare corrispondenze testuali. La prima strofa, infatti, sviluppa il tema dei vv. 56-57 di Virgilio:
candidus insuetum miratur limen Olympi sub pedibusque videt nubes et sidera Daphnis.
Scrive il poeta dell’Arcadia:
19 i. Sannazaro, Arcadia, pp. 132-133.
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sannazaro e virgilio. la poetica della diffrazione 317
Alma beata e bella, che da’ legami sciolta nuda salisti nei superni chiostri, ove con la tua stella ti godi inseme accolta, e lieta ivi, schernendo i pensier nostri, quasi un bel sol ti mostri tra li più chiari spirti, e coi vestigii santi calchi le stelle erranti20.
La descrizione di una sorta di paradiso pastorale in cui Androgeo incontrerà Dafni e Melibeo (Teocrito e Virgilio?), che segue immediatamente questi versi, è una innovazione del poeta moderno. Poi al v. 27 nuovamente trae spunto da due versi di Virgilio (Bucolica V 32-34):
vitis ut arboribus decori est, ut vitibus uvae, ut gregibus tauri, segetes ut pinguibus arvis, tu decus omne tuis.
E scrive:
Quale la vite a l’olmo, et agli armenti il toro, e l’ondeggianti biade ai lieti campi, tale la gloria e ’l colmo fostù del nostro coro21.
Naturalmente anche versi o topoi già ‘tradotti’ nella prosa dell’anonimo bifolco si ripresentano in nuova veste nelle parole di Ergasto (come ad esempio Virgilio Bucolica V 20-25), e in questo l’effetto di una vera e propria contesa tra la prosa (che a sua volta è Virgilio) e la poesia si fa più forte: ma la palma della vittoria a chi tocca? Al poeta moderno, che supera il modello antico nella dolcezza e nella musicalità dei versi – verrebbe da dire: ma, bisognerebbe aggiungere, la vittoria non è ottenuta sul terreno della poesia pastorale ma su quello della poesia lirica22.
20 i. Sannazaro, Arcadia, p. 135. 21 i. Sannazaro, Arcadia, p. 136. 22 il primo a sottolineare questa presenza dell’antagonismo, chiamiamolo così, tra lirico e pastorale, a favore del primo, è stato Francesco Tateo, vd. Francesco Tateo, La crisi culturale di Jacobo Sannazaro, in id., Tradizione e realtà nell’Umanesimo italiano, Bari, Dedalo Libri, 1967, pp. 11-109.
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claudia corfiati318 il lettore attento infatti, riconoscendo il volgarizzamento di Virgilio, comincia a porsi alcune domande sul senso che può avere nella seconda metà del Quattrocento, e in volgare, scrivere poesia bucolica, cercando di imitare il modello latino, si domanda in che termini il metro (la terzina, la frottola) e lo stile (rusticale e spesso satirico) può reggere il confronto con Virgilio. Non credo che Sannazaro arrivi a formulare una risposta certa e percettibile all’interno del prosimetro, ma sicuramente l’Arcadia è testimone in questo di una crisi, di un dubbio, che – come ha rilevato Francesco Tateo fin dalla fine degli anni Sessanta – è un dubbio fondativo rispetto agli sviluppi della sua poetica. Ma proseguiamo. La quinta stazione del romanzo pastorale dunque è quella in cui i raggi provenienti dalla sua fonte sono stati assorbiti e diffratti con pochissima dispersione (quasi nulla è andato perso, anzi abbiamo assistito ad una duplicazione, in un certo senso): è un luogo insomma di critica letteraria, dal momento che l’auctor è presente in maniera così riconoscibile da venir meno il concetto stesso di imitatio, e forse anche di aemulatio. Ma non sempre è così. una terza più raffinata traccia la troviamo nella decima posizione: dove Virgilio immagina che il suo amico Gallo sogni di vincere le sue sofferenze d’amore recandosi in Arcadia (tentativo che fallisce), Sannazaro fa raccontare a Selvaggio (il primo pastore del romanzo e anche l’ultimo a parlare nella prima redazione) del viaggio da lui fatto in italia (lui è pastore Arcade) per liberarsi da una insana passione, viaggio da cui – non viene detto esplicitamente, ma lo dobbiamo immaginare – torna guarito, nonché più dotto. La decima egloga virgiliana può essere considerata il canovaccio stesso dell’Arcadia, come è stato in varie occasioni suggerito dai critici (a cominciare da Torraca23), anche se la questione non è mai stata affrontata in maniera puntuale. È stata riconosciuta infatti una affinità tra Gallo ed Ergasto, tra Sincero e Gallo, tra Clonico e Gallo, tra Selvaggio e Gallo, ma la presenza di questo ipotesto è più sostanziale. Lasciando da parte importanti studi che sono stati fatti di recente sul rapporto tra Virgilio e il poeta Cornelio Gallo24, ricordo solo quan
23 F. Torraca, La materia dell’«Arcadia», cit., pp. 17-33. E vd. inoltre Ettore Paratore, La duplice eredità virgiliana nell’Arcadia del Sannazaro [1961], in id., Antico e Nuovo, roma, Salvatore Sciascia Editore, 1965, pp. 213-243; Gérard Marino, Itinéraires de Sannazaro en Arcadie. L’héritage de Virgile (de Gallus et Orphée à Aristée), «Lettere italiane», LiX (2007), n. 2, pp. 251-261; C. Vecce, Viaggio, cit., pp. 31-32. 24 Mi riferisco in particolare ai numerosi recenti studi di Paola Gagliardi per cui
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sannazaro e virgilio. la poetica della diffrazione 319 to Servio raccontava a proposito di questo personaggio e quindi quello che Sannazaro poteva sapere di Gallo. Famoso poeta, che aveva tradotto in latino i carmi di Euforione e dedicato ad una tale Citeride da lui amata quattro libri di elegie, fu ricordato tra i primi amici di Augusto e fu il primo prefetto d’Egitto, ma fu sospettato di aver partecipato ad una congiura e si uccise. Virgilio lo amò a tal punto che nella seconda metà del quarto libro di Georgiche aveva posto le sue lodi, ma poi per ordine di Augusto fu costretto a sostituirle con la favola di Aristeo. E questa egloga, che vuole consolare Gallo per il fatto che la sua Citeride è partita per la Gallia al seguito di un nuovo amante, non fu mutata, solo perché comunque non offre una immagine positiva del poeta (così diceva Servio, Buc. X). Nam licet consoletur in ea Gallum tamen alitus intuenti vituperatio est: nam et in Gallo impatientia turpis amoris ostenditur, et aperte hic Antonius carpitur, inimicus Augusti, quem contra romanum morem Cytheris est in castra comitata25.
i lettori antichi dunque erano ben consapevoli che Gallo era un personaggio storico, per il quale non era stato utilizzato alcun travestimento pastorale, e che veniva ‘ospitato’ all’interno del ‘genere’ a causa di questa sua terribile passione amorosa, per cui soffriva come soffriva Dafni nel primo idillio di Teocrito (la posizione antitetica scelta da Virgilio potrebbe essere considerata non casuale). Naturalmente la sentenza è «Omnia vincit amor»; Gallo stesso dichiara, come il Sincero dell’Arcadia sannazariana, di non poter trovare sollievo: egli è poeta lirico, forse elegiaco (almeno così poteva credere Sannazaro), ma anche cortigiano, diremmo noi, cittadino, raffinato, tutti attributi che calzano perfettamente al nostro autore, nonché protagonista dell’Arcadia. Ma vi è un ulteriore particolare che va messo in evidenza: Gallo in verità non va in Arcadia, come il Dafni teocriteo non è in Arcadia, ma la sua sofferenza e il suo dolore attirano tutti gli dei della poesia pastorale e dalla loro presenza egli è a sua volta indotto a immaginar
rimando a Paola Gagliardi, Commento alla decima egloga di Virgilio, HildesheimZurich-New York, Georg OlmsVerlag, 2014; Ead., Sulle tracce di Orfeo, alla ricerca di Gallo, «revue des études latins», XCiV (2016), n. 94, pp. 67-81 e Ead., La presunta damnatio memoriae di Cornelio Gallo, «Historia», LXVi (2017), n. 1, pp. 65-82. 25 Cito il testo di Servio dalla vulgata quattrocentesca (Publii Virgilii Maronis vatis eminentissimi Volumina haec una cum Servii Honorati grammatici commentario, Venetiis, per Antonium Bartolamaei, 1486, c. c2r): l’anno successivo uscirono gli Opera virgiliani con il commento di Servio accompagnato da quello di Cristoforo Landino. Ma il Sannazaro aveva già composto la prima Arcadia.
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claudia corfiati320 si in quei luoghi, dedito alla caccia insieme alle ninfe, di cui si innamora, i cui nomi scrive sulle cortecce degli alberi. Ma tutto è un’illusione, perché alla fine è vinto da amore. Virgilio non arriva a descrivere la morte di Gallo, che è solo evocata al v. 10 («indigno cum Gallus amore peribat»): descrive il pianto e il dolore universale, descrive i personaggi che si presentano al suo capezzale, Apollo, Silvano, e infine Pan, che accusa Amore di insensibilità. il canto di Gallo che segue in risposta agli interventi dei presenti, è prima di tutto una allocuzione agli abitanti d’Arcadia, presso i quali rimarrà memoria della sua tragedia e poi la descrizione di questa specie di sogno o illusione, che lo vede tradotto in quelle lande ostili alla ricerca di un rimedio, anzi ad un punto diremmo intenzionato a partire («ibo», dice). Ma già nella sua testa è avvenuto il fallimento per cui quelle selve invocate da Virgilio all’inizio del carme ora sono congedate da Gallo, «ipsae rursus concedite silvae», con la conclusione finale «Omnia vincit amor, et nos cedamus amori». Qui si interrompe bruscamente il canto, con quel «Haec sat erit divae vestrum cecinisse poetam», e ci ritroviamo davanti all’immagine di Virgilio, che seduto intreccia un canestro con teneri rami di ibisco, che si alza, dopo aver dichiarato nuovamente il suo amore per Gallo, perché l’ombra del ginepro non noccia alla sua voce. Alla luce di questa sommaria descrizione del contenuto dell’egloga, torniamo nell’Arcadia del Sannazaro e cerchiamo di cogliere più da vicino i punti di contatto non solo tra la vicenda di Sincero e quella di Gallo, ma tra i testi, iniziando dalla geografia. Come è noto la prima prosa dell’Arcadia si apre con la descrizione di un dilettevole piano situato sulla ‘sommità di Partenio’, lo stesso monte evocato da Virgilio, come luogo ostile, i «saltus Partenios» nei quali Gallo immagina di poter andare a caccia. Normalmente si traduce, partendo dal contesto che sembra tratteggiare un paesaggio ostile, con «passi stretti, erte balze», un’immagine che pare poco congrua al fatto che questi loci dovrebbero, nella fantasia del poeta, essere «circondati dai cani» e disposti dunque ad una battuta di caccia. «Saltus» vuol dire, in alcuni contesti, più semplicemente ‘zona di pascolo’, non necessariamente «boscosa», non necessariamente «erta». in Sannazaro dunque il «piano» del Partenio, potrebbe anche essere confuso con uno di questi «saltus»: non è infatti solo il luogo prescelto per far pascolare il gregge, ma luogo di incontro tra i pastori, che in esso si esercitano nelle più liete attività ludiche, tra le quali non manca «in trare con gli archi al versaglio», che è esattamente quello che il fiero Gallo immagina di poter fare («libet Partho torquere Cydonia cornu spicu[ 14 ]
sannazaro e virgilio. la poetica della diffrazione 321 la», vv. 59-60). Altro toponimo importante nell’opera del Sannazaro è costituito dal Menalo, il monte disposto a piangere in Virgilio la sofferenza di Gallo, il monte che Gallo è pronto a perlustrare (come i pastori dell’Arcadia) insieme alle ninfe, forse a caccia di cinghiali, il monte infine dove è situato il tempio di Pan. Dunque, tracce della decima bucolica virgiliana si trovano nell’incipit dell’Arcadia, ma si traducono in una complessa topografia che si estende fino alle ultime prose, ambientate, appunto, sul Menalo. Ma andiamo oltre. Virgilio ai vv. 8-15 esprime la certezza che il suo canto riecheggerà nelle selve e chiama a raccolta gli abitanti, dei e semidei, ma anche pastori e porcai, d’Arcadia,
non canimus surdis, respondent omnia silvae. Quae nemora aut qui vos saltus habuere, puellae Naides, indigno cum Gallus amore peribat? nam neque Parnasi vobis iuga, nam neque Pindi ulla moram fecere, neque Aonie Aganippe. illum etiam lauri, etiam flevere myricae, pinifer illum etiam sola sub rupe iacentem Maenalus, et gelidi fleverunt saxa Lycaei.
Sannazaro se ne ricorda nel Prologo dell’Arcadia, quando promette di riportare le egloghe da lui udite e aggiunge:
a le quali non una volta ma mille i montani idii da dolcezza vinti prestarono intente orecchie, e le tenere Ninfe, dimenticate di perseguire i vaghi animali, lasciarono le faretre e gli archi appiè degli alti pini di Menalo e di Liceo26.
Se guardiamo poi all’episodio che più richiama il canto di Gallo morente, ovvero il racconto di Carino nell’ottava prosa, ci rendiamo conto di come l’emulazione si fa ben più evidente, attraverso il gioco dell’amplificatio e della contaminatio. Carino narra infatti del suo amore per una ninfa dedita a Diana, con la quale condivideva la passione per la caccia, e dopo aver incautamente confessato alla sua amata il suo amore, vedendosene non ricambiato, decide di gettarsi giù da una rupe (come il Damone dell’ottava virgiliana). il pastore si salverà trovando nella compassione della sua amica una cura al suo male, ma prima di giungere al lieto fine prorompe in un lungo canto d’addio, nel quale vengono invocate tutte le ninfe dei boschi e le bestie selvag
26 i. Sannazaro, Arcadia, p. 59.
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claudia corfiati322 ge, ma ancor prima i pastori, cui viene fatta esplicita richiesta di una fama immortale:
Voi, arcadi, cantarete nei vostri monti la mia morte; arcadi, soli di cantare experti, voi la mia morte nei vostri monti cantarete. O quanto allora le mie ossa quietamente riposeranno se la vostra sampogna a coloro che dopo me nasceranno dirà gli amori e i casi miei27!
Sta traducendo ancora Virgilio Bucolica X 31-34:
tristis at ille «tamen cantabitis, Arcades», inquit «montibus haec vestris: soli cantare periti Arcades. O mihi tum quam molliter ossa quiescant, vestra meos olim si fistula dicat amores!».
Ma si è detto che è Sincero il vero alter Gallus: in verità mancano nel suo racconto dei veri e propri punti di contatto con l’egloga di Virgilio. Certo, la sua storia è proprio quella, è la delusione nei confronti di questa terra inospitale che non gli permette né di dimenticare la sua amata, né di ricordarla adeguatamente. Le immagini virgiliane presenti nella settima prosa provengono tuttavia da altri luoghi delle Bucoliche, come la iii egloga (100-101) o la Viii (85-88), fino al momento in cui sincero afferma:
Né odo mai suono di sampogna alcuna, né voce di qualunque pastore, che gli occhi miei non versino amare lacrime; tornandomi a la memoria i lieti tempi, nei quali io le mie rime e i versi allora fatti cantando, mi udia da lei sommamente comendare.
Decreta di fatto un giudizio negativo nei confronti di quella poesia di cui si è fatto pur sempre attento ascoltatore, a favore di quanto egli stesso, nella sua patria Napoli, cantava e avrebbe continuato a cantare, ovvero a scrivere. una più precisa anche se più nascosta traccia si ritrova invece proprio nella decima egloga del Sannazaro. Selvaggio infatti, prima di riferire il canto di Giovan Francesco Caracciolo, il poeta napoletano che «non troverebbe il pari in tutta Arcadia», dice:
così prese a cantar sotto un bel frassino, io fiscelle tessendo, egli una gabbia28.
27 i. Sannazaro, Arcadia, p. 180. Come sottolinea Vecce: «È l’inizio del canto di Gallo». 28 i. Sannazaro, Arcadia, p. 247.
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sannazaro e virgilio. la poetica della diffrazione 323 Virgilio aveva detto (vv. 70-71):
Haec sat erit, divae, vestrum cecinisse poetam, dum sedet et gracili fiscellam texit hibisco.
i due pastori, quello storico, partenopeo, e quello mascherato d’Arcade in viaggio, ovvero Selvaggio, nell’ultima egloga della prima redazione dell’Arcadia si fanno scoprire dal lettore nella medesima posa di Virgilio negli ultimi versi della sua decima e ultima bucolica. È chiaro che qui la situazione è rovesciata: Selvaggio è il pastore che si fa ospitare nella civilissima Napoli per fuggire da un fiero amore, Gallo è il raffinato cittadino che come ultimo rimedio al suo triste affanno pensa di recarsi in Arcadia e diventare egli stesso pastore. Ma questa inversione è la sostanza stessa del romanzo. Se per la quinta egloga avevamo detto che la dispersione era stata minima, per la decima possiamo invece affermare che è stata massima: i singoli elementi si sono conservati tutti, ma distribuiti su di un’area che occupa tutta l’estensione della prima redazione dell’Arcadia29. A questo punto è d’obbligo chiederci se Sannazaro abbia attuato veramente una scelta all’interno del bucolicum carmen virgiliano, e quale, o se la ricerca debba addentrarsi più a fondo tra le righe del nostro testo, o sullo schermo, per usare ancora la metafora della diffrazione, per trovare le tracce delle altre fonti, degli altri raggi. Anche se l’indagine richiede una più puntuale verifica su tutto il corpo dell’opera, la presenza in questi tre luoghi strutturalmente impegnativi (prima, quinta e decima posizione: l’incipit, il mezzo e la fine della scrittura) di luoghi virgiliani così riconoscibili, citati, tradotti e nello stesso tempo traditi, superati, vinti forse ed emulati in una competizione che è duro esercizio stilistico e filologico, ci costringe a guardare con occhi diversi il rapporto tra il testo classico e l’opera moderna e ad interrogarci più profondamente sul significato complessivo di questo romanzo pastorale che tanto ancora affascina gli interpreti contemporanei.
Claudia Corfiati università di Bari
29 una conferma ci è fornita dal ricco indice di citazioni classiche dell’ed. Vecce (i. Sannazaro, Arcadia, p. 378): riferimenti espliciti alla decima virgiliana non occorrono oltre la decima egloga sannazariana ad eccezione di un caso, nella Xii prosa, ma è un rinvio indiretto alla figura di Aretusa, invocata nel primo verso da Virgilio, e guida del ritorno in patria di Sannazaro attraverso il suo viaggio (vd. i. Sannazaro, Arcadia, p. 293).
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MAriA SHAKHrAY Tra epica e storia: continuità e innovazione nel Conquisto di Granata di Girolamo Graziani e La Austríada di Juan Rufo
Nel periodo tra la fine del Cinquecento e il primo Seicento la produzione epica conosce una svolta importante. Gli eventi della storia moderna favoriscono la nascita di una nuova categoria di poemi epici incentrata su fatti storici contemporanei, ponendo gli autori di fronte a vari dilemmi, sia a livello di contenuto che stilistico. il saggio analizza l’interazione tra gli elementi topici ed elementi innovativi presenti nei poemi Il Conquisto di Granata di Girolamo Graziani e La Austríada di Juan rufo – testi che trattano gli avvenimenti relativi alla guerra tra le civilizzazioni cristiana e moresca e che sono esemplari di questo periodo cruciale nel processo dell’evoluzione del genere epico.
★ in the period between the end of the Cinquecento and the first part of the Seicento, the epic genre reaches an important turning point. The events of modern history favour the emergence of the new category of epic poetry dedicated to contemporary historical facts, putting the poets in front of various dilemmas, either at the level of content, or the one of style. The essay analyses the interaction of topical and innovative elements in the poems Il Conquisto di Granata by Girolamo Graziani and La Austríada by Juan rufo – texts that treat the events of the war between the Christian and the Moorish civilisations and that can be considered exemplary as far as the crucial period in the process of the epic genre evolution is concerned.
È noto che la poesia epica nel periodo tra la fine del Cinquecento e la prima metà del Seicento si trova in una situazione particolare. Si tratta di un’epoca che nella maggior parte delle opere critiche viene considerata un periodo di crisi e di decadenza tanto da segnare persino l’ipotizzata morte del genere epico. Se da un lato è vero che i modelli principali proposti da Ariosto e Tasso rimangono canoni indiscussi le cui scelte tematiche e stilistiche continuano a influenzare gli autori epici
Contributi
Autore: università di Bologna; Dottore di ricerca (D.E.S.E. – Doctorat d’Études Supérieures Européennes – Les littératures de l’Europe unie); maria.shakhray@ gmail.com
maria shakhray326 del primo Seicento facendo nascere una grande quantità di imitazioni, dall’altro lato il genere epico è sottoposto a significative innovazioni. il ruolo dello storico e del meraviglioso, il problema dell’unità e della varietà di cui già scriveva Tasso nei suoi Discorsi dell’arte poetica1, la tendenza verso il «verisimile» tassiano, la ripresa ma anche (come era stato spesso il caso) la rielaborazione e addirittura il rovesciamento dei topoi della tradizione epica ereditata – tutti elementi cruciali nella poesia epica – suscitano tante polemiche e si trovano al centro dei dibattiti letterari dell’epoca in seguito alla nascita della nuova categoria del genere epico, ovvero i poemi storici “contemporanei”. Questa nuova categoria che tratta di eventi storici molto recenti è un fenomeno di particolare interesse che si presenta come un’innovazione importante e una pietra miliare nel complesso processo dell’evoluzione del genere epico2. Questa svolta fondamentale era indubbiamente favorita da un certo numero di fattori storici, politici e letterari. Anzitutto, gli stessi eventi recenti avevano suggerito alla poesia epica argomenti di bruciante attualità. in effetti, la maggior parte delle opere nate dall’incontro della poesia epica con la storia recente erano sostanzialmente ispirati alle guerre di religione dell’epoca, quelle «interne» (i conflitti tra protestanti e cattolici), ma soprattutto quelle «esterne»3 (guerre tra le civiltà cristiana e musulmana). È noto che nel periodo tra il secondo Cinquecento e il primo Seicento i cosiddetti scontri tra civiltà si presentano come un problema fondamentale che a volte riesce addirittura a far passare in secondo piano le discordie all’interno dell’Europa occidentale, come dimostra la creazione e la promozione della Lega Santa allo scopo di difendere la Cristianità europea dalla minaccia orientale. È proprio in questa prospettiva che la figura del nemico assume un significato simbolico che si colloca nel contesto allegorico della lotta tra il Bene e il Male assoluti. Come scrive a questo proposito Sergio Zatti4, dal punto di visto religioso il Turco e il Moro rappresentavano lo stesso nemico simbolico che univa in sé le caratteristiche fondamen
1 Torquato Tasso, Discorsi dell’arte poetica e del poema eroico, a cura di Luigi Poma, Bari, Laterza, 1964. 2 Basti ricordare le parole di Tasso che nei Discorsi dell’arte poetica raccomandava ai poeti di scegliere la materia dalle «istorie de’ tempi né molto moderni né molto remoti» (Ibidem). 3 Per le nozioni di guerra di religione «interna» ed «esterna» vd. Fernand Braudel, La Méditerranée et le monde méditerranéen à l’époque de Philippe II, Paris, A. Colin, 1966, vol. ii, pp. 170-172. 4 Sergio Zatti, Il modo epico, roma-Bari, Laterza, 2000, p. 84.
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tra epica e storia: continuità e innovazione 327 tali intrinseche a tutti potenziali nemici di Cristo e della religione cristiana. in questo senso, se dal punto di vista storico si trattava di due tipi di nemici diversi, dal punto di vista ideologico entrambi erano considerati come la sinistra figura dell’infedele e quindi una minaccia all’identità e all’integrità del Mediterraneo cristiano. Come notava Antonio Belloni,
[…] bisognava destare gli animi all’entusiasmo, prepararli al cimento ricordando loro le fiere lotte già combattute con gli infedeli. Era quindi naturale che si presentasse come ottimo argomento di epopea la guerra santa per la conquista del Sepolcro5.
È proprio in questo contesto storico fortemente segnato dalle guerre con il nemico “esterno”, ossia la civiltà islamica, che avviene la rinascita del mito della crociata che da tempi immemorabili aveva messo radici nell’immaginario europeo. Avviene dunque che il mito in questione influenza dapprima gli eventi storici, ispirando le cosiddette nuove crociate difensive contro gli infedeli, per influenzare in seguito la poesia epica del periodo. Se già Tasso capiva perfettamente questo Zeitgeist quando nella sua Gerusalemme liberata faceva appello al Duca d’Este esortandolo ad «apparecchiarsi a l’armi»6 per intraprendere una nuova crociata, i poeti epici della generazione successiva vanno oltre trovando nelle nuove “crociate” come la battaglia di Lepanto e gli eventi della reconquista una “materia” o “favola” adattissima come base dell’intero poema. A queste grandi speranze militari corrispondevano le aspettative di cambiamento avvertite in ambito letterario nei paesi dell’Europa mediterranea, soprattutto italia e Spagna. Carlo Dionisotti così caratterizzò il clima letterario regnante nella Venezia dell’epoca:
La poesia dunque precorse anche allora, come spesso fa, gli eventi, perché gli eventi erano ineluttabilmente maturi nel cuore, nella mente, nella vita tutta degli uomini. Né l’ideale della pace né l’esercizio di un’arte raffinatissima […] potevano bastare alle generazioni nuove, sazie di prudenza e di misura, avide di grandezza e di certezza7.
5 Antonio Belloni, Gli epigoni della Gerusalemme liberata, Padova, Angelo Draghi, 1893, p. 23. 6 T. Tasso, Gerusalemme liberata, ed. a cura di Franco Tomasi, Milano, Bur rizzoli, 2009, i, 5, 7-8: «Emulo di Goffredo, i nostri carmi / intanto ascolta, e t’apparecchia a l’armi». 7 Carlo Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1967, pp. 219-220.
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maria shakhray328 Queste allusioni al nuovo ideale eroico adatto sia al nuovo contesto storico che alle esigenze dei letterati, si riferivano ovviamente non solo alla condizione particolare di Venezia ma a quella dell’Europa cristiana del Mediterraneo in generale visto che «le condizioni stesse dell’Europa, della Cristianità, erano mutate […]. Anche in italia, persino in italia, rifioriva un ideale di eroica grandezza»8. in questa situazione la nascita e la crescente popolarità del genere epico storico “recente”, che comportava l’infrazione della prescrizione tassiana di scegliere la materia epica da «tempi non molto moderni» non sembra quindi un fenomeno sorprendente. La poesia epica prosegue perciò nella direzione di fondere il mito della crociata e gli eventi attuali di guerre di religione che sostanzialmente ne erano l’incarnazione più recente. in questo senso, la «costante ricerca di novità» di cui parla Guido Arbizzoni9 e la necessità di conciliare quest’ultima con le esigenze dell’autorevole tradizione venivano affrontate proprio nell’ottica del mito della crociata – ed è appunto in questa prospettiva che gli eventi della storia recente venivano iscritti. Nella stessa ottica si colloca Il Conquisto di Granata – il poema epico di Girolamo Graziani composto nel 1650 di cui l’aspetto universale e allegorico veniva sottolineato da Antonio Belloni che, partendo da un contesto fortemente ideologico, metteva in risalto la stessa prospettiva allegorica cancellando le differenze tra nemici appartenenti a momenti storici e nazioni diverse:
È inutile, ch’io faccia rilevare la importanza grandissima dell’argomento, per la quale certo il poema del Graziani può star con onore al fianco della Gerusalemme Liberata. infatti dalla presa di Granata, che chiude una lunga e sanguinosa lotta di otto secoli contro i più feroci nemici di Cristo, procede non pur la posteriore grandezza della Spagna, ma, sotto un certo rispetto, la salvezza del mondo cristiano, il quale dopo la presa di Costantinopoli era, per dir così, minacciato da due fuochi all’occidente e all’oriente. Era dunque non solo una impresa nazionale, che il Graziani cantava, ma una lotta combattuta in nome della fede contro quegli stessi nemici, ai quali Goffredo avea strappato di mano il Santo Sepolcro10.
il lungo e tormentato processo della reconquista vive il suo mo
8 Ibidem. 9 Guido Arbizzoni, Un’ipotesi secentesca di poesia eroica: «La Fiorenza difesa» di Niccola Villani, urbino, Argalia, 1977, p. X. 10 A. Belloni, Gli epigoni della Gerusalemme liberata, cit., p. 322.
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tra epica e storia: continuità e innovazione 329 mento culminante nell’evento della conquista di Granada nel 1492 che ispirò Graziani a comporre nel 1650 il suo poema epico. La vittoria dei Cristiani a Granada ha infatti segnato «il lento naufragio»11 dell’islam iberico ma non ha saputo risolvere definitivamente una situazione in cui per entrambe le parti non era possibile arrivare ad un compromesso. il problema quindi ritorna di nuovo nel 1568 con una serie di feroci ribellioni dei Moreschi – ed è appunto a questa continuazione della guerra interna che il poeta cordovano, Juan rufo, dedica nel 1584 la sua Austríada12. i due poemi che prenderemo in considerazione per analizzare possibili innovazioni e infrazioni delle prescrizioni classiche – ma anche le riprese dei topoi epici – appartengono a tradizioni nazionali diverse. Ciononostante, entrambi i testi trattano la stessa tematica riguardante gli eventi delle guerre di religione tra civiltà cristiana e moresca nella Spagna cattolica, affrontando il conflitto attraverso la stessa prospettiva allegorica del mito della crociata. il poema spagnolo sul piano tematico dimostra pienamente una crescente tendenza alla diminuzione della topica dimensione degli «amori» e dell’elemento romanzesco e all’«ampliamento» dell’universo delle «arme». Come osserva a questo proposito Stefano Jossa,
il poema di metà Cinquecento deve prima di tutto fare i conti con le arme e gli amori, la cui congiunzione era uno dei motivi fondanti della tradizione cavalleresca italiana. Nel transito del poema rinascimentale si verifica una progressiva riduzione dello spazio dell’amore cui corrisponde un direttamente proporzionale ampliamento dello spazio della guerra13.
La Austríada comprova questa tendenza a privilegiare il mondo delle «arme», non solo nella protasi (nella quale il narratore annuncia tradizionalmente di cantare «las armas de Filipe augusto»14): l’universo della guerra occuperà una posizione centrale nel poema in generale, l’intreccio amoroso essendo praticamente assente nel testo. Anche nel proemio del Conquisto di Granata troviamo la solenne
11 F. Braudel, La Méditerranée et le monde méditerranéen à l’époque de Philippe II, cit., p. 118. 12 Tutte le citazioni del poema nel presente saggio sono tratte da Juan rufo, La Austríada, a cura di Ester Lidia Cicchetti, Como-Pavia, ibis, 2011. 13 Stefano Jossa, La fondazione di un genere. Il poema eroico tra Ariosto e Tasso, roma, Carocci, 2002, p. 179. 14 J. rufo, La Austríada, cit., i, 1, p. 108.
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maria shakhray330 promessa del narratore di privilegiare l’universo di Marte, ossia la linea narrativa del conflitto militare tra gli Spagnoli e i Mori. il poeta traccia perciò una chiara distinzione tra il testo presente e la sua opera precedente, La Cleopatra (Venezia, Presso il Sarzina, 1632), incentrata sul conflitto d’amore e di guerra tra Cleopatra e Marco Antonio:
io, che spiegai con amorosi carmi su l’italica cetra egizi errori, vo’ cantar con la tromba al suon de l’armi Granata vinta e soggiogati i Mori15. (i, 1, 1-4, p. 7)
in entrambi i casi il tema militare viene annunciato come centro della narrazione epica, tuttavia è notevole la differenza tra i modi che i due poeti scelgono per affrontare la tematica amorosa. Se il nucleo narrativo dell’Austríada è infatti il conflitto militare, ovvero lo scontro tra le due civiltà opposte, l’azione del Conquisto di Granata, seguendo la tradizione tassiana, comprende tante linee amorose («vari errori») che però sono viste come deviazioni dalla linea narrativa principale (quella militare). Come precisa il narratore, queste deviazioni servono soprattutto allo scopo del divertimento e piacere del lettore, iscrivendosi perfettamente nella logica labirintica del poema:
Musa, tu non sdegnar, che in mezzo a l’armi spieghi del vano albergo i folli amori, e che procuri con soavi carmi di Marte raddolcir gli alti furori; tu sola puoi ridire, e sai mostrarmi del cieco labirinto i vari errori […]. (XX, 4, 1-6, p. 422)
un episodio cruciale del canto XX ispirato al famoso episodio tassiano di rinaldo e Armida mette a confronto gli universi delle armi e degli amori affrontandoli come mondi radicalmente opposti. Hernando, l’illustre guerriero spagnolo, è prigioniero dell’affascinante maga Belsirena che con tutto il suo potere magico e il suo fascino femminile cerca di convincere l’eroe ad abbandonare il sentiero di guerra e a rimanere per sempre nel suo regno idilliaco: è proprio nella scena in questione che la situazione topica del guerriero provvisoriamente de
15 D’ora in avanti citeremo l’edizione recente del poema: Girolamo Graziani, Il Conquisto di Granata, a cura di Tancredi Artico, Modena, Mucchi, 2017.
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tra epica e storia: continuità e innovazione 331 viato dalla sua vocazione autentica subisce una radicale trasformazione. A differenza dell’eroe della Gerusalemme liberata il personaggio di Graziani senza il minimo dubbio rifiuta la proposta allettante della maga disprezzando apertamente il mondo degli amori, incarnato dal regno di Belsirena:
«Vari istinti dal ciel piovono in terra, altri segua gli amori, io vo’ la guerra. Si appaghi altri ne l’ozio e adori un viso, cui diano i pregi lor natura ed arte, serva a duo parolette, osservi un riso, che in duo labbri soavi amor comparte, il mio cor non ritrova il Paradiso a i nobili desiri in fragil parte, ma s’innalza colà dove lo chiama a i trionfi guerrieri aura di fama». (XX, 31, 7-8; XX, 32, pp. 428-429)
Siamo di fronte ad un eroe che incarna tutte le virtù del guerriero cristiano, totalmente immune al fascino dell’universo dell’ozio e degli amori, cosicché non c’è nemmeno bisogno di introdurre figure simili a quelle di Carlo e ubaldo che nel poema tassiano liberano rinaldo dalla sua prigionia volontaria nel regno amoroso di Armida. Così avviene che la dichiarazione di Hernando «io vo’ la guerra» diventa il motto di molti autori dei poemi epici storici “contemporanei” del periodo in questione, riassumendo in sé la ferma intenzione di favorire la tendenza recente di dare la priorità al mondo della guerra. un altro aspetto importante è la presenza in entrambi i poemi di alcuni elementi moderni la cui funzione si rivela fondamentale. Se paragoniamo il Conquisto di Granata al poema di rufo, noteremo immediatamente una differenza cruciale che consta nel modo di rappresentare i combattimenti militari16. Si tratta infatti di un dilemma davanti al quale si trovano i poeti che si dedicano alla composizione di poemi epici ispirati agli eventi della storia moderna: vale effettivamente la pena di infrangere il canone della tradizione che ha da sempre raffigurato le tenzoni cavalleresche per introdurre invece la novità cruciale delle recentissime tecnologie militari che avevano largamente contribuito ai recenti trionfi dell’Europa mediterranea? La tradizione epica
16 Vd. a questo proposito T. Artico, Prefazione a G. Graziani, Il Conquisto di Granata, cit., in particolare pp. V-Vi.
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maria shakhray332 precedente non era in grado di offrire regole fisse al riguardo e quindi si trattava di soluzioni individuali da trovare per adattarsi alla nuova realtà. Così, l’autore del Conquisto di Granata rifiuta nettamente di rappresentare le nuove modalità di combattere, aderendo pienamente alla tradizione classica cavalleresca. il poema dunque comprende un’abbondante quantità di scene di combattimento sempre subordinate alle rigorose regole del codice cavalleresco e alla cruciale nozione dell’onore. Per citare un esempio, quando nell’episodio del canto Vii il comandante moro, Osmino, cade dal suo destriero, la figlia dell’eroe cristiano, Silvera, lo salva facendo ricorso alla topica nozione cavalleresca dell’onore, che non incontra nessuna obiezione tra gli altri guerrieri: «Fermate, o cavalieri; alcun non ose / di molestare il cavalier caduto; / sua gentilezza obligo m’impose / quando in rischio simil porsemi aiuto»17. Nel canto XXiV assistiamo ad un altro esempio significativo, durante l’imprescindibile scontro finale tra i due monarchi che rappresentano le civiltà opposte. il duello che deve decidere la sorte di Granada viene descritto in linea con la tradizione classica:
Fanno intorno corona a i duo guerrieri i popoli ansiosi e palpitanti, e pendono di tutti a i colpi fieri Le menti dubbie e gli animi tremanti. Giran le spade e girano i destrieri come in torbido ciel lampi rotanti, tuonano al fulminar de i ferri crudi infranti gli elmi e laceri gli scudi. […] Chi vide mai quando il leon possente pien di furor contro il torel si mosse, s’imagini che tal con fiero sguardo gisse contr’Alimoro il re gagliardo. (XXV, 104, p. 575; 107, vv. 5-8, p. 576)
Già i primi versi dell’episodio citato mostrano l’approccio di Graziani alla verità storica: qui non abbiamo nessuna descrizione di caotici combattimenti collettivi, né l’atmosfera di panico e confusione creata dall’uso delle devastanti armi moderne, ma piuttosto una classica tenzone cavalleresca, con i partecipanti che combattono in sella con le immancabili spade, scudi e lance mentre il resto dei guerrieri
17 Il Conquisto di Granata, cit., Vii, 50, 1-4, p. 174.
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tra epica e storia: continuità e innovazione 333 abbandonano le azioni militari per seguire, «ansiosi e palpitanti», l’esito del duello. La scena viene narrata in modo estremamente dettagliato, con il narratore che, descrivendo puntualmente il corso della battaglia, introduce le classiche similitudini zoomorfe e si sofferma particolarmente sugli «affetti misti»18 provati dai combattenti. Se l’autore del Conquisto di Granata evita insistentemente i riferimenti alle armi da fuoco moderne allo scopo di mantenere lo spirito cavalleresco intrinseco ai poemi epici, il poeta cordovano offre al suo lettore una soluzione sostanzialmente diversa. La Austríada in effetti propone una quantità impressionante di descrizioni minuziose della moderna artiglieria pesante e della sua potenza distruttrice, e opta quindi per l’introduzione di un elemento fondamentalmente innovativo:
La fiera tempestad y el son horrendo de las espesas balas y cañones comiençan a tronar y van creciendo apriessa los nocivos turbïones; a todos ensordece un bravo estruendo, los hechos valen ya, no las razones, el hondo mar gimiéndose estremece, el aire se condensa y escurece. (XXiii, 23, p. 800)
Come possiamo vedere, l’autore dell’Austríada, pur sottolineando il ruolo essenziale delle nuove armi nella sconfitta del nemico, dimostra tuttavia un atteggiamento chiaramente negativo verso il moderno progresso tecnologico e la nuova ars belli le cui manifestazioni «detestabili» e «bestiali» sembrano un’«offesa» alla natura e alla dignità umana19:
Tal modo de lidiar no tiene duda, sino que es el crisol de valentia, porque lo que pervierte, turba y muda la atroz y detestable artillería, no da lugar, con su violencia cruda,
18 È da notare che la maggior parte dei personaggi del Conquisto di Granata hanno un’identità complessa in quanto le loro azioni sono spesso motivate da «di mille affetti un misto affetto» (Il Conquisto di Granata, cit., Vi, 47, 8, p. 148), a prescindere dalla loro origine e appartenenza religiosa. 19 Già in Ariosto troviamo invettive contro le armi da fuoco, che sono viste come «ingegni empi e maligni»: vd. Orlando furioso, iX, 91 e Xi, 23-27.
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a veces al esfuerço y gallardía; ni devieran los hombres racionales con armas ofenderse tan bestiales. (XXiV, 16, p. 840)
L’atteggiamento di rufo contrario alle armi moderne – questo elemento innovativo innestato sulla materia classica della poesia epica – viene riaffermato in un episodio cruciale del canto X, quando il narratore, sottolineando la codardia del nemico moro, lo rende un emblema della nuova tipologia dei caotici combattimenti collettivi e delle «terribili» armi moderne. in questa scena il ribelle moresco, Arendate, armato con le armi da fuoco e attorniato dai suoi compagni, irrompe nel campo di battaglia violando ogni principio del codice cavalleresco:
«¡Tirad – les dize – todos juntamente! ¡Quitad del mundo monstruo tan horrible!» La cuadrilla obedece encontinente, disparando la máquina terrible: rompe el aire bolando el plomo ardiente, y passa un pecho […] donde tal coraçón tuvo posada que jamás el temor le halló entrada. (X, 86, p. 381)
infine Arendate commette un’infrazione essenziale del codice cavalleresco rifiutando il duello con il comandante dell’esercito cristiano Cespedes:
El cauto moro con ardid rehúsa de estar a parangón en el encuentro; el jayán español su miedo acusa, y vuelve a procurar nuevo rencuentro; cuando llegado al fin que no se excusa, el cuerpo gigantesco batió el centro […]. (X, 88, 1-6, p. 382)
il narratore non cela la sua simpatia per l’eroe cristiano, mettendo in risalto il suo aspetto dignitoso e contrapponendolo al meschino Arendate20. Cionononstante, si tratta di uno sguardo disilluso: l’episo
20 Vd. La Austríada, cit., X, 91, p. 382: il «gigantesco» e «magnifico» corpo del comandante perito viene paragonato a un «leone morto», mentre il meschino Arendate è assimilato per la sua codardia ad una lepre, e i suoi compagni moreschi vengono designati come una «miserabile manciata di vermi».
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tra epica e storia: continuità e innovazione 335 dio finisce con la morte del valoroso Cespedes e il trionfo del nemico moro – e dunque, per estensione, il trionfo di quelle «macchine terribili» che sono le armi da fuoco moderne. A differenza del poema di Graziani, il testo di rufo contiene quindi una presenza importante dell’elemento storico a danno di quello del meraviglioso. Nel testo dell’Austríada, in effetti, non troviamo né le topiche armi fatate fondamentali per quanto riguarda l’esito della battaglia finale, né diretti interventi divini o infernali, né trasformazioni magiche e varie altre «opre d’incanti»21 di cui invece abbonda Il Conquisto di Granata. il testo spagnolo si rivela pervaso dall’ideologia e dai valori della Controriforma che fungono da base per la narrazione poetica: diversamente dalla tradizione classica, gli ultimi eventi della reconquista non sono mai concepiti come frutto di intrighi diabolici ma vengono raffigurati come una «batalla […] legitima y justa»22 autorizzata da Dio con l’obiettivo di «desarraigar la secta fiera»23 dei moreschi. La stessa figura di Dio si presenta come incarnazione della suprema giustizia la cui «severa frente»24 dissimula «el amoroso fuego»25 verso la Cristianità, mentre i moreschi, in linea con l’atteggiamento storico degli Spagnoli26, vengono chiamati «aquel maldito vulgo»27 – un popolo «maledetto» mandato da Dio sulla terra per punire l’umanità del peccato originale. La figura del nemico, essendo uno dei nuclei essenziali di entrambi i poemi epici, merita una considerazione particolare. Anche in questo
21 Il Conquisto di Granata, cit., ii, 23, 3, p. 43. È da notare il ruolo cruciale della topica arma celeste nel poema di Graziani introdotta già nel canto ii del poema. Solo il «magnanimo» re, Ferdinando il Cattolico, con il «brando fatal» donatogli dal «cavalier celeste» potrà rompere gli incantesimi («l’arti perverse») infernali liberando la città dalla dominazione musulmana (Ibidem). un altro esempio eclatante della fortissima presenza del meraviglioso nel poema è l’episodio del canto XXi quando il «valoroso» Hernando uccide con la sua spada divina l’orribile «falso» drago che rivela di essere un fantasma infernale e che si trasforma in seguito in una «vera nave»: «Sparve del mostro fier l’orrida forma, / perch’era opra d’incanto, il qual è vinto / da la spada celeste e si trasforma / in vera nave il falso drago estinto». (XXi, 5, 1-4, p. 452.) 22 La Austríada, cit., Xii, 6, p. 429. 23 La Austríada, cit., iii, 43, p. 187. 24 La Austríada, cit., iii, 42, p. 186. 25 Ibidem. 26 Vd. a questo proposito Felice Gambin, L’oro dei moriscos nella letteratura apologetica sull’espulsione in Alle radici dell’Europa. Mori, giudei e zingari nei paesi del Mediterraneo occidentale, a cura di id., Firenze, SEiD, 2010, vol. ii, p. 106. 27 La Austríada, cit., i, 5, p. 149.
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maria shakhray336 caso troviamo delle differenze fondamentali tra i due testi in questione: se Graziani sceglie l’approccio della differenziazione – e infatti le immagini dei Mori che incontriamo nel Conquisto di Granata sono tutte diverse e individualizzate – nell’Austríada siamo di fronte a una prospettiva diversa. Nel poema spagnolo i moriscos vengono introdotti come una «comunità omogenea e indifferenziata»28, sempre visti come incarnazione viva del Male assoluto. A differenza del nemico ottomano, introdotto nella prima parte del poema, le figure dei ribelli moreschi solitamente incarnano vizi come codardia, perfidia e inganno: a questo proposito abbiamo già rievocato l’episodio cruciale dello scontro tra gli Spagnoli e i Moreschi nel canto X, con al centro l’abominevole figura del «cauto Moro» che, nonostante le circostanze favorevoli, rifiuta lo scontro aperto con il valoroso comandante spagnolo Cespedes. un altro esempio rilevante è la scena tratta dal canto ii che narra l’inizio della ribellione moresca, già profondamente segnata dalla perfidia e malvagità:
Querían, como tengo referido, que noche fuese, y la del Nascimiento, para hallar el pueblo más unido, seguro en exercicios de contento, y con devoción embevecido, suspenso, tibio, atado y soñoliento, las casas solas y los templos llenos, sin armas y las manos en los senos. (ii, 34, p. 153)
È importante sottolineare come il secondo nemico della civiltà cristiana presente nel poema – i Turchi Ottomani – non venga mai trattato alla stessa maniera. il narratore mette costantemente in rilievo la ferocia e l’atrocità estreme degli Ottomani ma dimostra, in linea di massima, un atteggiamento di rispetto, soprattutto per quanto riguarda il loro valore militare: i Turchi sono i nemici degni che, in questa visione, non sono affatto simili ai perfidi Moreschi. un’ottica totalmente diversa è presente nel poema di Graziani, che ci propone dei ritratti dei nemici saraceni molto più complessi e soprattutto individualizzati. Così, il selvaggio, rozzo e feroce Almansor
28 F. Gambin, L’oro dei moriscos nella letteratura apologetica sull’espulsione in Alle radici dell’Europa. Mori, giudei e zingari nei paesi del Mediterraneo occidentale, cit., pp. 106-107.
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tra epica e storia: continuità e innovazione 337 re si rivela in grado di provare nobili «affetti misti», come la compassione e la fedeltà, e figure come quelle dei due guerrieri consiglieri del re Baudele – Agramasso (1) e Almiren (2) – sono ancora più complesse e sofisticate, incarnando le essenziali virtù cavalleresche e cortigiane. Valorosi guerrieri, entrambi possiedono anche il dono della saggezza, della perspicacia, della gentilezza e della buona creanza:
(1) Siede Agramasso appresso a lor, che tiene sovra l’armi del re libero impero, di lignaggio real la madre Argene lui con novo splendor rende più altero. Placido nel sembiante, egli ritiene misto a dolci maniere il cor guerriero, e congiunge egualmente, e saggio e forte, l’arti de la milizia, e de la corte. (i, 19, p. 12)
(2) Segue Almiren, che de i paterni tetti da l’umil stato a i sommi affar del regno innalzàr pura fé, candidi affetti, antica servitù, costante ingegno. Profondo è ne i pensier, grave ne i detti, paziente al soffrir, tardo a lo sdegno; accrescono vigore al suo consiglio libere le maniere, austero il ciglio. (i, 20, p. 12)
un’altra figura estremamente dignitosa e raffinata è quella del guerriero moro Osmino, i cui tratti fondamentali sono la nobiltà e la gentilezza sono le caratteristiche fondamentali, e che durante tutti i duelli nel corso del poema non infrange mai le regole prescritte dal codice cavalleresco. Come si può notare, quindi, Graziani affronta il problema della rappresentazione del nemico ricorrendo al mezzo della differenziazione, offrendo spesso al lettore dei ritratti psicologici molto complessi, mentre il poeta cordovano aderisce pienamente alla tradizione nazionale di completa negazione e addirittura demonizzazione della figura del nemico. in compenso, rufo non esita ad introdurre elementi storici nella tessitura del suo poema, come le “diaboliche” tecnologie e le devastanti armi moderne. Di conseguenza, l’autore spagnolo rifiuta completamente il meraviglioso pagano e riduce significativamente la presenza del meraviglioso in genere: l’unico intervento miracoloso che troviamo nel testo è l’episodio della tempesta di neve nel
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maria shakhray338 canto ii: «[…] más quiso el cielo justo en la jornada / obstáculo poner firme y entero, / con que se refrenarse aquel malino / furor que iva ya al fin de su camino»29. L’episodio della burrasca di neve mandata da Dio per impedire ai Moreschi di assalire il disarmato popolo spagnolo nella notte di Natale rimane unico nel suo genere: il narratore talvolta si permette di fare allusione ad altri possibili interventi divini ma insiste continuamente sull’impossibilità di penetrare la misteriosa volontà divina e quindi sull’assenza di una spiegazione univoca degli eventi storici in questione. Così, come abbiamo visto, invece di un periodo di decadenza e declino della poesia epica tra la fine del Cinquecento e il primo Seicento, sarebbe più opportuno parlare di un genere che continua a vivere ed evolversi in una condizione che presuppone «un’oscillazione […] maggiore tra l’adesione alla novità e il mantenimento del retaggio classico»30. L’ampliamento della dimensione bellica, la presenza sempre più marcata dell’elemento storico, la riduzione significativa del meraviglioso, la ripresa e l’elaborazione della linea tassiana di maggior psicologizzazione e individualizzazione dei personaggi, inclusa la figura del nemico musulmano – ecco solo alcune delle tendenze innovative che dimostrano le transformazioni subite dalla poesia epica nel periodo in questione. Si tratta dunque di un genere che viene constantemente rinnovato e rielaborato, e il cui sviluppo viene particolarmente favorito dal contesto di «rifiorimento» degli ideali eroici e della rinascita del mito della crociata, così come dal periodo storicamente intenso e ricco di diverse proposte epiche che, come i due poemi che abbiamo preso in considerazione, indubbiamente meritano di essere rivisitate.
Maria Shakhray università di Bologna
29 La Austríada, cit., ii, 43, 4-8, p. 154. 30 T. Artico, Prefazione a G. Graziani, Il Conquisto di Granata, cit., p. Vi.
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DEBOrA CArCEA Dal «secol superbo e sciocco» al «trionfo della spazzatura». L’ultimo Montale e il Leopardi satirico
Lo studio indaga le relazioni tra l’ultimo Montale e il Leopardi satirico, concentrandosi sulla comune polemica contro il proprio presente e sui modi della sua espressione. Tratti di contiguità si trovano nella sferzante irrisione delle filosofie progressiste e del facile ottimismo contemporanei; nella protesta contro la società di massa e i suoi mezzi di comunicazione; nella diffidenza verso le macchine e la tecnologia; nella condanna del culto del denaro e dello spirito utilitaristico.
★ This essay looks at the lies linking the later Montale with Leopard’s satirical writing, focusing on the common polemic against the present-day world and its modes of expression. The two men are likened by their biting attacks on contemporary progressive philosophy and unquestioning optimism, in their protest against mass society and its means of communication, in their diffidence towards machines and technology and, finally, in their condemnation of the cult of money and a utilitarian spirit.
Non sono un Leopardi, lascio poco da ardere ed è già troppo vivere in percentuale.
Come si evince fin da questi versi della poesia conclusiva del Diario del ’71 e del ’72 (1973), Per finire (D, p. 4201), «quando ha potuto, ci ha già
Autore: università della Calabria; Cultore della materia; debora.carcea@hotmail.it 1 Tutte le citazioni di Montale sono tratte dalle seguenti edizioni: Eugenio Montale, Tutte le poesie, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, 201116 [d’ora in poi citata TP]; E. Montale, Prose e racconti, a cura e con introduzione di Marco Forti, note ai testi e varianti a cura di Luisa Previtera, Milano, Mondadori, 20014 [d’ora in poi citata Pr]; E. Montale, Il secondo mestiere. Arte, musica, società, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1996 [d’ora in poi citata SMA]; E. Montale, Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, 2 tomi, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1996 [d’ora in poi citata SMP]. in TP si trovano: E. Montale, Satura, pp. 279-417 [d’ora in poi citata SA]; E. Montale, Diario del ’71 e del ’72, pp. 421-520
debora carcea340 insisto Montale sul fatto che tra lui e Leopardi c’è in ballo anzitutto la differenza»2. Montale non esibì mai un particolare apprezzamento verso il poeta di recanati, e anzi si premurò spesso di sottolineare la sua distanza nei confronti di quest’ultimo in vari interventi tra saggi, interviste e persino lettere private3. Così, in una epistola ad irma Brandeis del 10 gennaio 1934 dichiara: «I like Dante and not much Leopardi»4, e in un’in
[d’ora in poi citata D]; E. Montale, Quaderno di quattro anni, pp. 521-643 [d’ora in poi citata QQ]. 2 Gilberto Lonardi, Un ascolto “sviato”: il Leopardi di Montale, in Giacomo Leopardi. Poesia, pensiero, ricezione. Atti del convegno internazionale di Barcellona, a cura di Maria de las Nieves Muñiz Muñiz, insula, 2000, pp. 227-248: p. 227. L’intervento è poi ripubblicato col titolo La lunga scia della cometa: il Leopardi di Montale, «resine», 2000, n. 84, pp. 23-45. Esso si inserisce in un percorso di studio già aperto da Lonardi nel 1980, con il saggio Lungo l’asse leopardiano, in id. Il Vecchio e il Giovane e altri studi su Montale, Bologna, Zanichelli, 1980, pp. 73-120. Segnalo anche il volume di G. Lonardi, Leopardismo. Tre saggi sugli usi di Leopardi dall’Otto al Novecento, Firenze, Sansoni, 1990. riguardo i rapporti tra Leopardi e Montale, fondamentale è il saggio di romano Luperini, Il Leopardi di Montale, in id., Il Dialogo e il conflitto. Per un’ermeneutica materialistica, roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 125-135, poi riproposto in id., Montale e l’allegoria moderna, Napoli, Liguori, 2012, pp. 63-64. Altri importanti contributi sulla questione sono: Giovanni Savoca, Il Leopardi di Montale tra prosa e poesia, «revue des études italiannes», Luglio-Dicembre 1998, n. 3-4, pp. 235-250; Laura Barile, Una luna un po’ ingobbita in Ead. Montale Londra e la luna, Firenze, Le Lettere, 1998, pp. 107-150; Anna Dolfi, Montale secondo Leopardi. Un caso limite di intertestualità in Ead., Leopardi e il Novecento: sul leopardismo dei poeti, Firenze, Le Lettere, 2009, pp. 45-59. Sul comune atteggiamento di Leopardi e Montale di fronte all’«età della tecnica», scrive Adriano Fraulini, Da Leopardi a Montale: la tecnica in prospettiva, «Critica letteraria», 2015, n. 167, pp. 229-254. Segnalo per completezza due interventi sul rapporto Leopardi-Montale, i quali tuttavia esulano dall’argomento specifico della presente trattazione: Francesca D’Alessandro, Solmi e Montale di fronte a Leopardi, «Otto/Novecento», 2014, n. 1, pp. 29-68; Diana Cristadoro Parra, Ungaretti-Montale: Leopardismo e antileopardismo, in Ead., Leopardismo ed antileopardismo nel nostro ’900: Ungaretti, Bacchelli, Montale, Poggibonsi, Lalli, 1984, pp. 13-27. Quest’ultimo è interessante per un approccio opposto a quello qui proposto: Montale è infatti presentato come esempio di antileopardismo novecentesco («Non è semplice e neppure opportuno in questa sede affrontare un discorso con tono critico sull’argomento Leopardi-Montale o Montale-Leopardi, secondo da quale angolatura si osservi la questione. Non mi sembra infatti di aver trovato argomento su cui lavorare in questo tono», ivi p. 21). 3 Per una rassegna completa degli interventi di Montale su Leopardi, si rimanda a G. Savoca, Il Leopardi di Montale tra prosa e poesia, cit., pp. 235-250. 4 E. Montale, Lettere a Clizia, a cura di rosanna Bettarini, Gloria Manghetti, Franco Zabagli, Milano, Mondadori, 2006, p. 49.
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dal «secol superbo e sciocco» al «trionfo della spazzatura» 341 tervista a Giansiro Ferrata del 1961: «Non sono mai stato un lettore accanito del Leopardi, per colpa mia certamente»5. Ma è Montale stesso che ci invita a non credere sempre e totalmente alle sue parole, avvertendoci di come spesso si diverta a “depistare” i suoi critici e lettori («i critici ripetono / già da me depistati / che il mio “tu” è un istituto», I critici ripetono…, SA, p. 283). in realtà, «con la differenza si intreccia fortemente la coimplicazione. Anche profonda, spesso molto nascosta o “sviata” e niente affatto “spiattellata”»6. Le ragioni di questa reticenza possono essere individuate, da un lato, in una volontà di «auto-protezione» nei confronti del possibile accostamento ad un poeta celeberrimo e ingombrante come Leopardi7; dall’altro, in una presa di distanza da ciò che il richiamo a quest’ultimo ha significato per il Novecento8. Pur con questi limiti, «Leopardi resta per Montale un punto di riferimento ineliminabile come necessaria premessa della poesia moderna italiana e dunque anche della propria»9. Si può concludere dunque con Lonardi che per Montale Leopardi non è un modello diretto o un “padre”, ma piuttosto un primum, un avo, una premessa indispensabile. romano Luperini10 individua, nella produzione poetica montaliana, tre zone d’influenza di Leopardi: quella degli Ossi di seppia dell’edizione Gobetti del 1925; quella legata alla figura di Arletta; quella dell’estremo Montale di Quaderno di quattro anni (1977) e di Altri versi (1980). È proprio la terza zona (quella, secondo Luperini, «meno esplorata»11) che interessa in questa sede. Sarà inoltre opportuno
5 id., Interviste al microfono, in SMA, p. 1612. 6 G. Lonardi, Un ascolto “sviato”: il Leopardi di Montale, cit., p. 227. 7 «La strategia montaliana nei confronti di Leopardi, una strategia anche autoprotettiva, non manca certo di un suo valore, voluto o meno, di protezione pure nei confronti dello stesso Leopardi», ivi, p. 246. 8 «Vi è una ragione storica nella diffidenza di Montale per Leopardi: l’uso che di questo poeta veniva fatto negli anni Trenta tanto da Cardarelli, quanto soprattutto da ungaretti e dagli ermetici. in particolare Montale – poeta assai più dantesco che petrarchesco – resta estraneo e ostile al leopardismo ungarettiano filtrato attraverso Petrarca e Mallarmé. Leopardi, insomma, doveva apparirgli in qualche modo troppo invischiato nella poetica della “poesia pura” per essere assunto senza vaglio critico», r. Luperini, Il Leopardi di Montale, cit., p. 128. 9 Ibidem. 10 Ivi, p. 130. 11 Ibidem.
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debora carcea342 estendere il discorso anche alle raccolte montaliane Satura (1971) e Diario del ’71 e del ’72 (1973), nonché alla coeva produzione in prosa12. il Leopardi che maggiormente vi influisce è quello satirico degli anni Trenta, dei Paralipomeni (1835), della Palinodia (1831-35), dei Nuovi Credenti (1935-36), della Ginestra (1936). Poco analizzato il rapporto fra le Operette morali e l’ultimo Montale, pure, a mio parere, esistente e interessante13. A parte l’occasionale citazione esplicita14, i punti di incontro possono essere individuati essenzialmente nei seguenti elementi:
12 Anche A. Fraulini, commentando il citato saggio di Luperini, considera molte osservazioni di quest’ultimo riferite all’«ultimo Montale» (r. Luperini, Il Leopardi di Montale, cit., p. 130) come estendibili anche alle raccolte Satura e Diario del ’71 e del ’72: «Gli allacci enunciati da Luperini sono più che indizi: testimoniano la fluidità pesante del rapporto fra i due. L’ironia che nutre la lirica satirica dell’ultima fase leopardiana è parente di quella che muove il sarcasmo montaliano da Satura in poi; l’atteggiamento disincantato nei confronti del progresso, pur variando di secolo, resta identico, con al vertice l’intento parodico e di derisione dell’ingenuità di chi crede in una verità pesante e ottimistica. Storicismo, positivismo e valori intrisi di scienza sono regolarmente messi davanti alle proprie aporie» (A. Fraulini, Da Leopardi a Montale: la tecnica in prospettiva, cit., p. 246). 13 il confronto con le Operette morali è indagato da Laura Barile. La studiosa individua le raccolte più “leopardiane” di Montale nel Quaderno di quattro anni e Altri versi in L. Barile, Una luna un po’ ingobbita, cit. Più che un’influenza diretta, si ammette l’esistenza di una «consonanza […], se Montale davvero non è mai stato un lettore appassionato delle Operette morali» (ivi, p. 113). un rapidissimo accenno ad una ispirazione “operettistica” montaliana si ritrova in Silvio ramat, Leopardi nella coscienza poetica novecentesca, in Leopardi e noi. La vertigine cosmica, a cura di Alberto Frattini, Giancarlo Galeazzi e Sergio Sconocchia, roma, Edizioni Studium, 1990, pp. 453-469: «Ecco il seme dell’“operetta”, dialogata o no, che […] influenza persino un “indifferente a Leopardi” qual è Montale in una “farfalla”, Slow, modellata con mano leggera sulla Proposta di Premi fatta dall’Accademia dei Sillografi» (ivi, p. 464). 14 Possiamo individuare, in Montale, esempi di vera e propria citazione, che riguardano soprattutto i versi più celebri del recanatese. Si possono avere casi di «riuso di lemmi leopardiani in chiave ironica» o, più spesso, «ripresa di parole già connotate da un uso leopardiano satirico» (G. Savoca, Il Leopardi di Montale, cit, p. 247). Anche A. Dolfi ricorda che «le occorrenze o citazioni del poeta di recanati sono marginali (o ironiche, come d’uso in Montale)» (A. Dolfi, Montale secondo Leopardi, cit., p. 47). Si citerà solo qualche esempio. Le «magnifiche sorti e progressive» della Ginestra danno il titolo ad un importante testo in Auto da fé: Le magnifiche sorti. il verso viene ripreso anche in una lirica del 1975, L’opinione («Questo non è insegnato dalle mirabili / sorti di cui si ciarla»). Altra evidente ripresa riguarda il v. 201 della Ginestra: «non so se il riso o la pietà prevale»: «E io lì dentro incrostato fino ai capelli! / Stavolta la pietà vince sul riso» (Dormiveglia). un caso di citazione “ribaltata” si ha invece in una poesia del Quaderno di quattro anni, e riguarda
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dal «secol superbo e sciocco» al «trionfo della spazzatura» 343 a) Dal punto di vista contenutistico, il motivo della polemica con il proprio presente, con un particolare riferimento alle filosofie progressiste, all’antropocentrismo e all’ottimismo contemporanei; alla protesta contro la società di massa e i suoi mezzi di espressione (i mass media per Montale, le “gazzette” per Leopardi); la diffidenza nei confronti delle macchine e della tecnologia; la condanna del culto del denaro e dello spirito utilitaristico. b) riguardo i modi dell’espressione di tale polemica, la soluzione dell’ironia e della satira15, nonché la scelta dialogica quale privilegiato strumento di comunicazione delle proprie posizioni. Tra le differenze fondamentali, si può rilevare che la contrapposizione natura – civiltà, rispettivamente polo negativo e positivo nell’ultimo Leopardi, non trova riscontro in Montale. La natura, anzi, riveste un importante ruolo in questa fase della sua produzione, soprattutto nei componimenti più intimi, privati e di ripiegamento, con una valenza positiva di innocenza e autenticità16. inoltre, di fronte alla corruzione dei tempi moderni, Leopardi si presenta come eroe tragico e solitario, unico depositario di una morale perduta, agonisticamente proteso nella sua polemica in atteggiamento di titanica sfida e disprezzo. L’io di Montale si connota invece come «diminuito» rispetto a quello leopardiano, più «inetto e immoto e
il verso 125 della canzone Leopardiana All’Italia, «La vostra tomba è un’ara»: «La nostra tomba non sarà certo un’ara / ma il water di chi ha fame ma non testa» (Terminare la vita). infine, un evidente omaggio al Ciclo di Aspasia è il personaggio femminile designato col nome leopardiano dell’omonimo componimento del 1976. L’Aspasia montaliana rappresenta però una degradazione parodica della donna fatale di Leopardi. Per altri casi di occorrenze leopardiane nei testi poetici di Montale, si rimanda a G. Savoca, Il Leopardi di Montale tra prosa e poesia, cit., e A. Dolfi, Montale secondo Leopardi. Un caso limite di intertestualità, cit. 15 «recentemente Laura Barile ha notato che la compresenza di satira e lirica passa dall’ultimo Leopardi […] all’ultimo Montale. Da parte sua già Lonardi […] aveva notato come in Quaderno di quattro anni […] la congiunzione fra pessimismo e sarcasmo produca un avvicinamento a Leopardi che si traduce anche in esplicita citazione» (r. Luperini, Il Leopardi di Montale, cit., p. 130. Cfr L. Barile, Una luna un po’ ingobbita, cit.; G. Lonardi, Lungo l’asse leopardiano, cit.). 16 «Si potrebbe dire che, in Montale e in Leopardi, il rapporto fra natura e civiltà si capovolge di valore passando dalla giovinezza alla maturità e alla vecchiaia (la civiltà diventa il trionfo della spazzatura per Montale, l’unica difesa contro le aggressioni della natura per Leopardi); ma nei due poeti resta costante l’ambito culturale di riferimento a queste due nozioni, nonché la coscienza di una loro irrimediabile scissione» (r. Luperini, Il Leopardi di Montale, cit., p. 134).
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debora carcea344 basso»17: quest’ultimo guarda la realtà non dall’alto, ma dall’interno, da «topo», secondo il motivo, tipico dell’ultimo Montale, della «dissacrazione»18 della figura del poeta e svalutazione (più retorica che reale) della propria attività di intellettuale. risulta infine evidente il riscontro di un «tasso di letterarietà come minimo più basso rispetto a quello leopardiano e magari destinato a sparire del tutto con l’ultimo Montale»19.
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un primo punto di incontro tra Leopardi e Montale potrebbe essere individuato in una curiosa coincidenza biografico/letteraria: un comune percorso scandito dalle tappe di delusione storica seguita a grandi aspettative disattese, silenzio poetico occupato dall’attività in prosa, ripresa dell’attività poetica con soluzioni satiriche. Per Leopardi le speranze politiche riposte nei moti del 1821-22 e le grandi aspettative della sua prima esperienza fuori da recanati (a roma, fra il 1822 e il 1823, ospite dello zio materno Carlo Antici) si risolvono in una doppia delusione, sia sul piano storico che su quello personale. Dal punto di vista filosofico, inoltre, la scoperta dell’«arido vero» e il tramonto di ogni speranza gli precludono la possibilità di scrivere versi. Si apre una lunga fase di “silenzio poetico”, occupata dalla stesura delle Operette morali, che si chiuderà solo con la stagione dei Grandi idilli, nel 1828. Segue una fervente produzione di versi, fra cui quelli satirici degli anni Trenta. Anche in Montale troviamo un processo analogo: le aspirazioni conseguenti alla Liberazione vengono disattese dallo sconfortante quadro politico e sociale del secondo Dopoguerra. in questo caso il “silenzio” non inizia fin da subito: nel 1956 Montale pubblica La Bufera e altro, che comprende testi scritti fino al 1954. Bisogna tuttavia considerare che «occorrevano altri anni prima che l’italia postbellica assumesse il suo volto definitivo, prima che il poeta avesse a propria disposizione un minimo di prospettiva temporale che gli consentisse di analizzare il nuovo ambiente che lo circondava, di riflettere sulla propria posizione ideologica nei confronti di questo»20.
17 G. Lonardi, Un ascolto “sviato”: il Leopardi di Montale, cit., p. 232. 18 Andrea Zanzotto, Da Botta e risposta I a Satura, in id. Fantasie di avvicinamento, Milano, Mondadori, 1991, pp. 31-38: p. 33. 19 G. Lonardi, Un ascolto “sviato”: il Leopardi di Montale, cit., p. 236. 20 Giovanni Cillo, Satura, o dell’ossimoro permanente, in id. (a cura di) Contributi per Montale, Lecce, Milella, 1976, pp. 171-198: p. 174.
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dal «secol superbo e sciocco» al «trionfo della spazzatura» 345 E quando questa consapevolezza viene raggiunta, Montale smette di scrivere versi, impiegando gli anni successivi nella copiosa produzione giornalistica e saggistica, nella pubblicazione delle prose di Farfalle di Dinard (1956), Auto da fé (1966), Fuori di casa (1969), fino all’inaspettata quarta raccolta poetica, Satura (1971), in cui i materiali della speculazione in prosa degli anni precedenti (soprattutto di Auto da fé) vengono rielaborati in forma lirica. Nell’opera dei due autori, del resto, la prosa accompagna sempre la poesia, incaricandosi di elaborare riflessioni e spunti che diventano le premesse indispensabili per la comprensione di quest’ultima. Lo stesso Montale riconosce che «il grande semenzaio d’ogni trovata poetica è nel campo della prosa»21. Per la loro polemica contro i costumi contemporanei, entrambi scelgono l’arma dell’ironia, del comico, della satira: «terribile e awful è la potenza del riso»22, scrive nel suo Zibaldone Leopardi il 23 settembre 1828. L’obiettivo più evidente della satira tanto di Leopardi quanto di Montale è lo smontaggio dei falsi miti dell’ottimismo spiritualistico e della superbia tecnologica, contro ogni certezza di progresso morale, ogni orgoglio antropocentrico e qualsivoglia finalismo provvidenzialistico. È il tema di fondo della Palinodia, in cui «Leopardi fa un elogio sarcastico del proprio tempo mescolando parole classiche e moderne e producendo nell’attrito un effetto comico di dissoluzione ironica delle ideologie correnti. […] Anche Montale finge ironicamente la celebrazione della società moderna»23: «Non si può esagerare abbastan
21 E. Montale, Intenzioni (Intervista immaginaria), in SMA, p. 1478. interessante è anche il giudizio espresso da Montale sul processo di composizione di Leopardi: «Leopardi pare scrivesse prima una cosa in prosa e poi la rimettesse in versi» (ivi, p. 1626). 22 Giacomo Leopardi, Zibaldone, a cura di rolando Damiani, Milano, Mondadori, 20114, p. 2956. Tutte le citazioni di Leopardi sono tratte dalle seguenti edizioni: G. Leopardi, Poesie e prose, vol. i (Poesie), a cura di Mario Andrea rigoni, con un saggio di Cesare Galimberti, Milano, Mondadori, 201111 [d’ora in poi citata PP1]; G. Leopardi, Poesie e prose, vol. ii (Prose), a cura di r. Damiani, Milano, Mondadori, 201612 [di qui in poi citata PP2]; G. Leopardi, Zibaldone, a cura di r. Damiani, Milano, Mondadori, 20114 [di qui in poi citata Z]; G. Leopardi, Lettere, a cura e con un saggio introduttivo di r. Damiani, Milano, Mondadori, 20152 [di qui in poi citata LE]. in PP1 e PP2 si trovano: G. Leopardi, Canti, pp. 3-144 [di qui in poi citata CA]; G. Leopardi, Operette morali; G. Leopardi Appendice alle operette morali, in PP2, pp. 3-279 [di qui in poi citate OM]. 23 r. Luperini, Il Leopardi di Montale, cit., p. 132.
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debora carcea346 za / l’importanza del mondo / (del nostro, intendo) […] No, non si può / magnificarlo a sufficienza» (Elogio del nostro tempo, QQ, p. 559). L’«Eden odorato» della Palinodia, garantito dalle filosofie ottimistiche all’«inclita schiatta» (CA, p. 116) è analogo all’«empireo» promesso dal progresso scientifico in Fanfara («l’empireo / […] l’eternità tascabile / economica / controllata / da scienziati / responsabili…», SA, p. 337). il «secol superbo e sciocco» di Leopardi, che crede «alla perfettibilità indefinita dell’uomo […], [che] la specie umana vada ogni giorno migliorando […] che il sapere, o, come si dice, i lumi, crescano continuamente», ma soprattutto «che questo secolo sia superiore a tutti i passati»24, non sembra tanto diverso dal tempo di Montale, in cui gli uomini hanno maturato la «certezza o illusione di credersi esseri privilegiati, i soli che si credono padroni della loro sorte e depositari di un destino che nessun’altra creatura vivente può vantare»25. Bisognerebbe invece ricordare che «l’uomo è un fenomeno, e nulla prova che sia il centro dell’universo»26. La fragilità degli uomini rispetto alla potenza della natura è esemplificata attraverso la forza devastatrice delle catastrofi naturali, ad esempio di un terremoto: il «lieve moto» della «dura nutrice» nella Ginestra (CA, p. 125); le «venature pericolose» che si aprono «sulla crosta del mondo» in Si aprono venature pericolose… (QQ, p. 618). Montale riprende inoltre da Leopardi l’espediente di mostrare l’insignificanza dell’uomo nell’economia dell’universo, immaginando un’ipotetica scomparsa del genere umano dalla terra. L’idea viene sviluppata dal recanatese nel Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo (1924), anticipato dal Dialogo tra due bestie e dal Dialogo di un cavallo e un bue composte intorno al 182027; dal ligure in un testo del 1974, Un tempo… Nel Dialogo leopardiano, si immagina che «gli uomini siano tutti morti», ma anche se «la razza è perduta […] la terra non sente che le manchi nulla» (OM, pp. 33-37); nella poesia montaliana, si ha la certezza
24 G. Leopardi, Dialogo di Tristano e di un amico, in OM, pp. 214-216. 25 E. Montale, È ancora possibile la poesia?, in SMP, p. 3039. 26 id., Cattedre di ateismo, in SMA, p. 342. 27 Lonardi individua inoltre nella «talpa» e nel «grillo» di Gotterdammerung (1968) due equivalenti del Folletto e dello Gnomo: «fra l’altro come nel duo leopardiano, un esponente del sotto e uno del sopra-terra» (G. Lonardi, Un ascolto “sviato”: il Leopardi di Montale, cit., p. 230): «il crepuscolo degli dei è nato quando l’uomo / si è creduto più degno di una talpa e di un grillo», Gotterdammerung, in SA, p. 330.
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dal «secol superbo e sciocco» al «trionfo della spazzatura» 347 che «la scomparsa dell’uomo non farà una grinza / nel totale in faccende ben diverse / impelagato» (QQ, p. 530). Del resto, l’idea di un «totale» impegnato in «faccende ben diverse» rispetto alla cura nei confronti degli uomini è il tema fondamentale del Dialogo della Natura e di un Islandese («Se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei», avverte perentoriamente la Natura28). Altro bersaglio della polemica dei due poeti è il crescente diffondersi e affermarsi dei mezzi di comunicazione di massa, con il loro bombardamento martellante ed invadente. Per Leopardi si tratta di gazzette, giornali, opuscoli e pamphlet; per Montale delle loro evoluzioni novecentesche: radio, televisione, cinema, annunci pubblicitari. Montale definisce il sistema massmediatico «il mostro dalle cento teste»29, in cui le «cento teste» sono gli innumerevoli canali di cui il mostro dispone per irrompere con «indiscrezione nella vita privata»30, incaricandosi di diffondere le «pseudoidee»31 elaborate dall’industria culturale, le idee «merce»32 ormai trattate come prodotti da consumarsi e gettarsi via al primo variare della moda. Esse sono spesso luoghi comuni, superficiali e banali, ma proprio per questo di facile assimilazione e diffusione. in Leopardi il tema è ricorrente nelle Operette (si pensi solo al Dialogo di Tristano e di un amico, in cui il protagonista si piega infine ad «abbracciare la profonda filosofia de’ giornali, […] maestri e luce dell’età presente»33) e si ritrova nella Palinodia, in entrambi i casi trattato in chiave antifrastica: «Copriran le gazzette, anima e vita / dell’universo, e di savere a questa / ed alle età venture unica fonte! […] / E tal portento, ancora / da pamphlets, da riviste e da gazzette / non dichiarato, il civil gregge ammira» (CA, p. 114) 34.
28 G. Leopardi, Dialogo della Natura e di un Islandese, in OM, p. 81. 29 E. Montale, Il mostro dalle cento teste, in SMA, pp. 260-264. 30 id., Montale svagato, in SMA, p. 1652. 31 id., Soliloquio, in SMA, p. 157. 32 «Le idee sono diventate merce» (E. Montale, Soliloquio, in SMA, p. 157). 33 G. Leopardi, Dialogo di Tristano e di un Amico, in OM, pp. 216-217. 34 i citati versi della Palinodia vengono accostati da Lonardi al seguente passaggio del francobollo La fonduta psichica: «una cappa sempre più fitta di informazioni e di visibilità proiettate a distanza copre il mondo abitato da noi. […] Di che cosa dunque si compone l’incrostazione psichica? Di carta igienica, di giornali e libri, di depliant e annunci pubblicitari, di sternuti e ruggiti, […] di suoni emessi insieme per darci un’impressione fisica matrice dinamica, di notizie e nozioni buttate là da appositi venditori di fumo» (SMA,
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debora carcea348 Di fronte ai mezzi di comunicazione, la «massa» («leggiadrissima parola moderna»35) diventa «civil gregge»: metafora più volte riutilizzata da Montale («gregge» in Al Congresso e in L’eroismo; «armento» in Le magnifiche sorti; «uomini-capre» in Elegia di Pico Farnese). il compito degli invadenti strumenti di comunicazione di massa è quello di diffondere presso grandi quantità di persone una serie di modelli (estetici, ideologici, culturali) a cui soprattutto i giovani sono chiamati ad adeguarsi in maniera passiva e acritica. Ne deriva un fenomeno di omologazione e conformismo, di annullamento della diversità acutamente individuato tanto da Leopardi quanto da Montale (pur con le dovute differenze relative al contesto storico). Montale ci parla di un fenomeno di «decozione di tutto in tutti» (Il frullato, D, p. 453), e della creazione di un unico grande «individuo collettivo, un marmo / di coralli più duro di un macigno. / Sembra che abbia una forma definitiva, / resistente al martello. Si avvantaggia / sul banco degli umani perché non parla» (Ne abbiamo abbastanza…, D, p. 454). Anche Leopardi si rivela piuttosto sensibile al fenomeno di conformismo ed omologazione che interessa il suo secolo. Ecco come, in uno scritto dell’Appendice alle Operette Morali, il Mondo istruisce un Galantuomo sul corretto comportamento da tenere se vuole integrarsi nella società civile:
M. […] Devi porre ogni studio a conformare non solamente i detti i fatti e le maniere, ma anche i geni le opinioni e le massime tue con quelle degli altri. […] Non ci dev’essere un uomo diverso da un altro, ma tutti debbon essere come tante uova, in maniera che tu non possa distinguere questo da quello. E chiunque si lascerà distinguere sarà messo in burla ec.36
La «decozione di tutto in tutti» che ha formato l’«individuo collettivo» si traduce nella metafora delle «uova», passata da Leopardi a Montale per indicare il medesimo meccanismo di livellamento, con un’ulteriore evoluzione: se nel primo gli individui sono tutti uguali «come tante uova», nel secondo l’uovo è ormai uno solo, essendo i singoli stati ormai fusi dal «frullino ch’è in opera nei crani» in un’uni
p. 329). Lo studioso nota infatti la continuità della visione apocalittica montaliana con la «sobria allucinazione consegnata appunto alla Palinodia» (G. Lonardi, Un ascolto “sviato”: il Leopardi di Montale, cit., p. 230). 35 G. Leopardi, Dialogo di Tristano e di un amico, in OM, p. 215. 36 id., Dialogo Galantuomo e Mondo, in OM, pp. 250-251.
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dal «secol superbo e sciocco» al «trionfo della spazzatura» 349 ca «sozzura o zabaione» (Il frullato, D, p. 453): «Tuorli d’un solo uovo entrano i giovani / nelle palestre della vita» (Il negativo, D, p. 429). i modelli diffusi dall’industria culturale sono destinati a rinnovarsi velocemente per adeguarsi di volta in volta ai gusti del pubblico:
Le idee corrono, proliferano, ma valgono solo in quanto possono rapidamente trasformarsi, volgere al polo contrario. […] Le idee sono diventate un genere d’uso: si indossano e si dimettono al primo variare della moda.37
Figlia della «Caducità», la Moda diventa protagonista di una delle Operette del 1924, in cui si presenta come sorella della Morte: «L’una e l’altra tiriamo parimente a disfare e a rimutare di continuo le cose di quaggiù, benché tu vada a questo effetto per una strada e io per un’altra»38. Perfettamente alla moda e al passo con i tempi risultano, ad esempio, le nuove discipline del presente, che per Leopardi come per Montale si configurano come altrettante pseudo-scienze, magari inventate «per creare nuove cattedre universitarie»39.
Viva la statistica! Vivano le scienze economiche, morali e politiche, le enciclopedie portatili, i manuali, e le tante belle creazioni del nostro secolo! E viva sempre il secolo decimo nono! Forse povero di cose, ma ricchissimo e larghissimo di parole: che sempre fu segno ottimo, come sapete.40
Semiologia, sociologica, scienze umane che «ormai proliferano all’infinito»41, cibernetica, «parascienza, didattica, pubblicitaristica, historia, ecc»42, sono per Montale solo nuove invenzioni non necessarie, ma funzionali alla società consumistica («Così d’accordo camminano teologia / semiologia cibernetica e altro ancora ignoto / che sta incubando, di cui noi saremo / nutrimento e veleno, pieno e vuoto», C’è chi muore…, D, p. 489). interessante è la riflessione sulla contemporanea situazione edito
37 E. Montale, Soliloquio, in SMA, p. 156. 38 G. Leopardi, Dialogo della Moda e della Morte, in OM, p. 25. 39 E. Montale, Variazione, in Pr, p. 1114. 40 G. Leopardi, Dialogo di Tristano e di un Amico, in OM, p. 218. 41 E. Montale, L’esistenza e la storia, in SMP, p. 2902. E ancora: «Oggi sorgono nuove scienze senza che vengano debellate le vecchie» (Variazione, in SMA, p. 1149). 42 id., Variazione, in Pr, p. 1149.
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debora carcea350 riale: sia Leopardi che Montale individuano nel proprio tempo un fenomeno di «enorme espansione della carta stampata»43, la quale però si accompagna, paradossalmente, con un altro fenomeno che Montale definisce come «scomparsa del libro»44.
inteso come opera destinata a restare, il libro non è oggetto che possa interessare l’uomo economico: il suo vero compito è di produrre il maggior rumore momentaneo e poi di scomparire per far luogo ad altri oggetti.45
il libro, in quanto manifestazione di un’humanitas che si basa su valori autentici e duraturi, non può essere funzionale ad una civiltà industriale che ha bisogno di «prodotti», «merci», «oggetti d’uso»46 da consumarsi e gettarsi via il prima possibile affinché se ne possano mettere in circolazione di nuovi. Ma i criteri dell’economia capitalistica non sono adatti a misurare il valore di un’opera d’arte. La quantità non è sinonimo di qualità: «il libro che il vento porta in cresta all’onda può o non può avere un valore letterario»47, ma questo non importa al lettore che si trasforma in acquirente, in «cliente»48, e dunque «non è mosso dall’impellente bisogno di conoscere un’opera d’arte, bensì dall’urgenza di conformarsi a un supposto obbligo morale, di aggiornarsi. L’aggiornamento è una delle facce dell’odierno conformismo. Ed è naturale che l’obbligo di conformarsi investa anche il settore del libro»49, o meglio, del «falso libro, il prodotto che brucia le dita se non si getta nel posacenere come mozzicone di sigaretta»50. Confrontiamo queste riflessioni coi seguenti passi dell’operetta di Leopardi Il Parini, ovvero della gloria:
in questa eccessiva copia di libri prodotti giornalmente […]. Aggiungi che per le stesse cause, anche nel primo leggere i detti libri, massime di genere ameno, pochissimi e rarissime volte pongono tanta
43 id., Variazione, in Pr, p. 1150. 44 id., I libri nello scaffale, in SMA, p. 100. 45 Ibidem. 46 Queste le espressioni ricorrenti per indicare l’ingrata sorte delle manifestazioni intellettuali. Per «prodotto» si vedano: I libri nello scaffale, Sette domande sulla poesia, Il mercato del nulla. Per «merce» si vedano: Odradek, L’arte per tutti, Sette domande sulla poesia, È ancora possibile la poesia?; per «oggetto d’uso» si vedano: L’arte per tutti, Le magnifiche sorti, Niente paura ma… 47 E. Montale, I libri nello scaffale, in SMA, p. 98. 48 id., Niente paura ma…, in SMA, p. 245. 49 id., I libri nello scaffale, in SMA, p. 98. 50 Ivi, p. 99.
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dal «secol superbo e sciocco» al «trionfo della spazzatura» 351
attenzione e tanto studio quanto è di bisogno a scoprire la faticosa perfezione, l’arte intima e le vertù modeste e recondite degli scritti. […] Ma da altra parte, i libri composti, come sono quasi tutti i moderni, frettolosamente, e rimoti da qualunque perfezione; ancorché sieno celebrati per qualche tempo, non possono mancar di perire in breve: come si vede continuamente nell’effetto. Ben è vero che l’uso che oggi si fa dello scrivere è tanto, che eziandio molti scritti degnissimi di memoria, e venuti pure in grido, trasportati indi a poco, e avanti che abbiano potuto (per dir così) radicare la propria celebrità, dall’immenso fiume dei libri nuovi che vengono tutto giorno in luce, periscono senz’altra cagione, dando luogo ad altri, degni o indegni, che occupano la fama per breve spazio.51
il riconoscimento della fretta come vizio della modernità, la superficialità nella scrittura e nella lettura dei libri, l’adeguamento alle mode e ai gusti momentanei del pubblico, il carattere transitorio della fama raggiunta dalle pubblicazioni moderne, la constatazione dell’«eccessiva copia» di libri stampati… L’analisi di Montale della situazione culturale ed editoriale contemporanea si svolge, come si sarà notato, nei medesimi termini. in una società basata sul culto dei beni materiali, anche l’arte e la cultura finiscono per essere asserviti alle leggi dell’utile e del profitto: l’homo oeconomicus non contempla la possibilità dell’inutile, che è invece un valore essenziale per qualsiasi manifestazione dello spirito umano che voglia dirsi artistica. A difesa dell’inutile si schiera Leopardi nel progetto di un giornale settimanale, «Lo Spettatore Fiorentino», concepito fra il 1831 e il 1832 e mai concretizzato. Nel Preambolo si legge:
Crediamo ragionevole che in un secolo in cui tutti i libri, tutti i pezzi di carta stampata, tutti i fogliolini di visita sono utili, venga fuori finalmente un Giornale che faccia professione d’essere inutile: […] perché, quando tutto è utile, resta che uno prometta l’inutile per ispeculare.52
Anche Montale, nel celebre discorso È ancora possibile la poesia?, prende posizione a difesa dell’inutile contro il «diffondersi di quello spirito utilitario che in varie gamme si spinge fino alla corruzione, al delitto e ad ogni forma di violenza e di intolleranza»53:
51 G. Leopardi, Il Parini, ovvero della gloria, in OM, pp. 96-97. 52 id., Lo Spettatore fiorentino. Giornale di ogni settimana. Preambolo, in LE, p. 993. 53 E. Montale, È ancora possibile la poesia?, in SMP, p. 3031.
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Nel mondo c’è un largo spazio per l’inutile, e anzi, uno dei pericoli del nostro tempo è quella mercificazione dell’inutile alla quale sono sensibili particolarmente i giovanissimi. in ogni modo io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà.54
Con la Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi Leopardi introduce nelle Operette un nuovo genere letterario: il bando di concorso di un’istituzione immaginaria che vuole favorire l’invenzione di esseri perfetti, dotati di quelle virtù che l’uomo ha ormai perduto. i Sillografi sostengono che, essendo il secolo attuale «l’età delle macchine»55, l’uomo perfetto potrà essere solo una macchina (e del resto si consideri anche la cupa previsione della Palinodia: «E le macchine del cielo emulatrici / crebbero, e tanto cresceranno al tempo / che seguirà», CA, p. 114). Con tale invenzione Leopardi prefigura un cupo destino per un’umanità reificata, ridotta ad automa: che è, a ben vedere, lo stesso motivo montaliano dell’«uomo robot»56 o «robottone» («Eppure l’avevamo creato con orgoglio / a nostra somiglianza il robottone», Notturno, D, p. 482). Se Leopardi riconosce che «ormai non gli uomini ma le macchine, si può dire, trattano le cose umane e fanno le opere della vita»57, a distanza di più di un secolo Montale può constatare che «l’uomo ha saputo creare macchine che superano in molti campi le sue stesse capacità mentali», e si chiede se «non sarà forse possibile che egli – restando in qualche modo uomo o parvenza di uomo – faccia di se stesso una supermacchina più perfetta delle altre?»58. in particolar modo, l’ironica proposta/previsione di Leopardi – che si crei una macchina che farà «le parti e la persona di un amico»59 – sembra realizzarsi al tempo di Montale, nel momento in cui il «vociferare abracadabra» dei mass media arriva alla pretesa di «dire all’uomo solo: ci siamo anche noi, non sei tanto solo» 60. L’ultimo Leopardi e l’ultimo Montale si ritrovano inoltre ad essere
54 Ivi, p. 3032. 55 G. Leopardi, Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi, in OM, p. 29. 56 E. Montale, È ancora possibile la poesia?, in SMP, p. 3038. 57 G. Leopardi, Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi, in OM, p. 29. 58 E. Montale, Oggi e domani, in SMA, p. 214. 59 G. Leopardi, Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi, in OM, p. 30. 60 E. Montale, La fonduta psichica, in SMA, p. 329.
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dal «secol superbo e sciocco» al «trionfo della spazzatura» 353 vittime delle stesse accuse da parte dei contemporanei: quelle di non interessarsi dei problemi del presente, di non impegnarsi e schierarsi politicamente, di occuparsi «dei fatti loro (cioè della poesia) anziché dei fatti collettivi della loro società»61. Così Giorgio Bocca mette in guardia Montale in un’intervista del 1972: «Hai letto cosa scrivono di te? Ti presentano come il campione raffinato del disimpegno, della rinuncia, dell’opportunismo scettico»62. La condanna del «privatismo» che i critici marxisti (come Asor rosa, chiamato in causa in una poesia del Diario del ’71, Asor) attribuiscono agli ermetici e ad altri poeti contemporanei ad essi accostati (fra cui Montale) sembra rievocare quella degli amici di Gino Capponi rispetto al disimpegno di Leopardi e al suo rifiuto di trattare di temi sociali e «pubbliche cose»: «un già de’ tuoi, lodato Gino; […] / […] lascia, mi disse / i propri affetti tuoi. […] / […] e intenta il ciglio / nelle pubbliche cose. il proprio petto / esplorar che ti val? Materia al canto / non cercar dentro te. Canta i bisogni / del secol nostro, e la matura speme» (Palinodia, CA, p. 119). «il proprio petto» equivale al «dentro», mentre le «pubbliche cose» non sono altro che il «fuori» della lirica montaliana La poesia («Dagli albori del secolo si discute / se la poesia sia dentro o fuori», QQ, p. 604). A entrambi i poeti viene rivolto l’invito ad abbandonare il «dentro» per il «fuori», l’espressione della «disarmonia» con la realtà circostante per una riconciliazione poetica con essa. Montale si rivela profondamente consapevole della sua contiguità con l’atteggiamento di Leopardi, individuando in quest’ultimo «quasi il prototipo del poeta che non si compromette con il potere e la politica, che non celebra i potenti»63. in un’intervista del 1962 a Bruno rossi, infatti, nel difendere la propria indipendenza rispetto ad un presunto obbligo di engagement, il poeta si richiama direttamente all’esempio del recanatese: «Leopardi non si è occupato dei problemi politici del suo tempo»64.
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Da Leopardi Montale riprende, più o meno consapevolmente, una
61 id., Confessioni di scrittori (Interviste con se stessi), in SMA, pp. 1592-1593. 62 id., Spero nel meglio ma vedo il peggio, in SMA, p. 1717. 63 G. Savoca, Il Leopardi di Montale tra prosa e poesia, cit., p. 240. 64 E. Montale, Queste le ragioni del mio lungo silenzio, in SMA, pp. 1623-1624.
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debora carcea354 serie di immagini e pregnanti metafore, tratte soprattutto dall’ambito lirico65. Si è già visto il comune riferimento al fenomeno sismico per sottolineare la fragilità dell’esistenza umana di fronte alla forza della natura, e l’uso dell’immagine dell’uovo per rappresentare il processo di omologazione conseguente allo sviluppo della società di massa. Altro simbolo ricorrente in Montale, sia in prosa che in poesia, è quello delle formiche e del formicaio come metafora del consorzio umano; il quale, come si ricorderà, è un motivo fondamentale de La Ginestra («Non ha natura al seme / dell’uom più stima o cura / che alla formica. E se più rara in quello / che nell’altra è la strage / non avvien ciò d’altronde / fuor che l’uom le sue prosapie ha men feconde», CA, p. 130). in Leopardi gli uomini sono equiparati alle formiche in quanto la natura non si cura dei primi più di quanto non faccia con le seconde. La potenza devastatrice delle catastrofi naturali può abbattere con la stessa facilità un formicaio come una comunità umana. in Montale, la metafora ricorre per indicare tanto la frenesia dell’uomo moderno quanto gli effetti dell’omologazione nella civiltà dei consumi. Ecco alcuni esempi: «formiconi degli approdi» (Botta e risposta I), «formicaio umano» (Odradek), «formicaio dei teleaudienti» (La gente capisce), «formicaio» (Botta e risposta II), «termitaio umano» (I ripostigli), «affollatissime arnie» (Lo sport e il patriottismo). Altro elemento che Montale riprende direttamente da Leopardi è la figura del dio persiano Arimane come simbolo del Male assoluto. il poeta ligure doveva avere ben presente l’abbozzo dell’inno Ad Arimane, dove il dio è salutato come «re delle cose, autore del mondo, arcana / malvagità» (PP1, p. 685): «Se colui che ci ha posto in questa sede / può talvolta lavarsene le mani / ciò vuol dire che Arimane / è all’attacco e non cede» (Chi è in ascolto, QQ, p. 596), e ancora: «Ahura Mazda e Arimane / il mio pensiero persiano / di stamane» (Appunti, QQ, p. 585). interessante è anche l’immagine, fondamentale in Montale, del “galleggiamento” come manifestazione del negativo. A galleggiare, nelle ultime sue poesie, sono le «zattere di sterco» di Botta e risposta I (SA, p. 286), la volgare Bernadette de Il frullato (che «a fondo non an
65 «Siamo insomma alle soglie della sfida ultima dell’intertestualità, là dove si lavora più che sulle occorrenze […], sulle metafore dominanti, sui miti personali, e si misura un testo nel rapporto con quelli che l’autore dovette avere presenti al momento della sua stessa concezione immaginativa» (A. Dolfi, Montale secondo Leopardi. Un caso limite di intertestualità, cit., p. 51).
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dal «secol superbo e sciocco» al «trionfo della spazzatura» 355 drà», D, p. 453) e il «filosofo interdisciplinare» di Senza pericolo (QQ, p. 609). Come a dire che rimane a galla solo chi si adegua ad un presente visto come realtà fecale («nuova palta», Botta e risposta i, SA, p. 286), chi scende a compromessi per non affondare. È un’idea che si ritrova anche in alcuni versi della Palinodia: «Ardir protervo e frode / con mediocrità, regneran sempre / a galleggiar sortiti» (CA, p. 115). Ma i due poeti preferiscono mantenere la loro coerenza e andare a fondo piuttosto che restare a galla insieme agli altri detriti. Come si è detto, la relazione fra le Operette morali e l’opera di Montale è stata poco analizzata rispetto al rapporto con il Leopardi lirico. Ora, se è vero che nelle pubblicazioni montaliane degli anni Settanta possiamo ritrovare echi della Palinodia, dei Paralipomeni e della Ginestra, mi sembra però che molte analogie possano individuarsi anche con le Operette, nonostante (o forse proprio perché) esse siano scritte in prosa. La critica riconosce infatti all’unanimità il carattere “prosastico” delle liriche dell’estremo Montale e l’importanza che per esso ha rivestito l’attività di giornalista e saggista degli anni precedenti. Molte delle Operette sono costruite in forma di dialogo: si svolgono come uno scambio di battute tra personaggi di natura opposta e con visioni contrarie del mondo. È quest’ultimo un espediente molto sfruttato dall’ultimo Montale: pensiamo alle tre Botta e risposta di Satura, o alla poesia intitolata appunto Dialogo, dove l’intera lirica è composta da un incalzante discorso diretto. La differenza è che in Montale l’io del poeta parla direttamente, non presta la sua voce ad altri personaggi; soprattutto a partire dal Diario «il ruolo [degli interlocutori] è assai spesso quello di idoli polemici sui quali misurare e contrario le proprie posizioni»66. Altro espediente che avvicina la satira montaliana a quella di Leopardi è quello di valersi di personaggi immaginari, i quali si fanno portavoce di particolari ideologie o atteggiamenti, per lo più opposti a quelli del poeta: è il caso del dottor Lamerdiére o del filosofo interdisciplinare, di Malvolio o di Benvolio (e, nelle Operette, possiamo pensare allo Gnomo e al Folletto, a Filippo Ottonieri, all’islandese, ecc.). Altre volte, invece, si immagina un dialogo con personaggi esistenti o esistiti: il dottor Schweitzer, Leone Traverso, Alberto Asor rosa, Benedetto Croce, ecc. (per Leopardi: Niccolò Copernico, Torquato Tasso, Giuseppe Parini, e così via).
66 Pier Vincenzo Mengaldo, La «Lettera a Malvolio», in id., La tradizione del Novecento. Nuova serie, Firenze, Vallecchi, 1987, pp. 275-305: p. 289.
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debora carcea356 interessante è la ripresa di alcune strategie, come l’effetto di straniamento ottenuto immaginando di guardare la Terra da una prospettiva lontana, al di là dei luoghi umani: in particolare dalla Luna. È una tecnica che Leopardi deriva dalla letteratura comica antica, soprattutto da Luciano, impiegata brillantemente nel Dialogo della Terra e della Luna, in cui la Luna è sottoposta a domande incalzanti dalla Terra, ansiosa di conoscere la verità su tutte le credenze accumulate nei secoli dagli uomini su di lei. La Luna, da parte sua, respinge ogni ipotesi, accusando la Terra di essere limitata, e di cercare nell’universo solo ciò che le è simile. Anche Montale sfrutta questo schema, immaginando almeno in due poesie di osservare dalla Luna il nostro pianeta: Fine del ’68 e Laggiù. in quest’ultima, il «laggiù» è in realtà il “quaggiù”, spiato da satelliti astrali sganciati in orbita da una futura umanità padrona dei cieli. Concordo dunque con l’assunto di Fraulini, secondo cui «Leopardi è il primo a vedere ciò che Montale chiude»67. Del resto, mi pare significativo che entrambi i poeti scelgano di rappresentare se stessi come animali solitari, lontani dalla terra degli uomini: il «topo» del sottosuolo e il «passero» del cielo. Sono proprio i due grandi scrittori, dunque, a consegnarsi ai posteri nell’immagine di alfieri del pessimismo e della «disarmonia» col mondo circostante. Ma tale atteggiamento è da considerarsi conseguenza di una profonda (e sfiduciata) comprensione del proprio tempo, grazie alla quale si approda ad un uso della Parola come mezzo che, se non può configurarsi come pedagogico ed edificante, custodisce quantomeno un ruolo critico e conoscitivo.
Debora Carcea università della Calabria
67 A. Fraulini, Da Leopardi a Montale: la tecnica in prospettiva, cit., p. 231.
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riCCArDO GASPEriNA GErONi Donne ribelli, donne oggetto: il mondo femminile nei racconti di Alberto Moravia
Questo saggio indaga la raffigurazione della figura femminile nelle tre raccolte di racconti Il Paradiso, Un’altra vita e Boh, che Alberto Moravia pubblica tra il 1970 e il 1976. in particolare, l’autore si sofferma sugli elementi di comunanza delle raccolte, mettendo in luce lo statuto dell’io narrante, la condizione della donna a metà tra l’integrazione sociale e il mito della “buona selvaggia”, l’alienazione e il problema del rapporto con il reale. L’ultima sezione è invece dedicata a una analisi diacronica delle tre raccolte da cui si evince come i racconti femminili siano l’officina preparatoria del personaggio di Desideria de La vita interiore (1978).
★ This essay aims to study how Alberto Moravia depicts the female character in his three books (Il Paradiso, Un’altra vita e Boh) that were published from 1970 to 1976. Specifically, the author explores the common elements of the stories, highlighting the narrator’s voice status, the women’s condition in the 70s between social integration and the “buona selvaggia” myth, the alienation and the problem with the reality relationship. The last section focuses, on the other hand, on a diachronic analysis of the three books, where the female characters are an anticipation of his famous character Desideria (La vita interiore [1978]).
1. Una galleria di ritratti: 95 donne dicono «io»
in uno scritto dedicato alle opere fotografiche di Elisabetta Catalano, presentate alla mostra Ritratti del 1975 presso la Galleria Marlborough di roma, Moravia sottolinea la sua predilezione per il ritratto femminile: se prima degli anni Settanta la donna veniva raffigurata secondo la tradizionale idea maschile di «thing of beauty», nelle fotografie della Catalano l’occhio afferra invece l’imprevedibilità della donna, non completamente integrata nella società né a essa del tutto estranea. Al contrario dell’uomo che si è chiuso nella sua funzione sociale («il ge
Autore: università di Bologna; assegnista di ricerca; riccardo.gasperina@unibo.it
riccardo gasperina geroni358 nerale, il banchiere, il professionista, l’operaio, il contadino»), «la donna […] si rivela oggi ancora “selvaggia” e dunque imprevedibile, come appunto deve essere ogni personaggio degno di tale nome»1. Nella presentazione alle opere fotografiche della Catalano, Moravia in realtà riflette – come spesso accade – sulla sua stessa attività di scrittore che proprio in quegli anni è dedita alla creazione di brevi ritratti di donne còlte nelle loro ricche abitazioni tra ansie, insuccessi, nevrosi e paure. Le tre raccolte di racconti (Il Paradiso [1970], Un’altra vita [1973], Boh [1976])2 costituiscono un insieme organico e unitario, una galleria di fotogrammi di personaggi femminili la cui forza icastica è resa non tanto dalla singola rappresentazione quanto dalla somma e dalla sovrapposizione dei differenti caratteri femminili che costellano la scena. Sul modello dei romanzi della Romana (1947) e della Ciociara (1957), primi esempi di “io” femminile nella narrativa di Moravia, qui novantacinque donne dicono “io”3 fornendo così, secondo un principio di accumulazione, uno spaccato della visione femminile del loro ideatore. Già assurto a idolo polemico dei giovani sessantottini, che lo “hanno processato” sulle pagine dell’«Espresso» (Processo a Moravia, 25 febbraio 1968) perché macchiatosi ai loro occhi di connivenza con il “sistema borghese”, Moravia subisce nel 1974 gli attacchi di un gruppo di femministe milanesi, in particolare di Liliana Caruso e di Bibi Tomasi, le quali in un libro che all’epoca desta particolare scalpore analizzano il ruolo della donna in un nutrito gruppo di opere di artisti italiani. Vitaliano Brancati, Cesare Pavese, Carlo Cassola, Leonardo Sciascia, Giuseppe Berto e Dino Buzzati sarebbero insieme con Moravia solo alcuni dei Padri della fallocultura, responsabili di descrivere il mondo della donna secondo una concezione definita «discriminante, razziale, umiliante e gonfia di pregiudizi»:
Con il suo ultimo libro Un’altra vita, [Moravia] è riuscito – scrivono le studiose – ancora una volta a nascondere il suo sessismo dietro la falsa
1 Alberto Moravia, Non so perché non ho fatto il pittore: Scritti sull’arte (19341990), a cura di Alessandra Grandelis, Milano, Bompiani, 2017, p. 239. 2 Prima di comparire in volume, alcuni racconti vengono pubblicati sulle pagine del «Corriere della Sera». Nel 1976 le tre raccolte confluiscono in un unico volume per Bompiani. 3 L’uso della prima persona discende dalla lettura giovanile dei sonetti di Gioacchino Belli, da cui Moravia apprende come vivere la «finzione di un’impostazione di voce». Cfr. l’intervista di Laura Lilli a Moravia: Tanti occhi di donna per vedere il mondo, «la repubblica», 20 aprile 1976.
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veste del moralista, dell’osservatore neutrale di una realtà femminile caratterizzata da una oppressione pesante e senza sbocchi immediati. […] La donna di Moravia è sempre rimasta un essere passivo, idiota, ignorante, sensuale, docile strumento nelle mani degli uomini, così come i suoi protagonisti sono sempre rimasti violenti, sadici, presuntuosi, impotenti affettivamente, superdotati sessualmente. Per noi il limite di Moravia è proprio questo: l’immobilismo sul pregiudizio più antico e più immorale che la cultura abbia registrato, cioè quello sessuale, unito al qualunquismo che fa della sua una letteratura d’evasione deresponsabilizzante4.
Moravia sarebbe dunque incapace di rappresentare la donna se non nella sua atavica condizione di passività e la sua “opera qualunquista” (ferma ai pregiudizi sul sesso) incentiverebbe la misoginia. indipendentemente dai giudizi di valore espressi dalle autrici, la cui parzialità non è infondata, seppur del tutto vincolata alle ragioni della lotta, il testo è testimone di un momento di trasformazione e di crisi culturale, sociale e politica della società italiana, in cui implodono gli antichi paradigmi di genere5. Prima di rispondere l’accusato soppesa attentamente le critiche e solo a distanza di un anno rilascia a Carla ravaioli una lunga intervista incentrata sui suoi racconti femminili, in cui dichiara – come premessa un po’ posticcia e autoassolutoria – l’assoluta parità tra l’uomo e la donna e addebita alla sua attenzione per
4 Liliana Caruso, Bibi Tomasi, I padri della fallocultura. La donna vista da Moravia, Brancati, Pavese, Cassola, Sciascia, Berto, Buzzati e altri narratori italiani d’oggi, Milano, SugarCo, 1974, pp. 84-85. 5 Come ha sottolineato lo storico Franco De Felice (L’Italia repubblicana. Nazione e sviluppo. Nazione e crisi, a cura di Luigi Masella, Torino, Einaudi, 2003), nel corso degli anni Sessanta si preparano in italia e nel mondo occidentale due importanti dati di novità: il primo consiste nella nascita di movimenti collettivi (tra cui anche quelli femministi) intrecciati a fenomeni di insubordinazione sociale; il secondo è invece figlio della fine della fase espansiva dell’economia e della seguente crisi economica (inflazione, depressione, emergenza petrolifera del 1973 etc.) che si accompagna in italia alla crisi del sistema politico, incapace di costruire un disegno riformatore, attraverso cui indirizzare e rimodulare le crescenti tensioni sociali. Dunque una «modernizzazione senza sviluppo» (Guido Sapelli, Modernizzazione senza sviluppo: Il capitalismo secondo Pasolini, Milano, Mondadori, 2005) che mentre destruttura le gerarchie dei modelli sociali consolidati produce violenza di genere. All’argomento lo scrittore Edoardo Albinati ha dedicato il romanzo La scuola cattolica, vincitore del premio Strega 2016, in cui ricostruisce il clima sociale e culturale di quegli anni segnati dall’efferato delitto del Circeo (1975). Si permetta di rimandare a riccardo Gasperina Geroni, Gli anni Settanta tra violenza di genere e decostruzione del maschile: La scuola cattolica di Edoardo Albinati, «The italianist», vol. 38, n. 1 (2018), pp. 108-125.
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riccardo gasperina geroni360 il reale la cruda rappresentazione che ne discende: «Lei sa – confessa – che sono stato attaccato in un libro femminista e definito un “padre della fallocultura”: le autrici non hanno capito che le donne mi sono più simpatiche degli uomini, mi incuriosiscono e mi stimolano di più, nel descriverle mi sento perfino più sciolto, più libero»6. i novantacinque racconti sono costruiti intorno al problema principale del genere, ovvero del rapporto conflittuale tra il maschile e il femminile. Quasi tutte le donne di Moravia sono giovani e attraenti, possiedono un corpo desiderabile, sensuale e non mancano di intelligenza, anche se sono puntualmente intrappolate in un meccanismo di coazione a ripetere che è la cifra strutturale di questi racconti. Dopo l’inizio in medias res, reso necessario dalla brevità dei testi, Moravia mira alla psicologia e all’emotività della donna che prende la parola per esprimere la propria insofferenza sociale, il proprio bisogno di trasformazione. in Venduta e comprata7 la protagonista, moglie di un uomo ricco (in particolare nel Paradiso, lo stereotipo del marito ricco si contrappone a quello dell’amante povero), vende simbolicamente il proprio corpo lungo una strada di campagna: ovvero si offre al compratore, prende i soldi ma nel momento in cui è necessario giungere all’atto simula un dolore cardiaca e spinge il cliente spaventato alla fuga. La dimensione simbolica, che diverrà centrale nella costruzione de La vita interiore, – in cui la Voce responsabile delle diverse dissacrazioni perpetrate da Desideria afferma che, «nella vita interiore, tutto avviene simbolicamente»8 – è funzionale al bisogno della donna di sentirsi comprata come uno dei tanti vestiti che lei stessa acquista in modo compulsivo per alleviare la sofferenza e l’angoscia prodotte dai continui tradimenti del marito. Le protagoniste di queste storie vengono reificate, ma ciononostante non perdono lucidità e consapevolezza: sanno di essere subordinate ed economicamente dipendenti dagli uomini e così impossibilitate a una diversa forma di realizzazione che non sia riconducibile al ruolo di moglie/madre/amante. Venduta e comprata si conclude con una forma di tragica beffa del caso cui spesso queste donne sono condannate: l’uomo a cui si era sottratta all’inizio del racconto torna ora sulla scena e la costringe – così suggerisce il finale – a passare tramite la violenza fisica dal piano del simbolico a quello del reale. La figura della donna è colta nello storico trapasso dai modelli so
6 Carla ravaioli, La mutazione femminile: Conversazioni con Alberto Moravia sulla donna, Milano, Bompiani, 1975, pp. 13-14. 7 A. Moravia, Il Paradiso, Milano, Bompiani, 1970, pp. 21-31. 8 id., La vita interiore (1978), Milano, Bompiani, 2004, p. 86.
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il mondo femminile nei racconti di alberto moravia 361 ciali consolidati alle istanze della liberazione sessuale, è un personaggio che non riesce a integrarsi nel nuovo tessuto sociale e rimane dunque sospeso, a metà tra i caratteri che tradizionalmente le vengono attribuiti e le nuove forme di nevrosi, susseguenti all’affermazione del neocapitalismo. Alcune donne simulano il suicidio, altre desiderano abbandonare il proprio compagno, altre cercano di affermarsi nell’ambito lavorativo, altre ancora bramano vendetta, tutte sono però strette in una contraddizione: la consapevolezza e l’impulso di dover cambiare e l’impossibilità di farlo. Questo spiega, da una parte, la circolarità della struttura in cui – come ricorda Stefania Stefanelli – l’impulso iniziale che dà il via alla narrazione non produce mai il superamento della «soglia della realizzazione concreta»9; e dall’altra conferisce ai racconti una tonalità frivola e ironica che slitta in una impossibilità tragica, in cui può essere riconosciuta la vena più autentica della narrativa moraviana, sin dal suo esordio con Gli indifferenti10. in questi testi che costituiscono l’officina preparatoria della Vita interiore, costruita sul modello di un’intervista immaginaria tra l’autore e la protagonista, l’ordito narrativo è volutamente assemblato in modo meccanico e artificiale:
Per un poco – riferisce la protagonista del racconto L’equilibrio, mentre cerca di rapinare la gioielleria del marito per cui lavora come commessa – rimango in terra, dove sono caduta, al buio. il sangue mi riempie la bocca; la fronte mi duole […] Poi faccio per alzare una mano, a ravviarmi i capelli che mi sento pendere sul viso. E allora mi accorgo che
9 Stefania Stefanelli, Per una rilettura di Boh di Alberto Moravia, «Contemporanea», n. 2 (2004), pp. 11-21 (p. 20). Esemplificativa a questo proposito è la vicenda narrata in Portacenere (A. Moravia, Il Paradiso, cit., pp. 117-123) in cui la protagonista è contraddistinta – a esemplificazione della propria incompletezza – dal volto per metà truccato. Nel corso della giornata, ella compie un’infinità di azioni, senza riuscire a completarle: «La mia giornata è stata simile a un portacenere che un fumatore nevrotico abbia riempito in molte ore di tante cicche quali lunghe, quali corte e quali addirittura appena bruciacchiate. La mia giornata è piena di azioni lasciate a metà o a un quarto; e come le cicche, queste azioni, adesso che ci penso, mi appaiono spente, fredde e maleodoranti» (pp. 117-118). La doppiezza del suo viso resa dal parziale impiego del trucco mostra nel concreto l’impossibilità della donna di lavarsi adeguatamente il viso, portando a termine una semplice azione; sul piano simbolico significa invece che la donna mantiene una zona di resistenza rispetto alla sua omologazione al reale. 10 È lo stesso Moravia a ricordare nella biografia scritta con Alain Elkann che la tragedia esprime perfettamente la natura conflittuale e drammatica della famiglia borghese. Vd. A. Moravia, Alain Elkann, Vita di Moravia, Milano, Bompiani, 2000, p. 276.
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non posso muoverla: sta aggrappata convulsamente, con le dita piegate come artigli, al sacchetto dei gioielli che, ancora adesso, stringo con gelosia contro il petto. […] Mi decido; con fatica mi levo in piedi; barcollando vado nel negozio, accendo la luce. […] rovescio il sacco sul cristallo del banco: anelli, spille, braccialetti, collane scintillano sotto i miei occhi, in un bel mucchio prezioso. Con calma, con competenza, con cura, prendo, uno a uno, gli oggetti e li rimetto nella vetrina, dove stavano. il ladro ha fatto anche lui le cose con calma, con competenza, con cura. A tal punto che mi sembra di essere addirittura lui mentre, per chissà quale pentimento, restituisce la roba dopo averla rubata11.
Sotto il profilo formale, il passo è esemplificativo della scrittura moraviana nei racconti femminili. A una prosa piana modulata sull’«incolore medietà dell’italiano d’uso»12 si abbina un assemblaggio di frasi in prevalenza paratattiche che ambisce a una efficace resa mimetica. La finalità tuttavia non risiede nella «riproposizione naturalistica dei realia»13, ma nella coincidenza di stile e psicologia del personaggio. Molte di queste donne sono dissociate, soffrono di un sintomo che l’odierna scienza psicologica ricondurrebbe ai disturbi dell’identità del Sé. La derealizzazione e la depersonalizzazione trasformano in mediato il legame immediato che lega il Sé al reale o al proprio corpo, o meglio il soggetto pensa se stesso e il mondo attraverso un atto riflessivo: «com’è possibile che esista una cosa chiamata pietra?»14, si chiede incredula la protagonista de Il Paradiso, riflettendo sullo statuto del reale. il personaggio de Le parole e il corpo, invece, dopo un finto tentativo di suicidio, pone sotto tensione il rapporto tra l’io e il proprio corpo che nel finale del racconto si autonomizza e viene descritto dall’esterno, oggettivato come se il punto di vista dell’osservatore non coincidesse più con quello del soggetto narrante: «Va e viene, apre un armadio, sceglie una camicetta, una minigonna, una calzamaglia, un reggiseno, si veste con cura, con amore. Quindi si pone davanti allo specchio, si pettina, si trucca, si profuma, si mette al collo una catena, alle dita degli anelli…»15. L’oggettivazione del corpo della protagonista ha un effetto anche sull’impianto linguistico del racconto, per mez
11 A. Moravia, Un’altra vita, Milano, Bompiani, 1973, pp. 72-73. 12 Enrico Testa, Lo stile semplice: Discorso e romanzo, Torino, Einaudi, 1997, p. 189. 13 Ibidem. 14 A. Moravia, Il Paradiso, cit., p. 33. 15 Ivi, p. 174.
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il mondo femminile nei racconti di alberto moravia 363 zo di uno slittamento dalla prima alla terza persona, che promuove così un’istanza narrativa definibile «io-egli»16. indiscusso analista della civiltà piccolo borghese, di cui non sogna mettere in discussione i presupposti, l’amico Moravia fonda secondo Pier Paolo Pasolini il centro della narrazione su una «anomalia»17 o su un insieme di anomalie da cui origina il racconto. Nelle pagine dedicate a Un’altra vita, Pasolini identifica il sistema dell’anomalia nelle numerose e apparentemente incredibili stranezze di queste storie che diventano nel complesso meccaniche, assurgono cioè a una dimensione simbolica che modifica nel lettore la percezione del senso del racconto, senso non più esistenziale ma ideologico18. L’alienazione, l’abulia, le manifestazioni delle forze dell’inconscio sono alcuni dei grandi temi che attraversano la scrittura di Moravia e che prendono corpo nel testo in modo fulmineo e imprevisto, «dando ai fatti raccontati un carattere di sogno (qualcosa che è fuori del destino, cioè dalla normalità)»19. La protagonista di Rapita si sveglia nel buio di una stanza e avverte di essere in un ambiente ostile ed estraneo alla propria abitazione, nonostante sia distesa sul letto di casa accanto al marito; una madre di famiglia di quarant’anni – in Ritrovata – desidera essere l’aguzzina del giardiniere diciottenne che in una atmosfera allucinata e beffarda si trasforma a sua volta in carnefice; ne L’equilibrio, una donna si sveglia e identifica nel marito una anomalia fisica mai osservata prima (la testa dolce e adolescenziale e il corpo massiccio e brutale). Si potrebbe continuare, ma la costante comune di queste storie rimane iscritta in una improvvisa irruzione nell’ordine del reale di una mutazione, al
16 Si forza qui la definizione adoperata da Pasolini in relazione al narratore della Noia, in cui Moravia si cala riducendo il proprio “io” nella forma “egli”. Per Pasolini, l’uso della prima persona è vincolato a una sostanziale sfiducia nella realtà che può essere testimoniata solo da un io che ne verifichi l’esistenza e l’obiettività. Nei racconti femminili degli anni Settanta, quell’“io” dietro al quale cerca di nascondersi Moravia più che verificare l’esistenza del reale ne è sopraffatto, reificato e trasformato in oggetto. Cfr. Pier Paolo Pasolini, La regressione nell’io: «La noia», in Cristina Benussi, Il punto su: Moravia, roma-Bari, Laterza, 1987, pp. 155162 (p. 156). 17 P.P. Pasolini, Descrizioni di descrizioni, a cura di Graziella Chiarcossi, Milano, Garzanti, 2006, p. 276. 18 Al contrario, Moravia sosteneva che il suo approccio fosse «esistenziale, cioè premorale, prerazionale, presociale: o i fatti incidono sull’emotività e la psicologia dell’individuo, e possono essere visti e analizzati in funzione del suo divenire interiore, o non mi interessano; voglio dire non mi interessano come narratore». C. ravaioli, La mutazione femminile, cit., p. 120. 19 P.P. Pasolini, Descrizioni di descrizioni, cit., p. 277.
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riccardo gasperina geroni364 pari dell’ospite nella perfetta famiglia di Teorema (1968), che tuttavia non produce l’implosione dell’ordine borghese come nel film di Pasolini, ma lo riconferma forte dell’impossibilità di una sua alternativa. Lo scienziato Moravia gioca sadicamente con le sue donne, instilla nella loro miseria consumistico-borghese il germe della consapevolezza che produce sofferenza e dolore, ma non offre loro alcuna alternativa che non sappia di condanna. Secondo Moravia20, le tre raccolte fotografano la lacerazione interna alla donna, la quale è incapace di sanare la contraddizione prodotta dalla società capitalistica: al contrario degli uomini programmati per educazione e cultura a ricoprire una determinata posizione sociale, ella aspira alla parità, all’integrazione nella società, ma ne rimane in disparte, esclusa soprattutto a causa della sua diversità biologica21, che genera l’inferiorità sociale che il mondo maschile le attribuisce. Per questo i suoi tentativi di adattamento sono nevrotici, sgraziati, goffi e per lo più stretti tra una passiva accettazione o una estremizzazione della propria condizione e funzione di oggetto. Le donne moraviane possono essere violente, aggressive oppure possono indossare – tanto più esperiscono come inautentica la realtà – la maschera sociale dell’integrazione (madre perfetta, moglie felice etc.). Tuttavia, il corpo non è educabile: sulle sue pieghe emerge il dissidio che le attraversa. A questo proposito, il critico Fausto Curi22 sottolinea gli aspetti disarmonici e abnormi dei corpi delle donne della narrativa moraviana; in particolare, egli identifica come leit-motiv le spalle strette e la testa grossa (come Carla degli Indifferenti) attraverso cui l’autore disegna un corpo femminile paradigmatico in cui le disparità e «le disarmonie fisiche» accentuandosi veicolano lo sguardo dell’osservatore sul corpo in quanto tale. Nei racconti degli anni Settanta, il corpo anomalo e disarmonico è il luogo in cui si consuma la trasformazione sociale. Mentre per il Pa
20 C. ravaioli, La mutazione femminile, cit., p. 112. 21 Dopo aver asserito che la distinzione sociale tra uomo e donna discende in larga parte da ragioni storiche, lo stesso Moravia considera centrale il fattore biologico. La distinzione non è solo prodotta dalla presenza di due distinti organi sessuali, ma dal fatto che il corpo femminile è accomunato alla dimensione del “mistero”: «c’è non solo un organo genitale maschile diverso da quello femminile, c’è un diverso sviluppo muscolare, una diversa struttura ossea… quanto a dire un mistero genitale, un mistero muscolare, un mistero osseo e così via»: ivi, p. 47. 22 Fausto Curi, Alberto Moravia e la filosofia europea, «rivista di studi italiani», a. XXXii, n. 1 (2014), pp. 204-251 (p. 226).
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il mondo femminile nei racconti di alberto moravia 365 solini dell’Abiura dalla “Trilogia della vita”23 il corpo è sempre stato corrotto dal momento che è stato possibile da un certo punto assimilarlo nell’orizzonte del neocapitalismo, in Moravia esistono ancora alcune zone di resistenza. infatti, i numerosi corpi (spesso nudi) che calcano la scena dei racconti sono costruiti in base all’opposizione vitalità/ morte, floridezza/appassimento, selvatichezza/domesticità, spontaneità/artificialità. Ne I prodotti24, ad esempio, la protagonista si guarda nuda allo specchio25 e, dopo aver notato le mani e i piedi sproporzionati rispetto all’esile corpo, pensa: «ma le rotondità che sono proprie della bellezza femminile, ridotte a rilievi appena pronunciati e tuttavia già vizzi, stavano a indicare che io ero destinata a diventare una donna formosa; e poi, come avviene alle piante se non sono spesso innaffiate, mi era mancata la linfa, cioè la vitalità. insomma, non ce l’avevo fatta». Le metafore utilizzate in relazione al corpo delle donne provengono dal mondo della natura e riflettono l’idea moraviana che Edoardo Sanguineti26 ha condensato nella formula della «buona selvaggia». Nella dialettica storia/natura, la donna appartiene ancora al mondo degli elementi naturali, è una forza che difficilmente può essere controllata, ricorda all’uomo la propria origine. E questo discende non solo dal fatto che la donna, secondo Moravia, è entrata nell’ordine della storia successivamente, ma anche dalla irriflessività femminile e dal suo profondo e naturale legame con il corpo, che è lo stadio – ragiona Arnaldo Bocelli in una recensione dedicata a Boh – più vicino alla cosa in sé27. La donna è dunque irrazionale e istintiva, mentre l’uomo è razionale, calcolatore ed espressione del principio di conoscenza. Dino della Noia (1960) – ad esempio – desidera entrare in contatto con il reale attraverso il corpo di Cecilia, ma è costretto a prendere atto del fallimento perché il corpo della donna è muto, chiuso nella sua refrattaria trascendenza28.
23 Marco Antonio Bazzocchi, Esposizioni: Pasolini, Foucault e l’esercizio della verità, Bologna, il Mulino, 2017, p. 31. 24 A. Moravia, Il Paradiso, cit., p. 139. 25 Sulla funzione dello specchio nella narrativa di Moravia si rimanda alla monografia di Bruno Basile, La finestra socchiusa. Ricerche tematiche su Dostoevskij, Kafka, Moravia e Pavese, roma, Salerno, 2003. 26 Edoardo Sanguineti, Giornalino 1973-1975, Torino, Einaudi, 1976, p. 38. S.v. anche id., Alberto Moravia, Milano, Mursia, 1973. 27 Arnaldo Bocelli, Donne di Moravia, «La Stampa», 23 novembre 1976. 28 M.A. Bazzocchi, Corpi che parlano: Il nudo nella letteratura italiana del Novecento, Milano, Bruno Mondadori, 2005, p. 42.
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riccardo gasperina geroni366 L’evidente stereotipo di genere si inserisce in un problema più generale, culturale e filosofico, attraverso cui può essere letto l’ultimo Moravia e che riguarda la relazione tra il linguaggio e le cose. in un dramma in due atti, Il mondo è quello che è (1966), Moravia riassume la contrapposizione cercando di far convivere la filosofia materialistica di Marx e la filosofia del linguaggio di Wittgenstein. Milone, il filosofo protagonista, inventa una «terapia del linguaggio», in virtù della quale i partecipanti sono costretti ad abolire dal proprio lessico le parole «infette», ovvero tutte quelle parole che sono in grado di smuovere sentimenti o pensieri. in questo mondo alla rovescia che imita la moderna e asettica società di massa e i suoi potenti mezzi di comunicazione, non è lecito usare parole conturbanti e piene di significato, ma solo parole neutre, luoghi comuni e un linguaggio altamente convenzionale, così da impedire il dolore e permettere alle masse di assolvere al proprio compito storico che è quello «di produrre per consumare e di consumare per produrre»29. Senza il linguaggio e sradicate dalla propria realtà a causa dell’alienazione, le masse non riescono più a relazionarsi con le cose, rimangono mute dinnanzi all’oppressione della storia. Fanno eccezione alcune donne dell’ultima raccolta di racconti Boh30, in cui la parola è ancora «parola-cosa», per usare il lessico di Sanguineti: è cioè ancora in grado di sfuggire alla «parola-plurale» (collettiva) che, «fabbricata in base agli interessi del parlante»31, è parola di potere, dominante e quindi maschile. «Schiaffi, pugni, calci. Borgata, fogna, rifiuti. Baracca, letto, seggiole»32 afferma la protagonista del racconto La vita addosso, in cui le parole sono i fatti: “lo schiaffo” indica lo schiaffo e “la fogna” l’odore che ella è costretta a respirare quando dorme, sbattuta su una strada o in una baracca. Diversamente si declina il rapporto parola/cosa nel mondo borghese, dove la protagonista lavora come inserviente. Per la coppia borghese di cui è dipendente, le parole non hanno più un rapporto diretto con le cose, ma vengono strumentalizzate e usate per difendersi dalle incursioni della vita esterna: «La vita, insomma, non stava addosso a quei due come a Mauro e a me, perché loro tenevano a distanza tutte le cose di cui è fatta, con le parole che si scambiavano e quelle che leggevano nei libri,
29 A. Moravia, Il mondo è quello che è, Milano, Bompiani, 1966, p. 111. 30 Sullo stesso argomento, seppur declinato in modo diverso, s. v. i racconti contenuti in Boh, Parlare per vivere e Dentro e fuori: A. Moravia, Boh (1976), Milano, Bompiani, 2004, pp. 36-46. 31 E. Sanguineti, Giornalino 1973-1975, cit., p. 37. 32 A. Moravia, Boh, cit., p. 31.
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il mondo femminile nei racconti di alberto moravia 367 tutte parole che erano prima di tutto parole e poi, magari, qualche volta, anche cose»33. Sono poche, in realtà, le donne che riescono a salvarsi, a mantenere intatta una parola-cosa quale strumento per sfuggire all’oppressione della storia. E talvolta ciò è possibile solo in virtù di una dissociazione psichica che preserva l’io autentico dell’individuo dentro l’involucro dell’io sociale. Nel romanzo Io e lui (1973) Moravia mette in scena la scissione tra la psiche e il membro maschile del protagonista che acquisisce un’autonomia e una identità sempre più marcate al punto da indurre Federico, un giovane sceneggiatore con velleità da regista, in una spirale di libido (espressione del proprio inconscio), rimorso e autodistruzione. Anche i coevi racconti femminili parlano di donne dissociate. Tra le varie storie dedicate al tema (L’orgia, Gli ordini sono ordini, Dritta, Gemelli nel Nepal), in Armadio Moravia ripercorre la vita di una giovane donna, di nome Silvia34, che si è divisa in due per proteggersi dal dolore e dalla sofferenza che la madre le aveva procurato. Solo la conoscenza di un giovane ingegnere (con cui si sposa) riattiva nella donna l’io autentico insieme alla speranza di poter vivere liberamente i propri sentimenti. Però trattenuta dalla paura, la donna lascia spazio all’io inautentico (ma più disinibito e apprezzato) e si rifugia dentro l’armadio reale e simbolico, da cui era saltata fuori la notte in cui ha conosciuto il futuro marito. Solo nel finale che si chiude circolarmente rispetto all’incipit del racconto35, le due parti riconoscono – dopo l’uccisione del marito a opera dell’io inautentico geloso del ritorno della rivale – il reciproco legame:
Perché l’ho salvata? Perché non mi fido di me stessa, potrebbe accader
33 Ivi, p. 32. 34 Nelle tre raccolte raramente compare il nome della protagonista che qui viene pronunciato dal personaggio maschile durante una conversazione con la madre. in un’intervista del settembre 1952, Moravia dichiara a proposito dell’onomastica che «i nomi non si scelgono, sono un’intuizione che si accorda col personaggio che sta per nascere» (A. Moravia, Si confessano i nostri letterati: noi scrittori – come battezzieri – facciamo così, «Epoca», 27 settembre 1952). A supporto di questa corrispondenza, cita la lirica Vocali di rimbaud in cui il poeta associa alle vocali dei colori differenti secondo la forma corrispondente. Così anche in questi testi la rarità (sei ne Il Paradiso, nove in Un’altra vita, sette in Boh) dell’utilizzo del nome proprio sembra suggerire la difficoltà con cui queste donne giungono a una definizione di sé. infatti, i loro nomi vengono usati per lo più dai personaggi secondari maschili e mai più di una volta. 35 Moravia utilizza la tecnica della Ringkomposition in molti racconti, proprio per indicare la ripetitività della vita e delle azioni di queste donne.
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mi ancora una volta di amare troppo, e allora avrei bisogno di lei. Ma salvandola, mi sono legata ad un’assassina. Sono la sua complice e so di certo che l’uccisione di mio marito non è che il primo di una lunga serie di delitti. L’impunità l’incoraggerà. intanto i miei genitori mi stanno cercando un nuovo marito. io tremo per lui ancor prima di conoscerlo. una volta sposata, dovrò darlo all’altra e isolarmi; oppure correre il rischio di vedermelo ammazzare sotto gli occhi36.
Emarginazione e salvezza convivono nel personaggio sdoppiato di Silvia che può essere assunto come emblema del mondo femminile moraviano, in cui la mancata integrazione sociale permette all’inconscio di parlare ancora.
2. Dal Paradiso a Boh: in cerca di un’Altra vita
Lette nel loro insieme, le tre raccolte presentano numerosi elementi di comunanza che si ripetono e si sovrappongono proprio in virtù di quella tecnica di accumulo di cui si è parlato. Tuttavia, le tre opere possono essere anche lette seguendo la loro evoluzione diacronica. Nel racconto eponimo de Il Paradiso, Moravia presenta sulla scena una giovane donna intenta a raggiungere “il paradiso” attraverso una cospicua dose di barbiturici che casualmente non ingerisce, perché interrotta dalla telefonata dell’amica Magda che la invita a partecipare a una festa con Giulio Cesare, Leonardo da Vinci e altri personaggi storici. La protagonista è un concentrato di stereotipi legati alle religioni orientali e alla loro diffusione in occidente: il suo bassotto si chiama Zen, sulla pelle la donna si disegna la faccia di un santo indiano con un solo occhio e indossa collane provenienti da un villaggio dell’Himalaya, dove si può contrarre l’epatite virale. il tono è canzonatorio e prende di mira le filosofie orientali che si diffondono, a partire dagli anni Cinquanta, in America (e poi in Europa) come «reazione a-ideologica, mistico-erotica alla civiltà industriale»37. il tentativo praticato dalla donna è però fallimentare. infatti, uscita di casa dopo aver dato la sua dose di barbiturici al cane, viene violentata da un tassista e scaricata infine sul ciglio di una statale, dove – per rilassarsi – tenta di identificarsi con una margherita, non accorgendosi dei numerosi au
36 A. Moravia, Il Paradiso, cit., p. 87. 37 umberto Eco, Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, Milano, Bompiani, 2006, p. 210.
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il mondo femminile nei racconti di alberto moravia 369 tomobilisti che le chiedono la tariffa. il rituale ko-tsu dovrebbe servire a liberarsi dai complessi e dalle difficoltà per accettare in modo gioioso la vita nella sua precarietà, ma il finale del racconto segna la vanità e l’assurdità dell’agire della donna. Dopo essere stata accompagnata a casa da un gruppo di suore, al cui credo contrappone una forma di panteismo ingenuo, la donna si addormenta e sogna il suo bassotto Zen che la implora di lasciarlo andare e di slegarlo: «“Debbo andare in Paradiso”. Allora mi abbasso, stacco il guinzaglio e immediatamente, come un lampo, il bassotto corre via avanti, scompare. Sono sola e scoppio in pianto. Piangendo amaramente, mi sveglio»38. i personaggi di Moravia – insegna Sanguineti39 – vanno sempre letti insieme al loro sogno che nell’ultimo Moravia è divenuto desiderio di morte. Qui il piano del reale e quello onirico si fondono: al risveglio la donna trova il cane morto e non riesce più a piangere perché ha già pianto in sogno. L’unico a raggiungere il “paradiso” del titolo è dunque il bassotto su cui Moravia proietta e condensa freudianamente il desiderio di morte della protagonista che ha scoperto, in modo tragico, come l’esperienza della liberazione non è permessa dall’amore, né tantomeno dall’illusione della fusione panica offerta dalle filosofie orientali, quanto dalla morte, dal regresso in quel “paese innocente” cui sembra alludere la stessa protagonista quando si adagia, addormentandosi, sul grembo della suora che la riaccompagna a casa. Ma anche il ritorno è irrealizzabile (la suora è simbolo di una maternità impossibile), perché la morte di cui queste donne – come scrive Luigi Baldacci40 – sono testimoni consiste proprio nella vita, nella realtà che ritorna prepotente sulla scena del finale, incarnandosi in una «voce terribile» che bussa alla porta: «Telegramma!». il paradiso è dunque titolo ironico e antifrastico che indica l’inferno tutto umano e terrestre della realtà borghese e, al contempo, l’impossibilità di raggiungere – se non in sogno – il paradiso, dislocato in un altrove, in un’altra vita di cui si sono perdute le tracce. Nel racconto che dà il nome alla seconda raccolta, una donna sulla trentina vive radicata nel presente, ignara delle esperienze precedenti alla sua vita da ricca borghese: «Mi succede un poco come, in quella storia della Storia Sacra, a quella donna a cui dissero di non voltarsi a guardare indietro, altrimenti sarebbe stata cambiata in statua. Qualcuno deve
38 A. Moravia, Il Paradiso, cit., p. 41. 39 E. Sanguineti, Alberto Moravia, cit. 40 Luigi Baldacci, Nell’ultimo Moravia l’ipotesi della morte dell’uomo, «Epoca», 19 aprile 1970.
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riccardo gasperina geroni370 aver detto anche a me che non debbo voltarmi a guardare indietro. E io ubbidisco»41. La storia della moglie di Lot che trasgredisce il divieto divino è qui riattualizzata nel mondo degli anni Settanta, in cui la protagonista è obbligata a confrontarsi con il proprio passato di prostituta che le viene ricordato da una misteriosa donna, di nome Tilde, che bussa alla porta per ricattarla. «Il passato che ritorna» recita provocatoriamente il titolo di una rivista di fumetti che si trova in casa; in realtà, la donna non serba memoria: «Ci sono coloro, come Tilde, che hanno avuto un passato e si vede e se lo ricordano. E ci sono invece coloro, come me, che hanno avuto un’altra vita e non si vede e non se la ricordano»42. Paolo Milano, all’epoca della pubblicazione dell’opera, ha descritto la vita di queste donne come un «sogno ad occhi aperti» o addirittura un «delirio pacatamente sceneggiato»43. E in effetti le protagoniste non riescono ad afferrare gli oggetti, i sentimenti e i gesti che scivolano nelle loro vite senza lasciare traccia. Per questo, anche lo statuto della loro narrazione deve essere messo in dubbio, perché esse raccontano una storia che non hanno mai vissuto fino in fondo e che pertanto appare nella forma di “déjá vu”, di un’altra vita forse più autentica e reale. L’ultima produzione di Moravia, a partire dalla Noia, è segnata da una crescente attenzione per la questione del sesso e dell’erotismo44 che ha spinto taluni critici a parlare di «pansessualismo» monocromatico45. Anche nella raccolta Boh in cui risaltano maggiormente i rapporti con il romanzo della Vita interiore, il corpo è colto nei suoi precisi dettagli anatomici: bocche, seni, gambe, organi genitali esaltano la funzione erotica e divengono feticci attraverso cui le donne interagiscono con il mondo maschile. A differenza delle altre raccolte, in Boh queste donne covano una profonda rabbia, anticipatrice del 1977, e
41 A. Moravia, Un’altra vita, cit., p. 62. 42 Ivi, p. 67. 43 Paolo Milano, Trentun donne in cerca di vite alternative, «L’Espresso», 11 novembre 1973. 44 Secondo Moravia, l’erotismo va letto in modo dialettico rispetto allo sviluppo culturale e sociale di una civiltà. Più l’erotismo si disvela e più una data civiltà esaurisce i propri modelli. Nella Prefazione all’opera di Georges Bataille Storia di un occhio, Moravia spiega che l’erotismo è una forma di conoscenza della realtà che esaurisce e distrugge la realtà stessa, confondendosi così con l’esperienza mistica. Cfr. A. Moravia, Prefazione a Georges Bataille, Storia di un occhio, roma, Gremese, 1980. 45 Valentina Mascaretti, La speranza violenta: Alberto Moravia e il romanzo di formazione, Bologna, Gedit, 2006, p. 510.
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il mondo femminile nei racconti di alberto moravia 371 sono tutte attraversate, parlate – in senso freudiano – dalla voce dell’inconscio, di cui si vedono gli effetti senza che se ne capiscano i motivi. Sebastiana, infatti, la protagonista del racconto eponimo e anticipazione di Desideria, è una giovane ribelle ex-sessantottina che si fa caricare in macchina da diversi uomini solo con l’intento di umiliarli verbalmente, fintanto che incontra Paolo che le impone il fascino del denaro, dinnanzi al quale la rabbia della donna si rabbonisce. Nella scena finale, l’uomo desidera che la donna agisca secondo un copione prestabilito, urinando sulla testa di un giovane ragazzo, chiamato «angelo». Al contrario delle aspettative, la donna però colpisce Paolo con un posacenere (simbolo proprio della vita consumata come sigarette accese e spente nevroticamente) e, colta dall’angoscia degli occhi ancora vitali dell’uomo, inizia a urinare a schizzi sui suoi capelli e sulla sua faccia. Dopo essere scappati, l’angelo e Sebastiana sono distesi su un letto e, osservandosi allo specchio, si parlano: «“Secondo te, il signor Paolo perché fa quelle cose?” “Perché gli piace.” “E perché gli piace?” “Boh”»46. Nell’impossibilità di decifrare e comprendere i segni dell’inconscio che si manifestano qui attraverso l’improvviso getto di urina sul capo di Paolo, queste donne non sono più alla ricerca di una morale superiore per agire (come Leo ne Gli indifferenti), perché alla morale superiore che legittima l’azione si è sostituito l’inconscio che in Desideria si manifesterà sotto forma di una Voce, come quella di Giovanna d’Arco, il cui riferimento storico legittima il tentativo di rivolta della protagonista nei confronti dell’ordine borghese. Mentre in Desideria la Voce spinge la ragazza a dissacrare per livelli successivi tutti i simboli del mondo borghese e la conduce in un finale atto volontaristico di presa di coscienza della propria condizione (attraverso un duplice omicidio), Sebastiana rimane al di qua della linea d’ombra, resta incompleta ovvero – come le altre donne di Boh – si arrende alla natura socialmente determinata del genere umano, con le sue perversioni, le sue debolezze e vive la vita con il tono del «bah» che esprime rassegnazione e incertezza, cui si aggiunge il tono del romanesco e ironico «boh». A dispetto delle letture delle femministe dei Padri della fallocultura le cui ragioni erano legate alla lotta politica, un maggiore distacco offre uno sguardo più preciso sul ruolo della donna e suggerisce come la portata delle opere di Moravia non possa essere ridotta a un giudi
46 A. Moravia, Boh, cit., p. 160.
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riccardo gasperina geroni372 zio di valore, ma vada letta entro i limiti di una cultura letteraria prevalentemente maschile che osservava incuriosita e forse un po’ spaventata l’ingresso della donna nella società. L’universo letterario di questi racconti è così testimone delle difficoltà dell’integrazione femminile nel tessuto sociale italiano della prima metà degli anni Settanta e, al contempo, della particolare visione di Moravia che, scorgendo nella donna l’ultima sopravvivenza dell’inconscio, pone come epigrafe di quella società spaesata l’immagine di Sebastiana che urina – in modo nevrotico – su un tappeto bianco, non riuscendo più a controllare il proprio fiotto.
riccardo Gasperina Geroni università di Bologna
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FrANCESCA FiSTETTi Fantasmi, simulacri, pregnant void. il pianeta azzurro di Luigi Malerba
il saggio mostra come ne Il pianeta azzurro (1986) Luigi Malerba, conducendo a maturazione il suo antico assillo filosofico-esistenziale circa l’approdo della fisica moderna alla metafisica, realizzi uno dei più radicali progetti di iper-romanzo che il postmoderno italiano abbia concepito, mediante il rovesciamento delle convenzioni del genere romanzesco nella mimesi di un tempo immobile abitato da uno sfolgorio di simulacri, ossia nel beffardo paradosso della formaromanzo come mimesi del nulla.
★ This essay demonstrates how in il pianeta azzurro (1986) Luigi Malerba, developing his nagging philosophical-existential worry concerning the transformation of modern physics into metaphysics, creates one of the most radical hyper-novels that italian postmodernism has conceived by overturning the conventions of the novel in the mimesis of an immobile time inhabited by glaring simulacra or in the mocking paradox of the novel as the mimesis of nothingness.
Il realismo, vecchio e nuovo, è una delle più clamorose truffe della letteratura1
Luigi Malerba ha sempre concepito la creazione letteraria come un atto conoscitivo capace di restituire una fisionomia alla realtà, postulata come un gorgo opaco di effettive possibilità, mai per riprodurla in forme dai confini stabili, sia pure da una prospettiva bizzarra e intrigante. La sua tormentata passione per la scrittura letteraria rinviene le proprie ragioni in qualcosa di radicale e inestinguibile, in una forza naturale e travolgente: il bisogno sempre inadempiuto ma irrinuncia
Autore: università degli Studi Aldo Moro – Bari; dottore di ricerca e assegnista in italianistica; francesca_fistetti@hotmail.it 1 Pubblicità, anima della letteratura, intervista a Luigi Malerba, a cura di Mimmo Gerratana, in Luigi Malerba, Parole al vento, a cura di Giovanna Bonardi, Lecce, Manni, 2008, p. 114.
francesca fistetti374 bile di significato. un significato da assegnare a un mondo che, sconvolto in radice dall’inaggirabile mutare dell’orizzonte epistemologico, non offre più alcun appiglio ontologico, nessun gancio metafisico cui appendere solide impalcature conoscitive e ineludibili indirizzi morali, ma condanna inesorabilmente l’individuo al perpetuo affanno dell’incertezza e dell’interrogazione etica e gnoseologica. Tuttavia la consapevolezza che tale esigenza sia destinata a restare insoddisfatta spinge il pedale dell’impegno dello scrittore al massimo grado, rendendogli più stimolante la sfida alla realtà. infatti, sua peculiare attitudine stilistico-retorica è quella di investire il lettore con una martellante scarica adrenalinica di domande, orientata a picchiare attorno alle più inveterate costrizioni e ai rigidi vincoli del pensiero razionale, nell’imperiosa urgenza di una revisione estrema di tutti i rassicuranti rapporti col mondo, provocando così in chi legge repentine scosse di straniamento dalla materia narrativa, un galvanizzante invito a stare sempre allerta, a guardarsi le spalle: «Credo di essere in assoluto lo scrittore che ha usato il maggior numero di punti interrogativi di tutta la storia letteraria italiana»2. Da questo punto di vista, l’inquietudine metafisica di Malerba esibisce un piglio dispotico e irriverente, esige un’esperienza assoluta, pretende l’abbandono del vero e del falso, del sì e del no, del giusto e dell’iniquo, reclama di dimenticare il mondo così come fino a quel momento lo abbiamo conosciuto, amato o odiato, e di lasciarsi trasportare in un’avventura della mente e della fantasia che metta a dura prova le nostre più profonde convinzioni. richiede insomma al lettore un doppio salto mortale: uscire dal mondo e farvi ritorno trasformato. in compenso però lo smarrimento procurato dalla rottura dei vecchi paradigmi, lungi dal suscitare corrivi atteggiamenti di resa di fronte alle cose o di rassegnato cedimento all’insignificanza, promette nuove vertigini metafisiche e imprevedibili opportunità di reinveramento dei rapporti paradigmatici ed etici con il mondo. Ed è proprio su questa straordinaria scommessa, quasi un pari pascaliano, di inventare una realtà abbandonando modelli collaudati e sicuri, una volta preso atto che non esiste un modo di essere del mondo che sia quello “vero”, anteriore ad ogni predicazione, che Malerba sceglie appunto di raccontarne le suoi infinite e strabilianti avventure. Come aveva acutamente constatato Maria Corti3, Il pianeta azzur
2 Rapporto con un libro, intervista a Luigi Malerba, a cura di JoAnn Cannon, in id., Parole al vento, cit., p. 85. 3 Maria Corti, Il viaggio testuale, Torino, Einaudi, 1978. Della studiosa si veda
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il pianeta azzurro di luigi malerba 375 ro4 (1986) confermerebbe la diffidenza che lo scrittore ha sempre nutrito nei confronti di ogni resa realistica del mondo, dunque, l’esigenza dell’assunzione di una prospettiva straniante e trasgressiva, di un occhio paranoico-visionario, com’era già avvenuto ne Il serpente (1966) e nel Salto mortale (1968), capace di sorprendere in pose allucinate i fantasmi del quotidiano. A tal proposito l’autore finale, a suggello del diario del protagonista Demetrio F. e dei commenti del Chiosatore, soggiunge: «È vero però che nella realtà gli enigmi qualche volta hanno più di una soluzione, vale a dire che una soluzione non esclude l’altra o le altre e che nel mondo c’è spazio anche per le incongruenze, i dubbi, le negazioni, le possibilità, le incertezze, le contraddizioni»5. Sarebbe una brutale semplificazione liquidatoria definire questo atteggiamento epistemologico come scetticismo postmoderno o sospensione del senso, basterebbe rilevare che si tratta di senso del complesso. Tuttavia risulterebbe altrettanto riduttivo assumere tale complessità entro un’idea più o meno allargata di “realismo”6, a causa della compromissione di tale definizione con i limiti ideologici e morali della nostra peculiare tradizione. Si tratta di riconoscere una intrinseca dominante gnoseologica e dialettica anche in opere non strettamente riconducibili ad un modello di rappresentazione realistica. D’altro canto, questo esperimento narrativo conduce a un superiore livello di maturazione l’antico assillo filosofico-esistenziale dell’autore, già adombrato nelle opere precedenti, ossia lo sconcertante approdo della fisica moderna alla metafisica, nel Pianeta azzurro postulato per via sillogistica mediante l’identificazione del nulla filosofico con il vuoto della fisica. Questa rivoluzione epistemologica, secondo Malerba, il quale ha rimotivato l’istanza neoavanguardistica di rottura del continuum referenziale, non può essere affatto ignorata, giacché ha reso inservibili i rigidi schemi del romanzo tradizionale e, dunque, il con
anche il lucido sondaggio Luigi Malerba: una scommessa con il reale, «Autografo», (V) 1988, n. 13. 4 L. Malerba, Il pianeta azzurro, Milano, Mondadori, 2006. 5 Ivi, p. 327. 6 A proposito della narrativa di Malerba, Luperini ha parlato di «realismo visionario» accostandolo alla linea di «negazione oppositiva» interna alle neoavanguardie: romano Luperini, Il Novecento. Apparati ideologici, ceto intellettuale, sistemi formali nella letteratura italiana contemporanea, t. ii, Torino, Loescher, 1981, p. 758. Su questo argomento segnalo anche la densa introduzione di Walter Pedullà in L. Malerba, Romanzi e racconti, a cura di Giovanni ronchini, Milano, “i Meridiani” Mondadori, 2016, pp. Xi-LXiV.
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francesca fistetti376 seguente «epigonismo conservativo di linguaggi e modelli che non hanno nessun riferimento con il mondo nel quale viviamo»7. Tale turbamento (pseudo-)filosofico tormenta l’ingegnere idraulico Demetrio preso nel vortice di un’ossessione omicida, preda di una pervicace volontà di eliminare dalla faccia della terra un potentissimo uomo politico italiano, al centro di tutte le trame occulte e i complotti del nostro paese, nominato solo con l’appellativo di Professore: «L’odio è la forza motrice, il Motore immobile come dice Aristotele quando parla dell’universo. L’odio è un sentimento molto più forte dell’amore, l’odio fa circolare il sangue più veloce, vivifica l’organismo, tempera il pensiero, aiuta la digestione e dove si attacca corrode come l’acido solforico»8. Qualsiasi approccio metodologico adottiamo per affrontare quest’opera non ci è concesso ignorare l’elevato quoziente di figuralità della sua precipua forma narrativa che, come direbbe Eco, fa ricorso al dispositivo retorico del «dialogismo artificiale»9, piegato a moltiplicare la responsabilità dell’istanza autoriale, rompendo ogni illusione di verosimiglianza naturalistica. in realtà, noi leggiamo il diario di Demetrio, il quale nel frattempo è scomparso, commentato da un Chiosatore che si spaccia per il proprietario della villa affittata per un mese da Demetrio nel luogo prescelto per l’omicidio, teatro in quei giorni di luglio di altre strane morti. il Chiosatore sostiene di aver trovato i tre quaderni dell’ingegnere nella sua villa e, preoccupato per le sorti dell’inquilino vittima di un delirio paranoico, decide di condurre una sua piccola indagine, per accertare che fine avesse fatto Demetrio e quale attinenza avesse il suo progetto omicida con quelle morti misteriose. infine leggiamo le due note dell’autore-Luigi Malerba, corredate di una postilla, il quale smentisce di essere lui il Chiosatore, e, nel contempo, ci trascina, sconcertato da una tale assurda storia, nella sua personale indagine (giallo sul giallo) per ricostruire tutta la vicenda, visto che la villa al mare è di sua proprietà, con l’aiuto a distanza di una vecchia conoscenza un certo Costantino C., e smascherare così il Chiosatore, ormai fuggito a Managua, come abile impostore, autore sia del diario che dei commenti, mentre il vero Demetrio F., scomparso perché improvvisamente deceduto, si ritrova prota
7 Colloquio con Luigi Malerba, a cura del Gruppo “Laboratorio”, in L. Malerba, Parole al vento, cit., p. 23. 8 id., Il pianeta azzurro, cit., p. 115. L’odio sarà uno dei leitmotiv del diario di Demetrio e darà spesso l’abbrivo a svariate riflessioni intorno all’agire umano. 9 umberto Eco, Ironia intertestuale e livelli di lettura, in id., Sulla letteratura, Milano, Bompiani, 2002, p. 228.
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il pianeta azzurro di luigi malerba 377 gonista di una colossale messinscena del vero assassino. L’autore finale, intenzionato a pubblicare quel diario munito delle sue personali due note come testo unico e incompiuto, concluderà a proposito del fantasmatico assassino, in un ulteriore sfondamento metanarrativo: «un personaggio come lo scomparso, senza nome e senza identità, senza volto e senza figura, non potrà mai diventare, mi sono detto, il protagonista di un vero romanzo con un adeguato Gran Finale. Ma questo può essere anche un sollievo per chi ha avuto la pretesa di scrivere la storia di un fantasma»10. Tutto qui? No. C’è un’ultima divagazione, come dicevo, vergata circa un anno dopo quelle due note, tramite cui l’autore ci informa delle sue ultime operazioni editoriali prima della pubblicazione e ci comunica infine la notizia dell’omicidio di un noto personaggio politico, avvenuto secondo modalità rinvenibili proprio nelle pagine del diario di Demetrio, e commesso da un uomo il cui profilo fornito dai telegiornali corrisponderebbe al tizio presentatosi, per poi subito dileguarsi, un anno prima alla sua porta di casa per consegnargli quei quaderni. Ciò che noi leggiamo allora è «naturalmente, un manoscritto», citando ancora Eco, quello dell’«Anonimo Nicaraguense»11 appunto. Fin dagli esordi negli anni sessanta l’autore de Il pataffio (1978) ha modulato il suo programma di poetica sulla perseverante volontà di sperimentare nuovi modelli di linguaggio, di visione e di pensiero, eludendo sia le suggestioni asfittiche di un oltranzismo formalistico confuso con l’istanza contestativa tout court sia rifiutando il rappel à l’ordre di un’intramontabile «neoscolastica marxista»12, pronta a urlare allo scandalo a fronte di ogni tentativo di apertura all’imprevisto: «Che ancora oggi ci si diletti a interpretare le vicende che accadono intorno a noi secondo gli schemi romanzeschi dell’Ottocento, è soltanto un fenomeno da salotto e un segno di arretratezza culturale»13. La mancanza di modelli e la conseguente disponibilità della narrativa contemporanea sono considerate da Malerba condizioni ideali e imprescindibili per costruire nuove stupefacenti cattedrali narrative, architetture sofisticate e rigorose, come mostrano appunto i suoi calcola
10 L. Malerba, Il pianeta azzurro, cit., p. 355. 11 Ivi, p. 362. 12 Gruppo 63: Intervista a Umberto Eco, a cura di Marco Filoni, 4 giugno 2013. Leggibile sul blog di minima&moralia: http://www.minimaetmoralia.it/wp/ tag/marco-filoni/ 13 Colloquio con Luigi Malerba, a cura del Gruppo “Laboratorio”, in L. Malerba, Parole al vento, cit., p. 25.
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francesca fistetti378 tissimi congegni romanzeschi. Fu l’autore stesso a richiamare l’attenzione sul livello di sperimentazione che investe principalmente la struttura della narrazione del Pianeta azzurro, rispetto ai (meta)romanzi precedenti, segnati per lo più da uno sperimentalismo linguistico in sintonia con la riflessione teorica di area neoavanguardistica. Tra l’assenza di supporti ideologici precostituiti e la frustrazione prospettica che ne deriva si apre il gioco combinatorio dei possibili, incline a favorire una certa duttilità linguistico-strutturale, che vuol dire però libertà condizionata, ossia uno sperimentalismo14 progettuale e utopico. Se, come aveva acutamente notato Angelo Guglielmi, «Il Serpente attua una delle più integrali distruzioni della fattualità che io abbia presente, giacché non è una distruzione attuata per soppressione, per spostamento violento, ma per nullificazione, indolore. La fattualità, in quanto ineluttabilità di accadimento cioè in quanto cosa che accade ineluttabilmente, viene cancellata»15, con Il pianeta azzurro Malerba scrive il necrologio del romanzo tradizionale, dissolvendone in un colpo gli istituti fondamentali, benché mantenga in vita il loro scialbo valore simulacrale, riproducendone le evanescenti apparenze di riduzione naturalistica e realistica. Non inganni neppure l’adozione del genere giallo, forma di realismo romanzesco rigidamente deterministica, che necessita di un ordine naturale stabilito, restaurato qui a livello tematico come citazione dell’intreccio, degradato a mero dispositivo formale, ancorché finalizzato ad attribuire una verità seconda allo straniamento prodotto da una logica stocastica e indeterministica. Procedimento sicuramente artificioso ma messo in atto per accompagnare anche il lettore più refrattario all’imprevisto dentro un pluriverso di possibili: «Mi sembrava proprio di stare dentro a un libro giallo – afferma Demetrio – dove si raccontano tutti i preparativi che fa l’assassino prima di commettere il delitto. Veramente nei gialli di solito si segue l’azione del detective che indaga mentre in questo caso io seguo l’azione del futuro assassino, che coincide con la mia persona»16. La
14 Sull’appartenenza di Malerba all’area dello sperimentalismo restano fondamentali le indagini di Maria Corti nel già citato Il viaggio testuale, specialm. pp. 131-142, approfondite da Francesco Muzzioli, Malerba. La materialità dell’immaginazione, roma, Bagatto Libri, 1988; Muzzioli sviluppa ulteriormente l’idea di una “estetica dello strano” ne Le strane allegorie del narratore, «L’illuminista», Vi (2006), n. 17/18, pp. 113-125. inoltre, Giovanni Accardo, Il senso della realtà nell’opera di Luigi Malerba, «Studi novecenteschi», XXXiX (2012), n. 84, pp. 279-316. 15 Angelo Guglielmi, Il serpente, in id., Vero e falso, Milano, Feltrinelli, 1968, p. 158. 16 L. Malerba, Il pianeta azzurro, cit., p. 150.
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il pianeta azzurro di luigi malerba 379 trama allora lievita nella direzione di una strategia compositiva che scivola in un vortice di proliferanti reduplicationes, con l’effetto di espandere ipertroficamente la forma narrativa – ottundendone la lineare consequenzialità – e mandare così a monte sia la consueta progressione dell’esperienza nel flusso indistinto di una temporalità incurvata sia la pretesa euristica dell’indagine sottesa ad ogni giallo classico. Niente omicidio, niente indagine. Lo scardinamento della logica fattuale degli accadimenti, fondata su un movimento dinamicamente evolutivo, sconvolge l’ordine diacronico della storia, imprimendovi, al contrario, la configurazione di un paradigma sincronico o dell’immobilità, scevro di latenze segrete e torbidi depositi inconsci, ma verificabile attraverso la ridondanza di numerosi riferimenti tematici al codice analogico, alla base della dissociazione mentale di Demetrio17, morbosamente incline a tessere un abile gioco di connessioni per contiguità e divaganti prospezioni simmetriche, di ripetizioni e sdoppiamenti illusori. riferimenti tematici che rivelano d’altra parte una valenza metatestuale, poiché alludono alla stessa struttura narrativa, retta da un principio dissociativo (essa si duplica nei quaderni di Demetrio e nei commenti del Chiosatore), eppure stratificata e iperbolica, ramificantesi in una ragnatela di rapporti simmetrici, esile mimesi della co-esistenza egualitaria dei simulacri, ossia della perturbante simultaneità dei temi-cifra, segni della sottostante e agerarchica unità di significato – come fra poco argomenteremo. infatti, a conferire tenuta alla retorica della sincronicità concorre una insistita impronta onirica, quasi sempre apertamente denunciata da Demetrio o altrimenti dal Chiosatore, che avvolge i racconti dell’ingegnere in una immobile staticità semantica. Sembra che Malerba abbia perfezionato la manipolazione di questo genere, già avviata nel Salto mortale, secondo gli approfonditi sondaggi della Corti, la quale notava che l’autore di Itaca per sempre (1997) a quell’altezza fosse riuscito a superare le audaci prospettive del gioco combinatorio dei possibili proposte da Sanguineti18 attraverso l’inseri
17 La Nota dell’autore infatti riporta: «Man mano che procedevo nella lettura mi convincevo che il disordine di quel testo, le frequenti digressioni e ripetizioni, ma soprattutto l’ossessione analogica del personaggio, che assume la cadenza del leitmotiv, erano probabilmente il sintomo realistico di dissociazione, ma potevano essere interpretati anche come un curioso e efficace congegno narrativo»: Ivi, p. 322. 18 Cfr. Edoardo Sanguineti, Il trattamento del materiale verbale nei testi narrativi della nuova avanguardia, in Gruppo 63. Critica e teoria, a cura di renato Barilli e A. Guglielmi, Torino, Testo&immagine, 2003, pp. 173-190.
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francesca fistetti380 mento del «modello ipotetico entro il genere romanzo giallo», che in tal modo vedeva accrescere l’ambiguità delle possibili soluzioni fino alla vertigine dell’«impossibilità di dare un senso alla realtà»19, con l’effetto di frustrare nel lettore ogni attesa formale. Nel contempo l’autore finale del Pianeta azzurro va oltre e azzarda un’operazione metanarrativa più rischiosa per spezzare l’ottusa apparenza di necessità del reale ed eliminare così le condizioni tradizionali di un giudizio incontrovertibile, alla luce dei due tentativi falliti, da Demetrio e dal Chiosatore, di imprimere caparbiamente a quella vicenda un percorso «logico, necessario, insostituibile», egli tenta al contrario di «costruire un romanzo “dal vero”, giorno per giorno»20, nel suo reale svolgersi che coincide con la sua personale indagine e, infine, parziale risoluzione del giallo attorno all’identità di Demetrio: «un romanzo-verità scritto a ridosso della mia indagine e di un doppio testo che avrei potuto chiamare romanzo-falsità per la quantità di menzogne che sicuramente conteneva»21. Qui l’autore sembra aver deposto davvero le sue antiche armi, ovvero farsi artefice della verità ultima oltre che unico legittimo interprete della storia, in quanto egli non conosce né lo «svolgimento né tanto meno il finale»22. inoltre, sull’integrità della sua persona trascendentale, dopo tante clamorose smentite e rivolgimenti paradossali, chiunque nutrirebbe non pochi dubbi23. infatti, interessato a cavare fuori una storia da quel manoscritto, sentenzierà: «Sono sempre stato convinto che il romanzo tradizionale è una comoda convenzione dentro la quale i fatti vengono collocati sempre al posto e al momento giusto per la comodità dei lettori, ma che ogni schema prefabbricato è falso e falsifica anche i fatti che vi si svolgono dentro»24, consegnando così in ultima istanza al lettore la responsabilità di «intervenire liberamente per fare tagli, aggiunte e correzioni, oppure per colmare eventuali lacune»25.
19 M. Corti, Il viaggio testuale, cit., p. 139. 20 L. Malerba, Il pianeta azzurro, cit., p. 342. 21 Ibidem. 22 Ivi, p. 343. 23 Malerba volle fugare ogni dubbio sull’identità dell’autore finale: «La presenza negli ultimi capitoli del Pianeta azzurro di un personaggio scrittore che abita nella stessa strada dove abito io è il massimo della finzione romanzesca perché chi conosce i dati reali, come il mio indirizzo e la mia casa, è in grado di riconoscere anche gli elementi disseminati qua e là che ne smentiscono l’identificazione»: Rapporto con un libro, intervista a Luigi Malerba, cit., p. 81. 24 id., Il pianeta azzurro, cit., p. 343. 25 Ivi, p. 355.
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il pianeta azzurro di luigi malerba 381 Luoghi mentali, vuoti metafisici
Pare proprio che Malerba, narratore della discontinuità e della dispersione degli eventi narrativi, non lasci però nelle sue opere alcuno spazio al caso, un po’ come avviene nei racconti di Borges, e che quella apparente mancanza di strutturazione interna, procurata con mirabile abilità artigianale da digressioni stranianti e divagazioni sinuose, da andirivieni nei dintorni del possibile, si produca come esito di una severa volontà costruttiva, protesa ad indicare all’immaginario comune le condizioni per nuovi moduli d’ordine: «Salto mortale o Il pianeta azzurro, che possono apparire così destrutturati e digressivi, in realtà nascondono macchine narrative efficienti e calcolate»26. L’intero esercizio diaristico di Demetrio si dipana surrettiziamente in un tentativo di trovare una giustificazione alla sua tenace volontà omicida prima che il fatto si compia, un tentativo ancorché destinato al fallimento27 e alla dispersione delle variabili, di assegnare un valore costante a un gesto di assoluta radicalità negativa, giacché Demetrio non manca solo di una ideologia politica ma pure di un determinato sistema assiologico che gli consenta di mettere a fuoco il suo obiettivo. Perciò al fondo del suo più intimo ferale proposito ronza rumurosamente il vuoto: «il mio interno produce suoni in continuazione – lamenta Demetrio – e devo fare una gran fatica per decifrarli. […] È uno sparo? Arrivano in continuazione altri rumori e altre voci come se ci fosse un altro uomo dentro di me, e poi un altro e un altro ancora […] in quanti siamo? in troppi, siamo in troppi»28. il vuoto intorno a cui discetta Demetrio nella sua ecolalia smisurata, dunque, non è mai veramente tale, esso si configura sempre abitato da perturbanti presenze fan tasmatiche29, vo
26 Elogio della finzione, intervista a Luigi Malerba, a cura di Paola Gaglianone, in id., Parole al vento, cit., p. 42. 27 Così infatti commenterà Demetrio: «Mi sono lasciato confondere dai pensieri e travolgere dalle digressioni senza riuscire nemmeno a definire il mio progetto. Non ho mai saputo se si trattava di un assassinio, di un attentato, di una bravata gratuita, di una solenne follia, di un melodramma, di un impulso primordiale o di una azione ragionevole e necessaria»: id., Il pianeta azzurro, cit., p. 307. 28 Ivi, pp. 306-307. 29 Sul densissimo tessuto intertestuale interno al macrotesto malerbiano rinvio all’ampio scrutinio di F. Muzzioli, Malerba. La materialità dell’immaginazione, cit., e al doppio lavoro di Giovanni ronchini, L’inganno della monade perfetta. Autoreferenzialità e intertestualità in Luigi Malerba, i, «Parole rubate», n. 2, 2010, pp. 167-183; id., Dentro il labirinto. Autoreferenzialità e intertestualità in Luigi Malerba, ii, «Parole rubate», n. 3, 2011, pp. 159-168.
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francesca fistetti382 ci, vibrazioni, sibili, interferenze d’ogni tipo, che appaiono all’improvviso, intrecciano beffardamente le loro storie per poi subito dileguarsi: «Sento dei rumori quasi lontani, opachi, ma prima ho sentito la Browning che ha sparato, sono sicuro […] È uno sparo fantasma che arriva e scompare senza lasciare traccia»30. Pensavamo di muoverci entro i confini di un giallo politico e siamo invece catapultati in una specie di ghost story con risvolti metafisico-esistenziali più simili a Il giro di vite di Henry James che alla mentalità cospiratoria di un certo postmodernismo: «[…] sentivo ancora nella casa [la villa al mare] – dirà il Chiosatore – la presenza di coloro che l’avevano abitata come se vi avessero lasciato i loro simulacri invisibili che si aggiravano in silenzio nelle stanze»31. Eppure queste parvenze non si irradiano solo da una nebulosa di fremiti interiori, ma si stagliano come fastidiosi ospiti di universi paralleli capaci di intersecarsi continuamente col nostro e di rivendicare, pirandellianamente, una loro statutaria realtà reale. Si tratta a tutti gli effetti di un pregnant void, come lo definiscono i fisici, ossia di un vuoto costituito di infinite energie potenziali la cui combinazione impreveduta fa emergere la nostra materialità. il mondo allora non si erge a inoppugnabile e sicuro controcanto di una mente galvanizzata e inabile al discernimento, al contrario è esso stesso un luogo vacillante, misterioso e mutevole, interrotto da repentini salti e brusche virate: «in casa trovo tutti i posti occupati, i fantasmi si siedono sul divano, si nascondono sotto il tavolo del soggiorno, sotto il letto e dentro gli armadi, spostano le seggiole e aprono le finestre. i fantasmi hanno invaso la mia casa e mi perseguitano»32. il mondo là fuori, sciolto in campi di energia, si “smaterializza” dando origine ad aggregazioni incerte e balenanti, e smette così di impancarsi a giudice autorizzato dei nostri inderogabili protocolli osservativi e inoppugnabili griglie di senso perché esso stesso in difetto di una necessità ontologica inalterabile:
il Nulla lo considero ormai una zona di mia pertinenza e un mio privato dominio. […] facevo operazioni ispirate all’analogia e all’astrazione, percorrevo i corridoi del calcolo differenziale inseguendo gli infinitesimi dello zero. Anche lo zero come gli altri numeri può essere scarso o abbondante, è la linea di confine tra il positivo e il negativo e può tendere nell’una e nell’altra direzione33.
30 L. Malerba, Il pianeta azzurro, cit., p. 107. 31 Ivi, p. 8. 32 Ivi, p. 308. 33 Ivi, p. 245.
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il pianeta azzurro di luigi malerba 383 La percezione alterata delle cose che tormenta Demetrio è l’equivalente allegorico dell’assenza di immutabili strutture razionali che funzionino da argine: «volevo toccarla – dirà turbato dall’improvvisa irruzione in casa sua delle ragazza del bar – perché mi sembrava così poco reale, temevo ancora una volta di trovarmi davanti un fantasma evocato dalla solitudine e dalla separazione»34. Siamo ben oltre l’istanza neoavanguardistica di riduzione della realtà a pura costruzione verbale o a universo spumoso di parole che ingolla i fatti svisati a invenzioni stranianti dai giochi combinatori di una mente paranoica, mentre essi mantengono però la loro ben salda e irrefutabile referenzialità: qui è il mondo a venire smascherato come un gorgo di forme opache e a perdere la sua indefettibile qualità logica. insomma Malerba non ha più bisogno di un mondo vero, ancora postulato nel Serpente ma poi subito congedato nel Salto mortale. in altri termini, non sono le parole che sostituiscono o divorano le cose, ma le cose (in)esistenti a lanciare la loro sfida per un radicale rinnovamento della materialità del simbolico, con la sua riottosa pesantezza di abitudini mentali e acquisizioni empirico-fattuali. Perciò è la logica che presiede al venirealla-luce dei fatti a risultare discontinua e indecifrabile e le forme tradizionali inadatte a rappresentarla. Dal punto di vista della soggettività narrante manca una metafisica dell’interiorità alla maniera dei modernisti, giacché i cambiamenti non investono la vita psicologica di Demetrio, sguarnito com’è persino di un io-corpo a fondamento della sua identità sia pur dimidiata e marginale, e dunque di una memoria che ne garantisca la durata, ma riguardano quindi la sua reale consistenza fisica rendendone impossibile qualunque calcificazione in un profilo individuale definito. Demetrio andrà configurandosi – come vedremo – piuttosto come una variabile fluttuante, un punto di energia instabile e sfuggente, che ribalta nel lettore, fino all’ultima pagina, ogni certezza circa l’efficacia degli strumenti di verifica e di costruzione ermeneutica della sua soggettività: «Profondo e elevato sono parole che faccio fatica a inquadrare nella scala di valori che si riferiscono alle mie incertezze»35. Del resto, la tecnica dello scentramento del protagonista, diviso e insidiato da una persistente pronuncia sdoppiata della stessa parola, dal contrappunto di una «voce alle spalle», destabilizzante e persecutoria, che Muzzioli ha definito una «cacofonia di voci»36, era stata attuata nel Salto mortale, dove altresì «Giuseppe detto
34 Ivi, p. 249. 35 Ibidem. 36 F. Muzzioli, Le strane allegorie del narratore, cit., p. 120. Su questo complesso
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francesca fistetti384 Giuseppe», espropriato persino di una inoppugnabile sovranità onomastica, si duplicava in un corollario feticistico di altri Giuseppe, ciascuno provvisto di una propria dignità anagrafica, e tutti come lui parallelamente accusati dell’omicidio e poi destinati a sparire. Già in quel romanzo d’avanguardia37 Malerba annodava i fili di una duplice azione performativa: smantellamento dall’interno della centralità del personaggio in un cicaleccio di dislocazioni locutorie ed ermeneutiche e – novità assoluta entro il variegato orizzonte neoavanguardistico – tematizzazione allegorica di una processualità dinamica dell’identità fisica del protagonista, tesa così a labilizzarne la personalità empirica, con un effetto di ridondante sovraesposizione simulacrale del protagonista38.
Simulacri, fantasmi
Nel Pianeta azzurro Malerba sceneggia, dunque, una astutissima vanificazione dell’identità del personaggio, una sua progressiva ma inesorabile disintegrazione, aggredisce ogni tentativo di una narcisistica riabilitazione romanzesca della personalità fisica in chiave fenomenologica, secondo modalità di appercezione sensoriale parcellizzate e disseminate, sbriciolando qualunque presunzione di un ubi consistam individuale celata dietro una (meta)fisica della corporeità e di una fisica del senso, fino a dissolverlo in un intermittente tracciato che lo sdoppia, o forse lo triplica, in avatar multipli e autonomi: DemetrioChiosatore-Autore finale:
i fisici delle particelle non sono più certi nemmeno del principio di identità da quando hanno scoperto che le minime componenti della materia non hanno personalità e perciò sono mobili, invisibili e indefinibili. Come può essere uguale a se stessa una identità che varia in continuazione? Questo significa che la fisica smentisce anche la prima
argomento sono da leggere anche i lucidi affondi analitici sul Salto mortale di Massimiliano Borelli, Prose dal dissesto. Antiromanzo e avanguardia negli anni sessanta, Modena, Mucchi Editore, 2013, pp. 120-128. 37 Borelli riconosce nel Salto mortale un «modello narrativo più schiettamente d’avanguardia» rispetto a Il serpente e a Il protagonista: id., Prose dal dissesto. Antiromanzo e avanguardia negli anni sessanta, cit., p. 69. 38 Pure “Giuseppe detto Giuseppe” reagirà, spaesato e attonito, alla sconcertante scoperta di avere dei doppioni in giro: «E allora dico pronto con chi parlo? E lui dice qui parla Giuseppe. KAPPA, uN ALTrO GiuSEPPE. Ma in quanti siamo?»: L. Malerba, Salto mortale, Milano, Oscar Mondadori, 2002, p. 97.
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il pianeta azzurro di luigi malerba 385
proposizione di Parmenide e che i fisici oggi combattono con i fantasmi del nulla39.
È un’intera ideologia del «corpo-vissuto» e dell’«io esisto» che viene dunque ferita a morte – inaugurata da Merleau-Ponty nel 1945 ma giunta in italia al suo apice solo negli anni Settanta –, insieme all’ossessione per un lirismo del fenomenico, e alla mitografia riveniente dalla scoperta di una vita della materia, estremi baluardi difensivi contro lo sfaldamento e la perdita di contatto tra soggetto e realtà, esperiti traumaticamente da un Novecento orfano di confini gnoseologici certi, in agonica penuria di codici espressivi e modelli rappresentativi ed ermeneutici corrispondenti. Demetrio viene infatti alla vita dal nulla, vibra di mille impercettibili metamorfosi iper-realistiche senza profondità di pathos, per poi essere subito ricacciato nel buio che lo avvolge: un pulviscolo fluttuante di elementi microfisici privi di materialità, sullo sfondo di una realtà altrettanto spaventosamente emergente. Fin dall’inizio il protagonista, cui l’autore demanda la funzione metapoetica di farsi icona della assoluta tirannia dell’invisibile e della tensione catartico-conciliativa all’unità, semplicemente non c’è come entità fisica, e mai apparirà se non evocato come fantasma linguistico, espulso finanche come ingombrante residuo materico-organico – noi leggiamo solo il suo presunto manoscritto, che infine scopriamo vergato da qualcun altro, destituendo di fondamento l’istanza veritativa sottesa alla forma diaristica. Sprofondiamo nel cuore di un dilemma ontologico e gnoseologico che, et pour cause, trascinerà lo stesso fantasmatico Demetrio in un irresolubile dramma etico, pronto a investire anche l’impegno autoriale. A tal proposito, infatti, l’autore finale accende un’ulteriore spia metanarrativa avvertendo che, inabile a dare un volto a quel Demetrio autore e chiosatore del diario, il suo romanzo-verità non potrà rispettare, tra le altre cose, uno degli istituti fondamentali della Poetica di Aristotele, ovvero l’agnizione o riconoscimento, benché in tal caso il riconoscimento «non sarebbe avvenuto tra due personaggi, bensì direttamente fra l’autore e il protagonista reale della storia. Alle sei forme di agnizione descritte da Aristotele nella Poetica avrei potuto aggiungerne una settima del tutto inedita»40. L’assillo morale di Demetrio, legato all’assenza di un reale movente, deriva da
39 id., Il pianeta azzurro, cit., p. 348. (Corsivo dell’autore). 40 Ivi, p. 344.
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francesca fistetti386 un’ancestrale paura del buio41 primordiale e della fine, come commenterà prontamente lo stesso Chiosatore: «Dietro quel folle progetto c’è l’angoscia del nulla e il problema della sopravvivenza dopo la morte fisica. La sua ossessione omicida nasconde insomma un problema spirituale»42. Dietro il furor omicida lampeggia «un inesauribile problema trascendentale»43. la suprema questione metafisica: l’essere e il suo senso, dunque, l’esistenza del supremo Architetto. Attorno a tale rovello gnoseologico-esistenziale ed etico Demetrio, prigioniero di una schizofrenica vertigine analogica che riduce il mondo a palcoscenico di spettri, tesse come un ragno44 il suo perverso «gioco di finzioni concentriche»45, cioè quelle molteplici figurazioni isomorfiche che sfaccettano l’oggetto nei suoi infiniti riverberi, come se lo guardassimo moltiplicato attraverso numerose superfici riflettenti fino a disperderne ogni fondo ontologico stabile: «Se tu osservi a lungo questo oggetto ti accorgi che poco alla volta esso perde le sue qualità concrete, forma dimensione colore sentimento, l’immagine sfuma nelle incertezze, si confonde e scompare. Alla fine rimane solo un simulacro vuoto, un fantasma. Dei fantasmi non ti devi fidare»46. Questo adialettico e agerarchico caleidoscopio di rifrazioni, simmetrie e ripetizioni47, sul fondale di una oscura univocità dell’essere, è la sontuosa scena allestita da Demetrio, atta a garantire un fittizio statuto di realtà alla sua sconfinata passione metafisica, cioè al macabro balletto di simulacri/
41 Sono molti i luoghi del diario in cui Demetrio indugia sul terrore del buio. riporto qui un breve brano: «io leggevo i miei filosofi, andavo a cercare le risposte a domande antiche e spesso trovavo soltanto molti punti interrogativi, altre domande travestite da risposte. […] Tutta la mia infanzia è stata tormentata da questa paura, ho sempre pensato al tempo infinito precedente la mia nascita, come alla grande Era del Buio nella quale un mio io nebuloso e incerto vagava in attesa di essere chiamato alla luce»: Ivi, p. 63. 42 Ivi, p. 69. 43 Ivi, p. 345. 44 Demetrio si serve metaforicamente dell’immagine del ragno (pp. 113-114) per spiegare la fitta ragnatela di affari sporchi pazientemente ordita dal Professore, proiettando così simmetricamente sulla sua figura la singolare forma generale dei suoi divaganti ragionamenti, organizzati a spirali concentriche dal centro verso la periferia. 45 Ivi, p. 270. 46 Ivi, p. 303. 47 Esse fanno già capolino nel Salto mortale: «Sono le simmetrie naturali, dicevo, ne succedono a milioni in tutto l’universo, ci sarà probabilmente un altro Pianeta dove in questo momento due come noi stanno parlando di un taglietto nel collo e lui sta dicendo sono le simmetrie naturali ne succedono a milioni in tutto l’universo»: id., Salto mortale, cit., p. 49.
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il pianeta azzurro di luigi malerba 387 fantasmi solo formalmente distinti, modalità espressive della potenza vivente dell’indivisibile. Non dimentichiamo le due grandi passioni di Malerba: la filosofia medievale e la matematica, entrambe abbondantemente intrecciate nel Pianeta azzurro. infatti, nel diario di Demetrio l’inesauribile potenzialità del reale si tinge di una rilevanza ontologica maggiore della stessa fattualità, la serie infinita delle possibilità logiche48 co-esistenti che, sebbene non si realizzino, non decadono a casualità gratuita o a mera evenemenzialità rispetto alla necessità dell’accadere, fissate entro le misure costrittive di una ragione dualistica: «Non si tratta di una alternativa binaria – rifletterà Demetrio – del tipo bianco o nero, spara o non spara, ma di una vasta serie di eventualità nelle quali sarei tentato di comprendere anche una mossa improvvisa del Professore nel momento in cui sparo, un merlo che attraversa la traiettoria della pallottola, una vespa o una zanzara che mi punge la mano mentre sto tirando il grilletto, eccetera eccetera»49. La contingenza, grembo smisurato di una infinita virtualità logica, e dunque regno dell’assoluta libertà, preserva il mondo da una ipotesi deterministica e da ogni razionalismo storico. Potremmo dire, per schematizzare, che la metafisica dell’eventualità e l’ontologia dell’emergente di Malerba si nutrono più del pensiero di Giovanni Duns Scoto che della filosofia naturale di Aristotele, per questo con maggiore probabilità apparentata alla teoria dei simulacri di deleuziana memoria. La contingenza, dunque, perde il suo carattere di imperfezione rispetto invece alla tradizione aristotelica e diviene possibilità che può anche non realizzarsi e rimanere puramente logica:
Nel Medioevo dicevano tertium non datur commentando le proposizioni della logica di Parmenide e Aristotele. Ma invece è proprio nella zona di questo tertium proibito che si verificano nella realtà tutte le ipotesi che rendono vario e fanno progredire il mondo. Questo tertium è la zona del rischio imprevedibile, delle possibilità sia negative che positive che possono capovolgere l’effetto di qualsiasi gesto umano. Anche le invocazioni e le preghiere sono comprese in questo tertium aperto a tutte le eventualità50.
48 Già nel Salto mortale la questione della potenzialità del reale veniva posta come problema. Giuseppe detto Giuseppe si domandava: «Che fine fanno queste cose che non sono mai successe e non succederanno mai? Che posto hanno nella storia? C’è speranza per loro? Voglio dire a un certo punto finalmente succedono anche loro oppure niente? Ne succedono delle altre al posto di quelle?»: id., Salto mortale, cit., p. 19. 49 id., Il pianeta azzurro, cit., p. 103. 50 Ibidem.
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francesca fistetti388 Cosicché il lemma “simulacro” non corrisponde ad artificio, o peggio, frode, una volta messe a giorno le preoccupazioni ontologiche di Malerba, che alludono a un platonismo ri-accentuato – riprendendo qui la clausola di un Badiou51 fine interprete di Deleuze – sganciate perciò sul piano della rappresentazione da qualunque accostamento alla simulacrizzazione del reale teorizzata, a suo tempo, da Baudrillard e dalla conseguente «società dei simulacri» postulata da Mario Perniola52. Malerba non ammicca a nessun tipo di “derealizzazione” del reale provocata dall’annichilente brusio della comunicazione di massa. Certo, sarebbe opportuno stilare, ma in questa sede non è possibile, una casistica analitica di tale occorrenza tenendo in debito conto le sue specifiche armoniche semantiche e contestuali. Nonostante tali figurazioni poi sul piano emotivo si equivalgano fino a risultare pressoché intercambiabili, su quello tematico invece esse mantengono la loro equivocità, così che ogni minima fluttuazione può integrare e modificare quella precedente producendo una ulteriorità significativa che non cancella le precedenti e mantiene una sua relativa autonomia. A tale proposito, è opportuno segnalare lo sdoppiamento della strategia grammaticale dalla prima alla seconda persona messo in atto da Demetrio, che caratterizza alcune delle sua accensioni fantastiche e che provoca un proficuo sdoppiamento retorico – come rileva prontamente il chiosatore – atto a «suggerire collegamenti imprevedibili e interessati tra i personaggi del racconto. È il caso del vicino di pianerottolo coinvolto in una vicenda parallela a quella vissuta dal protagonista»53. Tale sdoppiamento allora offre altri livelli interpretativi e muta statuto ad alcuni personaggi, creando sempre nuovi parallelismi ed equivalenze. L’intero manoscritto è percorso da una contiguità dicotomica tra due costanti, cioè l’idea del volo e il buio profondo, i due poli estremi del suo paranoico delirio d’onnipotenza, che coesistono senza escludersi, e ai quali è opportuno ascrivere tutte le potenzialità di entrambi i topoi: la figura ansiogena del pipistrello rapprende sia il volo che il buio. il desiderio di librarsi in volo trascina con sé l’imbarazzo procurato dal peso del corpo e dalle catene della gravità, come pure il leitmotiv intorno alla presunta forma dell’anima, che suscita in Demetrio ampie divagazioni sull’anima virate a passare a contropelo la tradizione occidentale da Plotino a Cassiodo
51 cfr. Alain Badiou, Deleuze. «il clamore dell’Essere», Torino, Einaudi, 2004. 52 cfr. Mario Perniola, La società dei simulacri, Milano, Mimesis, 2011. 53 L. Maleba, Il pianeta azzurro, cit., pp. 256-257.
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il pianeta azzurro di luigi malerba 389 ro, regalandoci vere e proprie pagine da antologia, come le definì Maria Corti.
Utopie, eterotopie
D’altro canto non è da escludere che Malerba, ferma restando l’estensione che dedica nel Pianeta azzurro a questioni di carattere filosofico-scientifico54, fosse a conoscenza delle teorie più innovative del nostro tempo, come testimoniano peraltro le sue tante interviste, e si fosse impegnato a far scintillare le potenzialità conoscitive del modello di romanzo tradizionale da un cozzo violento con le rivoluzioni epistemologiche contemporanee, per uscire così dalle ipoteche di un formalismo neoavanguardistico rimasto incagliato tra il rifiuto preventivo del dato empirico, dunque, d’ogni mimesi e la tensione all’oggettualità, perché ancora arroccato sui puntelli di una metafisica classica basata sulla netta separazione tra soggetto e oggetto. Tale contraddizione aveva prodotto una «poetica delle parole come cose, in cui non si sa più se si deve parlare di formalismo o di realismo»55. D’altronde,
54 Sul significato che la riflessione scientifica assume nell’opera dello scrittore di Berceto si affacciano pareri contrastanti, quasi che un tale riferimento possa sminuire o corrompere in qualche modo la vitalità inventiva, linguistica e stilistica delle sue creazioni narrative, in nome di una improbabile divisione statutaria tra letteratura e scienza, che sembra riecheggiare una volta di più antiche diatribe idealistiche. Angelo Guglielmi, invece, ne ha ribadito l’importanza: «Ovviamente la precarietà di un concetto oggettivo di realtà, che la fisica denuncia attraverso la formulazione di nuove leggi e dimostra attraverso lo svolgimento di un discorso puramente matematico, Malerba vive e fa vivere attraverso il semplice ausilio dello stile e del linguaggio»: A. Guglielmi, Le astuzie del narratore, «L’illuminista», Vi (2006), 17-18, p. 198. Di parere contrario le considerazioni di Guido Almansi, Modelli di “sviluppo”, «L’illuminista», cit., p. 136. Nell’intervista rilasciata a Paolo Mauri e anteposta al suo “Castoro” Malerba affermava: «Hanno incominciato gli scienziati, fisici e biologi, a mettere in dubbio nozioni che sembravano così sicure, a smantellare leggi che parevano reggere un universo così organizzato e compatto. Da alcuni decenni la scienza è “impazzita”, ci offre campioni di una realtà diversa (da Heisenberg a Monod) e mette a nostra disposizione nuovi strumenti e perciò nuovi metodi di ricerca. […] Per questo si creano le resistenze a ogni tipo di innovazione, alimentate da chi ha interesse alla conservazione dello status quo»: Paolo Mauri, Luigi Malerba, Firenze, La Nuova italia, 1977, p. 3. A rilanciarne la centralità è rosalaura Ballerini nel suo densissimo e acuto studio, Malerba e la topografia del vuoto, Chieti, Vecchio Faggio Editore, 1988, p. 66. 55 M. Corti, Il viaggio testuale, cit., p. 122. Sul realismo dell’avanguardia di non trascurabile rilievo critico le dense pagine di Walter Siti, Il realismo dell’avanguar
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francesca fistetti390 il rapporto tra Malerba e la scienza non è affatto pacifico ma piuttosto problematico, poiché lo scrittore mal tollerava l’idea che la letteratura non fosse più il luogo privilegiato di un’inchiesta intorno agli statuti di una ragione mitopoietica, ormai disarcionata dal trono di regina dell’immaginazione da una sorta di cannocchiale aristotelico iper-moderno ben più prodigioso, ovvero la scienza, capace di promettere invece nuove sbalorditive stupefazioni, animate per giunta da una sproporzionata rivendicazione di verità: «Ho sostenuto addirittura che la scienza oggi è la vera letteratura. – tuonava Malerba – Ma attenzione: la scienza è il motore del progresso ma le applicazioni delle scoperte scientifiche possono provocare gravi regressi»56. Dietro i paradossi logici, i sillogismi, i travisamenti, la schizofrenia cognitiva di Demetrio risuona, leopardianamente, la rivolta dell’autore che indaga i limiti e si interroga sulla possibilità concreta di una affabulazione moderna, a fronte di uno stravolgimento totale della grammatica del reale, che getta il soggetto in una condizione di precarietà permanente. Attraverso le extra-vaganti immagini controfattuali di Demetrio si esprime la sfida dello scrittore alla razionalità trionfante e all’ordine fattuale. Se la scienza, oggi, consente di sognare ad occhi aperti quale posto assegnare all’invenzione letteraria? Entro questa prospettiva, il Pianeta azzurro lascerebbe immaginare una forma di eterotopia foucaultiana, cioè a un contro-luogo di sovvertimento insieme mitico e reale dello spazio in cui abitualmente dimoriamo, simile a un altrove immaginario e realissimo dove si attua la trasgressione delle consuete regole alla base di una sintassi sociale condivisa, e destinato dunque ad annientare o a stravolgere le topologie reali. Esso pone dunque alla coscienza nuove inquietanti domande, nuove forme di esperienza e di interrogazione dell’esistenza, nuove modalità di proiezione utopica, ancorché prive di ambizioni compensatorie e redentive:
È arrivato il momento di cambiare prospettiva, mi dicevo, di guardare le cose da fuori e da lontano. Se mi allontano e guardo il Pianeta come un cosmonauta vagante negli spazi interplanetari mi apparirà tutto azzurro e brillante e la smetterò di soffrire per la sporcizia delle strade […] Ce lo siamo dimenticato che viviamo su una sfera sperduta nello
dia, Einaudi, Torino, 1975. L’autore tenta di rintracciare nella neoavanguardia «una linea che prosegua la problematica del “realismo linguistico” e che contribuisca al suo chiarimento»: p. 26. 56 Oggi è la scienza l’avanguardia della letteratura, intervista a Luigi Malerba, a cura di renato Minore, in L. Malerba, Parole al vento, cit., p. 122.
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il pianeta azzurro di luigi malerba 391
spazio […] Si sa che nella storia si creano dei vuoti, delle dimenticanze clamorose. Questi vuoti non sono mai casuali e gratuiti57.
Quasi un’allusione all’ideologia sottesa all’opera: la dinamizzazione costante della materia narrativa sotto la spinta di imprevedibili stravolgimenti di prospettiva. La discussione filosofica scaturita dalle risultanze della Scuola di Copenaghen (Bohr, Heisenberg e Pauli in testa), ancora oggi feconda di stupefacenti elaborazioni teoriche, conoscerà un nuovo impulso negli anni sessanta con le diseguaglianze di John S. Bell cui seguiranno gli esperimenti di Alain Aspect negli anni ottanta. Queste ultime teorie, infatti, sulla scorta di poderosi esperimenti a livello subatomico elaborano una concezione cosmologica a dir poco sconcertante: si è dimostrato che il legame tra le particelle subatomiche è di tipo non-locale, violando in tal modo il principio che non vi sia nell’universo nessun segnale che viaggi più veloce della luce, dunque, l’effrazione in toto del principio di separabilità. Ciò significa che ad un livello di realtà più profonda le particelle non sarebbero entità individuali ma estensioni di un organismo fondamentale, dunque esse appaiono a noi come “parti” separate, quando invece si tratterebbe solo di proiezioni simulacrali (fantasmi!) di una medesima entità unitaria e indivisibile. Nel manoscritto di Demetrio ci muoviamo all’interno di una fitta trama di ipotesi congetturali partorite dai suoi ininterrotti monologhi, proiezioni deliranti di intimi propositi o interpretazioni di scampoli della sua vita privata, nonché di presunti fatti, oppure scopriamo le cose attraverso le sue lancinanti visioni oniriche diurne. Come se non bastasse, tutto questo è duplicato dagli appunti del Chiosatore il cui puntualissimo intervento non si erge a principio di realtà ma ingrossa il filone delle domande senza risposta definitiva, dei dubbi e delle incertezze già instillate al lettore. Nonostante ciò, il testo fornisce al lettore le chiavi necessarie a distinguire le mitomanie del protagonista, i suoi sogni a occhi aperti e i capziosi tentativi di autoanalisi, offre le chiavi cioè per seguire l’intero processo di vanificazione dell’identità del personaggio. inoltre, pure quei contenuti che hanno qualche opaca attinenza con l’attualità e la storia politica del nostro paese permangono inattingibili immediatamente, restituiti in forma iperbolica per via dei molteplici “incassamenti”, ma anche perché emergono attraverso i collages che Demetrio costruisce con articoli di giornale. L’autore, come richiamato sopra, ha scommesso invece sulla espressività della
57 id., Il pianeta azzurro, cit., p. 148.
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francesca fistetti392 struttura significante, surdeterminandola allegoricamente. È quindi alla complessa iper-struttura tematica del Pianeta azzurro che lo scrittore ha affidato il suo messaggio, vibratile come “vuoto quantico”, ricettacolo di tutte le possibilità e gli stati ipotetici, e per questo modulato su una serie di salti repentini, falle ingiustificate, dilatazioni brusche, reversibilità temporali. Ciò rende lo scheletro del plot un congegno a dissolvenza orchestrato dal suo fantasmatico protagonista: è lui ad imbastirlo e rinnovarlo ad ogni nuovo capitolo del suo iper-diario sviluppato attorno a un elemento, un tema-segno, un frammento di qualcosa che abbiamo già incontrato precedentemente e che viene replicato e ulteriormente dilatato, manipolato, sottoposto a repentini cambiamenti prospettici, come accade coi dispositivi tridimensionali. Per esempio: moltissimi sono i luoghi in cui Demetrio immagina la scena dell’omicidio, ipotizzando ogni volta modalità, tempi e luoghi differenti o variando qualche aspetto apparentemente inessenziale o prevedendo mille inceppamenti e disguidi del possibile. il diario sembra progettato come un perfetto ologramma: ciascun quaderno conserva l’intero contenuto informativo dell’intero manoscritto, e al limite, registra o una lieve perdita o una minima variazione del campo prospettico per lasciar baluginare sempre e solo il medesimo oggetto:
Sono monotono, lo so, mi domando sempre le stesse cose, vado avanti e indietro sempre per la stessa strada, mi ripeto in continuazione. D’accordo, sarò monotono io ma anche il mondo non scherza, anche lui si ripete. […] il tempo, mi dicevo, è soltanto un espediente inventato dall’uomo per impedire che le cose succedano tutte insieme. […] Gli uomini hanno accettato questa divisione del tempo e l’hanno perfezionata, hanno inventato il passato e il futuro, un passato prossimo e un passato remoto, ma un solo futuro esteso e infinito, ancora vuoto, per poterlo riempire in qualche modo. Le ripetizioni, le somiglianze e le simmetrie sono le debolezze di questo miope sistema, ma dimostrano che il tempo è una utile finzione per evitare che la Storia si consumi in un baleno58.
D’altronde non è accaduto nulla nel diario di Demetrio, «Nei romanzi, diceva il commissario, io credevo che si raccontassero delle storie, e qui invece la storia non c’è»59, giacché l’omicidio è poi avvenuto fuori dall’interminabile affabulazione di quelle pagine, in cui i
58 Ivi, p. 187. 59 Ivi, p. 156.
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il pianeta azzurro di luigi malerba 393 fatti coincidono con la narrazione. il diario di Demetrio, in assenza di una normale scansione cronologica, esibisce con ostentazione risarcitoria un tratto essenziale: esso ha preceduto e persino anticipato la vita – e a questo livello Malerba apre un conflitto tra forma e storia –, il manoscritto infatti non si è costituito in presa diretta con la vita bensì fuori dalle consuete finalità e dalla sintassi proprie del diario, che viepiù contravvenendo al suo carattere statutario di scrittura privata fondata su una istanza veritativa, si rivolge ogni tanto, sornionamente, a un ipotetico “caro lettore”, rendendolo complice avveduto di un’operazione artificiale che ambisce ad una verità generale di secondo grado. L’iper-diario di Demetrio si impanca allora a testimone ‘senza soggetto’ e senza storia di un potere impenetrabile e oscuro, cioè il dominio assoluto dell’invisibile. D’altro canto, il diario-rebus di Demetrio ha paradossalmente inverato la vita, come qualche volta il Chiosatore sembra insinuare: «Poi mi sono detto che a ogni esperienza corrisponde sempre e necessariamente una storia e che ogni storia, anche se inventata, presuppone un’esperienza corrispondente. Può succedere addirittura che l’esperienza si generi dalla storia raccontata e che le parole finiscano per produrre una vicenda reale»60. E ancora il Chiosatore che, appresa per la seconda volta la notizia della morte di Demetrio, se ne stupisce, poiché quando la moglie aveva affittato la stanza a un certo ingegnere Demetrio F., l’uomo non solo aveva manifestato tutto il suo disappunto, ma riteneva l’inquilino, con il quale aveva avuto una breve frequentazione anni addietro, già morto tempo prima. Così, venuto a conoscenza della vera scomparsa di Demetrio, rimugina sulla medesima riflessione: «Dunque pare proprio che certi fatti siano segnati nella storia di una persona e che talora accadano addirittura quando sono già stati raccontati. Qualche volta insomma le parole precedono le cose, mi pare che lo dica anche Demetrio nel suo diario»61. i segni istituiscono e precedono la realtà, come sostiene Eco nella sua teoria semiotica, in quanto «il simbolico è una forza materiale come i rapporti di produzione»62. Qui emerge un dispositivo strutturale fondante lo ‘scartafaccio’ di Demetrio, sul quale occorrerebbe indugiare di più, ovvero la forza materiale delle sue figurazioni,
60 Ivi, p. 218. 61 Ivi, p. 314. 62 La semiotica letteraria italiana, interviste con D’arco Silvio Avalle, Maria Corti, Cesare Segre, umberto Eco, Emilio Garroni, Stefano Agosti, Marcello Pagnini, Alessandro Serpieri, Gian Luigi Beccaria, Aldo rossi, Antonino Buttitta, Gian Paolo Caprettini, a cura di Marin Mincu, Milano, Feltrinelli, 1982, p. 64.
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francesca fistetti394 che non ‘derealizzano’ affatto il mondo, ma lo condizionano, predisponendolo a cambiamenti imprevisti. Che i fatti raccontati dal paranoico ingegnere «siano veri o siano una messinscena non ha importanza, – soggiunge il Chiosatore – […] dal momento che la finzione assume le veci della realtà, la precede, la prefigura, la condiziona. La psichiatria lavora sempre sui fantasmi della persona e dunque per la psichiatria tutto ciò che sta scritto nei quaderni, vero o falso che sia, emerge come problema reale»63. il romanzo-verità “inseguito” dall’autore finale, a ridosso della sua personale indagine, diviene allegoria della sua impossibilità, giacchè la forma perfetta e conchiusa si è rivelata ideologia della forma e, come soggiungerebbe Guido Guglielmi, mito della cosa: «La sperimentazione è invece allontanamento (aventure), “sogno di una cosa”»64. Quell’allontanamento necessario che consente di vedere i colori che il nostro bel Pianeta assume da prospettive differenti: prima azzuro da distanze interplanetarie, poi grigio e infine «quando si penetra nel microcosmo delle particelle elementari ci troviamo nel buio assoluto. Avere una precisa coscienza di questi tre aspetti del mondo permette il distacco che è indispensabile alla conoscenza, al di là dell’immediato e dell’effimero»65.
Francesca Fistetti università Aldo Moro – Bari
63 L. Malerba, Il pianeta azzurro, cit., p. 193. 64 Guido Guglielmi, L’udienza del poeta. Saggi su Palazzeschi e il Futurismo, Torino, Einaudi, 1979, p. 16. 65 Rapporto con un libro, intervista a Luigi Malerba, cit., p. 82.
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BruNO BONiFACiNO Le lettere di Elena De Bosis a Camillo Sbarbaro
Camillo Sbarbaro, poeta ligure della prima metà del ’900, pubblica nel 1963, dopo la prematura scomparsa della pittrice Elena De Bosis Vivante, brani delle lettere da lei inviategli fino a pochi mesi prima della sua morte. intellettuale dotata di grande sensibilità, moglie dello scrittore Leone Vivante, aveva creato a villa Solaia, nella campagna senese, un luogo semplice e colto, frequentato da letterati ed artisti. Sbarbaro, legato da profonda amicizia e affetto, attraverso la pubblicazione, la sottrae all’oblio: il ricordo, come unica salvezza dalla morte.
★ Camillo Sbarbaro, a Ligurian poet from the first half of the twentieth century, published in 1963, following the premature death of the painter Elena De Bosis Vivante, excerpts from the letters sent to him by her up until a few months before her death. De Bosis Vivante was a highly sensitive intellectual, married to the writer Leone Vivante. At Villa Solaia in the Sienese countryside she fashioned a simple and cultured home, visited by writers and artists alike. Sbarbaro, a close friend, by publishing these letters, rescued her from oblivion. Memory turns out to be the sole salvation in the face of death.
Vi sono piccole storie di grande poesia che il tempo ha nascosto e che casualmente riemergono dal silenzio. Sugli scaffali della Biblioteca Angelo Monteverdi per gli studi filologici, linguistici e letterari della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’università La Sapienza di roma non è difficile rinvenire alcuni ex libris provenienti dalla collezione del professore Mario Costanzo, docente presso la Facoltà dal 1967 di Storia della critica letteraria, scomparso nel 1993. uno in particolare riveste un interessante aspetto storico-letterario legato a Camillo Sbarbaro, poeta ligure della prima metà del ’900, di cui nel 2017 è ricorso il cinquantenario della morte: si tratta della piccola, rara pubblicazione Autoritratto (involontario) di Elena De Bosis Vivante da sue lettere, a cura di C. Sbarbaro, Verona, Stamperia
Note
Autore: già Archivista di Stato ricercatore Storico Scientifico, Archivio Centrale dello Stato; bruno.bonifacino@alice.it
bruno bonifacino396 Valdonega, 1963, con dedica autografa a matita di Sbarbaro a Mario Costanzo. Sin dagli anni cinquanta Costanzo si occupò di poesia del primo ’900 e nel 1955 diede alle stampe, Giovanni Bardi Editore, un prezioso volumetto intitolato Studi critici (Rebora, Boine, Sbarbaro, Campana) ripubblicato nel 1969 per le Edizioni di Storia e Filosofia, roma, con un nuovo titolo (Critica e poetica del primo novecento, n.d.r.) ma senza modifiche sostanziali o aggiornamenti nel testo e nelle note (Avvertenza dell’autore alla seconda edizione).
Sempre nel 1955 curò, nella Galleria degli scrittori italiani della Fiera Letteraria n. 46, anno X, 19 novembre 1955, «un numero di omaggio per Camillo Sbarbaro», come lo stesso Costanzo scrisse alla poetessa Giovanna Bemporad, amica di Sbarbaro, il 31 marzo 1955. il nome della Bemporad fu dato al curatore proprio da Sbarbaro, il quale, tuttavia, non dimostrò molto entusiasmo per l’iniziativa, che considerò «onoranze pre-funebri» (nella lettera alla Bemporad del 12 aprile 1955)1. Costanzo, nel suddetto volume Critica e poetica del primo novecento, dedicò a Sbarbaro il terzo capitolo: Solo la poesia potrà dare a Sbarbaro il modo di lasciare un segno di sé…per entrare a un tratto, con improvviso stupore e sgomento metafisico, nel vivo della realtà2.
Nel numero de La Fiera Letteraria dedicato al poeta ligure, Costanzo raccolse gli interventi critici di diversi studiosi e letterati e chiese anche a Giovanna Bemporad una sua testimonianza:
in collaborazione con l’amico dr. Cibotto redattore della Fiera Letteraria, sto preparando per questo settimanale un numero di omaggio per Camillo Sbarbaro. Sarà, io spero, un utile contributo alla discussione critica sulla sua opera e un qualche riconoscimento a uno scrittore così schivo. io ho già una certa esperienza come “curatore” di numeri unici della “Fiera”: e vedrò di metterla a frutto. Ora, vorrebbe Lei scrivere qualche cosa per l’occasione? un articolo o, come si dice, una “testimonianza”: della misura che crederà e per…diciamo: settembre (voglio fare tutto con la dovuta calma). Che cosa ne dice? io penso che il sig. Sbarbaro avrebbe assai caro un Suo intervento.
1 Cara Giovanna, Lettere di Camillo Sbarbaro a Giovanna Bemporad (1952-1964), con uno scritto di Gina Lagorio, a cura di Anna Benucci Serva, Milano, Edizioni Archivi del ’900, p. 62. 2 Mario Costanzo, Critica e poetica del primo novecento (Boine, Campana, Sbarbaro, Rebora), roma, Edizioni di Storia e Filosofia, 1969, p. 105.
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le lettere di elena de bosis a camillo sbarbaro 397
Voglia farmi sapere qualcosa; e gradisca intanto i migliori saluti ed auguri di buon lavoro – suo Mario Costanzo3.
Giovanna Bemporad non partecipò al numero unico su Camillo Sbarbaro, che, tuttavia, vide gli interventi di Giorgio Barberi Squarotti, Angelo Barile, Luigi Capelli, Lino Curci, Giuseppe De robertis, Enrico Falqui, Alberto Frattini, Giovanni Giudici, Adriano Grande, Giacomo F. Natta, Sergio Solmi, Giuseppe Tedeschi. La dedica a matita di Sbarbaro a Costanzo sulla copia dell’Autoritratto donatagli recitava: «a Mario Costanzo, per bene chiudere – C Sbarbaro – ii, ’64»: evidentemente il poeta considerava la pubblicazione di questa raccolta dei brani di lettere di Elena De Bosis un ultimo importante tassello della propria opera. Egli desiderava lasciare un’ulteriore testimonianza dell’amica scrittrice e pittrice, scomparsa nel 1963, che era
l’immagine stessa della donna ideale, in cui ci si riconosce, e che ci aspetta, oltre le cose, gli avvenimenti, le passioni4.
Nessuna introduzione alla raccolta da parte di Sbarbaro, solo una frase: «perché chi la conobbe la senta ancora parlare». Elena rappresentava un tempo lontano e irripetibile di vita agreste e letteraria, il tempo della poesia. i primi frammenti pubblicati da Sbarbaro sono tratti dalle lettere inviate da Villa Solaia, nella campagna senese, di proprietà della famiglia Vivante De Bosis: Elena, moglie di Leone Vivante, filosofo e scrittore, conobbe Sbarbaro attraverso il marito, divenuti amici in tempo di guerra. Figlia del letterato e poeta Adolfo De Bosis, aveva creato a Solaia uno stile di vita semplice e colto: la villa era frequentata da pittori e poeti, in particolare da de Pisis, Martinelli e, dagli anni ’30, da Sbarbaro, che divenne
il suo interlocutore abituale e più caro, una sorta di confessore laico in cui ci si abbandona, certi di non venire giudicati, liberi come quando si è soli con se stessi, nella verità nuda da convenzioni e obblighi sociali, l’amico accanto a cui si può anche tacere, e il silenzio è sempre vivo di pensieri condivisi5.
3 Cara Giovanna, Lettere di Camillo Sbarbaro a Giovanna Bemporad (1952-1964), cit., p. 114. 4 Gina Lagorio, Sbarbaro controcorrente, Parma, Guanda, 1973, p. 232. 5 Gina Lagorio, Sbarbaro controcorrente, cit., p. 130.
[ 3 ]
bruno bonifacino398 Le lettere non sono quasi mai datate, ma la pubblicazione dei frammenti ripercorre fedelmente l’intera esistenza di Elena, trascorsa a lungo nella villa, ma spesso interrotta dai viaggi a Viareggio, Firenze, roma e al mare del Conero. La descrizione poetica che, attraverso le lettere, Elena De Bosis fece della vita quotidiana a Solaia è un ulteriore affresco della sua vena pittorica:
Che giornata! Non c’era stecco che non paresse un gioiello, e oggi, tutto il mondo una festa – e che crepuscolo e che notte di diamante, ora! Sono stata sempre fuori, la mattina sopra un greppo della via maestra, a dipingere. Vedevo meraviglie e se pure non ne saprò uscire, quelle le ho viste!6.
Elena continuò a scrivere a Sbarbaro anche dall’inghilterra (Londra, Oxford), ove i Vivante, a seguito delle leggi razziali, furono costretti a rifugiarsi: diede lezioni d’italiano e si adattò anche a lavori più modesti, ma non cessò di dipingere e di inviare le sue riflessioni sul difficile momento vissuto:
Non so più niente delle belle cose che un tempo potevo dire e le mie notizie sono tutte noiose – anche a me a scriverle – roba lontana che non interessa alcuno. Si parlava degli amici e io dicevo dei tre coi quali più volentieri mi trovo: Millo (Sbarbaro, n.d.r.), de Pisis e Onofrio Martinelli. Curioso che poco dopo mi sia arrivata la cartolina con le firme di tutti e tre! E se mi ci son messa a piangere, vedendola, non era certo per il dispiacere di non trovarmi con voi, ma perché ci si sente finiti e la vita è uno sforzo continuato, oh chi sa per quanto ancora7.
il rientro in italia è annunciato con una lettera datata Londra 14. Xi.’45: «…C’è una linea italiana per il rimpatrio»8 e la partenza avvenne il successivo 16 gennaio da Liverpool con un «transatlantico a nafta» che approdò a Napoli,
…Poi a roma in torpedone – terribili le rovine, ma l’italia mille e mille volte più bella pur dei più cocenti ricordi. Par di rinascere! ’E una risurrezione dell’anima. Oh come tutto è chiaro, solido, comprensibile e vero!9.
6 Autoritratto (involontario) di Elena De Bosis Vivante da sue lettere, a cura di C. Sbarbaro, Verona, Stamperia Valdonega, 1963, p. 12. 7 Ivi, pp. 27-28. 8 Ivi, p. 36. 9 Ivi, p. 38.
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le lettere di elena de bosis a camillo sbarbaro 399 Dopo un breve soggiorno a Firenze, finalmente a villa Solaia:
Che bella stagione, che inverosimile colore la terra con gli alberi giù al fiume trasparenti, tremolanti d’oro pallido e i bovi e tutto – non visti così da 8 anni e più…10
e l’invito a Sbarbaro a tornare a Solaia:
Vedessi i peschi! vedessi gli albicocchi, i meli da fiore, i susini…Ma quando vieni ci saranno i ciliegi in fiore – che sembrano proprio e sono apparizioni di paradiso11.
Per qualche tempo, tutto sembrò essere tornato come prima dell’esilio inglese: nelle lettere, la minuta descrizione del susseguirsi delle stagioni:
E adesso che notte profumata! ne avevo perso il ricordo – il giardino con la luna, le stelle, le lucciole, la casa silenziosa e tutte le belle voci dell’estate…12,
ma il progressivo distacco dai figli, in particolare dall’ultimogenita Charis, giovane pittrice sempre in giro per il mondo, la compagnia sempre meno partecipe del marito Leone e la consapevolezza che l’entusiasmo degli anni giovanili era ormai scemato, resero i giorni a Solaia più malinconici:
Mi sento addosso una tremenda provvisorietà – mi sembrano belle tutte le cose, ormai troppo tardi per me13,
anche se la natura che la circondava le forniva sempre lo spunto per l’ispirazione poetica:
Che sere incantate coi prati falciati qui di fronte. Ci risono le rane e la notte si leva il canto dell’usignolo, altissimo nell’altissimo silenzio… Sono contenta e penso spesso come bello sarebbe scender giù all’alba…Ma sono anche stanca: stanca e vecchia (perdono, allora…)14.
Elena si ammalò gravemente e negli ultimi mesi della sua esistenza
10 Ivi, p. 42. 11 Ibidem. 12 Ivi, p. 47. 13 Ivi, p. 100. 14 Ivi, p. 102.
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bruno bonifacino400 fu costretta a recarsi spesso a roma per sottoporsi a due operazioni. infine il ritorno a Solaia, ove si spense nell’aprile del 1963, lasciando Sbarbaro, che durante la malattia era andato più volte a trovarla, in un profondo e silenzioso dolore, «…poi decise di salvare dalla morte Elena, nel solo modo che sapeva»15: trasse dalle sue lettere i brani che reputò più significativi per tratteggiarne la figura di grande vitalità intellettuale. L’Autoritratto rappresenta, infatti, un importante documento del clima culturale italiano nel lungo periodo che va dagli anni difficili del regime fascista al dopoguerra, ma, il suo valore è soprattutto letterario: Gina Lagorio, in “Sbarbaro controcorrente” riporta una definizione della poesia, attribuita al padre della De Bosis, anch’egli poeta e traduttore di classici, che corrisponde perfettamente all’atmosfera di Solaia, ovvero «aristocratico ed impareggiabile otium, che solo fa degna la vita»16. Poesia, quindi, intesa non solo come espressione letteraria, ma soprattutto come concezione di vita. ’E poesia il rapporto stesso di Elena con Sbarbaro, che in Fuochi fatui così lo descrive:
Tante cose tra noi, note a noi: un fascio di fiori di campo che non si arriva a abbracciare: quanti ne andran persi per via! Tante cose che in due non riusciremmo a ricordarle tutte, ma una dimenticata si affaccia e mi riempie di luce17.
Gli anni di Solaia furono gli anni di una giovinezza senza tempo, che si rifletteva sia nei dipinti che nelle lettere di Elena e, solo nelle ultime, le sue descrizioni dell’alternarsi delle stagioni nella natura della campagna senese coincisero più mestamente con quelle della vita, che, a poco a poco, sentiva allontanarsi: la sua prematura scomparsa fu discreta, come tutta la sua esistenza, volta sempre a coglierne l’aspetto più semplice e più vero, quello poetico.
Bruno Bonifacino roma
15 Gina Lagorio, Sbarbaro controcorrente, cit., p. 313. 16 Ivi, p. 228. 17 Camillo Sbarbaro, L’opera in versi e in prosa (a cura di Gina Lagorio e Vanni Scheiwiller), Milano, Garzanti, 1985, p. 461.
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Giovanni Pontano, Actius: de numeris poeticis, de lege historiae, a cura di Francesco Tateo, roma, roma nel rinascimento, 2018 («rr inedita, saggi 76»), pp. 314.
il dialogo Actius incomincia con una scenetta di coloritura plautina in cui un notaio di campagna tratta la compravendita di una casetta tra un pastore sarnese e un porcaro ottuso di Acerra. È il primo luglio e tra i testimoni del contratto si annoverano Azio Sincero (nome accademico del Sannazaro), Francesco Puderico, Juan Pardo, Gabriele Altilio, il Compatre (Pietro Golino), Paolo Prassicio e Pietro Summonte. Terminata la trattativa, i mallevadori si allontanano non senza un certo sollievo: Azio si duole per la perdita dell’innocenza cristiana e si rammarica per la scomparsa recente dell’abate agostiniano Ferrando Gennaro. Quest’ultimo era venuto in sogno a visitare l’amico, informandolo del tormento connesso alla volontà di riunire l’anima con il corpo: dei due elementi costituenti l’essere umano il secondo andrebbe coltivato in quanto patria del primo. Prassicio avverte che Pontano (non compreso tra gli interlocutori ma ben presente a tutti), allorché dubitava
dell’interpretazione di un testo antico, è stato visitato in sogno da un genio. Al che Pardo propone di accomodarsi sotto una porticus ossia nella sede abituale degli incontri dell’Accademia Pontaniana; in tal modo prende l’avvio un’adunanza che terrà occupati i dotti per un pomeriggio di torrida estate napoletana. il Compatre passa a interrogare Prassicio e Pardo su determinate scelte grammaticali da loro operate: l’aggettivo plenus con l’ablativo piuttosto che con il genitivo e maiorum nostrum con aggettivo personale contratto. i due corrono ai ripari con paradigmi mutuati da Cicerone e Tacito. il Compatre seguita a interessarsi di grammatica, prodigandosi in riflessioni intorno a rhinocerontis con n finale (lat. clas. rhinocerotis) di derivazione sicula e intorno alle congiunzioni etsi e quamquam con ottativo e congiuntivo: i confini della lingua latina sono in realtà larghi e chiunque dovrebbe sentirsi libero di andarci vagando, mentre gli intellettuali paventano la rampogna dei litteratores. Eppure – fa osservare Puderico – sarebbe preferibile qualora la grammatica fungesse da diversivo nella seduta accademica in corso anziché costituirne la materia. Così Par
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do si riappropria della parola per tornare sulla tematica onirica: parte delle visioni apparse nel sonno sorge dai nostri desideri, tuttavia i sogni divini originano dal movimento delle stelle. Svolto il preambolo, compete a Sannazaro, alias Azio, colui che dà il titolo al dialogo, l’onere di ragionare sull’arte poetica, la cui ufficio consisterebbe nel dire convenientemente allo scopo di produrre ammirazione in chi ascolti o legga. L’autore dell’Arcadia svolge l’incarico assegnatogli prendendo specificamente quel ramo della poetica che interessa il ritmo, il quale commuove, diletta e dà luogo a meraviglia, avendo come merito precipuo l’attuazione di varietà (componente fondamentale dell’estetica pontaniana, anche nella misura in cui trova corrispondenza nella molteplicità della natura stessa). Ogni poeta è vincolato dalle esigenze dell’orecchio; il decoro e la grandezza del ritmo scaturiscono dal numero di accenti, dal posizionamento delle parole e dalla scelta precisa delle sillabe: le sillabe e le parole determinano l’accento, l’accento il ritmo e quest’ultimo il verso nobile e degno di ammirazione. Gruppi di mono/disillabi ritardano il verso, per l’infoltirsi degli accenti, e conferiscono in tal modo gravità: ecco quindi Virgilio prestare voce eloquente all’ansia e sofferenza di Palinuro con triplici monosillabi e un disillabo, «Heu qui nam tanti cinxerunt aethera nimbi?» (Aen. V, 13), servendosi in più di ben quattro spondei consecutivi. Al ritmo contribuisce altrettanto la sinalefe; si distingue tra sinalefe di vocali identiche o differenti, nel secondo caso l’effetto si riduce (la dialefe per contro, a prescin
dere da motivi di varietà, sarebbe da evitare, salvo per quanto attiene ai grecismi). Azio quindi si premura di declinare le motivazioni della sinalefe nei vari piedi del verso e a cavallo tra due versi contigui. Bisogna tutelarsi contro una scrittura fabbricata su concatenazioni di frasi, prassi implementata da Claudiano; chi vi calca la mano, finisce per tralasciare gli aspetti responsabili di ammirazione. Segue una disquisizione sugli esiti esornativi del monosillabo, disillabo, trisillabo, quadrisillabo e di lessemi sillabicamente più protratti, tanto raggruppati in fila quanto in isolamento; qualora più quadrisillabi coesistono in un unico esametro, vanno controbilanciati con termini di minore estensione, ad es. «Hinc atque hinc glomerantur Oreades […]» (Aen. i, 500); la casistica non ignora lessemi consistenti in ben sette sillabe (cfr. Aen. Viii, 103). Nei migliori versi – ha cura di precisare Azio – parole e piedi si intrecciano; tuttavia certi luoghi in cui i piedi fanno a meno di legami non sono di per sé da biasimare: le solutiones eseguibili nei vari piedi del versus heroicus vanno a formare l’argomento del brano successivo. Come sinonimo della voce consueta per la replica di un suono tra parole vicine, adnominatio, si ricorre al neologismo “alliteratio”, il quale entra per tale canale a far parte del vocabolario delle maggiori lingue europee moderne. il fenomeno acustico viene scandagliato da molteplici prospettive, ad es. nella consonanza tra l’ultima sillaba dell’ultima parola di un verso e la sillaba corrispondente di un’altra parola del medesimo verso. Tra le vocali, l’a risulta chiara, l’i tenue, l’o piena, l’u tenebrosa, mentre
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l’e comporta un cedimento sul piano sonoro. Se Cicerone e Ovidio preferivano che l’arte non trapelasse, il contrario vale per Azio, «Cupio igitur, et aventer quidem cupio, appareat industria mea in carmine, appareat diligentia, labores laudari pervelim meos» (p. 135), sempre tuttavia a patto che l’admiratio del lettore precorra la percezione dell’artificio. Al termine della sinossi prosodica allestita da Azio, Puderico dichiara che solo un poeta sarebbe in grado di intrattenersi sulla poesia in maniera adeguata. Summonte allora presenta alcune etimologie legate a un discorso di Altilio in Accademia ruotanti intorno ai lessemi caussa (con s doppia), exanclo e imbecillitas. Su invito dello stesso Puderico, quest’ultimo punta l’attenzione sulla storiografia, disciplina che sarebbe stata finora insufficientemente chiarita dagli eruditi. i nostri antenati ritenevano la storia una specie di poesia in prosa: entrambe coniugano i generi epidittico e deliberativo e vorrebbero insegnare, intrattenere ed emozionare, per quanto la prima rivesta un carattere più casto rispetto alla lascivia della seconda, aspirando piuttosto alla verità che a creazioni fantasiose a scopo di meraviglia. Ambedue inoltre adoperano ritmi poetici, vanno alla ricerca di vicende remote e delineano luoghi, genti, costumi e leggi. All’obiezione di Puderico, secondo la quale Cicerone avrebbe sostenuto che i poeti si esprimano in un’altra lingua (De orat. ii, 61), Altilio ribatte che l’arpinate avesse presenti i discorsi forensi anziché le opere storiche. Ma – interviene il Compatre – bisogna ottemperare alla norma del fondatore il Panormita in base a cui negli incontri accademici si esige uno
sguardo di rispetto alla grammatica. A commenti del Compatre sull’abuso dell’x e sul prefisso in- fanno da contraltare quanto ha da puntualizzare Summonte sulla stessa lettera alfabetica, sull’origine rustica di diverse parole latine e sulle premure consacrate a esse per primi dai poeti vetusti. Dopodiché la parola torna di pertinenza di Altilio. La storia, come se ne fosse autore un giudice, dovrebbe elogiare atti meritevoli di approvazione e denunciare i malfatti, senza preoccuparsi di tornaconti personali. Quanto allo stile, sono da ricercare la scioltezza e la brevità, purché sia limpida; tra i due maestri elevati a modello assoluto, Sallustio e Livio, il primo si conferma più stringato, il secondo più espansivo e artificioso. Con la brevitas intrattiene rapporti stretti la celeritas, la «brevis et accurata sive complexio sive collectio conglutinatioque complurimum simul rerum ac verborum, et quasi partium, quarum unaquaeque per se prolata sensum perficit» (p. 163). L’esposizione storica deve essere ordinata affinché la verità si stagli, il rerum scriptor memore di cause e finalità. Vanno quindi posti in luce i punti di vista divergenti, la personalità del comandante, la potenza della repubblica o del re, i luoghi della guerra (per Pontano, autore del De bello Neapolitano, la narrazione storica ha un campo privilegiato nelle spedizioni militari), i fatti peregrini e, ancora, i discorsi dei generali. La storia, come si suol dire, è maestra di vita. L’ultima sezione dell’Actius torna a misurarsi con l’argomento che domina il dialogo: la poesia. Prassicio indugia sulle somiglianze e differenze tra essa e l’oratoria; l’autore di
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versi è chiamato a eccellere sempre, finanche nelle minuzie; come l’oratore insegue la vittoria, così l’aedo guarda alla gloria duratura. Poeti, e anche storici, si rivolgono non al giudice o alla moltitudine bensì ai più colti. Azio prorompe in un panegirico: i poeti istruirono nell’eloquenza, tanto che ogni genere letterario deriva da loro; alla scuola di Omero si formarono i filosofi, i fisici e i retori; Empedocle schiuse agli uomini la natura; la «doctrinarum omnium ma ter foecundissima» (p. 189) apre ai suoi cultori le porte dell’eternità, per virtù di lei si perviene a un’intelligenza di Dio e in paradiso. Così – lo nota Puderico in ultima battuta – Azio termina il suo discorso come l’aveva iniziato, con la religione. L’Actius, la cui editio princeps a cura di Summonte usciva postuma a Napoli nel 1507 insieme all’Aegidius e all’Asinus per i tipi del tedesco Sigismund Mayr, vuole documentare l’attività e il funzionamento della Pontana Academia, testimoniandone l’alto valore di consesso umanistico e in pari tempo mostrandone la tempra etica in quanto capace di approfondire istanze culturali con rigore, destrezza, collegialità, disinvoltura e, a seconda del caso, arguzia. Senza la dialettica e la maieutica sfruttate nell’archetipo platonico, senza la messinscena di uno scontro aperto di pareri discordanti, ben rappresentata invece dal pressoché coevo De voluptate valliano, si espongono due teorie complementari sul ritmo del senario dattilico e sulla tecnica storiografica in un clima affettuoso che permette simultaneamente digressioni grammaticali e altro. Databile alla metà degli anni Novanta e di conseguenza alla piena
maturità del letterato umbro, l’Actius esibisce una maestria dell’oratio soluta fenomenale, soprattutto all’interno della trattazione storiografica, di una scorrevolezza così ondeggiante da non sfigurare nel paragone con quanto realizzato dallo stesso autore nelle elegie, liriche ed egloghe (dove, è bene non dimenticarlo, reclama il primato nella classifica quattrocentesca). il commento di un verso virgiliano sa elevarsi a poesia esso stesso: «Quanto est temperamento conditus, dactylorum celeritate spondaica tarditate temperata!» (p. 117). un ricorso discreto alla similitudine vivacizza l’argomentazione, come nella riflessione sullo stilema della celeritas, «quasi plenus et profundus amnis multa vehit et tanquam aquarum mole rotat versatque» (p. 166); oppure, a proposito dell’allitterazione: «Ac mihi quidem videtur in pangendo carmine atque condiendis numeris illud idem usuvenire quod in puellari cultu atque munditiis, ut non modo gemmae cuiuspiam nitidioris, verum flosculi unius accessio permultum adiiciat cultui atque munditiis» (p. 129), laddove il pensiero non può che correre a certi componimenti tra il De amore coniugali e gli Hendecasyllabi. Del resto l’organicità del complesso dipende non soltanto dall’avvicendarsi dei medesimi interlocutori, tematiche ed auctoritates ma anche dalla ricomparsa di specifici lessemi analizzati in sede grammaticale per poi essere riutilizzati altrove: basterà il cenno a instar, sostantivo esaminato dal Compatre alle pp. 79-81 che riaffiorerà alle pp. 91, 104, 108 e 148. A ciò si aggiunge una messe di intuizioni che stanno a designare l’acutezza della sensibilità pontaniana per
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la problematica eufonica. Ecco a proposito di Aen. i, 35 («Vela dabant laeti et spumas salis aere ruebant»): «Maro servandae gravitati intentus, […] versum refersit vocibus duarum syllabarum, e quibus octo accentus extudit et ad quintum pedem e syllabis “re” et “ru” invicem sibi alludentibus pene expressit remorum strepitum; quae annominatio quasi quaedam mirifice blanditur auribus» (p. 107). L’Actius ben illustra il tratto distintivo della letteratura della penisola italiana in confronto alle altre principali letterature europee: una nostalgia delle sorgenti greco-romane, un vangare indefesso verso le radici identitarie nel patrimonio dell’antichità. Talvolta si fa fatica a situarlo sotto il dominio aragonese, talmente persuasiva è la sensazione di ambulare nel fresco di colonne marmoree augustee, quasi non fosse mai venuta a intercedere la parentesi del medioevo. il dialogo enuncia il manifesto umanistico di un classicismo severo e assieme militante; di fronte a possibili tendenze centrifughe, magari sulla falsariga di un Quintiliano, Stazio, Claudiano, Cesare o Tacito, la scelta di campo compiuta da Pontano intende rendere omaggio all’ortodossia: Cicerone si erge a maestro di decoro, l’Eneide a crestomazia di perfezione formale, Sallustio e Livio a referenti per concisione e fluidità nella storiografia (particolare risalto assume la terza decade intorno alla seconda guerra punica). in tal modo si affida all’Actius una sintesi di quel classicismo elaborato dalla società napoletana tra Quattro e Cinquecento destinato a costituire uno degli apporti più vistosi della Campania all’evoluzione della cultura europea,
riscontrando in qualche modo una continuazione ideale negli scavi archeologici settecenteschi tra Pompei, Ercolano e Paestum. Peraltro le stesse escursioni etimologiche del dialogo, indipendentemente dalla pratica con Varrone e isidoro di Siviglia, forniscono anch’esse un contributo tutt’altro che trascurabile alla promozione della romanità, dal momento che valorizzano la stratificazione della lingua latina. La vulgata novecentesca dell’Actius si rifà a un’edizione comprendente i cinque dialoghi, Charon, Antonius, Actius, Aegidius e Asinus, pubblicati criticamente a cura di Carmelo Previtera nel 1943 con la Sansoni nella collana «i classici italiani». un volume dei Dialoge uscito nel 1984 a Monaco di Baviera affiancava alla ristampa anastatica della suddetta edizione una traduzione in lingua tedesca di Hermann Kiefer con la collaborazione di Hanna-Barbara Gerl e Klaus Thieme. il recente libro della dialogistica con versione italiana realizzata da Lorenzo Geri (2014) escludeva invece sia l’Actius che l’Aegidius. il nuovo volume ora uscito presso roma nel rinascimento per le cure di Francesco Tateo, fondando il testo latino sull’ultima forma del codice Vat. lat. 2843, antigrafo di mano summontiana con correzioni pontaniane della princeps (p. 47), ha tra l’altro il pregio di mettere a disposizione del pubblico colto internazionale la prima traduzione in lingua italiana del dialogo poetologico. A piè di pagina si collocano l’apparato, i rimandi ai loci di autori classici, nonché delucidazioni riguardanti il contenuto del testo; di speciale interesse le annotazioni linguistiche relative allo scambio iniziale tra il notaio campe
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stre e il porcaro, tra le pagine lessicalmente più espressionistiche di tutta la letteratura neolatina quattrocentesca, già in parte rese in italiano dallo stesso Tateo, con la bravura che gli è propria, all’interno della storia e antologia della letteratura italiana laterziana diretta da Carlo Muscetta (1972). integrano il volume in oggetto un saggio introduttivo di profilo teoretico (prova di un sapere in grado di spaziare dall’estetica ciceroniana a quella bembiana), una nota al testo, una bibliografia e i necessari indici. Della nuova accessione alla bibliografia pontaniana, sin dall’inizio del terzo millennio soggetta a una crescita esponenziale, ogni cultore di studi antichi e rinascimentali avrà modo di felicitarsi, riconoscente al curatore per un’attenzione all’Actius così tenace da lasciarsi retrodatare a uno studio sulla Poetica di Giovanni Pontano confluito in due fascicoli di «Filologia romanza» (direttore: Salvatore Battaglia) del 1959, a sessant’anni di distanza.
John Butcher
Domenico Chiodo, Armida da Tasso a Rossini, Manziana, Vecchiarelli, 2018, pp. 154.
Quando giunge al campo cristiano, nel canto iV della Gerusalemme liberata, Armida semina scompiglio non solo tra i cavalieri crociati, ma nell’intero campo della letteratura italiana. Sensuale e consapevole del suo fascino, tanto che si presenta subito «di sua forma altera / e de’ doni del sesso e de l’etate» (iV, 27, vv. 1-2), la nipote del governatore di Damasco idraote svela subito doti di con
sumata attrice interpretando la parte della principessa in cerca di aiuto contro il cinismo dello zio. Nel corso della narrazione, il personaggio di Armida svelerà una ricchezza psicologica singolare persino per il mosaico di personalità del poema, sì che non ci si può stupire della fortuna di cui ha goduto nel corso dei secoli; più interessante, forse, è notare che questa fortuna si è manifestata soprattutto sui palcoscenici europei, a dimostrazione ulteriore del carattere intrinsecamente ‘teatrale’ dell’antieroina tassiana. Certo, ogni epoca ha avuto la ‘sua’ Armida, e non potrebbe essere altrimenti, ma proprio le numerose variazioni attestano un fascino mai sopito per un personaggio duttile e dalle molteplici sfaccettature. il volume di Domenico Chiodo offre una ricognizione ragionata delle Armide che hanno calcato le scene italiane e francesi, inglesi e austriache, evitando però di stilare un semplice elenco di opere e discutendo, al contrario, innovazioni e difetti delle maggiori rappresentazioni drammatiche, non lesinando osservazioni di carattere musicologico che possono risultare di estrema utilità per l’italianista interessato alla transcodificazione – e quindi alla resa musicale – del fatto letterario. L’autore comincia con una sintetica panoramica dei momenti salienti in cui Armida occupa la scena della Liberata. Pur configurandosi come una ricapitolazione di ottave assai celebri, il capitolo propone una interpretazione vivace della «bella peregrina», valorizzata in quanto personaggio femminile di tipo nuovo che «non esercita più una funzione in rapporto all’eroe, ma diventa soggetto della vicenda amorosa narrata» (p.
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15). La gamma dei sentimenti che arriva a provare, primo fra tutti l’amore che la spinge, in vero senza grande sacrificio, ad abbracciare un’altra fede (Chiodo arriva a parlare di una sostanziale «indifferenza religiosa», p. 23), la rendono, come si è detto, un personaggio decisamente ‘teatrale’, che trova nel palcoscenico il luogo privilegiato delle riscritture e reinterpretazioni della sua vicenda. inaugurano la florida stagione delle Armide secentesche alcuni intermezzi di Giovan Battista Guarini all’Alceo di Antonio Ongaro. il drammaturgo ferrarese provvede a moralizzare la vicenda attraverso «l’addomesticamento dei contenuti che meno si conformano all’ideologia dominante» (p. 27) e a scandire la narrazione in tre ‘affetti’ – l’eros, il pentimento, l’ira – diversamente musicabili. Quello guariniano diventa presto un archetipo, e il Seicento, che Chiodo discute sulla scorta dei recenti studi di Thomas Stein, ne riprende tanto le deviazioni ideologiche quanto la semplificazione psicologica, per quanto non manchino scarti dalle norme librettistiche precocemente consolidate – un’autentica novità è l’Armida di Benedetto Ferrari, non solo in quanto prima opera dedicata all’anti-eroina tassiana proposta a un pubblico pagante, ma anche per l’assoluta originalità del testo, che non recupera neppure un’ottava o una citazione da Tasso e, anzi, introduce nuovi personaggi di matrice comica – e intuizioni in linea col vivace mondo teatrale barocco: un esempio eloquente è l’Armida infuriata di Orazio Persio, del 1629, che adopera primi effetti spettacolari destinati a diventare centrali nelle trasposizioni sceniche dei successivi decen
ni. in generale, comunque, si impongono alcuni ‘modelli’ di Armide più agevoli da mettere in musica: come sintetizza con efficacia l’autore, «alle due figure, la ‘desolata’ e la ‘furente’, […] si sono aggiunte ‘l’innamorata’, in scene di idillio per lo più svenevoli e stucchevoli, e la ‘maga diabolica’ che, poco consona allo spirito dell’Armida tassiana, offriva però spunti molto fecondi all’interpretazione musicale» (p. 59). Così, la seconda metà del XVii secolo prosegue la ‘corsa al meraviglioso’ con opere come l’Armida nemica, amante e sposa di Francesco Maria Santinelli che, oltre a presentare una quantità straordinaria di macchine teatrali, arriva a introdurre un inserto metateatrale che si configura come una sorta di mise en abyme. Allo stesso tempo, resiste e anzi si consolida la prassi di introdurre figure e momenti di maggior leggerezza per rendere più godibile lo spettacolo, snaturando la drammatica e intensa storia della principessa, e ci vorrà l’Armide francese di Quinault e Lully per ripristinare non già l’autentico personaggio partorito dalla penna del Tasso, ma almeno l’Armida moralizzata delle prime battute del secolo. Fa storia a sé, persino in un’epoca di eccessi, il mostruoso esperimento datato 1687 della Gierusalemme liberata di Giulio Cesare Corradi, «bizzarro tentativo di condensare nei tre atti […] tutta la materia del poema con un sostanziale effetto di caos» (p. 83). Con il Settecento sembra acuirsi l’allontanamento della librettistica su Armida dalle suggestioni tassiane: va affermandosi un personaggio che si atteggia a damina incipriata, contornata da cicisbei più che dai «compagni erranti» del pio Buglione.
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Questo a dispetto del ‘paradossale’ Rinaldo musicato da Georg Händel nei primi anni del nuovo secolo, per il quale il grande compositore di Halle sembra ispirarsi più al poema originale che al discutibile libretto di Giacomo rossi che «segna probabilmente il punto di maggior distacco, il più clamoroso travisamento del capolavoro tassiano» (p. 91). Ben presto, però, l’insipida dama rococò cede il passo a un graduale ‘ritorno a Tasso’ e a una presa di coscienza delle insufficienze della pregressa produzione teatrale. È a Napoli che questa verifica della drammaturgia su Armida assume le sue forme più compiute, da un lato con gli sforzi anche teorici di Francesco De rogati, le cui Riflessioni di marca metastasiana sottopongono a una feroce critica le soluzioni ‘meravigliose’ che tanta fortuna avevano avuto nei decenni precedenti, e dall’altro con operazioni culturali insolite come l’Armida immaginaria di Cimarosa e Palomba. Opera buffa messa in scena nel 1777, al centro della quale sta «la pazzia della marchesa Tisbea, ricca e bella aristocratica convinta di essere Armida abbandonata da rinaldo» (p. 131), questa riuscita parodia delle interpretazioni armidiane omaggia la Liberata meglio di tanti melodrammi, se è vero che, dopo una rimozione sistematica della scena a partire per lo meno dall’operato del solito Guarini, torna finalmente il ‘trionfo amoroso’ del finale, con il personaggio di Tesbia-Armida che può coronare il suo amore con un rinaldo comico quale Spatachiatta. Come suggerisce il titolo del volume, le ultime pagine sono dedicate all’Armida di Gioachino rossini e Giovanni Schmidt. il lavoro, per vari
motivi importante per la carriera e la biografia del compositore di Pesaro (come ricorda Chiodo, fu in «quella occasione [che] nacque l’amore per isabella Colbran», p. 136), rappresenta uno dei maggiori tentativi di riavvicinare la materia trattata alla narrazione del poema tassiano. una certa originalità nella scelta delle scene da rappresentare, con un atto primo dedicato al ben poco frequentato arrivo della giovane al campo cristiano, e un’originale impostazione del cast vocale che rende la protagonista l’unico soprano dell’opera, partecipano della maggiore novità rappresentata dall’opera, e cioè la decisa accentuazione della femminilità di Armida, che dalla maga diabolica dei melodrammi moralizzati del Seicento passa a essere «la donna abbandonata, e tradita nel suo sincero e incondizionato darsi a rinaldo» (p. 143). un riscatto doveroso che restituisce un aspetto essenziale di un personaggio così poliedrico, e che il libro di Chiodo aiuta a scoprire e valorizzare nella sua complessità.
Giuseppe Andrea Liberti
Asteria Casadio, Ugo Piscopo tra critica e scena, Teramo, Evoé edizioni, 2018, pp. 170.
Questo saggio della Casadio apre una finestra su un aspetto finora non illuminato dalla critica riguardo all’intensa e articolata attività letteraria di questo autore. Ad introdurre amabilmente il lettore nel libro vale, illuminante spunto, il giudizio del prefatore rino Caputo, per il quale in Piscopo «albergano due vite intellettuali, che si de
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positano, pascolianamente, nei due scrittoi della sua opera; il primo, quello dell’esperto professionale competente e del saggista critico-letterario; il secondo, quello dell’artista, drammaturgo e poeta» (p. 5). La Casadio rileva opportunamente che, per Piscopo, nel teatro esistono sinergie e interazioni fra luci, suoni, parole, gesti, dinamismi meccanici, figure umane e non umane (p. 10); in esso, simile a un flusso vitale in perpetuo scorrimento, la parola ha dignità pari a «quella del disegno, del suono e della corporeità, e insieme apre spazi di continuità all’invenzione, al possibile dell’immaginazione e dell’imprevedibilità» (ibidem). L’autrice registra attentamente i vari interventi di Piscopo su Bontempelli, nel primo dei quali egli rileva che il linguaggio del teatro viene utilizzato dallo scrittore anche nella sua rimanente produzione letteraria, ricorrendo frequentemente a moduli teatrali in due fra le maggiori prove narrative. La studiosa ripercorre, quindi, l’iter della produzione teatrale di Piscopo, da prove iniziali ripudiate dall’autore, attraverso le sollecitazioni del Futurismo e dello sperimentalismo, fino al recupero dei valori e dei miti del passato e poi oltre Pirandello con la creazione di «nuovi miti autonomi». La Casadio, a coronamento della sua acuta e penetrante analisi, riconosce opportunamente a Piscopo il merito di giungere, mediante «argomentazioni serrate, condotte con logica rigorosa» e linguaggio vibrante di riferimenti letterari, immune da «sbavature e trasandatezze», a «gettare una nuova luce sul teatro di Bontempelli, visto sia come momento di riflessione e crescita interiore,
sia come strumento per superare, recuperandoli, i padri» (p. 15). Nel secondo capitolo (Maschere per l’Europa. Il teatro popolare napoletano da Petito a Eduardo) l’autrice, nell’additare in Piscopo una delle poche voci levatesi per ridare al teatro popolare dignità letteraria, ripercorre la storia dei suoi interessi per il teatro, sin da quando, negli anni giovanili, compone due atti unici, proseguendo, quindi, il discorso sull’attività di critico sulla rivista partenopea “Nostro Tempo”, sul periodo di insegnamento a Tripoli in cui «entusiasma per il teatro i suoi allievi», fino al più intenso impegno per esso culminante nella pubblicazione del libro richiamato nel capitolo, che significativamente si apre con Petito e si chiude con Eduardo, paradigmatici per quanto riguarda il riscatto della dialettalità «come veicolo di originalità e di autenticità». Di Eduardo, ad esempio, Piscopo «puntigliosamente» analizza «la dicotomia fra teatro ante e post 1945» (p. 21), il pirandellismo e il tentativo, analogo a quello di Petito, di modernizzare il teatro. L’autrice rileva sapientemente i pregi dell’analisi critica «serrata, condotta con rigore logico ineccepibile» (p. 22), avvalorata dalla trasparenza del linguaggio ricco di riferimenti culturali, e tale da porre in luce «autori originali poco frequentati dalla critica e dall’attenzione comune» (ibidem). Definisce esemplare ed originale, al riguardo, il saggio dedicato a roberto Bracco, circa il quale Piscopo smonta pregiudizi come quello che lo definisce seguace di surrealismo e futurismo. Fini e illuminanti sono giudicati i ritratti di Scarpetta e di di Giacomo, come di Galdieri, di Libero Bovio e di Ferdinando russo,
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che il critico irpino riscatta dalla severa condanna crociana. Magistrale appare poi all’autrice la contestualizzazione, che Piscopo opera, di Viviani in due mirabili saggi. La Casadio conclude, quindi, riconoscendo con ammirazione a Piscopo, oltre al rigore logico e alla profondità culturale, una «profonda e orgogliosa passione per Napoli e per ciò che di vivo e di nuovo nasce dalla sua città» (p. 27). Molto stimolante è il capitolo Giovinezza in coturno, dove si dà riconoscimento, tra l’altro, del merito dello studioso «di aver scovato, una collezione introvabile del “iX Maggio”, il quindicinale della Gioventù universitaria fascista (GuF) di Napoli», a cui allora collaboravano intellettuali come Giorgio Napolitano, Aldo Masullo, Massimo Caprara, Antonio Ghirelli, Luigi Compagnone, e di aver additato, nel saggio omonimo, con «adamantina onestà intellettuale», il merito del nuovo teatro inaugurato dal regime, cioè l’effetto di ricaduta del «coinvolgimento dei giovani nella vita teatrale del tempo» come «palestra di entusiasmo, di freschezza, di slancio in avanti» (p. 33). L’autore, quindi, che tocca anche Bontempelli, Marinetti, Pirandello, appare originale «nel tentativo di rottamare pregiudizi sulla cultura fascista»; donde l’autrice conclude acu tamente riconoscendo che Piscopo ivi «non è né fascista né antifascista: è uno storico, che ancora, a distanza di millenni, usa il metodo tucidideo» (p. 35). Passando, poi, alla produzione teatrale, l’autrice propone un’icastica definizione del teatro piscopiano, in ordine alla pièce Gramsci, chi?, come «teatro sociale» nel senso di «teatro specchio della vanità del pensiero massificante» (p. 39). Parimenti accu
rata e sapiente appare l’analisi, che l’autrice offre nel capitolo successivo, della ricchezza di originali riferimenti al futurismo, ai suoi effetti su Napoli e al rapporto Cangiullo-Marinetti, che caratterizza la «pièce esilarante» Omaggio a Piedigrotta-Cangiullo prefata da Walter Pedullà. Vi rileva, tra l’altro, la graffiante ironia di Piscopo, da lei definito «innamorato di un mondo che si chiama Napoli e, insieme, si chiama libertà» (p. 53). La rassegna potrebbe continuare richiamando le pièces di una deliziosa trilogia dedicata all’italia berlusconiana, Il Signor padrone e il Misterioso Consigliori, Le Campe al Castello, LIT all’incanto. Dramma satiresco in 4 atti, atte ad evidenziare – come precisa la Casadio – il carattere «paideutico» del teatro per Piscopo, nel senso che si propone come rivelazione «di una realtà celata dietro lustrini e proclami»; donde il leitmotiv di esso consiste nell’«incalzare e sollecitare», mediante metafore linguistico-teatrali, uno sguardo franco sulla realtà, e nel riconoscere il valore aggregante del linguaggio e i presupposti del Potere fondati sul «dare e negare la parola». Corona il saggio una preziosa appendice: la pubblicazione di quattro interventi critici inediti di Piscopo. uno di essi, ad esempio, propone il profilo a punta di penna di Pulcinella, Per la restituzione di Pulcinella al mondo. Dove l’autore disegna, con dovizia di riferimenti letterari e filosofici, quella che potremmo definire l’ontologia e la fenomenologia di Pulcinella, visto come «una cosa della natura, una specie di res nullius», venuta al mondo «in totale libertà di comportamento», il cui destino è pieno di contraddizioni, distorsioni, tra
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nelli ma anche di «vertiginose, eccitanti, fermentanti attrazioni, al cui top sono la femmina e i maccaruni con tutto il resto». Piscopo lo vede farsi filosofo (di nessuna filosofia) e storiografo, in quanto «narratore del tempo» (richiamando una formula cara a Paul ricoeur), poiché «può transitare liberamente nel tempo e nello spazio, cioè nel mondo quale fenomeno e materializzazione di evento nel tempo e nello spazio». Lo studioso ne addita sapientemente il mistero presente nella vita e nella sostanza intima: era «di qua nel mondo, anche quando ancora non era nato secondo l’anagrafe» e si aggirava in Tracia, in Grecia, a Tarquinia, a Lipari, fra i fliaci o presso gli Osci, ove «si materializzava in movenze e tratti fisiognomici di Maccus, amico di Pappus e di Dossenus». Lo riconosce dotato, «dopo la registrazione all’anagrafe», di proteiforme abilità «nel sottrarsi alla presa», così come incline – se interpellato «nel dibattito sul cosmo» – a professare, come democriteo, l’idea che «il mondo è caos totale, tranne che in fatto di bellezza femminile e di maccaruni e compagnia bella», adducendo a prova la propria vita. Quattro inediti, insomma, di pari, rilevante importanza storico-critica, che documentano ulteriormente la profondità, l’onestà intellettuale, l’originalità del discorso sempre brillante, puntuale e acuto del saggista e del drammaturgo. in conclusione, questo saggio della Casadio è un’opera di alto profilo, avvalorata dalla fluidità e trasparenza della scrittura, pur ricca di riferimenti culturali e di ricercatezze stilistico-lessicali. Ad essa va riconosciuto il merito di aver illustrato con pari acribia e compiu
tezza le due “vite intellettuali” di Piscopo.
Franco Trifuoggi
Vetrine di cristallo. Saggi su Silvana Grasso, a cura di Gandolfo Cascio, Venezia, Marsilio, 2018, pp. 190.
La raccolta di studi dedicata a Silvana Grasso, scrittrice contemporanea di grande risonanza, principalmente dedita alla narrativa, ma capace di attraversare i generi letterari e di cimentarsi anche nella scrittura poetica, teatrale e nella traduzione classica, costituisce un importante tassello critico, che aggiorna e completa le ricerche a lei dedicate. Nell’opera sono confluite buona parte delle relazioni presentate al convegno internazionale L’opera di Silvana Grasso: poetica, generi e filologia, tenutosi al l’università di utretch il 24 maggio 2017. Come nota Cascio nella Premessa al volume, l’obiettivo del convegno era quello di «coinvolgere studiosi provenienti da prestigiose istituzioni europee e statunitensi, impegnati in varie discipline […] per indagare alcuni aspetti dei lavori editi e inediti, ancora poco vagliati» (p. 11). Ciò spiega anche il titolo Vetrine di cristallo, che, ripreso da uno dei racconti di Pazza è la luna, esplicita l’intenzione di mettere in mostra, come «in una scintillante bacheca» (p. 11) quanto era emerso nel corso del l’incontro del 2017. Se dunque il curatore si proponeva, da un lato, di avvicinare i libri di Grasso con metodologie nuove (la narratologia, i gender studies) e con strumenti come le digital humanities, e dall’altro di considerare anche gli «altri mestieri» (p. 11) della scrittrice, – poesia, traduzioni,
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teatro ed elzeviri civili – si può affermare che sia riuscito nel suo intento. il volume, infatti, muovendo da alcuni punti fermi nella storiografia – l’espressionismo linguistico, l’attenzione al paesaggio e alla società siciliana, il realismo stilistico – conduce il lettore alla scoperta di nuovi aspetti e nuovi spazi della letteratura di Grasso. Ci si riferisce in particolare ai concetti di maternità e di vedovanza, alla funzione della donna nella società, ad alcuni elementi parodistici e alle problematiche connesse ai queer studies oltreché alla sua attività, prima mai studiata, di poeta e traduttrice dal greco. in altre parole, l’opera si distingue per la sua completezza e per la ricchezza delle tematiche proposte. Si passeranno ora brevemente in rassegna i saggi presenti, seguendo l’ordine alfabetico proposto nel volume, per evidenziare di ciascuno i tratti peculiari e la freschezza critica dell’approccio. Marco Baldini, in La strategia della vedova, si occupa del racconto 7 uomini 7 (2006), e nota che quello che apparentemente sembra un «racconto fallito, e a tratti spiacevole» (p. 20) si rivela invece un racconto auto-finzionale, capace, attraverso l’inventio, di rilegittimare l’autore. Il poeta latitante di Gandolfo Cascio ci porta nel territorio inesplorato della poesia di Grasso. Lo studio, di estrema chiarezza e completezza, da un lato cerca di riordinare filologicamente la sua produzione, dall’altro riflette sulle componenti metriche, stilistiche e linguistiche della sua poesia, che deve essere considerata in un panorama ellenistico, più che italiano. Marina Castiglione, in Tra uomo e donna, si occupa di certe ricorrenze figurali nella scrittura grassiana, concentrandosi su alcuni avantesti di Enrichetta
e confrontando testi editi e inediti. Il cibo ne “La pupa di zucchero” di Francesca Cristante offre un’intelligente rilettura del romanzo di Grasso, mettendo in luce le varie funzioni svolte dal cibo – «descrivere vari aspetti culturali, emotivi, sociali, religiosi» (p. 92) – e la complessità extra-testuale dell’opera. Claudio Felice, con un’attenta analisi delle tecniche diegetiche adottate da Grasso per portare sulla pagina la parola dei personaggi, in particolare nel romanzo Solo se c’è la luna, chiarisce che la mimesi dell’oralità, finemente raggiunta, è intenzionale nella scrittura del romanzo (L’oralità rivestita). Pierluigi Lanfranchi studia, in Creare felici analogie. Le traduzioni dal greco, la Grasso come traduttrice dal greco e, attraverso il confronto tra una traduzione sul mimo di Eronda e la raccolta di racconti Nebbie di ddraunàra, rivaluta la sua competenza filologica e dimostra come i due tavoli, quello della scrittrice e quello della traduttrice, siano strettamente connessi. Stefania Lucamante analizza il romanzo Ninna nanna del lupo in Buone solo a figliare e introduce nuove prospettive di ricerca, soprattutto nell’ambito della vulnerabilità e della femminilità, oltreché della migrazione quale spazio dell’immaginario e dell’immaginato, mostrando le soluzioni narrative con cui la scrittrice problematizza alcuni temi peculiari della letteratura siciliana. il volume si conclude con un saggio di raniero Speelman, Tradurre il libro più bello, sulla traduzione di alcune opere di Grasso in neerlandese. Mentre lo studioso riflette sulle difficoltà che si possono incontrare nel corso della traduzione, sul metodo da lui seguito e su una traduzione pre-esistente (Il bastardo di Mautàna),
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altro non fa che confermare il valore della scrittura grassiana e l’esigenza che la sua produzione raggiunga respiro internazionale.
Mara Boccaccio
Sebastiano Grasso, È ancora tempo di arcobaleni?, Milano, ES, 2019, pp. 102. Con un’appendice iconografica.
L’adolescenza isolana del poeta risale alla luce della memoria nella parola prensile che accoglie il passare del tempo come un germoglio di fuggitivo incanto o un agguato e, vertiginosa e lucida, ridona le stagioni di una vita, facendo di un tormento il dolceamaro verso che lo culla con l’«inganno» crudele delle «lucciole». in questa nuova silloge, È ancora tempo di arcobaleni?, emerge la qualità della poesia di Sebastiano Grasso: densa e ritmica, consegna un registro stilistico elegante e flessibile che, nel pendolare gioco di marea e nel «disordine delle lancette», elabora un mormorio di libri e di volti prima della scomparsa della loro febbre. Colta, scaturisce da una sofferta materia autobiografica, dettando la sempre nuova e antica legge della vita, la risentita storia dell’io, «l’astuzia / e la passione», l’eros e lo schermo di una fuga e il ritorno al centro dell’incendio. Da uno sguardo sul vuoto Grasso proietta la romanzesca cronaca di «respiri inquieti», aduna nomi, circostanze, fatti, un miscelato diario di emozioni, la biblioteca e i viaggi, le tavole dell’arte e pentagrammi di «brividi» e «presagi» (folle di nomi scorrono leggere nel libro che si sfoglia e le incorona), mentre qualche disperso appunto di poetica («E così
nei poeti del ’900 cerco tracce / di vita») fa «assaporare verità nascoste». L’officina stregata degli archivi e delle fantasie batte «versi d’amore, anni di passione», allestisce un sottofondo vitreo su cui l’esistenza vera forse trionfa con un passo chiaro ma come oscurandone lucentezza e malie. E la «favola» che «cavalca l’universo»», un improvviso «violino di Cremona», Sangue viennese di Strauss, un «pianoforte in blu con donna in blu / di renoir» sollevano il peso di giorni «lunghi» di amarezza. Ma implacabile la vita insidia la «felicità in penombra» di «ritratti di gruppo», un orizzonte forse «incorniciato dalla finestra» e figure di donne che, sebbene scolpite nel marmo di un amore raggiante di tristezza, sono sempre figure di stupore: in primo piano, di scorcio, nelle pieghe di un’avventura e in sbriciolati «specchi di memoria». Modulazioni d’endecasillabo e altri metri giocati sulla tastiera di una rapsodia creano apparizioni di donne amate con trasporto, alte sul podio (quando sbocciano con una torrida tensione visionaria pure dal pietrificato guscio del passato), oppure stilizzate nel contraltare di «scene familiari» traguardate da un’ottica di leggenda. Nel ventaglio dei tempi si collocano alcune sospensioni, espropriando quasi il poeta del ruolo di protagonista, per collocarlo in un universo d’ombre parallelo, tra illusioni d’attesa e una «distanza» gemmata d’ironia. Presenze femminili, cantate a volte alla maniera antica, non algide nelle bacheche (come in tanti canzonieri d’ogni tempo), sono tenute in arsi dalla «poesia della vita», che sorge, nel «sortilegio del giorno», dalla Serenata di Toselli, e che, come nei libri delle favole, sven
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taglia dal nulla l’animazione del mondo (dalle case di sassi, di malva e di cenere al turrito castello del poeta, al saettìo dei templi di Agrigento). intanto, anche il più esplosivo empito di gioia non salva gli amori dalla polvere. inatteso al pari di un miracolo, lo struggente Valzer di Shostakovich accompagna quell’amore più grande che «finisce ogni due-tre giorni» senza mai trovare la sua fine. il passato entra nel silenzio, e seppellisce nel suo stesso nero anche le velenose trame. Testimoni indomabili, solo i versi resistono.
Giuseppe Amoroso
Dario Malini, La Grande Guerra di Italo Svevo. La scoperta di una fonte letteraria ignota de La coscienza di Zeno, Milano, ArteGrandeGuerra edizioni, 2018, pp. 218.
Basterebbero le ultime pagine della Coscienza di Zeno per assegnare un ruolo essenziale all’evento bellico nell’evoluzione dell’immaginario di italo Svevo. Negli anni, sono state condotte numerose indagini volte a rintracciare le diverse modalità d’influenza, nello stile come nella caratterizzazione dei personaggi, della Prima guerra mondiale sul libro, e non è mancata la proposta di leggerlo, al pari di opere come Kobilek di Ardengo Soffici o L’uomo nel labirinto di Corrado Alvaro, come un vero e proprio ‘romanzo di guerra’; è, questa, la tesi di Brian Moloney, ripresa sin dall’epigrafe del suo libro da Dario Malini, che propone anzi di considerare la Coscienza «il frutto maturo di un ripensamento generazionale susseguente la guerra» (p. 124). La
Grande Guerra di Italo Svevo insiste proprio sul fatto che il capolavoro del Triestino sarebbe pienamente comprensibile solo tenendo conto di una produzione ‘sotterranea’ risalente agli anni del conflitto e di possibili modelli letterari legati al clima post-bellico. Nei primi capitoli, Malini ricostruisce, sulla scorta degli studi biografici e filologici di studiosi come Bertoni, Camerino e Ghidetti, il graduale ritorno di Svevo alla scrittura dopo il congedo seguito alla pubblicazione di Senilità e all’ingresso nella ditta Veneziani, di proprietà del suocero. La scelta di concentrare l’analisi sulla ripresa dell’attività scrittoria consente all’autore di soffermarsi su scritti minori ma dotati di una loro pregnanza stilistica ed ermeneutica. Pur rifuggendo, infatti, da nuovi progetti di ampio respiro, Ettore Schmitz continuò a interessarsi di lettura, teatro e musica, ma soprattutto continuò a scrivere: testi privati come lettere e diari, certo, che testimoniano però un esercizio costante e destinato a disseminare materiali utili all’interpretazione della successiva Coscienza di Zeno. una pagina di diario, in particolare, viene indagata in maniera dettagliata: quella del 23 maggio 1915, giorno in cui Trieste apprende la notizia della dichiarazione di guerra dell’italia all’Austria. Nella tragedia che scuote le coscienze della popolazione locale, Svevo riesce a «descrivere la guerra, fin dal suo germinare, quale evento sovrastante la libertà e la volontà dell’individuo, il quale non può che osservarne abulicamente le distruzioni e gli orrori senza potervisi opporre in alcun modo» (p. 56); ma l’importanza del brano è rintracciata anche nella presenza preco
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ce di una figura destinata a tornare nella Coscienza, il negozio di agrumi incendiato che diventerà il «fabbricato sprofondato nelle fiamme». Proseguendo nell’osservazione delle scritture nate durante e subito dopo il conflitto, si scoprono conferme a questa mai sopita vocazione alla stesura di riflessioni come di più autentiche narrazioni: racconti come Il malocchio, nelle cui filigrane Malini scorge anticipazioni della scarsa fiducia riposta nella psicanalisi, o abbozzi di opere rimaste incompiute come il saggio Sulla teoria della pace, rilevante perché «costituisce, […] per contrasto, un’ulteriore tappa d’avvicinamento alla visione di cosmico pessimismo» della Coscienza (p. 89), dimostrano anzi una volontà di sperimentazione che confluirà nella grande innovazione del romanzo del 1923. innovazione, beninteso, che si inserisce in quella che il critico definisce la «rinascita del romanzo in italia», e che trova nel libro di memorie, specialmente quelle di guerra, l’«anello di congiunzione tra il romanzo ottocentesco e quello moderno» (p. 120). La coscienza di Zeno è, in fondo, affine a questo tipo di letteratura, giacché si conclude con una ‘vittoria’ che, «in definitiva, si configura come una sua [di Zeno] resa incondizionata ai valori dell’etica borghese, che è anche etica “di guerra”» (p. 205). il capitolo certamente più interessante, che realizza peraltro l’annuncio contenuto nel sottotitolo del volume, è quello dedicato al ritrovamento di un’ignota fonte letteraria della Coscienza. Malini propone, come nuovo ipotesto, la commedia Pace in tempo di guerra di Alfredo Testoni, un’operetta leggera e improntata a un ‘buon umore’ abbastanza esile
da garantirle, al tempo, un discreto successo di pubblico. Certo, non è verificabile l’effettiva visione dell’opera da parte di Svevo, tanto più che non la cita in nessun documento né nell’epistolario. Solo per congettura si può ipotizzare una tappa a teatro durante una visita ai familiari a Milano di novembre, periodo nel quale – anche se solo per due giorni – si rappresentava il lavoro di Testoni. Come che sia, incuriosisce la presenza di un personaggio che sembra davvero un parente stretto di Zeno Cosini: trattasi di isidoro Ponzetti, goffo fornitore militare (ed è un primo legame col protagonista del romanzo sveviano) intenzionato a sposare una delle quattro figlie del ricco Bellotti, nonostante il loro manifesto disinteresse, con un’«ostinazione paradossale» (p. 182) che ha già qualcosa del paziente del «dottor S.». Se non mancano le consonanze tra i due personaggi, hanno tuttavia maggior peso le differenze: Ponzetti è un mercante di guerra sin dal suo primo apparire, mentre Zeno approda a questa professione solo alla fine del romanzo; inoltre, questi riuscirà comunque a trovare una moglie in Augusta, mentre i sogni coniugali del povero Ponzetti dovranno soccombere di fronte alla scelta delle ragazze Bellotti di sposare quattro giovani destinati alle trincee. È forse eccessivo dichiarare che Svevo abbia «isolato e tratto […] un intero personaggio, con tutto il suo semplice mondo da commedia» (p. 176) dai tre atti di Testoni, ma non c’è dubbio sul fatto che siano riscontrabili somiglianze tra Cosini e Ponzetti, entrambi membri della grande famiglia degli inetti letterari.
Giuseppe Andrea Liberti
Saggi
Sebastiano Valerio
Canti e silenzi dei pastori nell’Arcadia di Sannazaro
– pp. 213-232
Il carattere lirico della narrazione nell’Arcadia di Jacopo Sannazaro, complesso
prosimetrum dall’intricata vicenda redazionale, è una caratteristica fondamentale
già evidenziata nel corso degli anni da diversi critici. Il presente contributo
intende partire proprio da questo assunto per ripercorrere i numerosi luoghi
del testo dove si esprime quella contraddizione in termini che contraddistingue
tutta l’opera, tra silenzio e musica, tra il tacere e il cantare.
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The lyrical nature of the narration in Jacopo Sannazaro Arcadia, a complicated
prosimetrum that had an intricate editorial history, is a fundamental feature already
pointed out by many critics. The present contribution wants to start from
this premise to revisiting the many places of the text where we can find that
contradiction in terms which distinguishes the whole opera, between silence
and music, to remain silent and to sing.
Patrizia Pellizzari
Una inedita postilla e l’ultimo Alfieri lirico fra Pindaro e Chiabrera – pp.
In un’inedita postilla vergata da Alfieri su di una pagina dell’esemplare, acquistato
nel 1794, delle Odi di Pindaro tradotte da Alessandro Adimari (1632), il
trageda riconosce in Chiabrera l’autentico erede italiano del poeta greco. L’annotazione
rileva un nuovo interesse di Alfieri per la lirica pindarica riportata ai
propri principi, senza le mediazioni classiciste tardo secentesche: un interesse
che propizia la composizione della Teleutodía, con la quale egli chiuderà la propria
esperienza poetica.
★
In an unpublished marginal note penned by Alfieri on a page of a copy, purchased
in 1794, of Pindar’s Odes translated by Alessandro Adimari (1632), the
tragedian deems Chiabrera to be the genuine heir of the Greek poet. The annotation
shows a new interest in Alfieri towards Pindar’s lyrics according to their
own principles, without late-seventeenth-century classicistic mediations. This
interest propitiated the composition of Teleutodía with which Alfieri brought
his poetic career to an end.
Marco Dondero
“Apparizioni” primonovecentesche del Leopardi personaggio – pp. 259-270
Il contributo analizza tre opere in cui Giacomo Leopardi, in qualità di personaggio
di finzione, “appare” soprannaturalmente: come soggetto di una reincarnazione
(Questo matrimonio si deve fare! di Brancati), come un fantasma (All’insegna
dello Starita grande di Savinio), come un sogno (Le polpette al pomodoro di Saba).
★
This contribution analyses three works in which Giacomo Leopardi, as a fictive
character, “appears” supernaturally: as a reincarnation (Questo matrimonio si
deve fare! by Brancati), as a ghost (All’insegna dello Starita grande by Savinio)
and as a dream (Le polpette al pomodoro by Saba).
CRISTINA ZAMPESE
«Un bel gesolreutt». «Il canto XVI del Tasso» di Manzoni e Visconti – pp. 271-280
Questo testo non molto noto, scritto a quattro mani da Alessandro Manzoni ed
Ermes Visconti, è un raffinato gioco intertestuale sull’episodio di Armida e Rinaldo
nel giardino (dal XVI canto della Gerusalemme Liberata), rivisitato in forma
drammatica. Il risultato è una parodia lieve ed arguta, nella quale sapienti
smontaggi e calibrate forzature, accompagnati da una ricca sperimentazione
linguistica, producono gustosi effetti di straniamento, anche in direzione metaletteraria.
★
This little-known text, jointly penned by Alessandro Manzoni and Ermes Visconti,
is a subtle intertextual play on the episode of Armida and Rinaldo in the
garden (canto XVI of Jerusalem Delivered), revisited in a dramatic form. The result
is a light and witty parody in which sapient dismantlement and measured
twisting of the plot, accompanied by a lively linguistic experimentation, produce
amusing effects of estrangement, not least in a metaliterary direction.
MARIO CIMINI
Lo strano caso della Figlia di Iorio: Mila di Codra “bagascia” e “creatura di Cristo” – pp.
281-292
Sullo sfondo di un Abruzzo arcaico e senza tempo, l’azione drammatica della
Figlia di Iorio di Gabriele D’Annunzio ruota intorno alla singolare figura di Mila
di Codra, prostituta “campestre”, maga, ma anche, per certi versi, amante casta
e creatura angelica. Il saggio mira a mettere a fuoco le caratteristiche di questo
ambivalente personaggio, insistendo in particolare sulle fonti letterarie e folcloriche
di cui lo scrittore si servì nella sua costruzione.
★
To the backdrop of an archaic and timeless Abruzzo, the dramatic action of
Gabriele D’Annunzio’s La figlia di Iorio revolves around the singular personality
of Mila di Codra, a “country” prostitute, a witch, but also, in a sense, a chaste
lover and angel-like being. The essay aims to illustrate the nature of this ambivalent
character, underscoring the literary and folk sources employed by the
writer in creating it.
Roberto Gigliucci
Pirandello e Josiah Royce – pp. 293-324
Il saggio pone a confronto il pensiero del filosofo americano Josiah Royce, citato
espressamente da Pirandello nei suoi scritti, con alcuni aspetti della visione
della realtà pirandelliana. Ne emergono suggestioni possibili o probabili e qualche
certezza, che si aggiunge al quadro complessivo della ricostruzione della
“biblioteca” del nostro.
★
This essay compares the thinking of the American philosopher Josiah Royce,
expressly mentioned by Pirandello in his writings, with various aspects of Pirandello’s
view of the world. Possible and probable suggestions emerge, as
well as a few certainties that go some way to enriching the overall picture of
Pirandello’s library.
Roberto Gigliucci
Pirandello e Josiah Royce – pp. 293-324
Il saggio pone a confronto il pensiero del filosofo americano Josiah Royce, citato
espressamente da Pirandello nei suoi scritti, con alcuni aspetti della visione
della realtà pirandelliana. Ne emergono suggestioni possibili o probabili e qualche
certezza, che si aggiunge al quadro complessivo della ricostruzione della
“biblioteca” del nostro.
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This essay compares the thinking of the American philosopher Josiah Royce,
expressly mentioned by Pirandello in his writings, with various aspects of Pirandello’s
view of the world. Possible and probable suggestions emerge, as
well as a few certainties that go some way to enriching the overall picture of
Pirandello’s library.
Meridionalia
Claudia Corfiati
Sannazaro e Virgilio. La poetica della diffrazione – pp. 307-324
Il saggio si propone di rileggere alcuni luoghi dell’Arcadia di Jacopo Sannazaro
alla luce della presenza ‘ingombrante’ del modello virgiliano, riscoprendo citazioni,
traduzioni e riscritture, per non dire tradimenti, già ampiamente studiati
dalla critica, ma non ancora organicamente correlati. L’ipotesi di lettura, già
formulata a suo tempo da Francesco Tateo, e che dovrà essere rinforzata da ulteriori
indagini su tutto il tessuto del testo, è che il prosimetro parli soprattutto
di critica letteraria e di scrittura poetica.
★
This essay aims to reread several passages from Jacopo Sannazaro’s Arcadia
from the standpoint of the “intrusive” presence of the Virgilian model, rediscovering
quotations, translations and rewritings, not to mention betrayals, already
studied in depth by scholars but not yet properly correlated. The hypothesis
set out – previously formulated by Francesco Tateo and which ought to
corroborated through further investigations into the text – is that the prosimetrum
deals essentially with literary criticism and poetic composition.
Contributi
Maria Shakhray
Tra epica e storia: continuità e innovazione nel Conquisto di Granata di Girolamo Graziani e La
Austríada di Juan Rufo – pp. 325-338
Nel periodo tra la fine del Cinquecento e il primo Seicento la produzione epica
conosce una svolta importante. Gli eventi della storia moderna favoriscono la
nascita di una nuova categoria di poemi epici incentrata su fatti storici contemporanei,
ponendo gli autori di fronte a vari dilemmi, sia a livello di contenuto
che stilistico. Il saggio analizza l’interazione tra gli elementi topici ed elementi
innovativi presenti nei poemi Il Conquisto di Granata di Girolamo Graziani e La
Austríada di Juan Rufo – testi che trattano gli avvenimenti relativi alla guerra tra
le civilizzazioni cristiana e moresca e che sono esemplari di questo periodo cruciale
nel processo dell’evoluzione del genere epico.
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In the period between the end of the Cinquecento and the first part of the Seicento,
the epic genre reaches an important turning point. The events of modern
history favour the emergence of the new category of epic poetry dedicated to
contemporary historical facts, putting the poets in front of various dilemmas,
either at the level of content, or the one of style. The essay analyses the interaction
of topical and innovative elements in the poems Il Conquisto di Granata by
Girolamo Graziani and La Austríada by Juan Rufo – texts that treat the events of
the war between the Christian and the Moorish civilisations and that can be
considered exemplary as far as the crucial period in the process of the epic
genre evolution is concerned.
Debora Carcea
Dal «secol superbo e sciocco» al «trionfo della spazzatura». L’ultimo Montale e il Leopardi
satirico – pp. 339-356
Lo studio indaga le relazioni tra l’ultimo Montale e il Leopardi satirico, concentrandosi
sulla comune polemica contro il proprio presente e sui modi della sua
espressione. Tratti di contiguità si trovano nella sferzante irrisione delle filosofie
progressiste e del facile ottimismo contemporanei; nella protesta contro la
società di massa e i suoi mezzi di comunicazione; nella diffidenza verso le macchine
e la tecnologia; nella condanna del culto del denaro e dello spirito utilitaristico.
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This essay looks at the lies linking the later Montale with Leopard’s satirical
writing, focusing on the common polemic against the present-day world and its
modes of expression. The two men are likened by their biting attacks on contemporary
progressive philosophy and unquestioning optimism, in their protest
against mass society and its means of communication, in their diffidence
towards machines and technology and, finally, in their condemnation of the
cult of money and a utilitarian spirit.
Riccardo Gasperina Geroni
Donne ribelli, donne oggetto: il mondo femminile nei racconti di Alberto Moravia – pp. 357-372
Questo saggio indaga la raffigurazione della figura femminile nelle tre raccolte
di racconti Il Paradiso, Un’altra vita e Boh, che Alberto Moravia pubblica tra il
1970 e il 1976. In particolare, l’autore si sofferma sugli elementi di comunanza
delle raccolte, mettendo in luce lo statuto dell’io narrante, la condizione della
donna a metà tra l’integrazione sociale e il mito della “buona selvaggia”, l’alienazione
e il problema del rapporto con il reale. L’ultima sezione è invece dedicata
a una analisi diacronica delle tre raccolte da cui si evince come i racconti
femminili siano l’officina preparatoria del personaggio di Desideria de La vita
interiore (1978).
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This essay aims to study how Alberto Moravia depicts the female character in
his three books (Il Paradiso, Un’altra vita e Boh) that were published from 1970 to
1976. Specifically, the author explores the common elements of the stories, highlighting
the narrator’s voice status, the women’s condition in the 70s between
social integration and the “buona selvaggia” myth, the alienation and the problem
with the reality relationship. The last section focuses, on the other hand, on
a diachronic analysis of the three books, where the female characters are an
anticipation of his famous character Desideria (La vita interiore [1978]).
Francesca Fistetti
Fantasmi, simulacri, pregnant void. Il pianeta azzurro di Luigi Malerba – pp. 373-394
Il saggio mostra come ne Il pianeta azzurro (1986) Luigi Malerba, conducendo a
maturazione il suo antico assillo filosofico-esistenziale circa l’approdo della fisica
moderna alla metafisica, realizzi uno dei più radicali progetti di iper-romanzo
che il postmoderno italiano abbia concepito, mediante il rovesciamento
delle convenzioni del genere romanzesco nella mimesi di un tempo immobile
abitato da uno sfolgorio di simulacri, ossia nel beffardo paradosso della formaromanzo
come mimesi del nulla.
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This essay demonstrates how in Il pianeta azzurro (1986) Luigi Malerba, developing
his nagging philosophical-existential worry concerning the transformation
of modern physics into metaphysics, creates one of the most radical hyper-
novels that Italian postmodernism has conceived by overturning the conventions
of the novel in the mimesis of an immobile time inhabited by glaring
simulacra or in the mocking paradox of the novel as the mimesis of nothingness.
Note e discussioni
BRUNO BONIFACINO
Le lettere di Elena De Bosis a Camillo Sbarbaro – pp. 395-400
Camillo Sbarbaro, poeta ligure della prima metà del ’900, pubblica nel 1963,
dopo la prematura scomparsa della pittrice Elena De Bosis Vivante, brani delle
lettere da lei inviategli fino a pochi mesi prima della sua morte. Intellettuale
dotata di grande sensibilità, moglie dello scrittore Leone Vivante, aveva creato
a villa Solaia, nella campagna senese, un luogo semplice e colto, frequentato da
letterati ed artisti. Sbarbaro, legato da profonda amicizia e affetto, attraverso la
pubblicazione, la sottrae all’oblio: il ricordo, come unica salvezza dalla morte.
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Camillo Sbarbaro, a Ligurian poet from the first half of the twentieth century,
published in 1963, following the premature death of the painter Elena De Bosis
Vivante, excerpts from the letters sent to him by her up until a few months before
her death. De Bosis Vivante was a highly sensitive intellectual, married to
the writer Leone Vivante. At Villa Solaia in the Sienese countryside she fashioned
a simple and cultured home, visited by writers and artists alike. Sbarbaro,
a close friend, by publishing these letters, rescued her from oblivion. Memory
turns out to be the sole salvation in the face of death.
Recensioni
John Butcher
Giovanni Pontano, Actius: de numeris poeticis, de lege historiae,a cura di Francesco Tateo, Roma,
Roma nel Rinascimento, 2018 («RR inedita, saggi 76») – pp. 400-406
Giuseppe Andrea Liberti
Domenico Chiodo, Armida da Tasso a Rossini, Manziana, Vecchiarelli, 2018 – pp. 406-408
Franco Trifuoggi
Asteria Casadio, Ugo Piscopo tra critica e scena, Teramo, Evoé edizioni, 2018 – pp. 408-411
Mara Boccaccio
Vetrine di cristallo. Saggi su Silvana Grasso, a cura di Gandolfo Cascio, Venezia, Marsilio,
2018 – pp. 411-413
Giuseppe Amoroso
Sebastiano Grasso, È ancora tempo di arcobaleni?, Milano, ES, 2019 – pp. 413-414
Giuseppe Andrea Liberti
Dario Malini, La Grande Guerra di Italo Svevo. La scoperta di una fonte letteraria ignota de La
coscienza di Zeno, Milano,
ArteGrandeGuerra edizioni, 2018 – pp. 414-415