NUOVE LETTURE PER MATILDE SERAO
università di Napoli Federico ii 17-18 ottobre 2018
ATTI
a cura di Patricia Bianchi e Giovanni Maffei
SOMMAriO
I. La poligrafa
Donatella Trotta, racconti di un’anima: ritratto (inti- mo) di una poligrafa pag. 649 Vincenzo Caputo, «Io non m’intendo di pittura». Note su letteratura e arti figurative in Matilde Serao » 679 Patricia Bianchi, La scrittura di Matilde Serao per il ci- nema » 693 Cristiana Di Bonito, Da Gibus a Snob: per una lettura lin- guistica di Api, mosconi e vespe al «Corriere di Napoli» » 715
II. Vie: Napoli e l’Europa
Emanuela Bufacchi, Matilde Serao senza Napoli. Per una variazione nella storia (e biografia) della scrittrice » 739 Nicola De Blasi, Una fioraia: una piccola migrante dal ven- tre di Napoli al mondo di “lassù” » 767 Silvia Acocella, il ventre d’Europa. La catabasi di un’ani- ma semplice » 787 Mariella Muscariello, Declinazioni del bovarismo da Verga a Serao » 803 Donato Sperduto, Bravate e gioco del lotto nella Rabouil- leuse di Balzac e nel Paese di cuccagna di Matilde Serao » 813 Antonio Saccone, Domenico rea e raffaele La Capria lettori di Matilde Serao. una breve ricognizione » 827
III. Le tecniche e le poetiche
Paolo Giovannetti, i ‘centri d’interesse’ del Paese di cuc- cagna e altre questioni narratologiche » 833 Filippo Pennacchio, «un pensiero sulla fronte, negli oc- chi, sulle labbra». racconto figurale e istanze melodram- matiche in Fantasia di Matilde Serao » 847
Consiglio scientifico onorario: Guido Baldassarri (Padova) / Andrea Battistini (Bologna) / Nicola De Blasi (Napoli) / Arnaldo Di Benedetto (Torino) / Pietro Gibellini (Venezia) / raffaele Giglio (Napoli) / Gianni Oliva (Chieti) / Matteo Palumbo (Napoli) / Francesco Tateo (Bari) Comitato direttivo-scientifico: Giancarlo Alfano (Napoli – Federico II) / Beatrice Alfonzetti (Roma- Università Sapienza) / Valter Boggione (Università degli Studi di Torino) / Daniela De Liso (Napoli – Federico II) / Maria Teresa imbriani (Potenza – Università della Basilicata) / Valeria Giannantonio (Università degli Studi di Chieti) / Antonio Lucio Giannone (Lecce – Università del Salento) / Simone Magherini (Università degli Studi di Firenze) / Elisabetta Selmi (Università degli Studi di Padova) / Tobia r. Toscano (Napoli – Federico II) / Sebastiano Valerio (Università degli Studi di Foggia) / Paola Villani (Napoli – Università degli Studi Suor Orsola Benincasa) Comitato scientifico internazionale: Perle Abbrugiati (Aix en Provence, Francia – Université de Provence) / Elsa Chaarani Lesourd (Nancy, Francia – Université de Nancy II) / Massimo Danzi (Ginevra, Svizzera – Université de Genève) / Paolo De Ventura (Birmingham, England – University of Birmingham) / Francesco Guardiani (Toronto, Canada – University of Toronto) / Margareth Hagen (Bergen, Norvegia – Universitetet i Bergen) / Srecko Jurisic (Spalato, Croazia – Università di Spalato) / Massimo Lollini (Eugene, Stati Uniti – University of Oregon) / Paola Moreno (Liegi, Belgio – Université de Liegi) / irene romera Pintor (València, Spagna – Universitat de València) Redazione: Daniela De Liso, Vincenzo Caputo Segreteria di redazione: Noemi Corcione (corcione.redazione@criticaletteraria.net) e John Butcher Direttore responsabile: raffaele Giglio.
Concetta Maria Pagliuca, Forme e sostanze della psico- logia femminile nella narrativa breve di Matilde Serao pag. 863 Guido Scaravilli, Dal vero: casi e difetti del reflector cha- racter » 877
iV. I luoghi della fede
Daniela De Liso, Nel paese di Gesù. i luoghi nella scrittura di Matilde Serao » 893 Giovanni Maddaloni, Nel paese di Gesù di Matilde Serao: un’analisi linguistica » 907 raffaele Giglio, L’abiura di Matilde Serao. Dalla Chiesa greco-scismatica alla Chiesa di roma » 925
iNDiCE DELL’ANNATA 2019 (A. XLVii) » 931 iNDiCE DEi COLLABOrATOri » 935 rEFErAGiO 2019 » 936
DONATELLA TrOTTA Racconti di un’anima: ritratto (intimo) di una poligrafa
il saggio illumina alcune facce inaspettate del “prisma Serao” che – ancora oggi – può riservare sorprese: sul triplice versante dei contributi giornalistici, di alcune fonti epistolari inedite (che qui si presentano per la prima volta) e di scritti in apparenza minori o marginali, mai ristampati e tuttavia illuminanti per nuove letture di una grande poligrafa infraseculare. il “caso” Matilde Serao viene così riletto, alla luce di alcune parole chiave, per restituire un ritratto intimo dell’autrice nel suo laboratorio di scritture tra pubblico e privato e tra giornalismo e letteratura, soprattutto nella stagione novecentesca.
★ This essay sheds light on various unexpected facets of the “Serao prism” which – even today – hides its surprises, looking at Serao’s journalistic writings, at several unpublished letters (here presented for the first time) and at pieces that may seem minor or marginal, never reprinted and yet helpful for new readings of a great writer who lived between two centuries. Matilde Serao is thus reinterpreted, on the basis of various key words, with the goal of portraying intimately a writer in her literary workshop, in her public and private life and in her journalism and literary prose, above all within the Twentieth century.
I cuori sono anche motori. L’anima è un’abile forza motrice (Vladimir Vladimirovič Majakovskij)
1. Parole chiave per una premessa La stupefacente plurivocità di Matilde Serao – «un autentico miracolo artistico ed esistenziale»1 – continua, ancora oggi, a riservare agli stu
Donatella Trotta: giornalista professionista de «il Mattino»; saggista e autrice; donatella.trotta@fastwebnet.it 1 Così sintetizza la vita e l’opera seraiane Antonio Ghirelli, in «La Signora» e la Pirchipetola, Prefazione a Donatella Trotta, La via della penna e dell’ago. Matilde Serao tra giornalismo e letteratura, con antologia di scritti rari e immagini, Napoli, Liguori, 2008, sottolineando «la sua partecipazione decisiva al rinnovamento del
I. La poligrafa
donatella trotta650 diosi sorprese e scoperte inattese. Soprattutto sul triplice versante del giornalismo, delle fonti epistolari (a partire da un corposo carteggio inedito di lettere alla figlia, di cui si dà qui per la prima volta notizia diffusa, utile per delineare più compiutamente un ritratto intimo della scrittrice votata al lavoro e alla famiglia, in un costante intreccio tra pubblico e privato, negli anni tra il 1919 e il 1927) e di alcuni scritti in apparenza minori o marginali, mai ristampati e tuttavia illuminanti per nuove letture, ad esempio, delle inclinazioni religiose e della fede dell’Autrice: frammenti di un percorso esistenziale (e spirituale), per un piccolo mosaico di documenti e testimonianze che esemplificano, in concreto, il complesso profilo, talora contraddittorio ma sempre anche unitario, di una donna pionieristica e volitiva, incredibilmente operosa – come si direbbe oggi, con anglicismo alla moda, multitasking – che non si finisce mai di (ri)scoprire. una poligrafa, appunto: la quale non cessò mai di scrivere, sempre, ovunque, di tutto (o quasi), fino alla morte; e per la quale, è stato osservato, potrebbe valere quanto si diceva di Victor Hugo: impossibile studiarla, perché significa sfidare l’immensità (quantitativa, ma non solo). E ciò è vero non soltanto nella più nota e studiata stagione tardo ottocentesca della Serao dei fecondi esordi, ma anche in quella novecentesca della maturità, al centro del presente contributo. Tra le tante possibili parole chiave idonee a connotare allora questo breve itinerario di testimonianza “militante” sul mondo seraiano – da «libertà» a «cuore»; da «viaggio» ad «arte»; da «scrittura» a «donne» fino a «piccole anime», per citarne solo qualcuna – due soprattutto mi sembrano calzanti. La prima è anima: una sorta di passe-partout per penetrare più agevolmente, come vedremo, nelle “stanze” più segrete e private della Serao e della sua scrittura, vocabolo (e concetto) peraltro ricorrente non per caso anche in molti titoli della nutrita bibliografia seraiana, oltre che nel suo personale e originale approccio ai Paesi che ha attraversato2 e nell’impostazione stessa del suo mestiere di scri
giornalismo italiano, la sua magica capacità di guardare nel cuore umano (soprattutto in quello delle donne e dei ragazzi del nostro popolo), la mostruosa disinvoltura nel passaggio dall’articolo all’inchiesta, dalla rubrica al teatro, dalla pubblicità al romanzo, dalla polemica politica alla cronaca mondana» (p. Xiii). 2 Come la Terra Santa: visitata da Serao tra la primavera e l’estate del 1893 con un lungo viaggio dettato da profonda necessità interiore, frutto di travagli pubblici e privati che turbavano l’«anima angosciata» della scrittrice e poi confluito, dopo la pubblicazione in forma di reportage a puntate sul «Mattino-Supplemento», nell’emblematico volume Nel Paese di Gesù. Ricordi di un viaggio in Palestina, Napoli, Tocco, ottobre 1899 (prima edizione stampata, pur essendo stato il libro diffuso
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racconti di un’anima: ritratto (intimo) di una poligrafa 651 vere – nel giornalismo e nella letteratura – anche a conferma di una convinzione di Henri Bergson, per il quale la comunicazione avviene quando, oltre al messaggio, passa un «supplemento d’anima». La seconda, ma non meno cruciale parola chiave, è maternage: comportamento innato, nella personalità (e nelle attitudini alla cura, tout court) di Matilde Serao, ben oltre le attuali accezioni della psicologia e psicoterapia; categoria da inscrivere, semmai, nell’alveo di una dichiarata genealogia al femminile della scrittrice (di madre in figlia, in senso non soltanto carnale ma anche simbolico), anche nel contesto delle sue relazioni di colleganza tra donne e di attenzione al pubblico femminile, olre che a memorabili personaggi femminili interclassisti nelle sue opere, ma pure nell’accezione che ne dava Pietro Pancrazi, quando sottolineava: «Materno fu il suo sentimento fondamentale verso la vita. Nel suo vivace occhio scrutatore, senti sempre presente quella sollecitudine e quella pietà»3; e – oserei dire – in tutto l’arco dell’operosa e instancabile vita di una donna infraseculare e meridiana, dedita alla sacralità del lavoro e degli affetti, non soltanto familiari, tant’è che resta tuttora efficace la nota definizione crociana del 1903, per cui «ella è tutta osservazione realistica e sentimento; o meglio, osservazione mossa da sentimento»4.
2. La miniera d’oro (ancora inesplorata) dei giornali A conferma delle “sorprese” annunciate nella premessa, passo ora ad esemplificarne qualcuna, a partire dal versante professionale che in questa sede rappresento: quello del giornalismo culturale. Se è merito di studiosi come raffaele Giglio, Gianni infusino, Wanda De Nunzio
nelle librerie nell’autunno del 1898), dove la Serao stessa precisa nella Prefazione (datata Gerusalemme, primavera 1893 – Napoli, autunno 1899) la sua volontà/ voluttà tutta spirituale di intercettare e vedere «palpitar l’anima» dei Paesi che attraversa, da viaggiatrice autentica, «pellegrina del cuore», e non da turista di massa perché – scrive – «Ogni paese ha un’anima». E proprio questo libro, più volte ristampato, costituisce allora un significativo spartiacque nella fede e nelle attitudini di Donna Matilde, come documentano anche alcune lettere ad Antonio Fogazzaro, di cui ho dato notizia nel volume/catalogo corale che ho coordinato per una possibile mostra, dal titolo Visibili, invisibili. Matilde Serao e le donne nell’Italia postunitaria, a cura di Gabriella Liberati, Giuseppe Scalera, Donatella Trotta, roma, Cnr/Cug, 2016 (cfr. in particolare pp. 137-148). 3 Pietro Pancrazi, Serao, Milano, Sormani, 1944, vol. i, p. Xii. il riferimento ben si attaglia all’approccio “materno”, appunto, di Serao alla vita e alle relazioni umane. 4 Benedetto Croce, Serao (1903), in id., La letteratura della Nuova Italia, romaBari, Laterza, 1973, p. 32.
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donatella trotta652 Schilardi, Antonio Palermo, Vittoria Pascale (per citare solo alcuni degli iniziatori di un prezioso filone di ricerca5) aver intuito l’importanza cruciale delle fonti giornalistiche per una interpretazione unitaria della prismatica opera complessiva della scrittrice – che di sicuro molto deve anche alla varietà di registri, generi e temi attinti dal mondo della stampa, dall’identità per sua natura «complessa e plurale», stando alla definizione di Giovanni Gozzini6 – è pur vero che a veleggiare nelle acque della oceanica (e non è un’iperbole!) produzione di Donna Matilde si corre davvero il rischio di naufragare; o, nella migliore delle ipotesi, di scoprire quasi per serendipità nuove rotte e nuove isole ferdinandee, esistite per un po’ e poi inabissatesi di nuovo. E tuttavia proprio l’“industria del presente”, fatta da quegli “storiografi dell’istante” che sono i giornalisti, può offrire una dimensione ermeneutica preziosa e nuova, in una ridefinizione complessiva dell’idea di cultura che proprio nel giornalismo trovi un mezzo, e una metafora, dal valore esplicativo forte per ricostruire inattesi paesaggi culturali. Non è forse superfluo ricordarlo, soprattutto oggi: in tempi di indebolimento dell’esercizio etico della memoria collettiva condivisa, di contrazione della Storia nell’istruzione pubblica italiana, di perdita di credibilità e autorevolezza degli enti intermedi e di disintermediazione digitale, con le conseguenti derive populiste, le tendenze all’o
5 Ambito di studi rilanciato – dopo le manifestazioni realizzate per sei mesi a Napoli nel maggio-ottobre 1977 per il cinquantenario della scomparsa di Matilde Serao – in occasione del primo centenario del «Mattino» (coi contributi convegnistici confluiti nella pubblicazione dell’Album Serao, Napoli, Fausto Fiorentino, 1991, a cura di D. Trotta) e successivamente approfondito, con ampio respiro, nei saggi per il grande convegno di studi promosso dall’università L’Orientale di Napoli, i cui Atti sono stati pubblicati a cura di Angelo r. Pupino: Matilde Serao. Le opere e i giorni (Napoli, 1-4 dicembre 2004), Napoli, Liguori, 2006. 6 Giovanni Gozzini, Storia del giornalismo, Milano, Bruno Mondadori, 2000: dove si sottolinea come la peculiare vocazione «missionaria e pedagogista» della stampa periodica italiana, nata in ambito politico, in epoca risorgimentale, sia poi maturata – anche grazie all’esercizio del nuovo mestiere proprio da parte di figure innovatrici come Matilde Serao – come nuova cultura della notizia presso i pubblici dell’italia post-unitaria (pp. 80-83; 86; 94-95; 183). Non per caso Franco Contorbia ha ritenuto di antologizzare e curare, per la prima volta, il giornalismo italiano dal 1860 al 1901 nei quattro volumi dei Meridiani Mondadori, confermando così la “pari dignità” delle fonti giornalistiche nella ricostruzione della Kulturgeschichte: cfr. F. Contorbia, Giornalismo italiano, vol. i: 1860-1901 (Milano, Mondadori, 2007); idem, Giornalismo italiano, vol. ii: 1901-1939, Milano, Mondadori, 2007; idem, Giornalismo italiano, vol. iii: 1939-1968, Milano, Mondadori, 2009; idem, Giornalismo italiano, vol. iV: 1968-2001, Milano, Mondadori, 2010.
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racconti di un’anima: ritratto (intimo) di una poligrafa 653 blio e ai negazionismi e gli attacchi alla stampa come sentinella di democrazia. Ma, parlando di Donna Matilde, bisogna armarsi di pazienza certosina, tenacia e fiuto da segugi, a caccia di asparagi selvatici: o meglio, in cerca di tartufi, se preferite la metafora usata da Anna Banti per la narrativa seraiana, concepita dalla più importante biografa novecentesca della Serao appunto come «una terra di tartufi: non tutti i cani sanno scoprire a fiuto il prezioso tubero»7. Così, è capitato che uno dei più recenti contributi proprio sul ruolo di Serao (e di altre donne) nella temperie giornalistico-culturale italiana ed europea, con tanto di sintesi aggiornata (al febbraio 2016) delle testate da Serao stessa fondate, dirette, prodotte con o senza Scarfoglio, e delle indefesse e assidue collaborazioni con giornali e riviste a roma, Milano, Torino, Genova e all’estero, soprattutto in Francia8, sia stato superato, già nel settembre 2017, dalla rivelazione di ulteriori testate, ignote ai più, ma recanti l’illustre firma della scrittrice e giornalista napoletana originaria di Patrasso: dagli esordi giornalistici di “Matildella” fino al 1925, due anni prima della morte della prolifica autrice. La nuova scoperta è stata fatta conoscere al pubblico da Salvatore Maffei, presidente dell’Emeroteca-Biblioteca Tucci di Napoli, con la mostra da lui curata Viaggio alla scoperta della Serao giornalista attraverso 70 rare testate italiane e francesi (esposta nel Palazzo delle Poste del capoluogo campano in piazza Matteotti, dal 20 settembre 2017 al 31 ottobre 2017), un work in progress di cui è in preparazione un ampio catalogo illustrato di tali giornali, riviste o strenne rarissimi (molti addirittura esclusivi per l’italia) e rivolti ad un pubblico eterogeneo e interclassista di adulti, ragazzi, signorine e signore9. Non stupisce dunque che Serao fu definita dal prestigioso settimanale parigino «Le Monde illustré» (diretto da Édouard Desfosses), in un lusinghiero “medaglione” con foto a lei dedicato il 17 giugno 1899: «romanziera e giornalista italiana» dal «talento universalmente noto», ma anche «viva, briosa, spirituale, lavoratrice, infaticabile»; «M.me Matilde Serao riassume
7 Anna Banti, Matilde Serao, Torino, utet, 1965, p. 156. 8 Si veda D. Trotta, Il demone del giornalismo: Serao e l’altra metà della stampa, in Visibili, invisibili, cit., pp. 171-225. 9 Salvatore Maffei, dopo aver accresciuto il corpus giornalistico seraiano fino ad allora conosciuto raggiungendo il ragguardevole numero di 70 testate individuate – in parte già in possesso della Tucci e altro acquisito per l’occasione – lo ha quindi ulteriormente ampliato, con una febbrile ricerca che non è ancora finita, raggiungendo la cifra di oltre 150 acquisizioni di giornali che ospitarono i contributi di Donna Matilde.
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donatella trotta654 tutte le qualità dell’uomo di lettere a cui aggiunge la grazia e la squisita sensibilità del suo sesso»10. Giudizio per i tempi lusinghiero, peraltro in buona compagnia con un analogo (e sapido, per lo Zeitgeist che esprime) “medaglione” pubblicato invece precedentemente in italia, il 9 marzo 1884 (Matilde era all’epoca ventottenne), sul giornale milanese «il Convegno», nella sezione «Letteratura e letterati: le donne che scrivono». Dove si legge: «Ecco quel che si dice un originale, e come donna e come scrittrice […] la signorina Serao ha avuto in sorte un sentimento artistico dei più spiccati, ma non l’indole molle e svenevole, che si suole attribuire ai meridionali, e che al postutto converrebbe al sesso gentile più che al nostro. Di fisico è piuttosto bella, una bellezza decisa, maschia, assai simpatica. Oggi non è più giovane, giovane. La signorina Serao è scettica, bizzarra, bizzarra e indipendente, come l’arte che brilla nei suoi scritti. Essa si ride egualmente degli adoratori come dei calunniatori […] coi suoi frizzi mordaci… […] Se la Colombi vi fa sorridere, se la Neera vi tocca il cuore, la Serao vi agita, vi scuote, vi scalda la mente, vi tormenta i nervi […], se li avete troppo sensibili»11. Oppure, si pensi all’eloquente giudizio elogiativo apposto nel 1904 ad un racconto di Matilde Serao (dal titolo Una confessione. Racconto di una notte d’inverno) sul giornale milanese «il Secolo XX» che l’ospita nelle sue pagine: «il lavoro di Matilde Serao è sempre un avvenimento letterario: la squisita fantasia che adorna le pagine del Secolo XX è documento della fervida arte della scrittrice napoletana, ed è una primizia. Ormai i suoi scritti sono disputati dalle migliori riviste estere e il suo nome, specialmente in Francia, ha raggiunto grande fama». E più avanti: «Bourget, presentando un suo grande romanzo in una grande rivista, scriveva di lei: le minime sfumature dei caratteri, le minime particolarità degli esseri e delle cose si riproducono nella sua immaginazione con intensità violenta. Le qualità concrete di quest’arte: dramma e movimento»12. Per questa riconosciuta capacità narrativa la grande «napoletana di Patrasso», la «George Sand italiana», la «Balzac in gonnella», come fu denominata, madre fondatrice del «Mattino» (e non solo), era sin da giovanissima assai richiesta – a livelli oggi inimmaginabili sul mercato editoriale – da una miriade di testate, piccole medie e grandi, non soltanto italiane, a cui concedeva i propri contributi di generi diversi:
10 «Le Monde illustré», 17 giugno 1899. Mia è la traduzione. 11 «il Convegno», 9 marzo 1884. 12 «il Secolo XX», iii, n. 1, gennaio 1904.
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racconti di un’anima: ritratto (intimo) di una poligrafa 655 dalle note di costume alle recensioni, dalle riflessioni sulla donna, la maternità e l’amore a racconti, novelle, reportage di viaggio, commenti, fiabe per bambini, lettere e polemiche letterarie. Qualche esempio? Tra le testate non presenti in altre biblioteche italiane in possesso della Tucci, vale la pena di segnalare «il Pungolo della domenica» del 1883, con una riflessione seraiana particolarmente significativa dal titolo Nihil, dove Donna Matilde discetta su scrittura e scrittori, critici e gazzettieri, direttori di giornali ed editori, incastonando nella riflessione anche cammei comparativi sulle città a lei più familiari: Torino «capitale dinastica», Milano «capitale morale», Napoli «capitale della bellezza», Firenze e Venezia «capitali dell’arte», Bologna «capitale della poesia e della scienza», fino ad arrivare alle descrizioni di roma, e di Parigi, dove si rafforza la cifra ironica che permea il testo, presente sin dall’incipit: «Voi mi scrivete: mandatemi quello che volete, un corriere romano o una novella. il che è perfettamente amichevole e cortese nella forma come nell’intenzione, ma riempie il mio spirito di malinconia»13. il perché, Serao lo spiega poco dopo paragonando gli scrittori ad Amleto, principe della «voluttà dell’indecisione»: anche lo scrittore è creatura dalla vacillante volontà, che lo fa sembrare libero e indipendente, mentre in realtà è «quello che più obbedisce al dispotismo delle cose e degli uomini», e «più ama di essere tirannizzato». Felice, soggiunge provocatoria Serao, «il giornalista che ha per direttore un Nerone, felice lo scrittore che ha per editore un Dionigi di Siracusa»; e «felice il romanziere che ha un usuraio spietato da pagare» perché «tutti costoro trovano accanto ai loro sogni, accanto alla loro fantasia, la rude volontà che li obbliga al lavoro». Parole, queste, che sembrano echeggiate da quanto Matilde Serao confiderà alla figlia Eleonora Natale, in una lettera del 1921: «Tu sai che il rimorso dell’ozio mi tortura segretamente. io, è inutile, sono grafomane, come diceva il povero Scarfoglio14; e la carta, la penna e il calamaio sono le sole cose che mi avvincono, fra tutti gli oggetti di questa terra»15. L’apparente paradosso tra tentazione della pigrizia e operosità febbrile è del resto in piena coerenza con quanto Serao esponeva, in
13 M. Serao, Nihil, «il Pungolo della Domenica», 11 febbraio 1883, p. 7. 14 Scarfoglio era morto il 15 ottobre 1917. 15 Lettera inedita di Matilde Serao alla figlia Eleonora del 24 gennaio 1921, già da me citata in Ritratto di una “grafomane”: un miracolo artistico ed esistenziale, apparso nel volume miscellaneo Visibili, Invisibili. Matilde Serao e le donne nell’Italia postunitaria, cit., p. 39.
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donatella trotta656 nuce, nella sua introduzione alla seconda edizione del 1890 dell’operina giovanile Leggende napoletane (concepita a 17 anni, scritta ventenne e pubblicata a 25 anni, Milano, Ottino 1881), «libro d’immaginazione e di sogno» che tra l’altro contrappone un «fantastico meridionale» al «fantastico nordico» per prendere poi, dichiaratamente, le distanze rispetto alla “dittatura” del reale16; oppure, si pensi alla novella giovanile La storia di Mario, significativa in quest’ottica ma pressoché dimenticata, apparsa per la prima volta su «il Piccolo» il 2 febbraio 1879, poi raccolta nella prima edizione di Dal vero dello stesso anno, quello per lei drammatico della morte della madre, Paolina Borely, nella casa in via Magnocavallo, oggi via Francesco Girardi: una delle dimore seraiane, in una geografia delle emozioni e degli affetti della scrittrice ma anche del suo perenne peregrinare, in cui le case diventavano rifugi considerati da Serao aderenti alla nostra anima come una veste invisibile, ma infine mai più ristampata nelle edizioni successive della raccolta o in altri volumi, diventando così “invisibile”. Opportuno invece riproporla oggi, soprattutto per la sua valenza velatamente autobiografica, dissimulata nel protagonista maschile della storia – un bambino svogliato negli studi, innamorato solo della madre e folgorato sulla via della lettura dalla scoperta di un volume illustrato delle opere di Shakespeare, che lo spingerà sulla via della scrittura – quasi a prefigurare temi significativi e una parabola esistenziale in parte vissuta dall’autrice stessa. Ma ciò che in questo testo sorprende è soprattutto il fatto che l’allora giovane scrittrice (aveva 22 anni) già si ponesse con lucida e precoce consapevolezza interrogativi esistenziali che attraverseranno sottotraccia tutta la sua opera, in perenne conflitto tra quelli che lei stessa definiva i «lenocinii della penna» e «l’arte». Tornando all’articolo Nihil, appare inoltre degno di attenzione – soprattutto per le strategie comunicative della Serao che, come è noto, molto si ispirava al costume e alla letteratura di Parigi e molto mutuava dalle tecniche dei giornali francesi: tra le quali, la sinergia tra diversi mezzi di comunicazione, destinata ad avere una grande fortuna, come avvenne al parigino «Le Petit Journal», fondato nel 1863 da Moïse Millaud – il passaggio in cui l’autrice punzecchia M.me Girar
16 M. Serao, Leggende napoletane, Milano, Ottino, 1881. Cfr. la riedizione contemporanea Leggende napoletane. Libro d’immaginazione e di sogno, Lacco Ameno d’ischia (Napoli), imagaenaria edizioni, 2004, in particolare pp. 27-28 (La storia della leggenda, datata «Margellina, dicembre 1890») e pp. 29-30: Parthenope (La città dell’amore).
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racconti di un’anima: ritratto (intimo) di una poligrafa 657 din17: illustre consorte dal 1831 di quell’Emile de Girardin (1806-1881), giornalista e uomo politico che nel 1836 accolse, sul suo giornale a basso costo «La Presse», l’ingresso del feuilleton nei giornali, grazie anche alla pubblicità e – appunto – all’uso sinergico dei media. Scrive puntuta Serao: «La signora Girardin è stata favorita da tutto: dal suo salone dove si creavano le riputazioni letterarie e le fortune politiche, da suo marito che era il principe della stampa francese, dalla sua posizione di donna bella e giovane a cui tutti venivano a rendere omaggio, da quel grazioso spirito d’intrigo che rende la donna francese la base della politica». E aggiunge: «L’avvenimento era lei che lo faceva o lei che lo dominava. Parigi lei la possedeva. Parigi, dove tutti i mondi tendono a fondersi…»18.
3. Una “protacronista” tra potere della seduzione e seduzione del potere Non c’è da meravigliarsi, dunque, che nella stampa del suo tempo Matilde Serao sia divenuta precocemente una “protacronista” (cronista-protagonista), cosciente del «bisogno del sogno» sotteso a ogni percorso di emancipazione non solo femminile, nel complesso gioco di ruoli e dissimulazioni tra realtà e finzione (sociale e letteraria), vita e scrittura (giornalistica e narrativa), segno e gesto, seduzione del potere (maschile) e potere della seduzione (delle donne). un “gioco” che ha seriamente governato l’intera sua vita di caleidoscopica giornalista per convinzione e professione, scrittrice per passione, e insieme abile e consapevole regina dell’oralità secondaria e di una pionieristica comunicazione di massa capace di passare dall’impegno nella sfera dell’etica (con la sua forte anima sociale) a quello, persino, nel campo dell’“etichetta”19, intrecciando, così, la denuncia sociale alle cronache
17 Ovvero la scrittrice francese Delphine Gay de Girardin (1804-1855), autrice di successo con lo pseudonimo di Visconte Charles de Delaunay. 18 M. Serao, Nihil, «il Pungolo della Domenica», 11 febbraio 1883, p. 7. 19 Come bene e opportunamente sottolinea Paola Villani nel suo libro Ritratti di signore. I galatei femminili nell’Italia belle époque e il caso Serao, Milano, Franco Angeli, 2018, dove testi ai margini della storiografia letteraria (come i galatei) e soprattutto il volume seraiano Saper vivere. Norme di buona creanza, riletti in circolarità dialogica con la scrittura giornalistica e narrativa e in una prospettiva storica o sociologica, offrono secondo la studiosa un significativo contributo alla Kulturgeschichte dell’italia infraseculare, e svelano una precisa «funzione Serao» (ivi, p. 154) nell’evolversi di quello che Gabriele D’Annunzio definì Il bisogno del sogno (in un suo articolo su «il Mattino», 31 agosto-1 settembre 1892) e dunque della (in)formazione dell’opinione pubblica nell’italia post-unitaria.
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donatella trotta658 della frivolezza, la novellistica e le architetture romanzesche corali a quei sagaci “capricci dell’intelligenza” che sono le note di costume, le norme di convivenza (e convenienza) e le tracce di condotte esemplari: tutti tasselli di un mosaico che può aiutare a ricostruire con più completezza, e profondità, il paesaggio (letterario, antropologico e sociale) di un’epoca di transizione tra Otto e Novecento. un’epoca nella quale l’in-formazione aveva un ruolo progettuale (ben oltre il nascente “mercato”) e anche educativo determinante, nella costruzione di modelli, di identità, di mentalità collettive e di una “grammatica” della socialità (femminile e maschile, declinate entrambe al plurale), ciò che rivela, in fondo, la funzione civilizzatrice e relazionale della scrittura come potente strumento di emancipazione non solo di genere, in un continuo rinvio intertestuale che conferisce valore anche alle cosiddette scritture paraletterarie, o “di confine” tra giornalismo e letteratura. Di qui, ancora, l’interesse (a corroborare la statura europea e tutt’altro che localistica della Serao, se permanesse qualche dubbio) della scoperta di ulteriori testate italiane e francesi dimenticate, o misconosciute dai più, dove il talento di questa autodidatta di genio, self made woman, imprenditrice culturale d’antan e artefice forse ingenua, ma non certo involontaria delle strutture industrial-espressive della letteratura, ebbe modo di moltiplicarsi per un pubblico ben più vasto di quello napoletano. Basti pensare – per anticipare qualche altro esempio che confluirà nel catalogo della «Tucci» curato da Salvatore Maffei – alla schiera di giornali francesi rari o poco noti che ospitano con orgoglio la firma seraiana come un fiore all’occhiello20: il parigino «Le Monde moderne» del 1898, che pubblica L’Idylle de Polichinelle (poi ripubblicato anche da «Les Heures Litteraires illustrées», Parigi 1909); «Mon dimanche», rivista “popolare” che ospita una «grande novella inedita» di Matilde Serao, Le Pelerin passionné nella traduzione di Macchiati, e il bellissimo giornale «Le Gaulois du Dimanche» del 1908, che presenta e stampa con fierezza un «racconto inedito» seraiano, Madame la Marquise. Materiali di studio che si arricchiscono, ancora, con altre tracce seraiane, nelle riviste «La revue de Paris» (1898); «La revue Blanche» (1899); la «revue des deux Mondes» (1901); «Lyon repubblicain Dans la Famille» (1902); «L’illustration Theatrale» (1907),
20 Si tratta tuttavia, comprensibilmente, nella quasi totalità dei casi, di traduzioni di novelle e altri testi già pubblicati con successo in italiano: a testimonianza comunque della celebrità non soltanto italiana della operosa e contesa autrice fuori dei confini nazionali.
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racconti di un’anima: ritratto (intimo) di una poligrafa 659 raffinatissima nella splendida grafica illustrata, che ospita il testo teatrale di Aprés le Pardon (Dopo il perdono), a due mani con Pierre Decourcelle (che debuttò a Parigi il 19 novembre al Théàtre réjane); e ancora il «Figaro», sempre del 1907; «Les Annales Politiques et Litteraires» (che ripesca una delle Leggende napoletane); «Je sais tout» (1910) e «La revue Française» (1924). Molte altre pubblicazioni acquisite dalla Tucci sono conservate soltanto a Firenze, presso la Biblioteca Nazionale Centrale, ma non sono consultabili in quanto “alluvionate” dall’esondazione dell’Arno nel 1966. Non solo, perché l’importanza della mostra temporaneamente esposta a Napoli, come detto, dal 20 settembre 2017 al 31 ottobre del 2017 alla “Tucci” (e dell’imminente atteso catalogo della benemerita Emeroteca Biblioteca partenopea) è dovuta inoltre al ritrovamento di scritti seraiani mai citati sinora dai biografi della scrittrice e invece presenti in giornali e riviste di varie città italiane, da roma a Milano, da Torino a Genova: come la «rivista Nuova di Scienze Lettere e Arti» e «il Convegno» (1880); «La Tavola rotonda» (1892), dove Serao fa considerazioni su Una canzone; e ancora, «La Tribuna illustrata» (1893), «La Piccola Antologia» (1894), «Capitan Cortese» (1896), «Corriere d’Arte» (1898), «illustrazione Meridionale» (1900), «Mater Suavissima» (1901), «rinascimento» (1905), «Per la Calabria» e «Pro Calabria» (1906), «La Gioventù» (1907), «L’Arte Muta» e il «Nuovo Convito» (1916).
4. L’antifascismo e i rapporti ambivalenti con Mussolini A cent’anni dalla prima guerra mondiale, non mancano nemmeno testimonianze sul conflitto, e i suoi giovani soldati, da parte dell’autrice dello struggente Mors tua (Milano, Treves, 1926, romanzo antibellico in tre giornate ristampato nel 2016 a roma dalle edizioni Studio Garamond), che costò definitivamente il premio Nobel a Matilde Serao: donna d’ingegno, e di cuore, che si dichiarava apertamente antifascista, anche se non necessariamente antimussoliana. Atteggiamento in apparenza contraddittorio che tuttavia emerge con definitiva e direi risolutiva chiarezza nei carteggi privati: fonti illuminanti per ricostruire più in profondità la biografia letteraria, la genesi di alcune opere, il metodo del febbrile lavoro della scrittrice, la fitta trama delle relazioni (intime e pubbliche) seraiane, il paesaggio interiore della donna e la sua complessa personalità (a volte troppo frettolosamente rubricata, ancora oggi!, sotto etichette semplicistiche e banalizzanti) e – infine – l’evoluzione dell’“ultima” Serao, nel periodo che va dagli anni Dieci fino alla morte nel 1927.
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donatella trotta660 Sono fonti che quando emergono – come punte dell’iceberg seraiano ancora in parte sommerso – aiutano a precisare meglio anche quelle parole-chiave da cui sono partita: maternage; anima, intesa sia sul versante della spiritualità e della fede, sia su quello del cuore (pensante) dell’autrice; libertà. Basti solo ascoltare, su quest’ultima parola chiave, quanto Serao scrisse con il consueto coraggio e l’abituale schiettezza, il 5 novembre 1922, alla prediletta figlia Eleonora (in pieno clima di preoccupazione per le forti tensioni sociali e politiche, dopo la marcia su roma, le violenze squadriste e gli attacchi alla stampa indipendente): «Con te, figlia carissima, non voglio parlare di politica. io ebbi da Dio un’anima libera: ma la mia coscienza, è stata mortalmente offesa dall’uomo che governa l’italia: ma io ho antichi amici, che egli odia e che combatterà accanitamente. Così, io mantengo il mio diritto di critica politica: e lo voglio esercitare altamente e tena cemente»21. il primato della coscienza prende il sopravvento anche sulle divergenze ideologiche con la figlia, da parte di Donna Matilde che si dichiara in aperto contrasto con il totalitarismo fascista, come viene precisato in una lettera precedente, all’indomani della marcia su roma (dove Eleonora viveva)22. una lettera nella quale Serao parla angosciata dell’«inaudito periodo, in cui il Signore ha permesso, come nostra tribolazione, di farci vivere», e s’interroga accorata: «Tu non sei tribolata, perché sei fascista? No, non posso credere che […] questo terribile contrasto di idee, di spiriti, di persone, non può lasciarti tranquilla»; e aggiunge, con una eloquente testimonianza sulla sua sensibilità vibratile, in ascolto costante del mondo circostante: «il caos di questi giorni è troppo forte, troppo vasto, perché io me ne distacchi, ne esca fuori e, poi, mi concentri in me, come se il caos non esistesse». Tra le «devastazioni» Serao cita quelle dei giornali non allineati a Mussolini,
21 Questa, come le altre lettere dell’intero epistolario con Eleonora, che citerò più avanti, sono tutte inedite ed in mio possesso grazie alla generosità dell’erede diretta. 22 Lettera datata 1° novembre 1922, su carta intestata “riviera di Chiaia 264 Napoli”, nella quale Serao, dopo aver esordito rievocando con accenti struggenti il “colpo profondo” subito dall’operazione di esumazione dell’ex marito Scarfoglio, per il quale rinnova le proprie preghiere e il devoto ricordo, si sfoga apertamente con la figlia sul pesante clima di tensione che funesta l’italia turbando la sua sensibilità di scrittrice: «Ancora si devasta, ancora si brucia, ancora si uccide» scrive Matilde con un lucido e puntuale resoconto di quei giorni di attacchi anche alla stampa in cui ella rivendica il proprio «diritto di critica austera» che intende esercitare.
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racconti di un’anima: ritratto (intimo) di una poligrafa 661 che «risponde seccamente», riporta angosciata Donna Matilde alla figlia: «la stampa deve essere degna della libertà. Ma che ci vuol fare? Non farci uscire più? Espellerci?» prosegue Serao, disposta persino ad accettare il confino e l’esilio: «figlia mia – scrive infatti Serao – mi ci voglio far mandare, se egli tanto desidera […]. Sono vecchia giornalista, ho un giornale di ordine, che mi è costato milioni, ma ho avuto anni di insulti sanguinosi, da costui; voglio giudicare il fascismo al governo». Che Donna Matilde sia stata antifascista, ma non necessariamente antimussoliniana, è acquisizione corroborata anche dalle testimonianze dei diretti discendenti; e basti qui ricordare anche l’amicizia della scrittrice con Giovanni Amendola, direttore del quotidiano «il Mondo», che il 1° maggio 1925 pubblicò il Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce firmato anche dalla Serao. Tant’è che il 23 novembre 1922, in un’altra lettera inedita alla figlia Eleonora, Serao punzecchia la nota Agenzia di stampa Stefani, perché «batte le fiacca o canta solo le laudi mussoliniane»…; mentre il 3 dicembre dello stesso anno aggiunge, precisando la posizione propria e del giornale da lei fondato e diretto dal marzo 1904, «il Giorno»: «Adesso, che io ho affermato la mia dignità personale e lo spirito d’indipendenza del mio giornale, posso anche permettere che si dica bene di Finzi […] … anche del Duce, ogni tanto. E nulla è più inebriante di questa libertà». Giornale che Serao intende fare, contro la crescente violenza dei fasci, «libero e frondeur» (lettera a Eleonora del 28 febbraio 1923) e che il 7 febbraio 1924, in piena «confusione in campo elettorale» così connota, con malcelata fierezza: «la nostra posizione politica, come giornale di opposizione, è diventata molto importante»23; mentre sfoderando il suo indomito ottimismo della volontà, contro l’inevitabile pessimismo della ragione, conclude, citando a supporto delle sue speranze alcuni versi di Heine: «tacerà, tacerà questa severa eco – del mio dolore – E di certo una nuova primavera rifiorirà dal risanato cuore… Così sia!». Salvo poi scrivere scorata, due anni dopo, in una lettera da Napoli alla figlia datata 24 novembre 1926 – a otto mesi dalla morte della
23 Concetto ribadito con lucido pragmatismo, in strenua difesa della libertà di stampa, nella rubrica seraiana Dietro il Paravento, su «il Giorno» del 18 aprile 1924, quando scrive con malcelato orgoglio unito a una dolente quanto lungimirante lucidità: «Noi siamo tra quei giornali che non vollero piegare la schiena al nuovo regime, chi vi scrive non nacque servo di nessuno, ma non siamo purtroppo né liberi né indipendenti, perché purtroppo la stampa non è più né libera né indipendente».
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donatella trotta662 scrittrice – che suona oggi quasi come un testamento spirituale dettato dalla sua tempra di combattente: «vi è lotta giornalistica, sorda, anche contro il giornale […] bisogna vegliare. Bisogna tener asciutte le polveri. Bisogna, sovra tutto, fare un buon giornale. La gente non ama più i giornali. E noi dobbiamo vincere questo senso di fastidio, anzi di nausea che ha il pubblico. L’abbonamento è appena cominciato. Mi pare stentatello. Bisognerà rinvigorirlo. E così, carissima figlia, io debbo rimanere qui, come una sentinella perduta, sola, a guardare nell’ombra, con gli occhi che mi si stancano, se un nemico si approcci».
5. Le vie dello spirito nelle lettere a Eleonora Questi sommari stralci epistolari sono tratti, come ho avvertito in nota, da un ampio corpus inedito, manoscritto e autografo di 453 lettere di Matilde Serao alla figlia Eleonora: avuta – come è noto – dal secondo compagno di vita della scrittrice, l’avvocato e giornalista Giuseppe (Peppino) Natale24, di 14 anni più giovane di lei, con cui la scrittrice convisse, dopo la separazione da Edoardo Scarfoglio nel 1904, fino alla morte di Peppino nel 1926. Eleonora – chiamata così in omaggio alla Duse, amica di una vita – fu l’unica amatissima e desiderata figlia femmina (dopo i quattro maschi noti come “Scarfoglietti”) che Matilde Serao ebbe quarantaduenne, il 28 dicembre 1898 (e proprio il carteggio mi ha permesso di stabilire finalmente la data della nascita); giovanissima, andò sposa al nobile piemontese Carlo Piero Taglioni il 12 giugno 1919: e il fitto e fluviale epistolario seraiano inizia non a caso proprio il 13 giugno 1919, giorno dopo le nozze e il trasferimento di Eleonora da Napoli a roma, per cessare solo con la morte della scrittrice, nel luglio 1927. il massiccio corpus di lettere materne seraiane – come è facilmente intuibile – appare prezioso come uno scrigno segreto colmo di tesori ma anche impegnativo, come la «sfida dell’immensità» di cui dicevo in apertura, in particolare per la delicatezza di vicende personali da mantenere – come è intuibile – rigorosamente e doverosamente riservate. Non a caso, l’epistolario in originale è custodito gelosamente e con devozione dall’erede diretta, la brillante nobildonna Adriana Taglioni Gherardini, nonagenaria figlia unica di Eleonora Natale, artista poliedrica dai molti talenti creativi e dall’acuta sensibilità, degna nipote
24 Lucano originario di San Chirico raparo (Potenza), nato nel 1870 e morto nel 1926 e imparentato con la famiglia notabile dei Calabrese di Calvera, fu consigliere alla Provincia di Potenza, Grand’ufficiale, avvocato e giornalista.
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racconti di un’anima: ritratto (intimo) di una poligrafa 663 dell’illustre nonna, a cui mi lega un filiale affetto, unito alla gratitudine e al rispetto per la sua generosità nella condivisione di tali materiali riservati, tanto ricchi di notizie quanto emotivamente avvincenti. Si tratta di informazioni (come certe curiosità relative ai “metodi di sopravvivenza” di Donna Matilde, con un litro di caffè al giorno sorseggiato in tre riprese, o il ricorso della scrittrice all’omeopatia per curarsi, o la sua passione per le piante e gli animali da compagnia amati come bambini) non soltanto intime e domestiche (che, s’intende, non saranno mai violate per espressa volontà dell’erede); ma anche e soprattutto professionali: di non poco interesse per la comunità pluridisciplinare degli studiosi, con il loro valore aggiunto che spazia dalla letteratura al teatro, dalla storia al costume fino alla linguistica (per le consuete ibridazioni lessicali di Serao profuse anche nell’epistolario indirizzato a Eleonora, dove l’italiano si mescola al francese e a qualche gustosa espressione dialettale, in un costante intreccio pubblicoprivato congeniale all’autrice che, nel dialogo fitto e spontaneo con la figlia, utilizza, di getto, anche altri registri non del tutto scontati nella sua cifra stilistica). in questi testi manoscritti autografi, si oscilla tra malinconia e ironia; tra infinita, indicibile tenerezza (struggenti molte pagine sul maternage, carnale e simbolico, seraiano) e inflessibilità (ad esempio, sulla sacralità del lavoro e dell’indipendenza ribadita costantemente, anche nell’azione maieutica con la giovane figlia incitata a coltivare i suoi talenti, pure nella scrittura: tanto che fra il resto Eleonora collaborò con «La Nuova Antologia»); e ancora, si fluttua tra inaspettata vulnerabilità interiore (confidata solo ed esclusivamente alla sua “figlissima”25 e al genero, adottato senza riserve come “figlio piemontese” in una sorta di fluviale romanzo epistolare/familiare di grande interesse) e la proverbiale, sovrumana forza di volontà «ben tetragona ai colpi di sventura», nei complicati meandri di una vita instancabilmente operosa. Fino all’ultimo istante. E se è vero che la statura di una persona si misura solo alla sua fine, allora è proprio in queste testimonianze vive, palpitanti e sincere della scrittrice in dialogo intimo con la figlia che ciò si precisa, soprattutto in certe lettere poco prima della morte che confermano la mia tesi di una profonda e radicata spiritualità seraiana che così si esprime, in una lettera del 1° maggio 1927:
25 L’uso ardito scherzoso del superlativo per il sostantivo relativo ai propri figli Serao lo riservava soprattutto a Eleonora e al primogenito Antonio Scarfoglio, detto il “figlissimo”, appunto.
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Mia carissima Eleonora […]. Ora che ti ho messo al corrente di tutto, desidero che tu non ti affligga per me. […] E sappilo, il fondo del mio animo è tranquillo. La mia fede in Dio è diventata più chiara e più intensa. Prego molto, nel silenzio e nella solitudine della mia casa: ho dei buoni ed elevati libri di religione che leggo spesso: e i miei notturni colloqui con la Divinità sono sorgente di calma e di pazienza. Dio, Eleonora, non mi abbandona. Sento la sua mano che, talvolta, si piega su me e io mi curvo, obbediente: ma la stessa mano mi solleva. Nelle mie preghiere voi tutti, figli miei, siete presenti e tu, specialmente, petite dernière. Chieggo a Dio che mi dia la sua luce splendente, perché possiate leggere nella vostra coscienza: e so che Esso vi ama e che voi Lo amate, oltre le contingenze umane.
una vita spesa per gli altri che Serao stessa così connota, definendosi, in una precedente lettera del 25 ottobre 1921, «spirito segretamente inquieto»: «Tu sai bene che io mi sono assuefatta a una vita singolare, e, forse, non ne potrei fare un’altra: ma, ogni tanto, questa vita mi ferisce, con una delle sue punte sottili o con varie delle sue punte». Ma, aggiunge, «io mi guarisco, da me, perché tante cose belle ha la mia vita, cinque figli magnifici, un genero maestoso, qualche lettore che si commuove alle mie storie… anche le mie storie mi son care e una delle mie inquietudini, adesso, è di non poter continuare a scriverle, ogni giorno un poco, come facevo in Engadina, “beata solitudo, sola beatitudo”». E l’Engadina, luogo privilegiato di vacanza della Serao, compare anche in un’altra lunga e intensa lettera del 21 maggio 1921, illuminante per l’approccio della scrittrice al giornale, al lavoro, all’arte: Continua un po’ di lavoro, per me, nel giornale, perché esso va troppo bene, perché io me ne disinteressi. Tu sai che il successo mi eccita: e che, ogni tanto, la vecchia zampa leonina ingranchita dall’età e dalle noie, si mette a graffiare. Anche, il giornale, ha bisogno adesso di aria e di libertà: grazie a Dio le sue condizioni gli permettono di dire molte verità. E che successo, hanno le verità! Anche, questo lavoro mi distrae e mi tiene in forma, per riprendere, quando che sia, la mia letteratura. Debbo riprenderla! io sono come «Aligi, pastore, povero di Cristo», cioè «alla montagna debbo ritornare», e non si tratta solo di una Engadina materiale: ma di una Engadina morale, su cui ascende l’anima mia, quando fa dell’arte. E i soli giorni di consolazione sono quelli in cui ho lavorato!
ulteriore conferma di quanto Serao aveva scritto con fierezza in una precedente lettera (18 novembre 1919), e che ribadirà in più occasioni: ossia di essere una «di quelle persone che mostrano poco i loro
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racconti di un’anima: ritratto (intimo) di una poligrafa 665 mali e di cui nessuno ha pietà. in proposito, tu sai la mia idea: la pietà26 è un sentimento che mi è odioso. Sempre avanti, sempre!».
6. Una “contenutista” incompresa e l’«affaire Nobel» Da quanto accennato apparirà insomma chiaro quanto sia ormai superata la nota “squalifica” di renato Serra che dal 1913 in poi tanto ha penalizzato il valore e la ricezione seraiani, attestandoli (sul versante letterario, a lungo erroneamente disgiunto da quello giornalistico) sulla netta e ormai obsoleta dicotomia tra un coté “verista” e un coté mondano e commerciale: ricomposta fra gli altri da umberto Eco nell’immagine, semmai, di un «campione di letteratura popolare»27, o nazionalpopolare (nell’accezione di Gramsci che avrebbe annoverato Serao tra i contenutisti, anziché tra i calligrafi). E a voler allora individuare, nell’epistolario in questione, percorsi significativi per ulteriori ribaltamenti di stereotipi intorno a Donna Matilde, vorrei selezionare in sintesi almeno alcuni filoni degni di nota nel carteggio: una cospicua parte riguarda, ad esempio, il rapporto di Matilde Serao con Eleonora Duse, con dettagli e aspetti inediti sul loro legame, dopo un’incrinatura della loro amicizia (testimoniata da una lettera dattiloscritta del 24 ottobre 1920 da Firenze della Duse a Serao, conservata nell’epistolario), per l’ingratitudine dell’attrice tanto devotamente ammirata e sostenuta, ma «voluta bene inutilmente»28, definita da Matilde, nel suo sfogo con la figlia, artista dal temperamento «atrabiliare» e tutta
26 Qui evidentemente intesa come commiserazione ipocrita, o peggio come autocommiserazione. 27 umberto Eco, Tre donne intorno al cor… Invernizio, Serao, Liala, a cura di umberto Eco et alii, Firenze, La Nuova italia, 1979, p. 5, dove Eco, precisando la maggiore complessità di Serao rispetto a invernizio e Liala, figure che scrissero anch’esse «su personaggi femminili e per un pubblico femminile», tuttavia anche Serao «per varie e buone ragioni rimane come compione di letteratura popolare, e forse non tanto nei romanzi realistico-veristi, in cui parla del popolo, ma proprio in quelli in cui le vicende d’amore e passione si svolgono in salotti ben arredati e in alcove esauste di tendaggi e ninnoli» (ivi). 28 Per avere un’idea del cinismo con cui Duse trattò l’amica partenopea, più volte definita in modo per la verità poco lusinghiero come una logorroica, «rumorosa, chiassosa amica napoletana dalla voce forte», oltre che riconosciuta come «protettore napoletano», si veda il corposo carteggio di Eleonora Duse con Gabriele D’Annunzio, a cura di Franca Minnucci, nell’edizione diretta da Annamaria Andreoli: Come il mare ti parlo. Lettere 1894-1923, Milano, Bompiani, 2014, che consente di rileggere sotto una nuova luce molte trame relazionali di quegli anni, ben oltre il ruolo e la generosa, affettuosa e devota ma incompresa presenza di Serao al fianco dell’amica diva ammirata e sempre appoggiata.
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donatella trotta666 via subito perdonata, con un “ritorno di fiamma” affettivo particolarmente significativo anche per varie notizie che Serao riporta intorno agli spettacoli dell’attrice, e per i commenti critici seraiani a D’Annunzio, disseminati in varie lettere. un’altra parte cospicua – e di grande attualità – è quella relativa ai “maneggi” per il premio Nobel per la letteratura, al quale sin dal 21 novembre 1920 (stando almeno al carteggio) Serao si sente autorizzata a candidarsi, soprattutto dopo aver visto che, tra gli italiani, concorreva la Deledda, da lei stessa sostenuta in gioventù sulle colonne del suo settimanale culturale domenicale «Mattino/Supplemento» del 1894, quando era una sconosciuta novellatrice sarda29. Nel coacervo di temi delle lettere compaiono costantemente, dal 1920 al 1924, sapidi commenti su altri concorrenti (tra i quali roberto Bracco, ancora la Deledda, e poi Hardy, Yeats…); notizie sull’avanzamento della candidatura, con tanto di rapporteurs30 illustri e in costante aumento (Francesco Torraca, in primis, e poi Benedetto Croce); febbrili raccolte di firme autorevoli a sostegno della candidatura seraiana; contatti con fonti diplomatiche o ministeriali per capire bene il complesso iter della partecipazione, con un dossier peraltro via via più ricco (anche di traduzioni straniere delle opere di Donna Matilde e persino con una tesi di laurea in tedesco sulla sua opera), inversamente proporzionale alla progressiva stanchezza se non addirittura noia della scrittrice, inizialmente tentata dall’idea ma poi in fondo consapevole della difficoltà di vincere; e tuttavia (tipico del suo temperamento) ostinata nell’andare avanti nella sfida immane, fino in fondo, senza arrendersi. Mai. una ulteriore pista identificata nelle lettere ad Eleonora è poi quella relativa alle scritture seraiane (ma anche alle letture: con vari indizi sui suoi gusti, da Musset ad Heine, dai classici latini a Blaise Pascal…). Scritture e letture – ovviamente – numerose, visto che stiamo parlando di una poligrafa che era anche lettrice onnivora. E qui vorrei trasmettere l’emozione, indescrivibile, di entrare concretamente all’interno della “bottega” dell’autrice: tra stesure più o meno tormentate, pubblicazione e promozione di romanzi e novelle (in particolare, la raccolta di racconti Preghiere e i romanzi Mors tua e l’incompiuto L’ebbrezza), testi degli ultimi momenti di vita della scrittrice; aggiornamento su tirature, vendite e riscontri; commenti sugli esiti di spettacoli teatrali trasposti dalle sue opere; e, ancora, rapporti talvolta burra
29 Cfr. D. Trotta, La via della penna e dell’ago, cit., p. 62. 30 Così li definisce, in corsivo, Serao stessa nelle sue lettere.
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racconti di un’anima: ritratto (intimo) di una poligrafa 667 scosi con la critica; informazioni su collaborazioni a testate estere (ho trovato notizia, in una lettera, persino della collaborazione ad un giornale argentino) con novelle o altri scritti; e una complessiva e personale visione del giornalismo e della letteratura che affiora qua e là, nei testi, con la forza icastica di aforismi sparsi. Dopo il fiasco (da lei peraltro previsto e annunciato) della trasposizione teatrale della sua Ballerina ad opera di Murolo al Politeama, ad esempio, così scrive con autoironia Matilde Serao in una lettera alla figlia del 25 ottobre 1919: «E Dio volle ineluttabilmente, che io fossi solo una romanziera e una giornalista, non una teatrante! Carmela Minimo fu…». E in un altro sfogo del 20 novembre 1919, oberata com’è dal consueto eccesso di impegni che l’allontana dalla scrittura narrativa, si rammarica di ciò e il 25 aprile 1922 ribadisce, preoccupata del proprio «stato complesso spirituale […] di contradizione»: «Sono ansiosa di scrivere. E non ho il tempo». La scrittura, insomma, come profonda necessità interiore, per parafrasare la Lettera a un giovane poeta di rilke. Anche perché, come rivela in una successiva lettera alla figlia (del 16 giugno 1921, permeata dal dolore per la morte di Luigi Sella, figlio di Quintino) la scrittura – in senso lato: tra giornalismo e letteratura – è per Donna Matilde assai terapeutica: «Credo che il piccolo segreto della tristezza è di digerirla, lentamente, tutta quanta. io ho sempre fatto così. Ho scritto, quasi sempre, per poter meglio digerirla; ma sentendo sempre palpitare la mia pena. Cattiva consolatrice!». Tanto che in una delle ultime lettere poco prima di morire, già da tempo sofferente (fisicamente e spiritualmente), stanca e piegata ma giammai vinta Matilde scrive, il 19 maggio 1927: La mia vita interiore, è sempre senza equilibrio morale. Quella esterna, è governata più dalle necessità materiali che dalla mia volontà. E cerco, cerco sempre dove appoggiare il mio spirito così oscillante: oscillante sul vuoto, come quello di Blaise Pascal sovra un abisso. Forse… forse, se io mi fisso sovra un lavoro di mole, potrò, ancora una volta, salvarmi da quest’aridità e da questa desolazione. Ma potrò fissarmi? Non lo so. Lo spero. Ho chiesto a Dio. Ogni tanto, però, mi fermo nelle mie preghiere: mi pare di domandar troppo, al Signore. Lasciamo fare a Lui. Sintesi notevole di una parabola vitale con i caratteri dell’esemplarità, senza alcuna retorica.
7. Maternage e religiosità La vera consolazione – come emerge di continuo dal “ritratto intimo” evocato dallo scorrere di queste lettere, impregnate d’amore e a
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donatella trotta668 tratti davvero struggenti fino alla commozione, soprattutto nei primi anni in cui la madre, privata della presenza di Eleonora nella quotidianità, dové fronteggiare la cosiddetta sindrome del nido vuoto – resta in fondo, per Matilde incamminata sulla via del tramonto esistenziale, proprio il suo carteggio serrato con la figlia: quello che lei stessa definisce il suo «patrimonio spirituale», l’atteso scambio epistolare che è «pascolo» del suo spirito, «sostegno» della sua anima, «rugiada a un cuore» (parola anch’essa non a caso ricorrente nel carteggio) che Serao sente, spesso, «pesante e arido come una pietra»; «cuore inquieto» (sono ancora parole sue) e tuttavia «mai stanco di palpitare forte, per le cose e le persone che ama» (Fiuggi, 21 agosto 1919). uno scambio che è conforto della sua “solitudine affollata”, oltre che gioia dolce e profonda da assaporare come un dono, non disgiunto tuttavia dall’inevitabile amarezza di costanti e trepide preoccupazioni per la conquista della felicità dei suoi cari. un sentimento che per Serao (come scrive in una bella lettera molto familiare del 19 febbraio 1920) è un diritto-dovere basato principalmente sul dono di sé: «Sii felice, figlia mia, sovra tutto della felicità che dai agli altri!», scrive infatti mamma Matilde in quella lettera sul filo di un dialogo incessante (e incalzante), tessuto con ostinazione anche a distanza, che parla ancora oggi al cuore di chi legge. Non sappiamo se si siano conservate le risposte della figlia Eleonora Natale, né le lettere di Serao a Piero Taglioni con relative repliche; ma per delineare un ritratto più compiuto della donna Serao possono forse già bastare queste lunghe e dettagliate lettere materne: vergate di getto, spesso impetuosamente, con grafie mutevoli proprio per la fretta (velocità che in un paio di occasioni l’ha fatta persino firmare formalmente per esteso, nome e cognome, anziché con il consueto e confidenziale mammina, o il più raro mammà, salvo scusarsi per la distrazione), e inviate con assiduità tanto metodica quanto stupefacente: se solo si considera la contemporanea e ben nota miriade di impegni della scrittrice e giornalista, parallelamente alle sue molteplici corrispondenze epistolari (private e pubbliche: in quella gigantesca “famiglia allargata” che erano, per Serao, i suoi figli e nipoti e gli amici e collaboratori delle sue aziende giornalistiche). E qui giungo alla questione del maternage e di una costante – benché scarsamente esplorata – “genealogia al femminile”, matrilineare, che in Serao mi sembra un basso continuo nella partitura della sua vita, anche sotto il profilo professionale del giornalismo e della produzione letteraria: a partire dal peculiare rapporto con la madre Paolina Borely, donna colta, raffinata e poliglotta notoriamente venerata dalla [ 20 ]
racconti di un’anima: ritratto (intimo) di una poligrafa 669 figlia anche dopo la sua prematura scomparsa per una vita di stenti, il 15 agosto del 1879, e figura determinante per la formazione della scrittrice: una sorta di personale Heimatkunst di cui si trovano tracce disseminate in vari testi seraiani, refrattari come si sa all’autobiografismo esplicito, a parte alcune accorate confidenze sopravvissute in qualche carteggio sparso (come le eloquenti lettere a Gaetano Bonavenia, o quelle a Luigi Lodi). Si pensi, ad esempio, alle pagine inaspettatamente autobiografiche del capitolo «il vincitore del fuoco», nel volume San Gennaro nella leggenda e nella vita31, “tappa bibliografica” di un itinerario nella fede religiosa inquieta e nella spiritualità seraiana32. un testo, il San Gennaro, dove “Matildella” rende omaggio a questa nobildonna greca decaduta, di origine turca, «di gran mente e di gran cuore», che «non ha scritto nessun libro, non ha lasciato nessuna pagina: ma ha saputo fare della sua troppo, troppo breve vita un capolavoro di illuminata bontà, di intelligenza semplice e alta, di altruismo singolare e di singolare sentimento religioso»33 indelebilmente impresso nella memoria e nell’animo della bambina, adolescente e donna Matilde. Tornando al carteggio di questa “idealista” che lavorava “alla scuola del realismo”, il concetto di maternage, spesso legato all’orientamento religioso cristiano di Serao, ricorre anche in altre e molteplici forme: si veda ad esempio, per una pennellata spiritosa nel miglior mood autoironico dell’autrice, a quanto Matilde scrisse di sé in una lettera del 18 marzo 1920 da Napoli, scherzando sulla «“Mattinata”… della liberazione», cioè le faticose ma frequentatissime matinées teatrali organizzate da Matilde per promuovere «il Giorno», e poter così «correre a roma dove ho figli e figlie, nuore e generi: e nipoti! A me piace tanto questa figura di chioccia che la vita mi ha, ormai, assegnata: però vor
31 Lanciano, Carabba, 1909, ripubblicato a cura di Wanda De Nunzio Schilardi, Bari, Palomar, 2000. 32 religiosità tutt’altro che superficiale o scontata che ho recentemente ricostruito, in sintesi, nel volume Visibili, invisibili, cit., a partire dall’abiura della fede ortodossa – avvenuta a sedici anni, il 26 maggio 1872: quando Matilde Serao fu battezzata con rito cattolico a Napoli (ivi, p. 137) – seguendo itinerari bibliografici ed epistolari inediti che delineano un percorso coerente e tutt’altro che superficiale, come già ebbe modo di riflettere roberto Fedi (Aspetti della vita sociale nella narrativa del secondo Ottocento, in Album Serao, a cura di D. Trotta, cit., p. 86) accennando al movimento dei Cavalieri dello Spirito, «forma di revanchismo idealistico» di cui la scrittrice si fece promotrice, con Fogazzaro e Salvadori, proprio dalle colonne del «Mattino Supplemento», settimanale da lei fondato e diretto. 33 San Gennaro nella leggenda e nella vita, p. 263 ss.
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donatella trotta670 rei che tutte le galline, i galli e i pulcini stessero in buona salute, avessero molti denari e molto buonumore. Amen!» (il “così sia”, che ricorre spesso nelle lettere, come l’abbandono alla volontà di Dio, con l’uso frequente e ripetuto dell’espressione Deo juvante! in corsivo).
8. Le antenate della fede cristiana Ed è un concetto questo che può altresì aiutare, va detto, a ricollocare in una precisa traiettoria esistenziale anche la genesi di alcune opere seraiane considerate minori o relegate come marginali, tanto da non essere state mai più ristampate (malgrado le ottime vendite quando l’autrice era vivente). Mi riferisco, per fare un primo esempio, al testo raro Le Marie: conferenza tenuta da Serao al Circolo Filologico di Napoli34, frutto – evidentemente – dell’esperienza compiuta nel 1893 nell’avventuroso viaggio in Palestina, raccontata a puntate sul «Mattino Supplemento» tra il 1894 e il 1895 e poi raccolta nel volume Nel Paese di Gesù, apparso alla fine del 1898, ma con la data tipografica del 1899: opera di notevole interesse – come dimostrano i contributi di Daniela De Liso e Giovanni Maddaloni in questa sede – e vero spartiacque nella svolta esistenziale, affettiva e professionale di Matilde Serao dopo l’ormai insanabile frattura con il marito Scarfoglio, come attesta anche un piccolo corpus di lettere di Serao ad Antonio Fogazzaro, di cui già detto, ove ella confida fra l’altro, l’8 luglio 1898: «il mio Paese di Gesù uscirà in ottobre: vi sono raccolte e meglio riunite le mie lettere di Palestina. Sarà un libro dell’anima, per me. un libro scritto con voluttà spirituale. io era credente: dopo il viaggio di Palestina, sono credente meglio»35. Le Marie, librino finito nell’oblio anche perché meno rilevante – sul piano quantitativo e qualitativo – del reportage in Terrasanta, rivela tuttavia indizi preziosi per la nostra tesi: segnali disseminati nel racconto che Matilde Serao fa non di Maria di Nazareth – alla quale dedicherà un altro libro, La Madonna e i Santi (nella fede e nella vita)36 – bensì delle “altre”, meno celebrate, Marie-Mariam-Miriam: in una sorta di esegesi del silenzio che prefigura certe teologie femministe odierne, se
34 Napoli, Pierro, 1894; l’editore di piazza Dante 76 stampò il volumetto nella Collezione Minima in edizione di lusso, con una tiratura in 100 esemplari al prezzo di 1 lira. Le pagine delle citazioni dal testo si riferiscono a questa edizione. 35 Cfr. il mio contributo Racconto di un’anima tra lettere inedite e libri, in Visibili, invisibili, cit., p. 138. 36 Napoli, Trani, 1902.
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racconti di un’anima: ritratto (intimo) di una poligrafa 671 non addirittura certi accenti di Giovanni Paolo ii sul “genio femminile” esaltato nella sua Lettera apostolica Mulieris dignitatem del 15 agosto 1988. Si tratta infatti di Maria Salome, moglie di Zebedeo e madre degli apostoli Giovanni e Giacomo, che per Serao diventa icona di maternità (p. 19); Maria di Betania (la sorella di Marta e di Lazzaro), simbolo invece di “intelletto d’amore” e perseguimento dell’ideale cristiano (pp. 32-33); Maria di Magdala, modello di redenzione morale, di testimonianza privilegiata e di apostolato fedele al Cristo, contrapposta provocatoriamente ai discepoli maschietti che non hanno avuto, per Serao, la sua forza, tutta femminile: «Giuda ha tradito – chiosa la scrittrice per chi ha orecchi per intendere –, Pietro ha rinnegato, Tommaso era incredulo, spesso gli apostoli erano incerti, diffidenti» (p. 44). E, infine, si tratta di tutte le altre misconosciute pie donne, seguaci di Gesù nelle sue predicazioni dalla Galilea alla Giudea, secondo Serao nostre «antenate della fede cristiana», figure di un “apostolato primitivo”, non certo «un gruppo isolato di anime esaltate e di cuori fanatici, non […] un fenomeno individuale, senza cause apparenti, senza conseguenze spirituali» (p. 51). Perché per Serao «Le Marie sono la prima manifestazione schietta, umile e grande di tutto un movimento d’anime muliebri intorno ai più alti principii d’idealità e di moralità»; e «quello che la poesia di Giovanni, l’ardore di Paolo, la devozione di Pietro, il valore di Giacomo han fatto, con la parola, con la propaganda, coi sacrifici, le Marie hanno compiuto col sentimento, con l’esempio, con l’abnegazione: e quattro o cinque misere, ignote, perseguitate, errabonde dopo la fine di Gesù, perdute in Oriente, smarrite per le terre e per i mari, sono le antenate della fede cristiana femminile» (pp. 50-51). La loro eredità spirituale, dunque, conclude Serao da consumata oratrice, confidando al pubblico il proprio orientamento religioso e la sua frequentazione assidua, sine glossa, dei Vangeli (definiti «Libro affascinante e triste, semplice e sublime, che non leggiamo mai abbastanza, che contiene la più viva istoria dell’ideale, che è la prova più diretta dell’inconoscibile!», p. 15), «è passata in ogni anima femminile, di donna in donna, di madre in figliuola, di ava in nipote, di sorella in sorella. Sono morte, le Marie, morte e sepolte in Oriente e in Occidente; e le loro tombe sono sconosciute e le loro ossa sono ritornate in polvere, ma le persone muoiono, non muore l’idea, non muore il sentimento […] (p. 52). Le Marie non hanno vissuto, non hanno amato, non hanno sofferto invano, giacché per esse, fino a che un cuore di donna palpiterà sotto il firmamento stellato, la fede di Gesù, la fede dell’ideale non perirà, mai» (p. 54). [ 23 ]
donatella trotta672 Parole eloquenti, che precisano quella genealogia al femminile fortemente sottesa alla Weltanschauung seraiana e percorsa, nel librino sulle Marie, dal baluginare di «una sacra fiamma» che «si alimenta nel coraggio e nel valore tranquillo delle donne», le quali sanno come «opporre la forza di una coscienza ansiosa di purezza contro la indifferenza gelida» e contro «tutte le tendenze volgari, corrompitrici, ciniche, di una società senza fede e senza luce»: derive morali deprecate dall’autrice e arginate invece dal «santo entusiasmo» trasmesso dalle madri. Parole eloquenti perché echeggiate, con ulteriori chiare conferme, anche da molti passi del carteggio con la figlia che rinviano all’impostazione di altre opere seraiane. E penso, in particolare, alla genesi del romanzo Mors tua…, sul cui testo non mi soffermo in dettaglio in questa sede se non per ricordarne il potente messaggio antibellico, con sguardo di donna (e di madre) condiviso con quello di chi (soldati al fronte, medici in trincea, preti sbandati, famiglie smembrate, infanzie traumatizzate) la guerra, e le sue conseguenze, ha dovuto subirle; ma penso anche al “taglio” corale e femminile sulle più o meno invisibili virtù muliebri in tempo di guerra che caratterizza la precedente raccolta di articoli Parla una donna. Diario feminile di guerra37, quasi una coerente continuazione laica delle Marie. uno sguardo sulla grande guerra condiviso oggi, mutatis mutandis, da una scrittrice e poetessa di talento come l’udinese Chiara Carminati, che nel romanzo per ragazzi sulla tragedia della prima guerra mondiale Fuori fuoco38, vincitore non a caso della prima edizione del Premio Strega ragazzi 2016, adotta un consimile taglio originale: narrando con gli occhi di una tredicenne e del suo entourage di civili nelle zone del Carso le conseguenze del conflitto.
9. Inno alla Madre, soldato ignoto La scintilla di Mors tua… (e il tema del nascosto valore femminile) sembra accendersi in Serao il 9 novembre 1921, a conflitto ormai lasciato alle spalle, quando da Napoli motiva alla figlia il proprio neutralismo (posizione assunta anche dal suo giornale «il Giorno» prima dell’inizio del conflitto) commentando la cerimonia pubblica del Milite ignoto, che ha commosso entrambe: Finalmente, Elonora, è venuta in prima linea, la più grande figura della guerra, dopo il Soldato ignoto, cioè la Madre: Quale degli interven
37 Milano, Treves, 1916. 38 Milano, Bompiani, 2014.
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tisti in buona fede – quelli in mala fede non contano, in tal caso – aveva mai pensato, in tre anni, a Costei? Tre o quattrocentomila cuori spezzati, oscuri e sanguinanti cuori, che non si consoleranno mai più, nella vita, erano stati dimenticati, et leur pleurs tombaient en silence. L’Apoteosi del Figlio è stata quella della Madre: giustizia è fatta, figlia mia! intanto, il romanziere che cova, sempre, nella tua borghesissima madre, nel silenzio, nella solitudine, pensa, immagina, sogna… […]. Ah Eleonora mia, che fascino ha il mistero, nella vita.
Parole che sembrano echeggiare un tema già affrontato dalla scrittrice in Parla una donna. Diario feminile di guerra, raccolta di articoli apparsi nei primi mesi di guerra (dal maggio 1915 al marzo 1916) sul seraiano «il Giorno»39, dove il punto di vista femminile sulla prima guerra mondiale – definita dall’autrice nella sua prefazione «realtà senza parole» e «tragedia senza poeta», «dolore che non ha nome e che ha tutti i nomi» – viene moltiplicato in una coralità sociale tipicamente seraiana che riesce a dare voce – con il piglio della giornalista militante in cerca di testimonianze “sul campo” e la sensibilità della scrittrice che trasmette emozioni spalancando le sue «finestre dell’anima» – soprattutto alla moltitudine anonima delle virtù muliebri, per le quali Serao s’interroga:40 «chi darà un premio a quest’ignoto valore? Dio vede: ma il mondo è cieco».
39 Dopo le edizioni milanesi del Treves (1916 e 1921) Parla una donna. Diario femminile di guerra è stato meritoriamente ripubblicato di recente in una edizione a tiratura limitata di 500 copie da rina Edizioni, roma, 2019, con una Postfazione di Simonetta Sciandivasci, attenta a testi poco noti o dimenticati delle scrittrici fra Ottocento e Novecento. Qui Serao si identifica con «quelle madri ostinate in una sublime speranza», entrando nell’intimità e nel travaglio di tutte le donne italiane che hanno rivoluzionato la propria vita a causa della guerra e hanno tuttavia deciso di andare avanti e non rassegnarsi, lavorando con coraggio quotidiano nell’ombra. 40 M. Serao, Parla una donna, roma, rina, 2019, p. 122. Per ragioni di spazio, in altra sede approfondirò i temi del testo e la posizione seraiana sull’argomento, evolutasi dai tempi di Evviva la guerra (conferenza scritta da Serao nell’aprile del 1912 per la guerra di Libia, letta con grande successo per la prima volta a roma la sera del 3 maggio 1912, presso l’Associazione della stampa italiana, poi riproposta in molte altre città italiane per finanziare con parte dei proventi la flotta aerea e infine stampata a Napoli, da Perrella, nel 1912 in un volume miscellaneo che comprende anche vari articoli sulla guerra libica pubblicati su «il Giorno» di Napoli e sul «‹Giornale d’italia»), quando l’autrice era ancora nella scia di chi vedeva astrattamente nel conflitto in Libia un momento di «rigenerazione». Qui mi limito a considerare che in seguito, con tre dei quattro figli maschi al fronte nella guerra del ’15-’18, il cuore materno prese il sopravvento sulle posizioni ideologiche, il neutralismo lasciò il passo all’antinterventismo e alla ferma condanna dell’insensatezza bellica: fino alla genesi del romanzo Mors tua… Su questi temi, cfr. anche Nunzia
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donatella trotta674 E qui entriamo davvero, nuovamente, in punta di piedi nello studio della scrittrice, che in altre lettere alla figlia torna sul concepimento di quel romanzo dalla stesura lunga e tormentata, incastonata come sempre in altre miriadi di faccende: compresa la scrittura del romanzo L’ebbrezza (concepito sin dal 1904 e parte di un previsto ciclo di dieci romanzi sulle illusioni umane sul modello balzachiano, «polemico sulla famiglia e sulla religione», ovvero sulle disillusioni che costellano l’esistenza soprattutto femminile), uscito poi postumo cinquant’anni dopo la morte della scrittrice con il titolo L’ebbrezza, il servaggio e la morte41. Accennano a Mors tua… la lettera del 4 gennaio 1923 e, soprattutto, quella del 14 ottobre dello stesso anno, dove Serao scrive alla figlia: «Non ho naturalmente, messo ancora mano a Mors Tua… dura e forte istoria. […] Non so quanto io debba vivere, ancora: ma mi basterà che venga fuori Mors tua… e, possibilmente, subito dopo, l’Ebbrezza che è scritta per tre quarti e che è una buona cosa…». il 28 gennaio 1924 Serao ritorna sull’argomento, fornendoci indicazioni sul suo metodo e auspicando, Deo juvante!, che il libro sia «compito dalla primavera all’estate, come tutti i miei romanzi…». il 27 novembre 1924 un evento tragico turba e scuote in profondità la sensibilità della scrittrice, che si preoccupa scrivendo alla figlia: «Come farò a fermare la mia mente, per continuare a scrivere Mors tua?». E il 16 novembre 1925, preda di un malessere, sentenzia: «Guarirò quando avrò finito il romanzo». Qualche giorno dopo, precisando ancora il suo metodo di scrittura, annuncia che il romanzo uscirà il 20 gennaio 1926: un buon periodo, soggiunge. Finalmente, il libro viene pubblicato. E il 2 aprile 1926, passando in rassegna le buone recensioni già ricevute, Serao commenta con fare distaccato, alla figlia interlocutrice prediletta, nomi e testate di tre stroncatori salvo poi riaccendere il fuoco che è in lei di fronte alla «gazzarra fascistissima» (sic: sono parole di Serao) seguita dalla quarta e per lei intollerabile stroncatura. intollerabile, anche, perché proveniente da una donna, Hilda Montesi Festa42, che – oltretutto – ha osato
Soglia, Donne e Grande Guerra negli articoli di Matilde Serao in I cantieri dell’italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo. Atti del XViii congresso dell’ADi – Associazione degli italianisti (Padova, 10-13 settembre 2014), a cura di Guido Baldassarri, Valeria Di iasio, Giovanni Ferroni, Ester Pietrobon, roma, Adi editore, 2016; Silvia Zangrandi, Una donna che parla alle donne: la Prima guerra mondiale vista da Matilde Serao, in «Parla una donna», «Cuadernos de Filologia italiana», vol. 22, 2015. 41 Napoli, Guida Editore, 1977, a cura di Marie Gracieuse Martin-Gistucci. 42 Hilda Montesi, vedova di Nicola Festa, fu giornalista, traduttrice dal greco,
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racconti di un’anima: ritratto (intimo) di una poligrafa 675 rinnegare i propri precedenti lusinghieri giudizi sull’opera seraiana con toni incoerenti, «violenti e villani» (precisa Serao) da voltagabbana, per Donna Matilde inaccettabili e dunque da respingere al mittente. Con fair play femminile in una tempra da combattente nata. Donna Matilde ne parla il 16 aprile 1926 in una veemente lettera a Eleonora, corredata da un dattiloscritto di “controffensiva” inviato a Lupinacci43 e che è un capolavoro di arguzia e diplomazia: «Tu sei come me: tu non ti tieni niente – si sfoga con Eleonora – … non bisogna tenersi niente. io so di aver scritto in perfetta coscienza e in perfetta sincerità! Quindi non mi posso tener niente».
10. Preghiere. Eretiche? un ultimo filone al quale, sia pure en passant, vorrei fare almeno cenno rivela, come sorpresa finale, il volto di una Serao nientemeno che… eretica! Mi riferisco al volume Preghiere44, mai più ristampato dopo la prima edizione con la ragguardevole tiratura (velocemente esaurita) di diecimila copie, costo lire 7.50, dedicato da Matilde «A chi crede, a chi soffre, a chi spera…» e testimonianza tangibile del disincanto della maturità, approdata dal “sogno d’amore” alla landa desolata delle disillusioni dell’amore: sentimento non a caso definito da Serao, nel libro, «chimera del cuore umano» di cui «si è conosciuta la falsità e la brevità»45. Ma non è solo questo il punto. rinviando considerazioni più approfondite sul libro a un più ampio studio in lavorazione, qui occorre segnalare almeno alcune notizie significative per le tesi di questo saggio. Da una lettera del 26 aprile 1920, apprendiamo
curatrice di testi pedagogici (come Dell’educazione dei figliuoli di Plutarco, Firenze, Sansoni, 1916) e autrice di alcuni profili biografici femminili (tra i quali quelli di Clotilde di Savoia, Cristina di Svezia, Santa Francesca romana) e di testi su lineamenti ed esempi di letteratura italiana; nel 1925 fu anche membro della Commissione centrale per l’esame dei libri di testo per le scuole elementari, istituita con Decreto ministeriale il 15 gennaio 1925 sotto la presidenza di Giovanni Vidari. 43 Verosimilmente, si tratta del giornalista ed editorialista cosentino Alessandro Lupinacci, che con lo pseudonimo di Sandor e dopo una prima formazione e apprendistato in Calabria, a fine Ottocento si trasferì a roma, dove collaborò ai principali quotidiani nazionali del tempo, impreziosendo con le sue corrispondenze anche le pagine de «La Tribuna» e de «La Tribuna illustrata». 44 Milano, Treves, 1921. 45 Così scrive nel racconto finale del libro, Preghiera di una penitente, a p. 263: «Amarissima rinunzia a ogni gioia dell’amore di cui si è conosciuta la falsità e la brevità, ma che, pure, è la maggiore chimera del cuore umano». Accenti che echeggiano il ciclo romanzesco incompiuto sulle disillusioni umane, a cui si è fatto cenno.
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donatella trotta676 dell’avvio della stesura del libro (che si intuisce essere appunto Preghiere), nel quale Matilde crede e investe molte energie: parla infatti alla figlia di «una cosa molto buona» che sta scrivendo, Deo Juvante!, ma – aggiunge – «destinata a un debole, freddo successo o a nessun successo. io non intendo più fare la tribuna, nel parlare in pubblico: sono una letterata e voglio fare della letteratura!». E il 13 ottobre 1920 così informa Eleonora: «Ho ripreso con molto souffle a lavorare al mio libro: e se la lena si mantiene, come spero, io ne sarò fuori per il 25 o il 30 ottobre. Tu sai che questo libro, molto spirituale, molto mistico e molto profano, insieme, è destinato a far grande rumore, se l’italia non è diventata un paese di bruti. in tutti i modi, esso si venderà molto. Lo ha tanto preveduto anche il Beltrami [l’editore, ndr] che abbiamo fatto un contratto per le prime diecimila copie. Così sia!». il 16 ottobre, Matilde scrive a Eleonora durante uno stacco dal lavoro al giornale, su carta intestata del «Giorno» in Galleria umberto 27, informandola sull’andamento del libro: Profitto di una breve pausa, in ufficio, per mandarti mie notizie. Esse sono sempre buone come salute, come vita interiore e come lavoro letterario: quando avrò finito il mio libro e, se Dio mi aiuta, sono in buonissimo cammino, avrò veramente bisogno di darmi a una vasta vita esterna. Non lo posso neppure chiamare uno sforzo, poiché ho lavorato quasi sempre impetuosamente o, talvolta, con ferma serenità: quest’opera, sentirai… che un potere superiore è sceso in me, perché io la creassi. E io sono, più che mai, il cavaliere dello Spirito Santo.
Fin qui, sembra un crescendo di (auto)esaltazione. Ma sentite cosa scrive il 20 ottobre 1920 l’autrice, ormai al termine della stesura: «il mio lavoro letterario declina verso la fine. Sento già la tristezza del distacco. È un sentimento molto bizzarro che tu, con la tua squisitezza, potrai comprendere. il libro non mi piace più: e mi secca di non poter continuare a scriverlo. O etrange nature… così dice Alfred de Musset dell’amore e anche dell’arte». E arriviamo all’Epifania del 1921, quando il libro, ormai uscito, va a ruba. Gongolante, Serao scrive alla figlia punzecchiandola sulla sua pigrizia nel corrispondere con l’anziana mamma per invogliarla a scriverle con più assiduità: «Preghiera di una madre sempre illusa e […] Preghiere vanno benissimo»; tanto che il 2 marzo 1921 annuncia che in poco più di tre mesi ne sono state vendute seimila copie, e il 25 marzo prospetta addirittura la traduzione del libro in inglese. Ma qualcosa di singolare accade: la «lotta alle Preghiere». Da parte di integralisti sfrenati:
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i cattolici intransigenti fanno fuoco e fiamme, nei loro giornalucoli, contro le Preghiere – racconta il 31 gennaio 1921 alla figlia –. io me lo aspettava: anzi, credo di avertelo previsto, due o tre volte. Non importa: forse, meglio! E se mi fanno qualche vessazione più forte, io mi batto con loro, nel Sant’uffizio, e anche con don Sturzo. io so quello che ho fatto, col mio libro: e anche iddio, il mio Dio, lo sa. Forse, questa battaglia non s’ingaggerà: ma io non sono senza polvere e senza cartucce. Vedremo.
Di fatto, si apprende per caso da un’altra lettera successiva, del 23 gennaio 1922, che Matilde Serao ebbe dalla sua parte addirittura il Papa in persona, Benedetto XV46. Furono comunque, per la grande giornalista del romanzo, momenti molto duri e dolorosi. il 2 febbraio 1921, Serao informa Eleonora che «continuano le lotte contro le Preghiere; adesso, ci si sono messe certe “mamozie” di scrittrici… ma il libro va meravigliosamente!»47. Colpisce, in una successiva lettera di Matilde alla figlia del 2 marzo 1921, apprendere che al successo crescente del libro fece da contrappunto un livore tale da portare alcuni facinorosi a devastare le librerie che avevano le Preghiere sui loro scaffali, oltre a distruggerne le copie circolanti. un (nero, nerissimo) segno dei tempi… al quale così reagisce Matilde, donna e credente senza etichette (consapevole, come scriveva in una lettera da Fiuggi del 21 agosto 1919, che «La virtù è una gioia logorante» che impone cristianamente di «consumarci in essa»): in fondo, il meglio è sempre scrivere, figlia mia! Chi ha scritto, deve continuare a scrivere. Il faut aimer sans cesse, apres avoir aimé… intanto, poiché le seimila copie di Preghiere sono finite, ho rifatta da cima a fondo la prefazione, per la ristampa che è imminente. Salvo che le librerie devastate, sono ancora chiuse, qui e forse altrove. Che pena! Neppure i libri son restati in pace, in questo tempo di teppismo. Vederli lacerare e calpestare, nella via, mi ha spezzato il cuore.
Anche a noi: un monito perturbante per il nostro presente. Che conferisce nuovo e più significativo valore alla grande poligrafa infraseculare.
Donatella Trotta
46 Giacomo Della Chiesa, fermo oppositore della prima guerra mondiale, che difese la scrittrice perseguitata «contro l’indice»: e la lettera contiene notizie interessanti anche sul Pontefice (ma questa è un’altra storia). 47 Mamozio è parola del dialetto napoletano per ‘persona sgraziata, goffa, tonta’.
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Matilde Serao a roma con Giuseppe Natale e la figlia Eleonora.
ViNCENZO CAPuTO «Io non m’intendo di pittura». Letteratura e arti figurative in Matilde Serao
il contributo si sofferma sugli interessi artistici di Matilde Serao. Si analizza innanzitutto il bozzetto incentrato sul Gesù tra i farisei di Saverio Altamura, tratto dalla raccolta Dal vero (i ed. 1879), in secondo luogo le descrizioni dell’Italia a Bologna, relative all’Esposizione del 1888, e infine si punta l’attenzione sull’explicit della seconda edizione del Ventre di Napoli (1906), dedicato al ritratto fotografico di Teresa ravaschieri. Questi scritti possono risultare estremamente significativi, nonostante la loro marginalità all’interno della fluviale produzione della Serao.
★ This essay focuses on Matilde Serao’s artistic interests. Firstly, it analyses the literary sketch based on Saverio Altamura’s Gesù tra i farisei, included in the collection Dal vero (first ed.: 1879); secondly, it looks at the descriptions in Italia a Bologna regarding the 1888 Exposition; finally, it focuses on the ending of the second edition of Ventre di Napoli (1906), devoted to a photographic portrait of Teresa ravaschieri. These pieces of writing appear extremely important, despite their marginality within Serao’s fluvial literary production.
1. Sugli interessi figurativi di Serao È indubbio che un discorso sugli interessi figurativi di Matilde Serao possa apparire, nell’entità del materiale da analizzare, sostanzialmente marginale rispetto alla sua fluviale produzione. Eppure i casi specifici al centro del nostro interesse possono rivelare – a ben guardare – percorsi significativi, che indirizzano verso aspetti importanti dell’impianto della scrittrice e che finiscono per coinvolgere anche la più generale dimensione ibrida dell’“osservazione naturalista”1. Nel corso di queste pagine, quindi, punteremo l’attenzione su epi
Vincenzo Caputo: università di Napoli Federico ii; ricercatore rTDa; vincenzo.caputo@unina.it 1 Mi riferisco, per la formula, a Giovanni Maffei, L’“osservazione” naturalista I. Le certezze della scienza e id., L’“osservazione” naturalista II. I mondi-illusione, in Il ro
vincenzo caputo680 sodi minimi, parziali, i quali appaiono dal nostro punto di vista particolarmente interessanti. Ci sembra, insomma, che i dettagli, anche quelli non in primo piano, possano fornire informazioni utili per una migliore intelligenza del disegno complessivo. Lo faremo – è bene ribadirlo – nella consapevolezza della parzialità di tale ricerca: un’indagine interdisciplinare su Serao e le arti figurative dovrebbe, per raggiungere caratteri di esaustività, sicuramente ampliare il proprio raggio2.
2. Il Cristo di Saverio Altamura (e quello di Matilde Serao) il primo episodio ci porta a una giovane Matilde Serao. Nella prima edizione della raccolta Dal vero (Milano, Perussia e Quadrio, 1879) la scrittrice inserì un ‘bozzetto’ (stando al suo lessico) dal titolo Il Cristo di Saverio Altamura, che resterà nella raccolta fino all’edizione del 1890 (Milano, Galli)3. il dipinto, da identificare con Il silenzio di Gesù (o Gesù tra i farisei, oggi alla Basilica di Pompei), fu presentato all’Esposizione universale di Parigi del 1867, acquistato da Matteo Schilizzi e poi donato appunto alla Basilica (fig. 1)4. Preziose notizie sul dipinto ci giungono dall’autobiografia del pittore Altamura. Sulla tela è fissato il momento in cui «a lui legato i Farisei e gli Scribi domandano: “Quid te ipsum putas?”» (si vedano, per l’episodio, le seguenti fonte evangeliche: Mt 27, 27-31; Mc 15, 16-20; Lc 22, 63-65; Gv 19,1-16)5. C’è però una precisazione, che interessa maggiormente:
manzo in Italia, a cura di Giancarlo Alfano e Francesco de Cristofaro, roma, Carocci, 2018, vol. ii, L’Ottocento, pp. 351-361 e 363-378. 2 Penso all’attività giornalistica di Serao, attenta alle vicende biografiche di pittori, scultori e architetti del suo tempo e alla loro produzione o, per fare un altro esempio, alla presenza di personaggi artisti all’interno delle sue opere. Si veda, per i casi analoghi in Pirandello, Monica Venturini, Tra autobiografia e passione figurativa: il personaggio pittore nelle novelle pirandelliane, «Pirandelliana», 11 (2017), pp. 27-38. 3 La versione del 1890 è alla base dell’edizione moderna curata da Patricia Bianchi. Sulle vicende editoriali di Dal vero rinviamo alla Nota al testo di Ead., in Dal vero, a cura di Patricia Bianchi, Napoli, Dante & Descartes, 2000, pp. 241-263. 4 Si veda il Catalogo delle opere in Saverio Altamura, pittore-patriota foggiano nell’autobiografia nella critica e nei documenti, a cura di Mario Simone, presentazione del sindaco di Foggia, prefazione di Bruno Molajoli, Foggia, Studio editoriale Dauno, 1965, part. p. 143. 5 Saverio Altamura, Vita e arte, Napoli, Cav. Aurelio Tocco Editore, 1896, p. 77. il passo citato fu inviato, in forma di lettera datata 3 luglio 1887, al beato Bartolo Longo: la lettera è stata pubblicata da rosario F. Esposito, Bartolo Longo e la
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il quadro, prima che partisse per Parigi, era esposto, solo, in una grande sala del nostro istituto di Belle Arti. La luce pioveva fredda, misteriosa, malinconica, ed ispirò un bell’articolo alla valente scrittrice Matilde Serao6.
Serao, quindi, vide il quadro prima che fosse inviato nella città francese, dal momento che il pittore lo espose in una grande sala dell’istituto di Belle Arti. Lo scritto in questione, per il quale davvero risulta forviante il termine “novella”, si risolve, in sostanza, nella descrizione e nell’analisi del dipinto7. L’ecfrasi procede attraverso una sorta di progressione dello sguardo da ciò che sta più lontano (i personaggi di spalle in secondo piano) a ciò che sta più vicino (coloro che sono alla destra e alla sinistra di Gesù): […] è un episodio della passione di Gesù: gli leggono la condanna, dopo averlo flagellato. Sono ebrei – uno di essi, dalle spalle tarchiate, dalle braccia nerborute, stringe un flagello, indifferente, se la discorre con certi altri; un secondo flagellatore sghignazza orribilmente, ed alza la verga quasi volesse continuare ancora. Alla destra di Gesù è un tale che gli strappa la tunica, a sinistra un altro che gli mostra con atto vero e vivace la condanna8.
Dopo questa progressione l’attenzione si sposta sulle figure che hanno colpito maggiormente l’occhio della spettatrice. Non siamo più di fronte a un procedimento di “avvicinamento”, ma piuttosto di fron
cultura laicista, in Bartolo Longo e il suo tempo. Atti del Convegno storico promosso dalla Delegazione Pontificia per il Santuario di Pompei sotto l’alto Patronato del Presidente della repubblica (Pompei, 24-28 maggio 1982), a cura di Francesco Volpe, i, roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1983, pp. 453-510: 497-99. Sull’autobiografia di Altamura sia consentito il rinvio a Vincenzo Caputo, La «pittoresca conversazione». Letteratura, teatro e arti figurative a Napoli tra Otto e Novecento, roma, Aracne, 2014, part. pp. 19-35. 6 S. Altamura, Vita e arte, cit., p. 77. Per l’articolo si veda «il Novelliere», ii, 73, 13 marzo 1880 (cfr. l’apparato in Serao, Dal vero, cit., pp. 249-263: 250). 7 Di «cronaca d’arte» parla infatti Bianchi nella sua introduzione, in cui si evidenziano i legami tra la scrittura di Serao e le arti figurative del tempo: P. Bianchi, Ritratti e parole dal vero, in M. Serao, Dal vero, cit., pp. V-XXViii: Xi-Xii, dove si segnalano altri possibili incroci interdisciplinari («E un’ideale illustrazione della novella Viottole potrebbe essere il dipinto di Edoardo Dalbono, Sulla terrazza […]; ancora un acquerello è una tessera di descrizione paesaggistica di Mosaico. un cromatismo da acquerello del resto si staglia dagli aggettivi del colore in Dal vero […]»). 8 M. Serao, Dal vero, cit., p. 41.
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vincenzo caputo682 te al passaggio dalla visione d’insieme («tutta questa gente […]») al dettaglio («quello poi […] guarda […]»). È una lenta messa a fuoco, che si sofferma nello specifico sul fariseo, che legge la condanna, e su Cristo, che la riceve: Tutta questa gente, sebbene animata da sentimenti diversi, come l’odio, il disprezzo, la noncuranza, ha il tipo dell’ebreo spiccato: carnagione bruna, sopracciglia vicinissime, sguardo falso; quello poi che ha in mano la carta è un fariseo, un ipocrita che si rileva: labbra strette, su cui corre l’insulto, fronte bassa, mano rugosa. Guarda il Nazzareno con invidia e con ira: invidia per quella sua serenità pacata, ira, perché si vede vinto: e indica la sentenza. Ma il Nazzareno non lo ascolta, non lo guarda: pensa9.
il verbo “pensare” opera, a questo punto, una sorta di slittamento narrativo, dal piano – per dir così – descrittivo delle immagini a un altro diverso, per il quale la scrittura si assume il compito di completare l’immagine. Essa deve indovinare i “pensieri”. È possibile – attraverso la scrittura – dire più di quanto ci dica la semplice visione del dipinto. La penna non ha più il compito di tradurre in parole la superficie porosa creata dal pennello, ma piuttosto essa deve attraversare quella superficie per raggiungere la mente di chi troneggia in primo piano nel manufatto artistico. Ciò avviene per mezzo di una narrazione all’insegna dell’ipotesi. Si sostiene che «forse» quel Cristo sta pensando agli «sconfinati orizzonti della sua Palestina», alle «campagne ridenti», «al placido lago di Tiberiade», o che «forse» è assalito dal ricordo dei «cari compagni delle sue peregrinazioni», della «dolce madre»10. È comprensibile, date queste premesse, che il discorso sul dipinto possa, a un certo punto, fare addirittura a meno di esso. La scrittrice dichiara che non sono valide né l’una né l’altra ipotesi, dal momento che nello sguardo del Gesù è presente qualcosa «di più largo», «di più vasto»: quel Cristo sta pensando al proprio «ideale», dal quale risulterà sconvolto il mondo intero. Matilde Serao sceglie, nonostante l’attenzione al dipinto, di dare vita a una sorta – ci sia consentito l’epiteto – di “ecfrasi immaginativa”. La scrittura si presta a divenire una traduzione dei pensieri che qualunque spettatore potrebbe formulare di fronte al dipinto. Non è, dunque, una questione “tecnica” ma piuttosto di “gusto”:
9 Ibidem. 10 Ivi, p. 42.
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io non m’intendo di pittura e molto meno di disegno, non conosco le scuole antiche e moderne e mi affido al solo mio gusto: non so, quindi, se la luce sia giusta nel quadro di Altamura, se le figure del secondo piano siano proporzionate a quelle del primo, se le pieghe degli abiti siano armoniose e via discorrendo. Ma quando una pittura mi colpisce e mi commuove, quando io vi resto estatica lungo tempo davanti, dimenticando in quella sala vuota e fredda il mondo e la vita, […] io dico che il pittore è un artista, perché ha raggiunto il sommo dell’Arte11.
Qui, innanzitutto, è degna di nota la piena identificazione tra “arte vera”, da un lato, e “commozione”, dall’altro. il termine “commozione” è, in realtà, meno neutro di quanto si possa immaginare. La testimonianza dell’autobiografia di Altamura, già citata, ci consente di ancorarlo a un riferimento cronachistico. il pittore racconta, infatti, che tra i visitatori della preview all’istituto c’era anche la contessa Gravina. Dinanzi all’immagine del Cristo la donna associò i suoi occhi a quelli di un Luca, sconosciuto al pittore: […] ed io domandandole chi fosse questo Luca dal nome biblico, mi raccontò allora la triste istoria d’un caro giovane, che, affetto da tisi, si trovava da qualche tempo a Napoli. […] E venne il giorno dopo col fratello, e così io ebbi il piacere di conoscere Matteo Schilizzi, che quando il quadro ritornò da Parigi, se lo comprò. Fui presentato anche a Luca, cui feci il ritratto, e che dopo qualche tempo miseramente finì, lasciando nella nostra città gran desiderio di sé, per l’angelica natura di che era dotato, e per le elargizioni fatte a’ nostri poveri12.
L’episodio colpì o – per restare al lessico seraiano – “commosse” il pittore, il quale conobbe in quella circostanza il ricco banchiere Schilizzi, finanziatore del «Corriere di Napoli». insomma il dipinto riesce a turbare e a emozionare (la contessa Gravina come la spettatrice Serao) e, in tale peculiarità, sta la cifra distintiva del suo alto valore artistico. il termine “commozione” e, più in generale, il passo citato potrebbero, però, essere letti anche al di là dell’ipotetico legame con gli eventi della famiglia Schilizzi. La giovane scrittrice (all’altezza del 1879 ha poco più che vent’anni e, in sostanza, ha pubblicato un solo
11 Ibidem. 12 S. Altamura, Vita e arte, cit., pp. 77-78. Si veda anche la testimonianza indiretta sulla presenza del dipinto a Pompei già all’altezza della pubblicazione dell’autobiografia: «Nell’Esposizione universale del 67 a Parigi, nella sezione italiana dove era esposto il Cristo che ora si trova nella Valle di Pompei […] fui presentato a re Francesco con queste parole: “Ecco, maestà, un suddito che vi fa onore” ed egli con un fine e mesto sorriso rispose: “un antico suddito”» (ivi, p. 121).
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vincenzo caputo684 volumetto con lo pseudonimo significativo di Tuffolina)13 sembra avvicinarsi, attraverso le proprie parole, a quella straordinaria stagione di rinnovamento artistico, in opposizione all’accademismo imperante, che aveva avuto tra i suoi protagonisti, su basi desanctisiane, non solo Saverio Altamura ma anche Domenico Morelli, entrambi tra l’altro coinvolti nei fatti del ’4814. «io non m’intendo di pittura» diviene, da tale punto di vista, una dichiarazione solo parziale di incompetenza artistica. Si dichiara di non conoscere, sul piano tecnico, le questioni legate agli effetti di luce e al rapporto tra le figure in primo e in secondo piano, ma tale dichiarazione risulta in realtà del tutto secondaria. Serao sostiene di affidarsi al proprio “gusto”, che si configura come l’unico elemento utile a determinare e definire la “vera” pittura. un dipinto, per essere considerato di alto valore artistico, deve sostanzialmente, e uso ancora il lessico seraiano, “colpire”, “commuovere”, produrre “estasi” in chi lo osserva, al di là di qualsiasi tecnica e perizia estrema. Qui si avverte l’eco dell’avversione alla “scuola” che negli anni precedenti era stata al centro della battaglia di molti pittori e il cui racconto si fissò, tra le altre, nelle pagine della commemorazione di Filippo Palizzi fatta da Morelli, edita nel 1901. Anche Serao ascoltò nel giugno del 1900 quella commemorazione, dandone conto con lo pseudonimo di Gibus nella sezione Mosconi de «il Mattino»15.
13 Lo pseudonimo “Tuffolina”, che la Serao utilizzò all’inizio della propria carriera, mostra in maniera evidente i suoi interessi artistici: Toffolina, infatti, è il titolo di una statua di Edoardo Tabacchi (cfr. Patricia Bianchi, La riscoperta di Tuffolina: le prime prove narrative di Matilde Serao, «Filologia e critica», XXiii (1988), 3, pp. 444-458). 14 Dopo il 15 maggio del 1848 Altamura fu incarcerato (in carcere conobbe intellettuali come Carlo Poerio, Mariano d’Ayala, il Duca di San Donato) e poi esiliato: si trasferì a Firenze, entrando in contatto con gli ambienti culturali della città. Nel 1860 rientrò a Napoli, al fine di preparare l’ingresso di Garibaldi, del quale divenne intimo amico. Morelli, invece, riuscì a farla franca, restando a Napoli (gli fu, però, vietato il viaggio a roma). Lo ricorda lo stesso Morelli nella commemorazione, dal sapore fortemente autobiografico, di Filippo Palizzi: «Dopo sei mesi, Altamura, per cause politiche, ebbe un salvacondotto e l’ordine di partire. Andò a Firenze, contento di studiare in Toscana e far la vita dell’esule. il mio nome, non so come, non fu trovato nella lista della polizia, ed io rimasi in Napoli, coperto dal titolo di regio pensionato» (Domenico Morelli, Ricordi della scuola napoletana di pittura dopo il ’40 e Filippo Palizzi, a cura di V. Caputo, Napoli, Edizioni Scientifiche italiane, 2012, p. 61). 15 «un applauso entusiastico ne accolse le ultime parole, in cui il Morelli mostra i benefici risultati della riforma in Napoli e l’efficacia dell’opera di Filippo Palizzi. il magnifico scritto, dal quale è impossibile trarre un brano, tanta è l’inten
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letteratura e arti figurative in matilde serao 685 3. La “cronaca” del telegrafo e quella dello scrittore: l’esposizione bolognese del 1888 il secondo riferimento è all’opuscolo L’Italia a Bologna, edito nel 1888 (Milano, Treves). È evidente, già dal titolo, che le “lettere” di Matilde Serao sull’esposizione emiliana trasformano la narrazione di tale esposizione in un racconto più ampio. Si amplificano momenti, di solito secondari (la partenza, i viaggiatori, la città bolognese), che si configurano come luoghi narrativi ideali per indossare i “comodissimi”, per Serao, panni della “cronaca”: si vedano, a titolo esemplificativo, le sezioni Viaggiando, La Madonna di San Luca, Il Re e il popolo, Bologna bella, dove la curiosità si concentra, a partire dalla Stazione di roma, sulle figure del ministro Grimaldi, del marchese Guiccioli, del ministro Crispi («aveva l’aria più vivace che mai, quell’aria che scoraggia i primi tentativi di opposizione»16) e di tanti altri fino ad arrivare al re e alla regina, per i quali a Bologna si crea una calcolata contemporaneità di folle acclamanti i sovrani, appena giunti in città, e la Madonna di San Luca, che attraversa le strade bolognesi negli stessi giorni («visione di dolcezza femminile, di umiltà femminile, divina e umana, dove saranno misticamente collegate le figure della Madonna di san Luca e quella della regina»17). A pochi anni dall’operazione del Ventre di Napoli (Milano, Treves, 1884), Serao sperimenta una sua variante (articoli di giornale, che, raccolti con l’etichetta di “lettere”, costituiscono il volumetto), dove si mescolano, in forme dal timbro fortemente autobiografico, letteratura di viaggio (si veda la descrizione del paesaggio in treno da roma a Firenze), resoconto descrittivo, note di costume e, tra l’altro, anche l’ecfrasi legata all’Esposizione dei dipinti18.
sità delle cose dette, acute osservazioni d’arte, ricordi e moniti ai giovani, sarà pubblicato negli Atti della Società reale» (Gibus, Commemorazione di F. Palizzi alla Società Reale, «il Mattino», venerdì-sabato 22-23 giugno 1900, 172). Sui Ricordi della scuola napoletana di pittura dopo il ’40 e Filippo Palizzi sia consentivo il rinvio a V. Caputo, Domenico Morelli scrittore e Nota al testo, in D. Morelli, Ricordi, cit., pp. 7-28 e 29-34. 16 M. Serao, L’Italia a Bologna, cit., p. 5 (si veda ora anche la riproduzione della citata edizione a cura di Valerio Montanari e Giancarlo roversi, presentazione del magnifico rettore Fabio roversi-Monaco, Bologna, CLuEB, 1988). 17 Ivi, p. 19. 18 Sulla particolare cifra narrativa del Ventre cfr. Giuseppe Montesano, Il sipario lacerato. Viaggio al termine del Ventre di Napoli, in M. Serao, Il Ventre di Napoli, edizione integrale a cura di P. Bianchi, con uno scritto di G. Montesano, Cava de’ Tirreni, Avagliano, 2002, pp. 5-20. Sulla «letteratura dello sventramento», con attenzione rivolta – tra gli altri – a Pasquale Villari, Salvatore Di Giacomo, Matilde
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vincenzo caputo686 È il trionfo, a voler utilizzare ancora il lessico seraiano, della «cronaca» dello scrittore in opposizione a quella del telegrafo. Lo dichiara la Serao in una pagina dal sapore fortemente programmatico, oltre che, per il riferimento al “telegrafo”, autoreferenziale: La grande cronaca di queste feste d’inaugurazione la manda il telegrafo, rilevando ampiamente quanto vi accade di magnifico, di bello, di commovente. Ma il telegrafo, malgrado la sua moderna onnipotenza, malgrado i suoi quotidiani miracoli che fanno impallidire i cultori di una forma meno affannosa e più letteraria: il telegrafo, malgrado le sue meraviglie che scuotono a ragione il pubblico, dà ordinariamente le larghe linee generali, la grande cronaca. Noi che veggiamo dietro ai fatti umani, noi spettatori della vita in queste grandi giornate, cronisti febbricitanti di attenzione, cerchiamo nelle prime ore di cogliere tutti i lati fugaci di questi spettacoli, cerchiamo di formare nella mente tutto un quadro di uomini e di colori, di espressioni e di voci, di apparizioni e di sensazioni, per poi, quando è il tempo, affidare al telegrafo la composizione di questo quadro19.
L’affermazione chiarisce un’idea particolare della scrittura e della letteratura, che a ridosso della «stagione oltremodo felice» seraiana – stando al giudizio di Antonio Palermo – fu elaborata dalla scrittrice con notevole consapevolezza20. Alla letteratura resterebbe una prerogativa che i moderni mezzi tecnologici non possono precludere. il telegrafo fornisce le linee generali, la «grande cronaca»; lo scrittore, invece, ha il compito di guardare dietro i fatti umani, a ciò che vive al di là della visione d’insieme. Serao usa, non a caso, un’immagine pittorica. Nel segnalare il rapporto antagonistico tra “letteratura” e “telegrafia”, si sottolinea che lo scrittore ha il compito precipuo di far parlare i tasselli, i dettagli minimi di ciò che osserva, di consentire a ognuno di essi di definirsi nella sua peculiarità (uomini, colori, voci, espressioni,
Serao, cfr. Pasquale Sabbatino, Le città indistricabili. Nel ventre di Napoli da Villari ai De Filippo, Napoli, Edizioni Scientifiche italiane, 2007, pp. 167-202. 19 M. Serao, L’Italia a Bologna, cit., pp. 21-22. Per il riferimento al telegrafo (Serao vi lavorò dal 1874 al 1877) si veda, ne Il romanzo della fanciulla del 1885, la novella intitolata Telegrafi dello Stato (Sezione femminile): cfr. M. Serao, Il romanzo della fanciulla. La virtù di Checchina, a cura di Francesco Bruni, Napoli, Liguori, 1985, pp. 7-49 (e cfr. la Nota al testo di F. Bruni alle pp. XLi-LVii: XLiV-XLV). Sull’opera cfr., inoltre, Antonio Palermo, Il romanzo delle fanciulle, in Matilde Serao: le opere e i giorni. Atti del Convegno di studi (Napoli, 1-4 dicembre 2004), a cura di Angelo r. Pupino, Napoli, Liguori, 2006, pp. 231-242. 20 A. Palermo, Da Mastriani a Viviani. Per una storia della letteratura a Napoli fra Otto e Novecento [1972], Napoli, Liguori, 1987, pp. 33-58: 34.
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letteratura e arti figurative in matilde serao 687 apparizioni, sensazioni); il telegrafo, invece, può fornire solo una composizione, un quadro sintetico, l’immagine sommaria dell’intero puzzle. Si percepirà il disegno complessivo, ma si perderanno le sfumature e la consistenza dei singoli fili che hanno contribuito all’arazzo. Date queste premesse, che ci piace definire “vagamente teoriche”, è naturale che il capitolo sulle Belle arti risulti ab origine costruito secondo una precisa idea descrittiva. Si prenda, in tal senso, il caso della sua ecfrasi più impegnativa, riservata al dipinto I funerali di Britannico di Giovanni Muzzioli (1854-1894, olio su tela, Ferrara, Museo dell’Ottocento – GAMC, 1888, fig. 2). La “lettera” che analizza il dipinto è datata 14 maggio 1888 e ha inizio con un riferimento, apparentemente irrelato, alla commedia in versi di Pietro Cossa Messalina, in scena per la prima volta il 3 gennaio del 1876 al teatro Valle e stampata nello stesso anno (Torino, Casanova)21. La scrittrice spinge il lettore a rievocare l’opera famosa e troppo presto dimenticata («Vi rammentate della Messalina, di Pietro Cossa?»), per poter strumentalmente nel paragrafo successivo fare un riferimento esplicito al quadro di Muzzioli, per il quale vale la pena si sia fatta la mostra bolognese. Dopo aver segnalato l’ambientazione («è un largo atrio del Palatino, in roma»22) la scrittrice traduce le immagini che vede secondo un movimento che va da sinistra a destra: […] fra le colonne marmoree, fra i bassorilievi, salgono dal giardino le rose primaverili a rianimare le lucentezze gelide delle pietre. Nel fondo, scendendo per una scala, uscendo all’aperto, passa il corteo funebre: e pretoriani, liberti, sacerdoti, portatori del giovine cadavere, tutti, anche il cadavere, sono colpiti da un nero nembo di vento e di pioggia, che ne sconvolge le figure e i vestiti, che li fa parere quasi trasportati in un turbine. Qui, avanti, a destra, buttata disperatamente sopra una tavola di marmo, coi neri capelli che le cadono sulla faccia, con le mani convulse che non arrivano ad afferrare il marmo levigatissimo, piange Ottavia, sorella di Britannico: alle sue spalle, tranquilla, bellissima, in una quieta posa romana di trionfo, Agrippina, l’avvelenatrice, solleva una tenda e guarda pacatamente il morto che ella ha ucciso, guarda se sia bene morto, l’unico rivale di Nerone suo […]23.
Fin qui l’occhio del descrittore coincide con quello dello spettatore comune attraverso una narrazione che si pone l’obiettivo ambizioso di
21 Sul Cossa si veda la voce di Giorgio Petrocchi in Dizionario biografico degli italiani, XXX, roma, istituto della Enciclopedia italiana, 1984, s.v. 22 M. Serao, L’Italia a Bologna, cit., p. 51. 23 Ivi, pp. 51-52.
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vincenzo caputo688 conservare un alto grado di oggettività, anche se l’oggettività è incrinata da un’aggettivazione fortemente sinestetica («lucentezze gelide», «nero nembo», etc.)24. Ciò che interessa maggiormente, però, è il tentativo successivo di passare dalla visione d’insieme (pseudo)oggettiva, la “telegrafia”, alla comprensione dell’animo delle figure dipinte, la “letteratura”. A questo punto, infatti, Serao si chiede quale sia il motivo, che spinge la folla a contemplare il dipinto. Sembra quasi che l’analisi del manufatto artistico proceda in due tempi narrativi diversi. Alla semplice descrizione succede il tentativo da parte della giornalista di individuarne (a voler usare il suo sintagma) il «segreto fascino»25. Perché il pubblico resta estasiato di fronte al quadro? Quali sono i motivi che spingono a pensare al dipinto di Muzzioli come al migliore della mostra? La riflessione della Serao è, in tal senso, estremamente significativa: il segreto fascino di questo quadro, quello che conquide il pubblico grossolano come il pubblico intellettuale, è che fu grandemente pensato e grandemente eseguito. L’opera intorno a cui un artista – intendami chi può – si mette con tutta la sua anima, per mesi e mesi della sua vita, senza voler altro, senza desiderar altro che il perfetto compimento di quest’opera: l’opera per cui un artista non solo interroga tutte le forze della sua fantasia, ma tutte le grandi sorgenti della storia e tutte le altre forme dell’arte, tanto che gli si crea nell’anima un ambiente solo, vivo, vibrante, quello dove vivrà la sua opera: l’opera in cui l’artista non si contenta di aver trovato una idea, in cui non ha l’audacia scapigliata di quelli che pensano solamente e non sanno rendere il loro pensiero, ma ne cerca lungamente, amorosamente, la forma più bella, più efficace, più reale e poetica a un tempo – quest’opera così fatta, dopo essere stata così pensata, porta in sé tutta la magia di una volontà, di un talento, concentrati, condensati26.
in questo caso non siamo più in una dimensione di inspiegabile estasi di fronte a un fascino, quello del Cristo di Altamura, che è tale su un piano del tutto soggettivo. A circa dieci anni di distanza dal bozzetto inserito nella raccolta Dal vero, Serao tenta ora di codificare il «fasci
24 Sulla sinestesia come figura retorica tipicamente deputata alla descrizione di opere d’arte cfr. Pier Vincenzo Mengaldo, Tra due linguaggi. Arti figurative e critica, Torino, Bollati Boringhieri, 2005, pp. 30-32. 25 M. Serao, L’Italia a Bologna, cit., p. 53. 26 Ivi, pp. 53-54. Segnaliamo per inciso che ne L’Italia a Bologna Serao non fa riferimenti marcati alla scuola pittorica napoletana. La scrittrice individua, in maniera generale, due categorie: i «pittori della figura umana» e i «pittori di paese».
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letteratura e arti figurative in matilde serao 689 no segreto» del dipinto attraverso un’idea precisa. La grande opera d’arte è veramente tale se nasce dall’incontro di due distinte forze creative, il “pensiero” e l’“esecuzione”. il dipinto finisce per divenire una sorta di sineddoche (condensata) del più ampio sforzo di far coesistere, in equilibrio sempre precario, “pensiero”, “anima”, “fantasia”, “idea”, da un lato, e “esecuzione”, “compimento”, “storia”, “forma”, dall’altro. Sia consentito, a conclusione di queste “note bolognesi”, uno slittamento cronologico di un ventennio. usò un lessico simile Salvatore Di Giacomo per molti dipinti di Domenico Morelli (la sua biografia morelliana fu edita per la prima volta nel 1905: roma-Torino, roux & Viarengo). in Di Giacomo, però, il «fascino segreto» della pittura si carica di valenze diverse. Si veda il caso del Tasso che legge la Gerusalemme liberata a Eleonora d’Este (olio su tela, roma, GNAM, 1865), che diviene l’occasione per descrivere le immagini non solo attraverso gli occhi di un semplice spettatore, ma anche attraverso i turbamenti interiori (psicologici?) che quelle immagini determinano in lui. La descrizione del dipinto può in questo caso mostrarsi come un’occasione narrativa, per evidenziare in generale alcune precipue convinzioni estetiche: Quelle sono, a parer mio, le opere d’arte più impressionanti le quali in coloro che, dopo d’averne rilevato tutto il fascino, se ne sono allontanati lasciano un dubbio impaziente e quasi tormentoso, l’eco, vorrei dire, di quella fiduciosa voce dell’artista il quale par che desideri di continuare il suo sogno nell’anima degli altri e dica loro: Cercate27…
La vera opera d’arte finisce si identifica nell’affermazione digiacomiana, in un tramite misterioso tra la mente dell’artista e quella dello spettatore. L’ammirazione di quest’ultimo può manifestarsi non grazie alla visione diretta ma alla riflessione su di essa. rispetto all’«estasi» della Serao, il «dubbio» di Di Giacomo è fortemente connotato da aggettivi come «impaziente» e «tormentoso». il dipinto “parla” (in modi inquietanti) al suo spettatore, invitandolo a continuare la ricerca sulle reali motivazioni del suo «fascino»28.
27 S. Di Giacomo, Domenico Morelli, cit., p. 78 (nostri i corsivi). 28 Su Di Giacomo e le arti figurative del suo tempo si veda raffaele Giglio, Ut pictura poësis. Scritti su poeti e pittori. Salvatore Di Giacomo e altri con tavole a colori fuori testo, Casalnuovo di Napoli, Phoebus Edizioni, 2013, part. pp. 53-78, 123-144, 145-252 e l’edizione recente del carteggio con Balestrieri: S. Di Giacomo, Lettere a Lionello Balestrieri, a cura di P. Bianchi, roma, Salerno Editrice, 2017.
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vincenzo caputo690 4. Noterella su un “ritratto” di Teresa Ravaschieri L’explicit della seconda edizione del Ventre di Napoli (Napoli, Francesco Perrella, 1906) è affidato a uno scritto, intitolato Una donna e datato «autunno 1904». Si tratta di poche pagine, sulle quali chiudiamo la nostra troppo breve rassegna. A conclusione di uno dei suoi libri più importanti, Matilde Serao guarda al passato. Avvia uno sforzo analettico, che la riporta a una città di circa trent’anni prima. Ad attivarlo è un «antico ritratto», la fotografia di una donna, che l’io narrante rivede dopo aver frugato in una «polverosa cartella». il lessico della Serao è inequivocabile: abbondano termini come «malinconico», «vecchio», «antico», «polveroso», «morte», «pallido», «scolorato», «tristezza», «ricordo», «fantasma»29. Quell’album avvia una sorta di passeggiata della mente in un cimitero di volti. Anche in questo caso alla scrittrice interessa, in particolar modo, non la registrazione immediata dei sentimenti scaturiti dalla visione né tanto meno le caratteristiche delle immagini viste, ma piuttosto a interessare è l’impressione che quei volti suscitano in lei, quello che accade – a voler semplificare – nella mente della spettatrice nel momento in cui si chiude l’album. La visione del ritratto provoca – ci sia consentita la formula – un effetto “in differita” e la scrittura è chiamata a registrare questo effetto. È ciò che accade, nello specifico, con il volto della nobildonna Teresa Filangieri Fieschi ravaschieri (1823-1903): Questo ritratto è di Teresa ravaschieri e già, in quel tempo in cui fu amichevolmente donato, non era un ritratto nuovo: veggo un viso ovale, sereno, sorridente, eminentemente giovanile: e dei bruni e folti capelli neri, ove si appoggia un diadema prezioso: un vestito da festa che scovre un collo e delle spalle statuarie, adorne di una collana ricchissima: una testa da cameo, infine, ove la purezza delle linee è animata dalla espressione più spirituale, nella luce dei cari occhi larghi e limpidi, nel sorriso della bella bocca, in tutta la quiete viva e fresca della fisonomia. il prezioso ritratto, dunque, mostra una Teresa ravaschieri in tutta la pienezza della sua beltà e della grazia muliebre […]30.
È il ritratto di una primavera, della donna e della città, il quale appunto scuote l’«animo» e la «fantasia» della narratrice. insomma l’immagine abilita una riflessione, che la scrittura è chiamata a fissare sulla carta.
29 Cfr. M. Serao, Il Ventre di Napoli, cit., part. p. 181. 30 Ivi, p. 182.
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letteratura e arti figurative in matilde serao 691 Non è il caso di seguire troppo da vicino l’esaltazione seraiana delle opere caritatevoli della ravaschieri. Preme, piuttosto, ribadire che il racconto dell’immagine trovata nell’album avviene, nella dimensione intima della memoria, attraverso un’implicita associazione tra la donna e la città, il ricordo nostalgico del tempo passato dell’una e dell’altra. rispetto al lessico funereo dell’incipit, precedentemente segnalato, ora i «ricordi» diventano «belli», l’immagine della filantropa appare in una selva di «rose vivide flagranti», al suo contatto Serao sente «ringagliardire» l’affievolita fede cristiana31. ritoccare all’altezza dei primi anni del Novecento il “ventre” del 1884 significa inevitabilmente andare con la memoria a un’altra Serao e a un’altra Partenope. L’indicazione di tempo e luogo («Napoli, autunno 1904»), che chiude il capitolo Una donna e insieme l’intero libro, assume, da questo punto di vista, un significato ulteriore; diventa un’epigrafe, che serve a conservare e commemorare ciò che non c’è più. A voler riassumere, il ritratto fotografico della nobildonna non è soltanto la raffigurazione di un volto: Non è morta una donna, l’anno scorso, il dieci di settembre: si è dileguata la più incomparabile forza spirituale: è scomparsa la miglior parte di noi, quella che riassumeva le tre virtù dell’anima, la carità, la fede, la speranza: abbiamo perduto, con lei, il segreto della nostra vita di cristiani operosi e di creature umane degne di questo nome […]32!
insomma Teresa ravaschieri rappresenta una parte di Napoli, che – all’altezza dell’«autunno 1904» – non c’è più. Di quella Napoli è possibile ora dare soltanto un amaro necrologico: ad accenderlo è una fotografia, un ritratto muliebre. Quel ritratto finisce per divenire segno concreto di una più ampia e astratta riflessione personale; è immagine metonimica, che salda memoria intima e memoria cittadina. Aveva detto, all’altezza del 1879, di non intendersi di pittura. A noi da questi minimi sondaggi pare, invece, avesse inteso benissimo tutti i poliedrici esiti che, sul piano letterario, possono fecondamente scaturire da un’immagine.
Vincenzo Caputo università Federico ii – Napoli
31 Ivi, p. 183. 32 Ivi, p. 185.
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Fig. 2. Giovanni Muzzioli, I funerali di Britannico, olio su tela, Ferrara, Museo dell’Ottocento – GAMC, 1888.
Fig. 1. Saverio Altamura, Il silenzio di Gesù (o Gesù tra i farisei), olio su tela, Pompei, Basilica di Pompei, 1867.
PATriCiA BiANCHi La scrittura di Matilde Serao per il cinema
La Serao è la prima tra gli intellettuali italiani a scrivere del cinema con un ironico articolo del 1906 e passerà da posizioni critiche verso la nuova arte a una partecipazione sempre più convinta che si realizza in articoli di critica cinematografica e in scritture per il cinema con adattamenti dai suoi romanzi e con sceneggiature. Nella critica cinematografica in particolare la Serao sperimenta nuovi spazi giornalistici per la scrittura.
★ Serao was the first italian intellectual to write about cinema in an ironic article dated 1906. initially sceptical about the new form of art, her interest grew, as she wrote articles concerning cinema, adapted her novels for the cinema and penned screenplays. in her film criticism, in particular, Serao breaks new journalistic ground.
1. Cinematografeide! Cinematografeide!: con l’invenzione di questa parola Matilde Serao arriva per prima a scrivere di cinema: con questo titolo pubblica infatti il Moscone sul «Giorno» del 30 marzo 1906 che è il primo scritto sul cinematografo di un intellettuale italiano su un giornale1. E Serao, da esperta giornalista, intercetta una tendenza nuova nella
Patricia Bianchi: università di Napoli Federico ii; professore ordinario; bianchi@unina.it 1 Cinematografeide! ristampato in I mosconi di Matilde Serao, a cura di Gianni infusino, con prefazione di Mario Stefanile, Napoli, Edizioni del Delfino, 1974, pp. 138-140, da cui sono tratte qui le citazioni; per il contesto si veda Aldo Bernardini, Cinema muto italiano, Bari, Laterza, 1980, vol. 2, pp. 20-21. il saggio qui proposto riprende con modifiche e ampliamenti il tema già in Patricia Bianchi, L’attrazione fatale dall’“arte muta”, dal libro al teatro fino al cinema, in Gabriella Liberati, Giuseppe Scalera, Donatella Trotta (a cura di), Visibili, invisibili. Matilde Serao e le donne nell’Italia post-unitaria, roma, CNr-Consiglio Nazionale delle ricerche, 2016, pp. 149-164.
patricia bianchi694 cultura, un mutamento antropologico in atto, e sintetizza la febbre del cinema che dilagava in città come Napoli coniando il neologismo Cinematografeide, con il suffisso -eide che colora di un tono di epicità ironica la parola ‘cinematografo’ che aveva cominciato a circolare in italia dal 18962, sull’eco del termine francese creato per l’invenzione dei Lumière. La prima proiezione pubblica a Napoli era stata fatta il 31 marzo 1896 nel Salone Margherita, preceduta il giorno prima da una proiezione per un ristretto numero di invitati. Le prime proiezioni erano state segnalate brevemente dai giornali cittadini tra gli spettacoli, e solo il «Corriere di Napoli» aveva riservato uno spazio maggiore, titolando Cinematografo Lumière una serie di brevi pezzi, a firma Job, nei Mosconi del 29 marzo e dei giorni successivi3. Le segnalazione del «Corriere di Napoli» giocarono un ruolo importante nella pubblicità del cinematografo che ebbe subito successo in città, mentre, stranamente, si trovano solo rari e brevi accenni alle prime proiezioni nei Mosconi seraiani del «Mattino», che pure prestavano molta attenzione agli eventi mondani del Salone Margherita. un primo Moscone più ampio appare nel 1898, quando i Magazzini Mele, per farsi pubblicità, promuovono delle proiezioni gratuite, ma in questo caso si mette in risalto più l’iniziativa generosa degli imprenditori che lo spettacolo cinematografico. La Serao dunque in una prima fase non commenta, e del resto anche gli altri intellettuali italiani tacciono, sembra fermarsi a osservare un fenomeno in rapida evoluzione tecnica, artistica e sociale e solo nel 1906 scrive il lungo articolo sulla nuova moda culturale e i suoi possibili effetti. La passione per il cinematografo dei napoletani e l’apertura di una miriade di nuovi locali in città è paragonata alla diffusione repentina e incontrollabile di un’epidemia: Come nasce un’epidemia? Come si sviluppa un morbo? Si ha un caso isolato, di quelli che i medici chiamano sporadici, e che impensieriscono pochissimi o nessuno: poi un altro, e due, e quattro, e a mano a
2 Per la storia della parola e del linguaggio cinematografico si veda Enciclopedia dell’italiano, roma, istituto dell’Enciclopedia Treccani, 2011 (www.treccani.it/ enciclopedia/italiano) nella voce curata da Fabio rossi, La lingua del cinema, e anche id., Il linguaggio cinematografico, roma, Aracne, 2006; id., Lingua italiana e cinema, roma, Carocci, 2007. 3 Comparvero brevi articoli sul «Corriere di Napoli» il 29, 30, 31 marzo e 1 aprile 1896, su «il Mattino» il 28-29 marzo e il 31 marzo-1 aprile 1896 e sul «roma» il 20 marzo e il 1 aprile 1896; si veda Claudio rubino, Cinematografo a Napoli: appunti sulle origini (1896-98), «immagini. Note di storia del cinema», n. 4, prima serie, 1982, pp. 21-24.
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mano il numero cresce, e l’allarme si propaga, finché il flagello impera, sovrano, finché il terrore vince gli animi di tutti e nessuno pensa più a sottrarvisi, e nessuno sa più mettersi in salvo… Così è avvenuto per tante cose, per tante manie4.
L’osservazione della giornalista coglie l’aspetto del cinematografo come moda dilagante tra un pubblico popolare e anche borghese, in alternativa al teatro e al varietà, e come creazione di un tipo di spazio comune che modifica l’assetto urbano. Siamo in quel periodo di passaggio, a inizio del Novecento, in cui cambia notevolmente il profilo delle città sotto la spinta di quell’insieme di mutamenti che chiamiamo modernizzazione5. Napoli, sia pure con modalità proprie di conservazione di nuclei socioeconomici e linguistici6, è partecipe di questa trasformazione, promossa soprattutto nell’alta borghesia cittadina: con grande intuito, la Serao legge la modificazione in atto dell’assetto urbano e culturale della città e lo racconta. in una immaginaria passeggiata con la scrittrice scopriamo aspetti della città che cambia a partire dall’arredo urbano e dalla destinazione d’uso dei locali: un tempo era il cafè concert che infieriva, e ad ogni svolta di via c’era una baracca in cui una disgraziata creatura assalita dai crampi allo stomaco si contorceva miagolando, mentre dei tromboni le ruggivano ferocemente in faccia; poi è stata la volta dei bar […]. Vedete, innanzi a un magazzino, un assito7 con una striscia di tela? inutile che leggiate la scritta: posso giurarvi che dice: Cinematografo Sirena. Prossima apertura. Vedete, innanzi ad un altro magazzino aperto da poco e sfolgorante di lampadine, un gruppo di gente che aspetta per entrare? inutile che domandiate di che si tratta; ve lo dico io: è il Cinematografo Masaniello, inaugurato ieri appena8.
La sala cinematografica come neo-luogo urbano viene enfatizzata dalla Serao che non manca di notare il rapido cambiamento dei gusti del pubblico nella ricerca di nuovi spazi destinati all’intrattenimento e allo spettacolo, che comportano anche modificazioni delle forme espressive e della loro fruizione9.
4 M. Serao, Cinematografeide!, cit., p. 138 5 Francesco Barbagallo, Napoli. Belle Époque (1885-1915), Bari, Laterza, 2015. 6 Nicola De Blasi, Storia linguistica di Napoli, roma, Carocci, 2012; id., Saggi sulla storia linguistica di Napoli, Napoli, Società Napoletana di Storia Patria, 2017. 7 “Assito”: ‘parete di assi, tramezzo di legno’. 8 M. Serao, Cinematografeide!, cit., p. 139. 9 Per il tema dei nuovi spazi fisici e culturali nelle città si veda Elena Mosco
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patricia bianchi696 Gli stessi comportamenti sociali (anche minimi, come i temi delle conversazioni) sono influenzati dalla nuova mania: «E il cinematografo regna, e impera, e s’impone, e domina, e spadroneggia, e invade ogni cosa, la mondanità, la beneficenza, l’arte, il teatro!» La cinematografeide, diagnosticata con toni di satira, ha per Serao la valenza di un vero e proprio morbo, almeno a questa altezza cronologica, con eccessi da cui occorre difendersi, ma è comunque una malattia che si prevede non di lunga durata, e in questa previsione l’acuta giornalista sbaglia clamorosamente: «Dove salvarsi? Come salvarsi? Nessun rimedio, lettrice e lettore! rassegnarsi, e aspettare l’ora della liberazione! Ed essa verrà quando i cinematografi saranno tanti che finiranno col divorarsi a vicenda, e noi andremo a fare, io lo giuro, una danza di gioia, innanzi all’ultimo obiettivo che esalerà l’ultima proiezione!»10. E la giornalista, quasi con una sorta di preveggenza degli attuali sistemi smart di ripresa, immagina sul piano sociale un’invasione che stravolgerà anche la riservatezza della vita privata con i suoi strumenti tecnologici, rendendo di pubblico dominio ad esempio certe forme di corteggiamento un po’ maliziose e un po’ giocose in cui il gentiluomo del bel mondo napoletano si compiace di fare il cascamorto (napoletanamente il farenella) con le signore: E la macchina terribile, non contenta di aspettarvi in agguato nella sala semibuia, vien fuori alla luce del sole e vi colpisce in pieno movimento e vi coglie a tradimento, quando meno l’aspettate… Siete alla passeggiata della Dante? Ed ecco il cinematografo che vi sorprende a fare da cavalleresco cicerone ad una bella signora, e vi tramanda ai posteri mentre fare il farenella… Siete in villa, aspettando qualcuno? Ed ecco il cinematografo che ci piglia in pieno colloquio e immortala nei suoi films il vostro innocente flirt…11.
Le brillanti note della Serao rispecchiavano una situazione reale. La rapida moltiplicazione delle sale cinematografiche a Napoli era iniziata subito dopo l’arrivo della prima macchina Lumière nel 1896, però le proiezioni, molto brevi, erano offerte in abbinamento agli spettacoli di varietà, e questo in qualche modo le svalutava e le svantaggia
ni, L’impressione del film. Contributi per una storia culturale del cinema italiano 18951945, Milano, Vita e Pensiero, 2006, pp. 123-133 10 M. Serao, Cinematografeide!, cit., p. 140. 11 Ivi, p. 140; ‘farenella, farenello, fariniello’ in italiano regionale e in napoletano per “cascamorto, galante”, probabilmente dall’uso teatrale dell’attor giovane che, per le parti dell’innamorato, si sbiancava il viso con la farina.
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la scrittura di matilde serao per il cinema 697 va rispetto al pieno gradimento del pubblico, più abituato ai generi teatrali. i fratelli Marino e Corcione, proprietari del Salone Margherita, avevano introdotto il cinematografo in città nel loro teatro con bei decori liberty, ma non riuscirono a valorizzare a pieno il potenziale del nuovo mezzo proprio per questa consuetudine alla commistione con il varietà tradizionale, che peraltro si rivolgeva a un pubblico raffinato di dandy e di alta borghesia mondana. Dopo esordi non esaltanti, gradualmente il cinema incuriosì e appassionò più ampi strati del pubblico, interessando i napoletani anche dal punto di vista imprenditoriale così che, con varia fortuna, tra la fine dell’800 e i primi del ’900, i più intraprendenti si dettero ad aprire sale di proiezione. Napoli diventò precocemente anche un centro di produzione del cinema muto, seguito poi da giornali e da riviste specializzate come «Lux», «il cinematografo», «La cinefono»12. Per l’imprenditoria cinematografica napoletano ricordiamo, agli inizi del Novecento, Gustavo Lombardo (padre di Goffredo Lombardo che sarà poi presidente della Titanus), fondatore della Lombardo Film, casa di produzione, già di tipo industriale, creata a Napoli con sede al Vomero. Nel 1905 dunque le sale cinematografiche a Napoli erano numerose e frequentate, e alle famiglie borghesi si univano quelle dei ceti popolari, grazie a una politica oculata di gestione delle sale. Erano più accessibili per il costo e per il tipo di pellicole proiettate la Sala Cattaneo di piazza Municipio e la Sala roma, che aveva introdotto i biglietti cumulativi, mentre si rivolgevano a un pubblico d’élite, mettendosi in concorrenza con i teatri anche per la struttura e l’arredo, l’Olympia, raffinata sala liberty in via Chiaia, e il Salon Parisien, anch’esso in piazza Municipio, e a questi si aggiungevano, tra i più frequentati, il Krumans e il Moderno a via Guglielmo Sanfelice. Nella mappa urbana le sale erano dislocate attorno a Toledo, Chiaia e la Galleria umberto, cioè nel centro elegante delle banche, delle imprese commerciali, dei teatri, dei grandi negozi e soprattutto delle sedi dei giornali.
12 Questa stagione è stata ricostruita in una serie di articoli basati su fonti giornalistiche e su interviste a chi era stato memoria storica di quegli anni (come i produttori Gugliemo e Vincenzo Troncone ed Emanuele rotondo), raccolti in Paolo Foglia, Ernesto Mazzetti, Nicola Tranfaglia, Napoli ciak. Le origini del cinema a Napoli, introduzione di Ernesto Mazzetti, postfazione di Valerio Caprara, Napoli, Colonnese, 1995. Si vedano anche roberto Ormanni, Napoli nel cinema, roma, Newton Compton 1995;Vittorio Martinelli, Bianco e Nero. Il cinema muto italiano 1922-1923, roma, rAi-Eri, Centro Sperimentale di Cinematografia, 1996.
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patricia bianchi698 Occorrevano però sempre nuove pellicole da proiettare, e una produzione diversa da quella francese ma anche da quella italiana che aveva i suoi centri di produzione a Torino e a roma. Nel 1905 si comincia a girare13 a Napoli con sistematicità grazie ai fratelli Guglielmo e roberto Troncone: roberto produce La carrozza di Montevergine e L’eruzione del Vesuvio, una ripresa dal vero, oggi perduta, che ebbe risonanza internazionale; per il genere comico produce con un immediato successo di pubblico e botteghino Il marito distratto e la moglie manesca, dove compare per la prima volta sullo schermo Francesca Bertini, attrice allora in una compagnia dialettale. Negli anni seguenti si afferma in crescendo l’industria del cinema muto napoletano, che si struttura dapprima con case di produzione organizzate come imprese di tipo familiare: si girano film mediamente di duecento metri, con riprese prevalentemente in esterno perché meno costose, o su palcoscenici di fortuna, senza studi propri, con mezzi limitati. Si avviano così le prime case di produzione napoletane, che saranno numerose ma spesso con una vita breve a causa della loro sovrabbondanza ma soprattutto per la mancanza di capitali iniziali e per gli incassi insufficienti rispetto agli investimenti necessari. Tra le case di produzione più attive ricordiamo la Vesuvio e la Partenope, a cui si aggiunsero la Vesuvius, la Napoli, la Dora Film di Nicola ed Elvira Notari, la Gloria, la Drammatica Film, la Costante Film, la Della Torre. il tipo di cinema che viene realizzato a Napoli è ben riconoscibile in quanto si basa prevalentemente sui temi del folclore tradizionale partenopeo, con scene di vita “dal vero” che però spesso è un vero ricreato nei teatri di posa, diffuso e consolidato nel tempo proprio da questo tipo di rappresentazioni. ricorrono, ad esempio, i soggetti sulla camorra, già popolari grazie al teatro, in particolare di Mastriani e Di Giacomo, e tutti i luoghi comuni e gli stereotipi del protogenere, dai mangiatori di maccheroni alla tarantella alle feste di Piedigrotta. Faceva eccezione la produzione della Napoli Film, orientata su soggetti di tipo sentimentale e psicologico, secondo una tendenza in voga nelle produzioni romane e torinesi. Buoni successi anche internazionali poteva vantare anche una casa di produzione tutta familiare come la Dora Film, attiva sino agli anni ’30, grazie all’intraprendenza della salernitana Elvira Coda Notari14,
13 Entra nell’uso all’inizio del Novecento il tecnicismo “girare” nel significato di ‘riprendere una scena con una macchina da presa’ quando appunto quelle macchine funzionavano con una manovella girata a mano: per i tecnicismi del cinema si veda F. rossi, Lingua italiana e cinema, cit., pp. 16-26. 14 Sull’attività della Notari: Monica Dall’Asta (a cura di), Non solo dive. Pio
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la scrittura di matilde serao per il cinema 699 attrice, soggettista, regista, fotografa e animatrice di una scuola di recitazione cinematografica15. Notevole l’apporto tecnico della Dora Film: i Notari brevettarono una macchina per la coloritura dei fotogrammi delle pellicole ed ebbero un loro laboratorio per la stampa e la titolatura dei film. La produzione della Dora Film si caratterizzò per soggetti dalla napoletanità di maniera, molto graditi dal pubblico locale e soprattutto dagli emigrati negli Stati uniti, che furono tra i principali sostenitori dei suoi film; proprio la comunità italo-americana negli anni Venti commissionò alla Dora film circa settecento brevi documentari sui luoghi d’origine degli emigrati e sui loro costumi e riti religiosi. Dopo gli anni Venti, Elvira, che già aveva ricavato dai romanzi di appendice i profili dei suoi personaggi femminili, si specializzò in film tratti dalle trame dei melodrammi. La Notari, pioniera tra le donne del cinema, ben conosceva la fama della Serao che ammirava come giornalista e scrittrice e avrebbe voluto trasporre in una sua pellicola il testo seraiano di Stermenator Vesevo16. Secondo il racconto di Eduardo Notari, sua madre Elvira andò a casa della Serao per proporle una collaborazione ai soggetti dei film, ma sembra che la scrittrice rifiutasse bruscamente l’offerta17, forse perché non condivideva i soggetti marcatamente connotati in senso locale e popolare di Elvira o forse perché ambiva a produzioni più importanti, come quelle romane, con diritti d’autore più cospicui.
niere del cinema italiano, Bologna, Cineteca, 2008; Giuliana Bruno, Rovine con vista. Alla ricerca del cinema perduto di Elvira Notari, Milano, La Tartaruga Edizioni, 1995; Laura Modini, L’occhio delle donne. Le registe e i loro film. 1986-1996, Milano, Ass. L. Marinelli, 1996; Enza Troianielli, Elvira Notari pioniera del cinema napoletano (1905-1930), roma, Euroma La Goliardica, 1989. 15 Elvira realizzò circa sessanta lungometraggi e un centinaio di cortometraggi; tra i suoi titoli Carmela la pazza (1911), Figlio del reggimento (1915), Carmela la sartina di Montesanto (1916), La Medea di Portamedina (1919), Gennariello il figlio del galeotto (1921), Trionfo cristiano (1930). Della produzione dei Notari oggi restano tre film conservati nella Cineteca nazionale di roma: È piccerella (1922), ’A santanotte (1922), Fantasia ’e surdate (1927). 16 M. Serao, Sterminator Vesevo, Napoli, Perrella, 1906: il libro raccoglie il reportage sull’eruzione di quell’anno. 17 La Serao avrebbe detto:«Sentite, voi che fate quello schifo di film, come vi permettete di venire da me? Fateme ’o piacere, iatevenne»: cosi in V. Martinelli, Due o tre cose che so di Elvira Notari, in M. Dall’Asta, Non solo dive, cit., p. 134. Sul rapporto (mancato) tra Notari e Serao si veda anche V. Martinelli, Sotto il sole di Napoli, in «Cinema e film», vol. 1, a cura di Gian Piero Brunetta e Davide Turconi, roma, Armando Curcio Editore, 1987, pp. 125-126; G. Bruno, Rovine con vista, cit., p. 251. ringrazio Anna Masecchia per le indicazioni sulla Notari.
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patricia bianchi700 Sappiamo che, nonostante alcuni successi con guadagni clamorosi, non tutte le pellicole avevano la stessa fortuna, ma va ricordato che il primo incasso da record fu proprio quello di Maria viene a Marcello, rielaborazione della garantita ditta di Elvira Notari. Anche il film tratto dalla commedia di Eduardo Scarpetta Na criatura sperduta18, proiettato nella Sala roma, in soli diciannove giorni raggiunse l’incasso straordinario di seimila lire. Di questa fiorente stagione di cinematografeide oggi abbiamo scarse informazioni e fonti frammentarie: gli stessi quotidiani non riportavano in modo sistematico la programmazione delle sale, le notizie sulle sale in attività e ancora meno si scrivevano resoconti delle pellicole proiettate19.
2. Giornalisti e scrittori per il cinematografo Dopo che la Serao ebbe toccato per la prima volta nel 1906 il tema della diffusione del cinema nella sua Cinematografeide!, Gualtiero Fabbri fu l’iniziatore della narrativa di ispirazione cinematografica con il racconto Al cinematografo! del 190720, pubblicato otto anni prima dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore di Luigi Pirandello21. Straordinaria personalità, Fabbri fu infaticabile poligrafo, autore (sfortunato) di romanzi e pioniere del giornalismo cinematografico, teorico di tecniche, riferimento anche per studiosi internazionali grazie al periodico da lui diretto «rivista fonocinematografica degli automatici, istrumenti pneumatici e affini». A Fabbri si deve appunto Al cinematografo!, il primo racconto sul tema cinematografico, che introduce il lettore alla conoscenza del punto di vista delle platee di inizio secolo con un’esperienza mediata dalla narrazione del protagonista, che descrive e commenta la visione di ben venticinque film. Dunque un racconto per più motivi interessante, che induce a retrodatare l’in
18 il film fu prodotto dalla Cines con il regista Geppino Jovine, la supervisione di Oreste Gherardini e con protagonista l’attore Carlo Pisacane. 19 un ottimo quadro complessivo nei volumi di Pasquale iaccio, L’alba del cinema in Campania. Dalle origini alla Grande Guerra (1895-1918), con prefazione di Pierre Sorlin, Napoli, Liguori, 2010, e id., Napoli d’altri tempi. La Campania dal cinema muto a “Paisà”, con prefazione di Carlo Lizzani, Napoli, Liguori, 2014. 20 Gualtiero Fabbri, Al cinematografo!, Milano, Tonini, 1907; si veda l’edizione curata e commentata da Sergio raffaelli per AirSC –Associazione italiana per le ricerche sulla storia del cinema, Bologna, 2012. 21 il romanzo di Pirandello, pubblicato a puntate nel 1915 sulla «Nuova Antologia», nel 1916 fu edito a Milano da Treves con il titolo Si gira…; venne poi ripubblicato con il titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore nel 1925.
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la scrittura di matilde serao per il cinema 701 contro fra cinema e letteratura in italia, a rintracciare i lineamenti d’origine della nostra critica cinematografica e l’atteggiamento dell’opinione pubblica e degli intellettuali verso il cinema. La larga diffusione, la grande varietà di proposte, il gradimento popolare della nuova arte contribuirono a radicare il cinema nella sensibilità culturale del Novecento. Scrittori e giornalisti maturarono o mutarono le loro opinioni sul cinema, passando da posizioni di critica o di svalutazione a una accettazione culturale o alla collaborazione professionale, motivata in parte anche dalle prospettive di guadagno aperte dall’industria cinematografica (altamente remunerativa) ai professionisti della scrittura22. È il caso, ad esempio, di roberto Bracco, commediografo e critico teatrale vicino al mondo giornalistico seraiano, che, dopo aspri articoli contrari, scriverà: «Che il cinema può essere arte è stato finalmente assodato», e diverrà egli stesso autore di soggetti cinematografici, in molti casi ricavati dai suoi testi teatrali. Al cinema Bracco riconosce la novità tecnologica della ripetibilità fotografica e meccanica delle rappresentazioni teatrali e lo status di finzione scenica e dunque di arte. Considerando questo punto di vista, non sorprende la sua attività come autore di soggetti cinematografici tratti dai suoi drammi come Il perfetto amore, Ll’uocchie cunzacrate, Piccola fonte, Piccolo santo, realizzati in pellicole purtroppo non tutte pervenute23. Tra le firme prestigiose dei giornali seraiani24 troviamo poi un autore d’eccellenza, cioè Salvatore Di Giacomo, anch’egli prestato al cinema, di cui basterà qui ricordare Assunta Spina. il dramma era stato scritto da Di Giacomo per la grande attrice partenopea Adelina Magnetti, che l’aveva portato sul palcoscenico del Teatro Nuovo di Napoli nel 1909 con protagonista maschile Giulio Donadio. il successo era stato immenso e il lavoro era stato ripreso negli anni successivi anche
22 Per i rapporti spesso complicati e conflittuali tra cinema e intellettuali si vedano ad esempio irene Gambacorti, Storie di cinema e letteratura. Verga, Gozzano, D’Annunzio, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2003; Fabrizio Miliucci, Guido Gozzano e “la film”, «Critica letteraria», n. 178, 2018, pp. 159-170. 23 Tra i film con soggetti di Bracco ricordiamo Nellina, Le due Marie, La moglie scacciata, Avvenire in agguato, Maternità, La principessa e Sperduti nel buio, giudicato il più riuscito. una dettagliata ricostruzione della filmografia bracchiana in P. iaccio, L’alba del cinema muto, cit., e in id., Il mare, la luna, i coltelli. Per una storia del cinema muto napoletano, Napoli, Pironti, 1988. 24 Per una ricostruzione di quell’ambiente culturale si vedano raffaele Giglio, Letteratura in colonna. Letteratura e giornalismo a Napoli nel secondo Ottocento, roma, Bulzoni, 1993 e id., Letteratura e giornalismo, Napoli, Loffredo, 2012.
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patricia bianchi702 da altre compagnie. A teatro, tra le lavoranti della stireria di Assunta, era una giovanissima Elena Seracini Vitiello che di lì a poco, col nome di Francesca Bertini, suggeritole proprio da Di Giacomo, avrebbe cominciato la sua carriera cinematografica25. Anche Serao, nell’arco di una decina di anni, sviluppa una diversa opinione sulla nuova arte, inizia a rapportarsi al cinema in modo positivo e soprattutto ne comprende le potenzialità come spazio nuovo per la scrittura. Per spiegare questo cambiamento a sé stessa e ai suoi lettori, parte dal suo punto di vista, che è allo stesso tempo misura della ricezione e prospettiva di descrizione. Così nell’articolo Parla una spettatrice26 la giornalista chiede ai suoi colleghi scrittori, ancora restii ad accogliere il cinema tra le arti, di guardare un film come uno «spettatore ordinario», senza idee preconcette. È lei stessa a fare questa prova, tra le «creature della folla» in una sala gremita e partecipe, testimone delle emozioni e del pathos che vede nel pubblico e che sono anche le sue emozioni: dunque, se il cinema riesce ad «andare per la verità delle cose e alla naturalezza della gente», non gli si può più negare il valore di arte, al pari della letteratura, della pittura, della scultura e della musica. La scrittura giornalistica della Serao si apre al nuovo racconto del cinema, conservando però le modalità linguistiche e testuali tipiche delle sue pagine e lo stesso rapporto empatico con il suo pubblico. E che la Serao sapesse cogliere gli umori del pubblico, anticipandone o addirittura creandone i bisogni, lo si può capire ad esempio da un articolo sul film Ma l’amore mio non muore con Lydia Borelli27, in cui definisce l’attrice «radiante di beltà», «singolarmente mutevole», «creatura d’eccezione… così tenera e drammatica, così sontuosa e così elegante, mai stata tanto penetrata di verità, nell’amore e nel dolore»: l’iperbole del linguaggio è funzionale alla narrazione dell’attrice che si fa ‘diva’, e segna giornalisticamente lo stile e l’orizzonte culturale che il film divistico iniziava a rappresentare. Dalla seconda metà degli anni Dieci aumenta il numero degli scrit
25 Diretto da Gustavo Serena per la casa produttrice romana Caesar, il film Assunta Spina (1915), recentemente restaurato dopo il ritrovamento di una copia in Brasile e restituito alle coloriture delle pellicole d’epoca (le famose ‘pellicole dipinte’), è ritenuto una delle opere più significative del cinema muto. 26 Articolo pubblicato su «il Giorno», maggio 1916, e poi in «L’arte muta», i, 15 giugno 1916. 27 Articolo pubblicato su «il Giorno» nel 1913 e poi su «La vita cinematografica» il 7 gennaio 1914.
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la scrittura di matilde serao per il cinema 703 tori noti che offrono i loro testi per la trasposizione cinematografica, come fanno Gabriele D’Annunzio, Giovanni Verga, Annie Vivanti, Luciano Zuccoli. Alcuni tra loro diventeranno «scrittori per il cinematografo», lavorando alle sceneggiature da soli o in collaborazione con altri più esperti della nuova arte: compongono specifici soggetti per il cinema gli stessi Bracco e D’Annunzio, Fausto Maria Martini, Alfredo Testoni, Gaetano Campanile Mancini, Giannino Antona Traversi. Sono le prime prove di una innovativa dimensione professionale in cui si cimentano scrittori e giornalisti, invogliati anche dai compensi delle case produttrici. Esemplare per la produzione e la riflessione teorica sul cinema il caso di D’Annunzio28: anche per urgenze economiche, concede alla casa produttrice Anonima Ambrosio di Torino i diritti di trasposizione cinematografica di sei tra le sue opere letterarie, e, dal 1911 al 1920, si realizzano ventidue film di soggetto dannunziano. D’Annunzio poi farà anche esperienze di scrittura funzionali al cinema: nel 1915 per la Musical Film di remo Sonzogno rielabora appositamente La crociata degli innocenti, inizialmente un suo libretto destinato al teatro d’opera, e nel 1920 scrive la sceneggiatura di Un uomo che rubò la Gioconda, film mai realizzato, nato come racconto di un fatto di cronaca. Si deve poi sottolineare come D’Annunzio, oltre a porsi come ‘divo’ negli atteggiamenti e nelle posture in cui è ritratto, si attribuisse una funzione di profeta rispetto agli sviluppi della nuova arte, nella quale ravvisava, come carattere identificativo, il potere di evocare il «meraviglioso»29. E ancora a D’Annunzio spetta il merito di aver legittimato la nuova arte in una prospettiva d’avanguardia, quando ancora era diffusa la diffidenza (o l’indifferenza) di molti intellettuali verso di essa: espresse efficacemente le sue considerazioni teoriche in Del cinematografo considerato come strumento di liberazione e come arte di trasfigurazione, pubblicato in occasione dell’uscita di Cabiria di Giovanni Pastrone, con sceneggiatura dannunziana, nel 1914, scritto che precede di due anni il manifesto La cinematografia futurista30. il dialogo tra scrittori e cinema si era andato intensificando, anche
28 Valentina Valentini, Un fanciullo delicato e gentile. Il cinema di Gabriele D’Annunzio, roma, Biblioteca del Vascello, 1995. 29 in un’intervista al «Corriere della Sera» del 28 febbraio 1914 dichiarava: «Pensavo che dal cinematografo potesse nascere un’arte piacevole il cui elemento essenziale fosse il “meraviglioso”. Le Metamorfosi di Ovidio! Ecco un vero soggetto cinematografico. Tecnicamente, non v’è limite alla rappresentazione del prodigio e del sogno». 30 il Manifesto fu pubblicato in «L’italia futurista», n. 9, 1916.
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patricia bianchi704 sul piano della riflessione teorica: Giovanni Papini, in un articolo del 18 maggio 1907 su «La Stampa» di Torino intitolato La filosofia del cinematografo, dopo l’invito a «gli uomini gravi e sapienti ad andarvi spesso», concludeva che «anche i cinematografi, dunque, sono oggetto degno di riflessione». Nello stesso anno Edmondo De Amicis pubblicava la raccolta di racconti Cinematografo cerebrale 31. Nel 1908 sul neonato mensile «Lux» napoletano del produttore Gustavo Lombardo appariva un’inchiesta su cinema e arte a cui risposero tre famosi uomini di teatro: roberto Bracco, Ermete Zacconi ed Eduardo Scarpetta. Scrittori e intellettuali scoprono il cinema, ma è vero anche l’inverso. Non poteva mancare di sperimentare il nuovo la matura Matilde Serao, sia con trasposizioni cinematografiche dei suoi testi narrativi, sia con scritture funzionali al cinema ma soprattutto con un’assidua scrittura giornalistica sul cinema che determina il suo apporto più originale in questo ambito.
3. Serao sceneggiatrice Nel dicembre del 1914, nel napoletano cinema Modernissimo, ci fu l’attesa première di La mia vita per la tua, il grande «romanzo cinematografico» di Matilde Serao, di cui ci dà notizia una recensione di «La vita cinematografica», tanto più preziosa in quanto la pellicola sembra andata dispersa. Girato nel teatro della Caesar Film, il film poteva puntare su un gruppo di attori famosi e amati dal pubblico, come la fascinosa Maria Carmi, il celebre Emilio Ghione che è anche il direttore di scena, Tullio Carminati, attore della nota compagnia Di Lorenzo, e Alberto Collo. La ‘prima’ fu un vero evento mondano, con artisti, scrittori e i critici di tutte le principali testate italiane. Ma il film non convinse i critici perché la trasposizione dal romanzo al film avrebbe richiesto, secondo loro, un diverso tipo di riscrittura e altri meccanismi narrativi: L’azione è divisa in tre parti, ma assume l’aspetto di tre episodi quasi distinti, e risente troppo della forma e della prospettiva letteraria, nelle quali l’epilogo viene a riannodare i diversi capitoli e a completare nell’immaginazione di ciascun lettore una concezione tutta individuale […]. Anche la grande scrittrice napoletana dovrà convenire, dopo aver visto la traduzione del suo lavoro romantico in forma proiettiva, che il bozzetto cinematografico è cosa che va studiata più profonda
31 Edmondo De Amicis, Cinematografo cerebrale, Milano, Treves, 1907; ripubblicato a cura di Biagio Prezioso, roma, Salerno editrice, 1995.
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mente, per non incorrere in slegamenti e illogicità […]. La fotografia è veramente buona, sia come inquadramento che come tecnica. Ne va dato anche merito alla Cines, che curò lo sviluppo del negativo a stampa, con accuratezza e diligenza. Per concludere […] diremo che i nomi della Serao, della Carmi, del Ghione e del Carminati danno affidamento che La mia vita per la tua potrà avere un certo successo finanziario, se non ha potuto raggiungere completamente quello artistico32.
i tempi cinematografici erano ben diversi da quelli dello svolgimento narrativo, e dunque anche per una scrittrice di grande esperienza occorreva rimettersi in gioco nel cambiamento. Certamente il film si avvantaggiò della fama della scrittrice e soprattutto dell’abile campagna pubblicitaria che la casa di produzione organizzò sui giornali, modernamente, coinvolgendo anche gli attori in interviste con entusiastiche dichiarazioni sull’ambiente di lavoro del film, sollecitando così la curiosità e l’attesa del pubblico. «Si tratta di un grande dramma veramente umano, in cui sono messe a nudo delle passioni ed in cui il più ineffabile dolore è espresso in un’azione rapida, stretta e densa. Non posso dire altro»: così anticipava, con studiata reticenza, la protagonista Maria Carmi. L’attrice poi magnificava i meriti della scrittrice: «prima di avvincere il pubblico, Matilde Serao ha saputo ottenere sì viva opera di suggestione sui suoi interpreti. Evidentemente, la grande scrittrice italiana ha dovuto proprio sentire nella sua anima i fremiti ed i palpiti che ha immaginato per le persone della sua fantasia»33. Di questo clima di generale soddisfazione per il film abbiamo eco anche nelle Memorie di Emilio Ghione: «Alla visione del film, Donna Matilde, fu veramente entusiasta, e me lo espresse con quella sua famigliarità tutta partenopea, applicandomi sulle guance un chiassoso paio di bacioni. Honny soit, qui mal y pense!»34. il pubblico, e non la critica, decretò il successo del «romanzo cinematografico» della Serao che nell’arco di pochi anni, secondo i suoi tempi di lavoro veloci, realizzò una serie di soggetti per il cinema muto, non tutti databili (e purtroppo oggi sono ancora dispersi i copioni cartacei e le pellicole), in parte tratti da suoi romanzi o racconti come Amo
32 «La vita cinematografica», dicembre 1914. 33 Ibidem. 34 Le Memorie di Ghione uscirono come supplemento a puntate sulla rivista milanese «Cinemalia»; per un’edizione recente Emilio Ghione, Memorie e confessioni. Scritti sul cinematografo (15 anni di arte muta), a cura di Denis Lotti, romaAncona, AirSC, 2011.
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patricia bianchi706 re e Castigo (1917), Cuore infermo o Dopo il perdono (1920); altri soggetti furono scritti appositamente per il cinema, con ambientazione popolare e di tipo sentimentale come Torna a Surriento, o con sfumature noir su trame d’adulteri come Il doppio volto (1918) e La mano tagliata (1920). Forte del successo commerciale del primo film, Serao trae il soggetto per il film O Giovannino o morte! (1915) dalla sua celebre novella, pubblicata per la prima volta in volume in All’erta sentinella! nel 1889 e più volte riproposta in altre raccolte. il film, che ha come protagonisti Pina Cicogna e Franz Sala, è prodotto dalla Musical Film di Milano con messa in scena di Gino rossetti, musica di Jvam Hartulari, e si avvale della sceneggiatura di Ernesto Murolo ricavata dalla sua riduzione teatrale della novella seraiana35. Si tratta quindi di una triplice transcodificazione, dalla novella al teatro e dal teatro al cinema, e in questo percorso, circolarmente, rientra nel cinema una Serao autrice. Qui dobbiamo ricordare che la scrittrice, spettatrice appassionata di teatro, di cui scriveva sui giornali e che spesso è anche scenario del suoi racconti, ebbe deludenti risultati dalle trasposizioni teatrali dei suoi testi: già nel dicembre del 1907 il drammaturgo francese Decourcelle mise in scena al teatro réjane di Parigi Dopo il perdono, riduzione del romanzo omonimo, che si risolse in un insuccesso anche per l’eccessiva letterarietà dei dialoghi nella trasposizione. L’intenzione della Serao di adattare il testo per la scena, affidato in questa occasione al più esperto uomo di teatro, probabilmente si realizzò nella successiva trasposizione cinematografica dello stesso soggetto. il film Dopo il perdono fu accolto favorevolmente, ed è spiritosamente partigiana la recensione de «il Mattino» del 21-22 gennaio 1920: Eletto e numeroso pubblico ieri al Cinema Vittoria per la prèmiere della straordinaria film Dopo il perdono della nostra grande scrittrice Matilde Serao. Elena Makowska è un’interprete impareggiabile e la messa in scena signorile e grandiosa. il tutto concorre al grande successo ottenuto. Oggi repliche […]. Avverto che bisogna considerare cautamente gli inserti sulla stampa per il loro carattere pubblicitario e smaccatamente adulatorio36.
Solo nel 1911 Ernesto Murolo ebbe il consenso a una riduzione teatrale di O Giovannino o morte! da una Serao che non aveva dimenticato
35 il testo in Ernesto Murolo, Teatro, Napoli, ricciardi, 1921, vol. iii, pp. 6 e segg. 36 «il Mattino», 20-21 gennaio 1920. La recensione è riportata in P. iaccio, Napoli d’altri tempi, cit., p. 13n.
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la scrittura di matilde serao per il cinema 707 l’insuccesso francese, ma anche questa volta la pièce, messa in scena nel novembre 1912 dalla Compagnia Napoletana Magnetti, non ebbe successo anche per l’eccesso di caratterizzazione del gran numero di personaggi. invece il film che se ne ricavò riuscì e piacque, e così ce lo racconta una recensione: riduzione cinematografica del dramma omonimo dovuto al genio dell’esimia autrice Matilde Serao; […] dirò solo che il lavoro, nella riduzione cinematografica, nulla perde della sua tragicità, anzi, questa acquistò maggiore evidenza. L’interpretazione è superiore ad ogni elogio, come pure buona (però potrebbe essere migliore) la parte fotografica. La musica appositamente scritta dal Mº ivan Darclée accompagna l’azione mirabilmente37.
Dunque, sia pure con le modalità di scrittura per il cinema dell’epoca e con la sua consueta abitudine a riproporre intrecci narrativi, la Serao può essere annoverata tra le autrici del cinema muto. Anche al tempo del sonoro la scia lunga dei racconti seraiani è ben riconoscibile: nel 1942 Luigi Chiarini gira La via delle cinque lune, su soggetto tratto proprio da O Giovannino o morte!, interpretato da Andrea Checchi; nello stesso anno Gianni Franciolini in Addio, amore!, interpretato tra gli altri da Clara Calamai, Leonardo Cortese e rolando Muti, fonde il romanzo omonimo con Castigo su sceneggiatura di Sergio Amidei e Gherardo Gherardi. Erano cambiati i tempi e con essi i gusti del pubblico e della critica, che possono essere sintetizzati e rappresentati da una recensione di raul radice sul «Corriere della Sera» del 21 dicembre 1944: Con questo film si chiude forse la sfilata dei romanzi ottocenteschi, che nell’ultimo triennio hanno alimentato una parte considerevole della cinematografia italiana. Dopo Capuana, Fogazzaro e De Marchi, non si poteva lasciar da parte la Serao che ha dipinto […] il mondo elegante della Napoli 1880 con carrozze imbottite, i portieri gallonati, gli scaloni principeschi, i folti tendaggi, i candelabri sempre accesi. […] il regista Franciolini si è posto sul piano dell’interprete fedele e gliene va data lode. […] Quanto a Clara Calamai, questa attrice ha un bel petto, ma ne abusa38.
Successivamente, e con altra prospettiva, Alberto Lattuada lavorerà a una sceneggiatura di La virtù di Checchina e Luigi Zampa scriverà
37 «Film», 15 marzo 1915. 38 raul radice, recensione in «Corriere della Sera», 21 dicembre 1944, riportata in P. iaccio, Napoli d’altri tempi, cit., pp. 319-320.
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patricia bianchi708 la sceneggiatura Vite sensazionali sulla biografia di Matilde ed Edoardo Scarfoglio, entrambi progetti mai realizzati come film.
4. La critica cinematografica di Serao L’apporto più significativo della Serao al cinema, sul piano quantitativo e dell’innovazione, resta però quello dato dalla sua scrittura giornalistica entro la quale, come vedremo, sviluppa una vera e propria tipologia di critica cinematografica. La stampa in Europa aveva iniziato a interessarsi alla nuova arte e al nuovo mezzo: erano stati eventi scatenanti la nascita in Francia della casa di produzione Film d’art, fondata a Parigi nel 1908, seguita in italia dalla Film d’arte, nata a roma nel marzo 1909, che misero in moto un’espansione dell’editoria cinematografica, anche per motivi di propaganda commerciale. A Napoli «il Tirso» (1904) è la prima rivista italiana che accoglie notizie e commenti cinematografici, come farà anche «il cinematografo» (1907). Le prime vere e proprie recensioni di singoli film apparvero su «La Gazzetta del Popolo» di Torino il 4 febbraio 1908, firmate da Mario Dell’Olio, e alla fine dell’anno già si pubblicavano a Napoli, forse il maggiore centro editoriale del settore, riviste specializzate come «il Café-Chantant» e «Lux». Proprio «Lux» (1908-1909) fu una completa novità fra le riviste di questo genere: ideata dal produttore napoletano Gustavo Lombardo, era rivolta agli esercenti e ai rappresentanti del settore del noleggio e della distribuzione ed era particolarmente riconoscibile per la sua grafica molto curata ed elegante. La prima rivista con una regolare rubrica di recensioni, intitolata Aristarcheide, fu la bolognese «La cinematografia italiana ed estera», filiazione di «La rivista fono-cinematografica», in cui la rubrica era compilata dal direttore Gualtiero Fabbri. A partire dal 1913 diversi quotidiani nazionali, come «La Gazzetta del Popolo», «il Giorno» della Serao, «La Tribuna», «il Giornale d’italia», «il Momento» di roma, inserirono una rubrica settimanale dedicata alle più importanti «rappresentazioni cinematografiche». Larga parte della pubblicistica di questo primo periodo, derivata dal modello della critica teatrale, era apologetica in senso commerciale e pubblicitario, stilisticamente attardata in un linguaggio altisonante e retorico, approssimativa nell’informazione e soprattutto nella descrizione tecnica, spesso solo portavoce della produzione. Ma non mancarono posizioni originali come quelle della rivista torinese «La vita cinematografica» (1910-1934) e della rivista romana «in penombra» (1917-19), diretta da Tomaso Monicelli, all’avanguardia anche grafica
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la scrittura di matilde serao per il cinema 709 per le illustrazioni di Sergio Tofano, Dudovich e De Pero. Espertissima di una comunicazione brillante, efficace e sempre in sintonia con i tempi, la Serao da Napoli scriveva sistematicamente anche di cinema nei Mosconi su «il Giorno»39. Gran parte di questi Mosconi cinematografici volarono rapidamente nell’elegante rivista «L’arte muta. rassegna di vita cinematografica» (1916-17), legata ai giornali della coppia SeraoScarfoglio e gestita dai figli Scarfoglio, in particolare da Paolo, basata in gran parte sulla riproposta delle recensioni seraiane. La cronaca mondana si intreccia con i resoconti dei film, in una linea di continuità del dialogo tra la giornalista e il suo pubblico: Serao non può mancare alle prèmieres dei grandi film, quelli delle produzioni più ambiziose, di cui dà conto con lunghi articoli, ricchi di descrizioni dettagliate delle trame delle pellicole, quasi per creare una scritturavisione per i lettori. Questi articoli sono sostenuti da uno stile letterariamente modulato, mosso da serie a cascata di interrogative retoriche, con insistite coppie aggettivali, un lessico ricercato, similitudini enfatiche e appelli al lettore; mancano quasi del tutto i vocaboli specialistici riferiti alle tecniche cinematografiche, mentre abbondano le parole delle emozioni. Prendiamo ad esempio la recensione del film d’ispirazione dantesca L’Inferno (1911)40, in cui la giornalista rimarca pubblicamente il suo cambiamento d’opinione rispetto al cinema dovuto anche a uno spettacolo che è «vero palpito di curiosità e di emozione»: Noi che, spesso, abbiamo detestato il cinematografo, per la banalità e la scempiaggine dei suoi spettacoli, noi, ieri sera, abbiamo fatto ammenda onorevole: noi ci siamo interessati come al più imponente spettacolo e il nostro animo ne è stato scosso e contiamo di ritornarci. Per noi il film della Milano per l’inferno di Dante ha riabilitato il cinematografo: per chiunque, tale spettacolo sarà un vero palpito di curiosità e di emozione. E se Gustavo Doré ha scritto, con la matita del disegnatore, il miglior commento grafico, al Divino Poema; questa cinematografia ha fatto rivivere l’opera di Doré41.
usa abilmente la strategia giornalistica del preannuncio la Serao, con una descrizione anche tecnicamente appropriata di Quo vadis?
39 Numerosi articoli seraiani sono stati censiti in P. iaccio, L’alba del cinema in Campania, cit. 40 L’Inferno (1911), regia di Francesco Bertolini e Adolfo Padovan e collaborazione alla regia di Giuseppe de Liguoro, fotografia di Emilio roncarolo, scenografia di Sandro Properzi. 41 «il Giorno», 2 marzo 1911.
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patricia bianchi710 (1914), che di lì a poco sarà proiettato a Napoli, e sappiamo che il romanzo di Sienkiewicz era stato tradotto dal polacco nel 1899 da Federigo Verdinois, giornalista e scrittore ben noto nei giornali di Serao e Scarfoglio, ottenendo un largo successo di pubblico, consenso che non mancò neppure alle trasposizioni teatrali, pittoriche e musicali, ma, per la Serao, solo grazie al cinema «la tragedia neroniana passò dalla visione del libro all’evidenza reale e palpitante della sua azione e della sua vita» e dunque solo il cinema sa suscitare nuove «impressioni e emozioni indicibili» che riempiono «di stupore e meraviglia il pubblico». La Serao fa sua una cifra stilistica dell’enfasi e dell’amplificazione emozionale, mirata a suscitare aspettative e stupore nei potenziali spettatori: ricordate? Tutta la nostra fantasia, tutto il nostro cuore ne palpitano al ricordo. C’è stato tutto un periodo della nostra vita portato via, nei sogni, dalla possanza evocatrice d’un grande romanzo. Mai, mai nessun altro, più di Enrico Sienkiewicz, ha potuto prendere la grande assise di marchand de rêves, ed esercitare un primato in tutto il mondo. Quo vadis? è stato immortale. Noi abbiamo conosciuto folle di lettori in delirio all’epoca della sua comparsa. i giornali ed i librai ne hanno esaurito milioni di riproduzioni. La pittura ne ha fatto dei magnifici quadri. Vi sono stampe inglesi in cui tutte le scene del romanzo famoso hanno avuto figurazioni plastiche degne del Doré. il teatro di prosa (senza mai raggiungere in verità le bellezze artistiche e scenografiche del libro) ha fatto passare attraverso una scheletrita condensazione della tragedia cristiana e imperialista tutte le figure create nell’evocazione magnifica del romanziere polacco; e il teatro di musica le ha dato (per opera di un musicista francese) esso pure, una forma d’arte, ma di non eccessiva efficacia poetica e drammatica […]. Così attraverso tutta questa vita artistica, mentre il capolavoro scritto rimaneva sempre, nelle sensazioni e nelle impressioni, l’opera più bella, si moltiplicava, dall’altro canto, negli spiriti avidi di riavvicinarsi alla vita vera di quelle figure e di quelle vicende, i desideri e le loro intensità ancora troppo inappagate. La dolcissima Licia […] è restata bella in noi più nella visione descrittavi, più in una particolar visione dei nostri occhi appassionati, che in qualsiasi riproduzione d’arte e di scena. E chi ha mai potuto rendere, con qualunque più alto sussidio della parola e del gesto, e del suono, e della voce, e dello scenario il Triclinio, e la cena di Petronio, e gli sfarzi e la bellezza delle sue liberte, e i grandi quadri delle ville di Nerone, e le sue epiche follie, e gli uomini accesi come fiaccole alla cima degli alberi, e la grandiosa scena del Circo, e la lotta di ursus per salvare Licia legata al toro, e le adunanze cristiane, e il mostruoso e raccapricciante incendio di roma?42
42 «il Giorno», 4 marzo 1913.
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la scrittura di matilde serao per il cinema 711 il cinema produce «lo spettacolo mirabile» e i resoconti dei film devono trasmettere ai lettori il senso di meraviglia e stupore: questa la linea della critica cinematografica seraiana, sviluppata con uno stile di manierata letterarietà tradizionale in cui si inserisce l’anglicismo “film” come sostantivo femminile43: Orbene, niuna forma rappresentativa poteva mai dare una visione più palpitante, più completa, più vera, più bella di ciò che può essere il Quo vadis? vivente, se non quella, spinta sino al prodigio, della ricostruzione cinematografica. Lo spettacolo mirabile è stato compiuto. È stato compiuto dalla Cines, che da questo campo va rivoluzionando il mondo, ha conseguito risultati stupefacenti per non aver mai indietreggiato davanti ad alcuna difficoltà ed aver tenuto in alto conto la suprema bellezza dell’arte armonizzata nei grandi quadri viventi ch’essa lascia passare davanti agli sguardi estatici delle folle inebriate. […]. Ma, dopo un’organizzazione colossale, che sembra veramente una cosa fantastica nelle sue curiosità particolari; dopo una preparazione storica delle più scrupolose e una ricerca di luoghi adatti a raffigurare mirabilmente l’ambiente; e dopo aver fatto confezionare i costumi più ricchi e più fedeli e scelti gli elementi migliori fra artisti di ogni grado, anche fra i più celebri, e reclutata una massa di migliaia di persone, e spesa, come è facile comprendere, una somma enorme, il Quo vadis? ebbe la sua grandiosa e perfetta ricostruzione; e la vasta e impressionante tragedia neroniana passò dalla visione del libro all’evidenza reale e palpitante della sua azione e della sua vita. Tutta l’immensità del quadro magnifico, vario, pittoresco, sensazionale, tenebroso, sanguinario, spettacoloso, passa in una movimentazione fenomenica davanti allo spettatore. È uno spettacolo mai visto. La cinematografia non ha mai creato nulla di simile. Si, è un mondo quello che la Cines ha ricostruito. un mondo d’una bellezza che incanta e fa fremere e di cui Licia è il gran sole di poesia. Le danze, i fuochi, i conviti, i paesaggi, le orgie, gli orrori, il terribile quadro dell’incendio di roma, l’evidenza del quale non è stata mai raggiunta in alcuna cosa simigliante, destano impressioni ed emozioni indicibili. Per raggiungere l’effetto adeguato all’incendio, la Casa Cines fece costruire tutta una zona dell’antica roma nelle sterminate pianure di Centocelle e poi la incendiò. Dopo di che segue la strage la fine di Nerone e del suo regno nel trionfo del cristianesimo, il che dimostra come anche una film cinematografica possa, dopo aver riempito di meraviglia e di stupore il pubblico, lasciare nella sua anima un senso di qualcosa che non passa, con la fine
43 “Film” (dall’inglese ‘membrana’) è attestato al femminile sino agli anni Trenta del Novecento; nell’italiano contemporaneo è al femminile il termine specialistico “filmina” (‘breve striscia di pellicola cinematografica con fotogrammi da proiettare’).
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dello spettacolo. Spettacolo nuovo, originale, sorprendente, d’una grandiosità non raggiunta mai, che noi vedremo presto al nostro Mercadante, ove tutte le cose sono prontamente reclutate. Napoli è una delle prime città che vedrà così il Quo vadis?. E che sarà la folla d’un tale avvenimento? E quale sarà mai il suo sconvolgimento e il suo delirio?44.
il meraviglioso del cinema e le sue potenzialità nel suscitare emozioni sono al centro anche della recensione Chi si commuoverà? Chi ammirerà? pubblicata su «il Giorno» che la Serao dedica alla dannunziana Cabiria, diretta da Pastrone. Qui risaltano le scelte del giornalismo cinematografico seraiano, orientato verso l’informazione ma soprattutto teso a suscitare la partecipazione emozionale nel pubblico attraverso una retorica magniloquente, in una lunga “tirata” che oggi sarebbe considerata poco giornalistica. L’ammirazione di tutto il pubblico è il risultato che ci si aspetta e si preannuncia: in particolare qui si vogliono coinvolgere nell’ammirazione della «proiezione» eccezionale coloro che ancora diffidano della nuova arte, quelli che Serao indica, con uno scarto verso un registro più colloquiale, come «i più indifferenti, i più scettici, i più brontoloni». Non mancano temi e argomenti ricorrenti della prosa seraiana, come l’appello alle donne e alle madri, che si affianca all’emergente attenzione della giornalista verso le innovazioni tecniche e la terminologia del racconto cinematografico: Quale sarà la più grande emozione fra la immensa folla che gremirà ogni teatro, ove si darà la visione di Cabiria di Gabriele D’Annunzio? E di chi sarà più intensa e più profonda la commozione? Di tutte quelle donne che iddio benedisse nella loro grande missione di genitrici, di tutte quelle madri che han figli più piccoli, più grandi: e, anche di tutte quelle donne che prive di questo soavissimo ufficio, diserte del nome di madre adorano anche più ardentemente tutto ciò che è un bimbo, una bimba, un giovanetto, una giovanetta. Giacché la singolare fantasiosa avventura della piccola Cabiria, la catanesella che giuocando nell’orto con la sua nutrice è sorpresa dal terremoto e dalla pioggia di fuoco etneo, che sfugge alla morte, per essere rapita dai pirati fenicii, che è comperata da Karthalo, il truce sacerdote di Moloch, per offrirla in olocausto, con gli altri fanciulletti, da bruciare, viventi, nelle fiammanti viscere del nume, Cabiria su cui si stende la tenera protezione del generoso Fulvio Axilla, del nerboruto e valoroso schiavo Maciste, Cabiria che è lì lì, per essere divorata da Moloch, in una scena di una possanza di storia e di arte e di riproduzione che rabbrividire, Cabiria salvata da Sofonisba, l’ardente fiore del melagrano, Cabiria che cresce,
44 «il Giorno», 4 marzo 1913.
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che si fa bella, che assume il nome di Elissa, Cabiria che è sempre insidiata, ma che è sempre protetta, anche da lontano, anche disperatamente da Fulvio e da Maciste, Cabiria che, infine salva, salva e navigante verso roma, roma infine vincitrice di Carthago, Cabiria in cui si simboleggia nell’ultimo quadro Eros, nelle pugne invitto, Cabiria farà sorridere e fremere e spasimare per la sua sorte perigliosa, per la sua sorte minacciosa, tutte le donne, tutte le madri e un gran sospiro di sollievo e un riso lieto, all’ultimo quadro, avranno tutte le madri, tutte le donne, vedendo la bella giovinetta, vestita di bianco, coronare di rose il suo salvatore, il suo amico, il suo sposo, Fulvio Axilla, mentre Cartagine è vinta e la nave va verso roma vincitrice! il poeta in esilio che tante altre creature muliebri […] ha figurato nei suoi romanzi e nei suoi drammi, ha dato tutti i fascini della purità, dell’innocenza del candore e della bellezza, a Cabiria: […] e ha messo in lei un fluido così vibrante che qualunque anima femminile ne palpita, ovunque la visione di Cabiria si svolge. E tutti i più indifferenti, i più scettici, i più brontoloni, dovranno ammirare, ammireranno, quanta grandezza di poesia, allarghi le misure di una comune proiezione e faccia di Cabiria qualche cosa di eccezionale, come sapiente unione come vasta unione di una graziosa e tenera storia di amor puro, di una possente istoria di passione, insieme agli avvenimenti più alti della lotta epica fra roma e Cartagine […]. Tutti ammireranno tutti, anche quelli che non sanno la storia, giacché la rivedranno, in quadri vibranti di luce, di fiamma: ammireranno tutti coloro che sono ignoranti di cinematografia comprendendo che sia questo un tentativo sublime: e ammireranno, stupefatti, tutti coloro che conoscono il segreto del cinematografo e veggono e vedranno che tutti i segreti, in Cabiria, son stati sorpassati!45
Se compariamo gli interventi di altri intellettuali sui giornali di quegli anni sui temi della cinematografia o su singoli film notiamo che erano quasi sempre assenti o minime le riflessioni di carattere teorico, le notazioni di tecnica cinematografica, e spesso erano scarsi anche gli elementi di analisi del film e le sintesi di gusto critico. La Serao sembra trovare una sua chiave di scrittura per il nuovo genere, fondendo schemi linguistici sperimentati che virano verso l’enfasi e la letterarietà con una narrazione che fa leva sulle emozioni, e prime tra tutte lo stupore, la meraviglia. La critica cinematografica seraiana dunque racconta il cinema come meraviglia novecentesca e nello stesso tempo predispone la meraviglia degli spettatori come atteggiamento di ricezione.
45 recensione pubblicata su «il Giorno» nel 1914 e riprodotta in Il restauro di Cabiria, catalogo a cura di Sergio Toffetti, Torino, Museo del Cinema, 1995, p. 72.
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patricia bianchi714 Nei primi decenni del Novecento le riserve verso il cinema degli intellettuali italiani restavano consistenti: ricordiamo, ad esempio, che «il Nuovo Giornale» di Firenze nel 1914 aprì un’inchiesta sul cinema ponendo ad alcuni scrittori sei domande, l’ultima delle quali era «Qual è l’avvenire del cinematografo? Quale sarà la sua evoluzione?». risposero in undici, ma, con l’eccezione di Giuseppe Prezzolini e di Filippo Tommaso Marinetti, nessuno vide un futuro per il cinematografo e ad esso venne negato un vero interesse culturale. E all’inizio del 1914, in un’inchiesta che voleva saggiare la disponibilità di narratori e autori teatrali a scrivere per il cinema, risposero in modo affermativo solo Luigi Capuana, Grazia Deledda, Nino Oxilia, Luciano Zuccoli. in questo contesto dunque è interessante l’insieme delle scritture seraiane per il cinema in quanto ancora una volta Matilde Serao aveva intuito e praticato precocemente una nuova dimensione dell’arte dello scrivere, amalgamando giornalismo e letteratura, moduli linguistici conservativi e contenuti innovativi.
Patricia Bianchi università Federico ii- Napoli
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CriSTiANA Di BONiTO Da Gibus a Snob: per una lettura linguistica di Api, mosconi e vespe al «Corriere di Napoli»
il contributo prende in esame, in prospettiva linguistica, la rubrica Api, mosconi e vespe al «Corriere di Napoli» redatta da Matilde Serao, con lo pseudonimo di Gibus, dal 1888 al 1892. Lo spoglio linguistico dei testi mostra alcuni aspetti specifici della scrittura giornalistica dell’autrice, che si caratterizza come originale e innovativa nei diversi livelli di analisi, soprattutto se confrontata con la prosa di Snob, pseudonimo di Salvatore Di Giacomo e roberto Bracco, autori della rubrica a partire dal 1892.
★ This article examines from a linguistic standpoint the column Api, mosconi e vespe in the «Corriere di Napoli», written by Matilde Serao, under the pseudonym Gibus, from 1888 to 1892. A linguistic analysis of the texts brings to light various features of the author’s journalistic writing, which distinguishes itself by virtue of its originality and innovative character on differing analytical levels, especially when compared with the prose of Snob, the pseudonym of Salvatore Di Giacomo and roberto Bracco, who took over the column in 1892.
1. Stile Gibus Chi è gibus. Poiché in questo giornale scrivono i più illustri letterati d’italia, da ruggiero Bonghi a Luigi Capuana, da Giuseppe Giacosa alla Contessa Lara, mi si domanda, da varie parti, a voce e per iscritto, chi sia d’illustre questo gibus che ogni giorno firma una colonnina di notiziette. Ahimè, io sono qui costretto a confessare che gibus non è affatto un illustre letterato: che non è neppure un letterato. Gibus non è altro che un umilissimo e perfettamente sconosciuto cronista, un ignoto vagabondo che va gironzando, quotidianamente, come uno sfaccendato qual è, per le sale dei concerti e per le esposizioni di pittura, che di sera va in teatro e va nei circoli, sempre col naso in aria, sempre inquieto – cercando, dapertutto, la notizia mondana, di arte, di letteratura – felice quando
Cristiana Di Bonito: CNr, istituto “Opera del Vocabolario italiano (OVi)” – Firenze; assegnista di ricerca; cristiana.dibonito@gmail.com
cristiana di bonito716
non ha sbagliato il cognome di una dama, o il grado di parentela di due famiglie aristocratiche. Poiché gibus, nella sua qualità di cronista, per una debolezza naturale della professione, è soggetto allo sbaglio: e quelle che i francesi assai caratteristicamente chiamano brioches, cospargono la sua vita di amarezze. Gibus è pieno di scrupoli, pieno di esagerata precisione, ma ogni tanto lo ingannano, in mala fede, o in buona fede, i suoi reporters: e il povero cronistello mette in collezione un’altra brioche. Egli è sempre combattuto, gibus, fra il desiderio di pubblicare una notizia e la paura di trovarla inesatta. Ma in cambio, questo sconosciuto, sì, ma appassionato cronista ha una devozione così profonda per le belle dame, per le donne eleganti, per i giovanotti chic, per quanto è arte, letteratura, festa degli occhi e festa dello spirito, che molti errori gli saranno perdonati. Egli fida nella grande indulgenza delle persone belle: la beltà, l’eleganza sono naturalmente pietose.1
Con queste parole, tra le quali si nota l’uso particolare brioche nel senso di ‘errore marchiano’2, nella veste di «umilissimo e perfettamente sconosciuto cronista», di «ignoto vagabondo» in cerca di notizie, si presentava il 9 gennaio 1888 al «Corriere di Napoli» Matilde Serao, che con lo pseudonimo di Gibus redasse fino al gennaio del 1892 la rubrica Api, mosconi e vespe, tra le sue esperienze giornalistiche più proficue, avviata già ai tempi del «Corriere di roma illustrato» (al quale aveva lavorato fino al 1888) insieme con le rubriche Per le signo
1 Gibus [Matilde Serao], Api, mosconi e vespe, «Corriere di Napoli», 9 gennaio 1888. Si noti subito la presenza, nella scrittura seraiana, di un lessico originale e aperto ai forestierismi, segnalati quasi sempre in corsivo e talvolta latori di nuove attestazioni: è il caso della parola brioche nel significato metaforico di ‘abbaglio’, registrato già nella lessicografia francese a partire da un testo del 1870 (e quindi usato già precedentemente in francese); cfr. TLF (Trésor de la langue française) s.v. brioche: «– Au fig., vieilli, fam. Bévue. Synon. boulette: 4. Cela m’a rappelé trois ou quatre brioches semblables que j’ai faites, une fois entre autres en m’extasiant sur la ressemblance d’un enfant avec son père lequel ne s’est pas trouvé être le mari de la dame mais l’amant. Prosper Mèrimée, Lettres aux Grasset, 1870, p. 60». L’attestazione seraiana pare quindi rara e precoce nell’italiano. Brioche nel senso di ‘errore clamoroso’ può essere accostato a usi simili presenti in italiano (come granchio nell’espressione prendere un granchio: cfr. Nicola Zingarelli, lo Zingarelli 2019. Vocabolario della lingua italiana, s.v. granchio) o di diffusione solo locale (come vongola: cfr. Francesco D’Ascoli, Nuovo vocabolario dialettale napoletano, Napoli, Gallina, 1993, s.v.). 2 Per la vitalità di brioche nell’italiano e nel napoletano cfr. Nicola De Blasi, Esempi di lessico ottocentesco: buatta, brioche, làppese a quadriglié, in Parole e cose. Il lessico della cultura materiale in Campania, a cura di Carolina Stromboli, Firenze, Cesati, 2018, pp. 11-50. il saggio prende in esame la parola brioche e i suoi vari usi nel suo significato proprio.
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per una lettura linguistica di api, mosconi e vespe 717 re, La cronaca bella e Roma. L’esperienza del «Corriere», intrapresa con Edoardo Scarfoglio e con l’ausilio di Matteo Schilizzi, fu particolarmente faticosa per i due ma soprattutto per la Serao, che lavorava alacremente sperimentando mezzi e metodi per ‘procurare’ pubblico di lettori3. Di fatto la scrittrice non fallì nella scelta di gestire la rubrica Api, mosconi e vespe e di renderla una vera e propria rarità nel panorama giornalistico nazionale di fine Ottocento. Api, mosconi e vespe era una rubrica di costume, d’arte, di attualità, di politica, di moda; rappresentava la cronaca della Napoli più frivola, più leggera e disimpegnata, dei «capricci dell’intelligenza sul pungolo di alcuni fatti destinati altrimenti a perire»4, ed era rivolta a un pubblico perlopiù di donne, come si evince dai frequenti trafiletti dedicati alla descrizione di abiti e accessori femminili. i resoconti ‘mondani’ erano già stati oggetto di alcuni precedenti romanzi della scrittrice napoletana, ma in chiave giornalistica sono affrontati in maniera più diretta e spregiudicata, con l’ausilio certamente non secondario di mezzi linguistici molto ben congegnati. Lo pseudonimo di Gibus (ma «quasi sempre minuscolo»5: gibus) era stato anch’esso già utilizzato in alcune delle rubriche precedenti, ma nel «Corriere di Napoli» diventerà la firma costante della rubrica di moda, attualità e pettegolezzi di ogni genere. Le ragioni della scelta del nome «gibus» sono rintracciabili nelle ipotesi formulate dagli studiosi: molti lo hanno ricondotto a un passo verghiano nel quale un giornalista «agitava il gibus quasi per scacciare le mosche» (il riferimento al titolo Api, mosconi e vespe è evidente); il gibus è un particolare cappello a cilindro di origine francese6, e l’ipotesi troverebbe conferma soprattutto nell’uso frequente del francesismo da parte della Serao nei suoi testi narrativi, nei quali è frequente, tra gli altri aspetti e in maniera vistosa, il lessico della moda7. La scelta di un’identità maschile è sottolineata dalla Serao nei non pochi trafiletti della rubrica in cui Gibus parla di sé. Nei resoconti del
3 Per il lavoro svolto dalla Serao al «Corriere di roma illustrato» si rinvia a raffaele Giglio, Matilde Serao e il «Corriere di Roma illustrato», in Matilde Serao. Le opere e i giorni, a cura di Angelo r. Pupino, Napoli, Liguori, 2006, pp. 165-173. 4 Mario Stefanile, Prefazione a Gianni infusino, I mosconi di Matilde Serao, Napoli, Edizioni del Delfino, 1974, p. Viii. 5 Giuseppe Farinelli, Matilde Serao: «Api, mosconi e vespe» al «Corriere di Napoli», in Matilde Serao. Le opere e i giorni, cit., pp. 139-154. 6 Cfr. ivi, p. 145. 7 Ciò è sottolineato da Patricia Bianchi, Ritratti e parole dal vero, in M. Serao, Dal vero, a cura di P. Bianchi, Napoli, Libreria Dante & Descartes, 2000.
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cristiana di bonito718 suo «quotidiano vagabondaggio, in cerca di qualche notizia»8 non mancano infatti riferimenti precisi e addirittura ostentazioni dell’identità maschile della Serao cronista, con intento certamente fuorviante, come quando il 21-22 giugno del 1888, con la notizia della celebrazione di un rito nuziale, «gibus, celibe sfortunato, che si è visto rifiutare la mano di tante belle fanciulle», confessa di esser «pieno di malinconica nostalgia, ogni volta che assiste ad un bel matrimonio». il «povero cronistello» sottolinea il suo aspetto maschile soprattutto quando si riferisce al mondo femminile (o, per dirlo con sue frequenti parole, «muliebre»): «O sesso debole! […] Gibus è conquiso dalla tua virtù. Ecco due altre signorine alunne del Conservatorio […]»9. Talvolta l’immagine maschile che la Serao cronista di Api, mosconi e vespe tratteggia di sé si incrina proprio quando Gibus si relaziona al mondo femminile, con approccio apparentemente elogiativo e galante, ma in realtà ironico e pungente, in linea con il sempre più sprezzante «antifemminismo»10 della Serao. Si veda, per esempio, l’incipit di un trafiletto dedicato alla descrizione di una colazione, in cui Gibus esordisce con «Non voglio tralasciare d’accennare una bellissima colazione offerta da una gentile dama russa, madame de Kazakoff a molte belle signore della colonia russa […]»11: l’ostentata attenzione per gli aspetti più frivoli di un certo mondo femminile è in realtà una derisione dello stesso, e questo celato giudizio traspare in tutti i casi in cui oggetto della rubrica sono abitudini, attività, eventi e mode del mondo delle donne. L’“uomo” Gibus tradisce la sua femminilità anche quando, in occasione della ricorrenza di Sant’Antonio (13 giugno), nel numero del 14-15 giugno 1888 «manda i saluti alla dama gentile» (la contessa Antonietta Ferrari), quasi come a una cara amica, oppure, altrove, in maniera più esplicita, come nella chiusura dell’articolo del 19-20 giugno 1888 dedicato all’esposizione d’arte italiana a Londra, in cui l’accordo al femminile è risolutivo: «Gibus è fiera di registrare queste parole, e manda un cordiale saluto ai valorosi campioni del suo dolce paese». La Serao era dunque solita parlare di sé e della sua fervida attività giornalistica attraverso il filtro della maschera di Gibus. Valgono proprio le sue parole, scritte nei primi giorni di attività del «Corriere di
8 Gibus, Api, mosconi e vespe, «Corriere di Napoli», 14-15 giugno 1888. 9 Ivi, 25-26 giugno 1888. 10 Su questo tema cfr. Wanda De Nunzio Schilardi, L’antifemminismo di M. Serao, in Ead., L’invenzione del reale. Studi su Matilde Serao, Bari, Palomar, 2004, pp. 59-94. 11 Gibus, Api, mosconi e vespe, «Corriere di Napoli», 15-16 giugno 1888.
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per una lettura linguistica di api, mosconi e vespe 719 Napoli», a spiegare meglio il lavoro di redazione della testata e, nello specifico, la ricca squadra di ‘raccoglitori’ di api, di mosconi, di vespe: L’appello di gibus. Continuando quello che si diceva ieri, gibus non sa fare altro, poveretto, che redigere più o meno bene, le notizie mondane che egli raccoglie o che gli portano i suoi raccoglitori. i quali, realmente sono molti, ma sono anche pochi, di fronte alla grande vita mondana italiana. Dove non sono belle donne, in italia? Dove non si balla, in questo febbrile mese di gennaio? E il meschinello cronista, magro nei suoi calzoni corti, nelle sue calze di seta nera, nella sua giubba di finissimo panno rosso, non può stare dovunque sono belle dame, dovunque si balla, dovunque si chiacchiera soavemente. Quindi, volendo mettere in questa cronachetta, per quanto è possibile, la cronaca mondana di dovunque, gibus invoca una quantità di cooperatori straordinarii, signore, signorine, giovanotti eleganti, reporters bizzarri, da Napoli, specialmente da Napoli, ma da tutti i paesi, in generale, da tutti i salotti, da tutti i saloni, dovunque vi è eleganza, dovunque vi è chic, dovunque la leggiadramente leggiera vita mondana si manifesta. Gibus dopo aver constatato la precisione delle notizie, le pubblicherà tutte. E in questo modo, come sempre, ma più che mai adesso, gibus andrà perdendo il suo carattere di personalità: e gibus non sarà più lui, ma sarete voi, signore, signorine, giovanotti eleganti, reporters bizzarri, sarete voi i cronisti della vostra esistenza, gli attori e i novellieri di questa meravigliosa apparenza della vita moderna. Chi meglio di voi lo saprà fare? Qual migliore novelliere di colui che narra la propria novella? Gibus, dunque, fatto questo appello caloroso, accende la sigaretta e cullandosi in quell’ozio che è il fondamento della sua vita, aspetta da voi, o ignoto e grande corrispondente, la cronaca mondana.12
La «meravigliosa apparenza della vita moderna» è rappresentata, in Api, mosconi e vespe, in una modalità stilistica del tutto particolare, almeno fino al gennaio del 1892: questo è infatti il discrimine tra la gestione della rubrica da parte di Gibus e il passaggio a Snob, sotto il cui pseudonimo si celavano le penne di Salvatore Di Giacomo e roberto Bracco; ma di questo aspetto si tratterà più avanti. Non si punta qui a delineare il contesto entro il quale la rubrica nacque e si sviluppò negli anni, dall’approdo di Matilde Serao e di Edoardo Scarfoglio al «Corriere di Napoli» e poi al «Mattino», alle controversie che videro protagonista anche Matteo Schilizzi, ai temi e ai contenuti della rubrica in senso più ampio: si rinvia per questi aspetti ai fondamentali studi seraiani di riferimento; nel presente la
12 Ivi, 10 gennaio 1888.
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cristiana di bonito720 voro si tenterà piuttosto di illustrare i risultati di una prima indagine in prospettiva linguistica della rubrica, non senza alcune precisazioni preliminari13. Per un approccio in prospettiva linguistica alla scrittura seraiana si è tenuto conto degli studi di riferimento essenziali che hanno avuto come oggetto la lingua della scrittrice nella sua totalità e con particolare riferimento alla prosa saggistica e narrativa, nonché degli studi sulla lingua dei veristi meridionali14. Osservando, sia pure per sondaggi parziali, le modalità di costruzione del testo giornalistico in Api, mosconi e vespe sarà possibile sottolineare che il particolare linguaggio che «tradisce l’ormai noto stile della scrittrice»15 risulta forse ancor più marcato nella cronaca giornalistica; questo aspetto è ancor più evidente se si osserva la rubrica dopo il 1892, cioè dopo l’abbandono della Serao stessa. Si considera qui un corpus di testi della rubrica selezionati tra le annate 1888, 1889, 1892, 1893 del «Corriere di Napoli», per un totale di 75 numeri spogliati16. È stata spesso segnalata la mancanza di «grammatica» nella scrittura seraiana, caratterizzata da oscillazioni tra registri alti e forme o costrutti tipicamente regionali, tra parole colte e dialettismi «sino a sfiorare l’inappropriatezza semantica»17. Tuttavia, come sottolinea Patricia Bianchi sulla scia di giudizi critico-letterari espressi da Antonio Palermo, è questa la cifra stilistica più originale della pagina seraiana, se si considera l’attenzione con la quale l’autrice gestisce un vasto materiale nella pagina giornalistica e se si osserva quest’ultima in una
13 La nascita e la storia della rubrica sono puntualmente descritte, con annessi documenti inediti, da G. infusino, I mosconi, cit., pp. 3-53. 14 Cfr. in particolare gli scritti di Patricia Bianchi introduttivi alle edizioni delle opere seraiane: M. Serao, Dal vero, cit.; Ead., Il ventre di Napoli, edizione integrale a cura di P. Bianchi, con uno scritto di Giuseppe Montesano, roma, Avagliano, 2002, e tutti i saggi linguistici della studiosa citati di volta in volta in queste pagine. Sul lessico della moda in Matilde Serao, cui si fa riferimento anche in questo lavoro, cfr. P. Bianchi, Scrivere alla maniera verista: ambiente e personaggi tra regionalità e lingua letteraria, in I verismi regionali, Catania, Fondazione Verga, 1996, pp. 532-554. Si rinvia inoltre allo scritto introduttivo all’edizione di M. Serao, Il romanzo della fanciulla, a cura di Francesco Bruni, Napoli, Liguori, 1985, e agli studi sulla lingua dei veristi meridionali a partire da F. Bruni, Sondaggi su lingua e tecnica narrativa del verismo meridionale, «Filologia e critica», a. Vii (1982), pp. 198-266. 15 r. Giglio, Matilde Serao e il «Corriere di Roma illustrato», cit., p. 168. 16 i numeri del «Corriere di Napoli» sono stati consultati presso l’Emeroteca “Matilde Serao” della Biblioteca Nazionale di Napoli. 17 P. Bianchi, Ritratti e parole dal vero, cit., p. XViii.
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per una lettura linguistica di api, mosconi e vespe 721 prospettiva di studio che elimini la dicotomia tra la Serao «minore» e la Serao «maggiore»18. La scrittura apparentemente ‘di getto’ della Serao si caratterizza per una organizzazione del periodo ben strutturata seppur nella sua originalità. i segnali di inadeguatezza linguistica messi in luce dalla critica19 sono essi stessi gli elementi caratterizzanti dell’originale prosa giornalistica di Gibus. D’altronde la Serao stessa credeva nel «calore» della sua scrittura «scorretta», e pur dichiarando di ammirare chi scrive bene, precisava: «se per caso imparassi a farlo, non lo farei»20. La rubrica si presenta con una struttura ben definita: ciascun articolo, in genere molto breve, è introdotto da un titolo che figura come parte integrante del testo, poiché non è messo in rilievo da un ‘corpo’ diverso; talvolta il medesimo tema è trattato in due articoli consecutivi. Prendiamo ora in esame alcune categorie particolarmente interessanti all’interno della rubrica di Gibus.
Ripetizioni formali totali o parziali L’analisi dei costituenti nei testi di Api, mosconi e vespe mostra una forte marcatezza sintattica, evidenziata dai diversi elementi di coesione testuale. una costante tipica nella prosa della rubrica è senz’altro la ripetizione, che si predilige rispetto alla sostituzione lessicale per una chiara scelta stilistica di enfasi e di avvicinamento al tono colloquiale della conversazione. La ripetizione è spesso prettamente formale e presenta diverse tipologie, delle quali la più semplice è quella totale di due elementi ravvicinati o a distanza, come nei seguenti esempi:: La pioggia in città è odiosa, è odiosa dovunque sono case e strade e uomini […].
Difatti, qui, in via Toledo, in questa temperatura così mite, così mite, è un continuo, incessante viavai di carrozze: tutti sono fuori di casa, tut
18 Si vedano a tal proposito i seguenti saggi: P. Bianchi, «Fior di passione», «Gli amanti», «Le amanti»: linguaggio e narrazione delle passioni, in Matilde Serao. Le opere e i giorni, cit., pp. 21-38; Antonio Palermo, Il romanzo delle fanciulle, ivi, pp. 231-242; Carlo Alberto Madrignani, La povera vita di Carmela Minino, ivi, pp. 191-198; A. r. Pupino, «Chi piange acconsente». Ragguagli di Matilde Serao con alcune congetture sopra il suo successo, ivi, pp. 279-316. 19 Si rinvia a quanto esposto da Patricia Bianchi nell’introduzione a M. Serao, Dal vero, cit., p. XX. 20 G. Farinelli, Matilde Serao: «Api, mosconi e vespe» al «Corriere di Napoli», cit., p. 146.
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ti vanno in su, in giù, senza ragione, anzi per una ragione possente, perché è una bella giornata. Luigia Cognetti […] ha avuto la gran disgrazia di perdere il padre. Ella deve avere assai, assai sofferto, come quando perdette il giovane fratello, il malinconico poeta del Vorrei morir […]. […] scollatura in quadrato, con un alto colletto alla Maria dei Medici. Molto attraente e molto pomposa. Tutti questi nomi romantici, poi, portati con tanta posa di romanticheria […], tutti questi nomi letterarii, diciamo così, hanno tanto invaso le classi più modeste e meno letterarie […]. Ella si mise davanti al pianoforte, tutta vestita di bianco, più bianca del suo bel vestitino. […] Ella li merita, via, questi applausi; ella che sa quello che suona, che lo intende e che l’ama.21
Talvolta varie ripetizioni sono presenti in uno stesso articolo: […] si è stampata, a tale scopo, questa lettera sopra un qualunque piccolo pezzetto di carta, attaccandolo alle mura, come un piccolo qualunque avviso di asta pubblica pel macello, o come una qualunque piccola ordinanza di questura. […] era bene che questa lettera fosse letta anche dagli indifferenti, anche dai distratti, anche dagli scettici, da tutti, infine. […] Che non si facciano feste, via, può dipendere dalla generale malinconia che regna al municipio […]; che tutto si riduca allo scambio di due dispacci, via, bisogna sopportarlo in questa epoca tanto americana; ma fare un cartellino, un cartellucci che pochi hanno visto e che nessuno o quasi ha letto, via, non è il mezzo migliore perché il popolo conosca le alte parole del re.22 La ripetizione del punto d’attacco può essere spesso parziale: D. Gaetano Bernardi è assai conosciuto nell’aristocrazia napoletana. Giovane ancora, malgrado i bianchi capelli, prima che si facesse monaco, fino a sette o otto anni fa, egli era assai ricercato e assai ben visto in tutti i saloni di Napoli. Ma anche questa gente semplice, gente popolana, che conosce la musica a udito, che la conosce per intuito, ma che ne ha nel cuore il sentimento, anche questi cantatori ambulanti sono fatti per farvi passare un’ora bella e delicata, di piacere morale finissimo. 23
21 Gibus, Api, mosconi e vespe, «Corriere di Napoli», rispettivamente 4 gennaio 1888, 5 gennaio 1888, 10 gennaio 1888, 31 maggio-1 giugno 1888, 14-15 giugno 1888, 23-24 giugno 1888. 22 Gibus, Api, mosconi e vespe, «Corriere di Napoli», 2-3 giugno 1888. 23 Ivi, rispettivamente 4 gennaio 1888 e 1-2 giugno 1888.
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per una lettura linguistica di api, mosconi e vespe 723 La ripetizione è spesso lessicale, e talvolta coinvolge una sola parola, inserita più volte per sottolinearne l’importanza all’interno del testo: è il caso per esempio di parole come divetta, generalmente attestata in senso spregiativo, con particolare riferimento alle attrici di caffè concerto, in opposizione alla diva dell’opera lirica24. in diversi articoli divetta è invece ripetuto in maniera elogiativa, spesso a distanza di un solo rigo, quasi a sottolineare l’interesse delle lettrici di Api, mosconi e vespe per la musica ‘popolare’ più che per l’opera lirica. Si veda per esempio questo estratto di un articolo del 6-7 giugno 1888, nel quale risalta anche una particolare scelta di aggettivi (popolare, simpatico, vezzosa, graziosa) che sottolineano, insieme al rinvio anaforico con ripetizione, l’ironia della scrittura giornalistica di Gibus: Domani sera, nel popolare e simpatico teatro della Fenice, vi è una serata in onore della gentile Emilia Persico, una divetta che entusiasma sempre il pubblico di quel teatro. La divetta è attrice vezzosa e graziosa, piene di finezze napoletane nel cantare e nel recitare […].
La ripetizione lessicale spesso conferisce una particolare ritmicità al testo e influenza la sintassi. Ancora una volta con un tono da conversazione la scrittrice mette in evidenza l’andamento del discorso con una sorta di demarcativo metalinguistico. Si veda per esempio l’articolo del 23-24 giugno 1888, che segue una serie di articoli dedicati al Conservatorio San Pietro a Majella: è intitolato «Parentesi», è introdotto con la frase «Apro una parentesi» e chiuso, dopo pochi righi, con «Qui chiudo la parentesi». Lo stile spezzato25 tipico della Serao è qui molto marcato, ancor più per il fatto che, a distanza di un solo articolo, riprendendo il discorso su San Pietro a Majella, si legge il titolo: «un’altra parentesi.», e, dopo soli sei righi: «Anche quest’altra parentesi è chiusa». Spesso le ripetizioni sono anafore di tipo retorico, e i determinanti hanno funzione deittica; si veda almeno questo esempio, in cui la ripetizione del dimostrativo serve a mettere in risalto il tema per creare una sorta di attesa sul rema in due sequenze marcate a livello sintattico e tra loro affini (si notino anche le varianti grafiche Martino/Martin, che conferiscono al testo un andamento ritmico più scorrevole):
24 Cfr. Grande dizionario della lingua italiana [d’ora in poi citato GDLi], fondato da Salvatore Battaglia e poi diretto da Giorgio Bàrberi Squarotti, Torino, utet, 1961-2002, s.v. diva. 25 Cfr. Massimo Palermo, Linguistica testuale dell’italiano, Bologna, il Mulino, 2013, p. 209.
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Quell’anima di artista che era Martino Cafiero, quell’innamorato di Napoli che era Martin Cafiero, diceva che bisognava venire a Napoli per vedere come era fatta una bella giornata26. Anche Milano, e Venezia, e Firenze, e roma hanno i loro splendori: ma lo splendore di Napoli, nelle giornate di sole, è più alto, è così letificante che fa vibrare i nervi di tenerezza27.
Tra le ripetizioni formali totali sono presenti casi di ripetizione di uno stesso termine per almeno due volte con funzione enfatizzante e soprattutto, a livello strutturale, con conseguenti effetti fonici ricorrenti e quasi ossessivi, a mo’ di ritornello musicale. Può trattarsi di accumulo di elementi lessicali identici per amplificarne il significato («ma tutto questo con quella tranquilla gioia mescolata da una punta di malinconia che si ha per le cose passate, passate, passate»28) o di rinvio anaforico con la ripetizione di un nome proprio: Alessandro Guiccioli è un perfettissimo gentiluomo, ancora giovane, dalla barbetta bionda, dagli occhi assai miopi, e che paiono, quindi, sorridere vagamente. […] Alessandro Guiccioli, fratello di Ferdinando, che è cavaliere di Sua Maestà la regina, è di modi squisiti: non la cortesia esteriore dell’uomo freddo, ma una cortesia cosciente che si dà solo a chi la merita. […] Alessandro Guiccioli leggeva e studiava assai: tutti conoscono il suo libro su Quintino Sella, pubblicato ultimamente. Anzi tutto egli è un vero signore, più il gran talento e la gran cultura.29
Testi del genere sono molto frequenti nel corpus analizzato; si veda come ulteriore esempio l’articolo del 2-3 giugno 1888 sulla morte di un cavallo da corsa. il primo rinvio anaforico è costituito da una sostituzione lessicale con arricchimento denotativo del referente, ma i successivi rinvii presentano nuovamente una ripetizione formale totale (si noti, tra l’altro, la virgola tra «vinceva» e «sempre», che segna una pausa quasi “teatrale”): Sport: la morte di Vandalo. Il vecchio cavallo è morto, carico di anni e di gloria. […] Vandalo che sul nascere aveva appartenuto al marchese Constabili, dopo esser passato per due o tre proprietari, è tornato a morire nella stalla dove era nato. Vandalo vinceva, sempre: è un cavallo che rarissime volte è tornato alla scuderia del suo padrone senza portare, dopo una corsa, delle migliaia di lire. […]
26 Qui il corsivo è dell’autrice. 27 Gibus, Api, mosconi e vespe, «Corriere di Napoli», 5 gennaio 1888. 28 Ivi, 8 gennaio 1888. 29 Ivi, 4 gennaio 1888.
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per una lettura linguistica di api, mosconi e vespe 725 Ancora i moltissimi articoli dedicati agli onomastici sono caratterizzati dalla ripetizione di un nome proprio in maniera ossessiva. Di seguito soltanto uno dei testi sulla ricorrenza di San Giovanni, con protagonista Giovanni Verga e con curiose riflessioni onomastiche; la ripetizione di Giovanni è attenuata dalla sostituzione con l’abbreviazione G. o con il diminutivo Giovannino, ma appare pur sempre molto insistita, amplificata anche dalla ripetizione strutturale di altri elementi lessicali, tutti segnalati in corsivo: un Giovanni romantico. È Giovanni Verga, dico romantico perché è romanziere. Per quanto tempo i popoli hanno ignorato che quel G. Verga nascondesse un Giovanni Verga, semplicemente un Giovanni e non un Giorgio, un Guido un Giacinto! Civettuolamente l’editore – sempre gli editori! – metteva solamente quel G. puntato e le ragazze fantasticavano, fantasticavano! Ma il terribile misterio è stato svelato e si è saputo che il novellatore siciliano era semplicemente, bonariamente un Giovanni, don Giovannino come lo chiamano a Catania […].30
La ripetizione di elementi lessicali raggiunge livelli di notevole marcatezza sia all’interno di sequenze di frasi molto brevi e consecutive, talvolta con appelli al lettore che viene coinvolto, secondo una modalità comunicativa caratteristica della Serao («E sapete perché? Tremendo perché. Perché […]»), sia, nell’ambito di un intero testo, a distanza. Quest’ultima tipologia è la più frequente nella rubrica di Gibus e comporta, oltre che una mancata ridistribuzione nel testo del carico informativo tra punto d’attacco e punto di ripresa, un andamento ritmico particolarmente incalzante, a tratti inverosimile. i contesti nei quali ciò si verifica sono soprattutto le minuziose descrizioni di capi di abbigliamento di moda all’epoca. Di seguito soltanto due esempi; nel primo, l’aggettivo giapponese è ripreso in maniera insistente per sottolineare la particolare attenzione che in questi testi è rivolta alle novità esotiche: L’ombrellino giapponese. Non è mica di carta, come si crede generalmente, l’ombrellino giapponese che portano adesso le signore. È di seta giapponese, ricamato assai delicatamente; è foderato di seta color salmone, dipinto all’acquarello
30 Ivi, 25-26 giugno 1888. un altro articolo dedicato alle ricorrenze di onomastici è quello dedicato a San Luigi, del 21-22 giugno 1888, nel quale sono elencati i soprannomi di tutti i santi. L’articolo è leggibile in G. infusino, I mosconi di Matilde Serao, cit., pp. 57-58 (è uno dei soli due articoli datati 1888 presenti nel volume).
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di fiori e uccelli; il bastone è alto, di avorio vecchio scolpito, formato ordinariamente dal manico di un coltello giapponese.31
Dal passo che segue emerge ancora di più la sottile ironia con la quale Matilde Serao si occupa dei temi cari alle donne; mascherata da Gibus e quindi sottolineando un distacco emotivo, descrive un accessorio e illustra il corretto modo di indossarlo (con annessi consigli sull’acquisto). La parola guanto e i suoi derivati sono ripetuti dieci volte in sette righi: Tre guanti. La moda è venuta dalla russia. Fra i due guanti, quello che meno si porta e che quindi meno si consuma, è il guanto della mano diritta; quello che si sciupa più facilmente, è il guanto della mano sinistra. Così, quando si ordina un paio di guanti in russia, il guantaio ne fa tre, di guanti, uno della diritta e due della sinistra. Con tre guanti, capovolgendo le leggi dell’aritmetica, si può dire di avere due paia di guanti. Si fanno più che mai in cuoio di russia, i guanti, come vi ho detto: Sono profumati, forti e fini.32
Ripetizioni con variazioni in molti casi le ripetizioni presentano variazioni di diverso tipo, come la semplice aggiunta di un determinante; questo procedimento non appare casuale, in quanto dai testi spogliati è possibile ricavare uno schema tripartito ben preciso, in cui in una stessa frase il punto d’attacco è ripetuto una prima volta con l’aggiunta di un determinante e una seconda volta, invece, nella stessa forma di partenza, come si può notare dai due seguenti esempi (si veda, nel primo, anche la ripetizione del sintagma nella notte): La vita: segue. […] La vita napoletana, la bella vita napoletana, che, nell’està, dovrebbe fiorire, o, rifiorire, nella notte almeno, nella notte che nella nostra città è dolce e profumata di fiori e di alghe, la vita napoletana non si contenta, tre o quattro volte la settimana, che delle monotone passeggiate monacali alla Villa […].
La moda dei fiori. […] La mode è per tre fiori: la gardenia, la mimosa, il mughetto. Ma il
31 Ivi, 2-3 giugno 1888. 32 Ivi, 4-5 giugno 1888.
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mughetto, massimamente, il mughetto fresco nella sua conca di foglia verde, il mughetto fa furore […].33
Spesso sono ripetute intere sequenze e la variazione interessa un solo determinante, come il pronome riflessivo della seguente frase: «forse mi perdona, Pasqua Epifania […] forse ti perdona, Pasqua Epifania»34. La tecnica della ripetizione può essere osservata anche in prospettiva retorica: è frequente l’uso del poliptoto, con ripetizione del lessema o di un intero sintagma e variazione del morfema grammaticale: «i suoi mercoledì continueranno a essere una delle poche attrattive, e un’attrattiva irresistibile, del mondano inverno napoletano»35, o, nel caso del suffisso: «che tutto si riduca allo scambio di due dispacci, via, bisogna sopportarlo […], ma fare un cartellino, un cartelluccio […] non è il mezzo migliore perché il popolo conosca le alte parole del re»36, o ancora «la Villa Nazionale era […] così stipata di belle signore, di belle signorine, d’allegri e galanti giovanotti, che proprio si allargava l’anima»37. Talvolta nella ripetizione di un sintagma resta invariato il morfema grammaticale e cambia, invece, quello lessicale: «È proprio una profonda emozione delle fibre, come un sollevamento da terra, come un cullamento quello che involge i fortunati viandanti delle strade napoletane»38. Se in generale Gibus predilige la ripetizione, con risultati stilistici particolari ma senz’altro chiari da un punto di vista formale, non è esclusa dalla costruzione del testo la sostituzione lessicale, adoperata anch’essa con particolare intenzionalità stilistica: frequente è infatti l’accostamento degli aggettivi leggero e leggiadro, affini formalmente ed etimologicamente, ma anche semanticamente, dal momento che leggiadro specifica il senso di leggero. Ecco tre esempi di questa coppia lessicale che riassume, per così dire, il carattere dei temi proposti in Api, mosconi e vespe ma anche il giudizio su di essi, delicato ma pungente, della Serao (nel terzo esempio l’accostamento è tra avverbio e aggettivo):
33 Ivi, rispettivamente 20-21 giugno 1888 e 25-26 giugno 1888. 34 Ivi, 7 gennaio 1888. in questo articolo che ha come oggetto l’Epifania questa parola è ripetuta 7 volte in 15 righi. 35 Ivi, 6 gennaio 1888 (si tratta di appuntamenti del mercoledì presso la nobildonna Lady Otway). 36 Ivi, 2-3 giugno 1888. 37 Ivi, 12-13 giugno 1888. 38 Ivi, 5 gennaio 1888.
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Sono in ritardo, dunque, io umile cronista delle cose leggiadre e delle cose leggiere; tanto più che anche cospargendo di sudore la terra, io non arriverei a scrivere un verso purchessia.
[…] coi capelli proprii, pur di avere una cameriera esperta, si arriva ad avere un’acconciatura leggiera e leggiadra.
[…] gibus invoca una quantità di cooperatori straordinarii, signore, signorine, giovanotti eleganti, reporters bizzarri, da Napoli, specialmente da Napoli, ma da tutti i paesi, in generale, da tutti i salotti, da tutti i saloni, dovunque vi è eleganza, dovunque vi è chic, dovunque la leggiadramente leggiera vita mondana si manifesta.39
La sostituzione lessicale avviene in alcuni casi anche mediante l’uso di una perifrasi sinonimica, come nell’espressione «il bagno quotidiano è l’esercizio più salubre, più utile alla salute»40; si tratta ancora una volta di una ripetizione che implica l’insistenza su un concetto: un modo per non far sfuggire al lettore un’idea-chiave.
Altre tipologie di ripetizione Nei testi di Gibus sono presenti altre costruzioni che pure si presentano con strutture ben definite, certamente pianificate e non casuali, come rivela la loro frequenza nei diversi articoli. un caso è quello della ripetizione di sequenze sintattiche che, pur non contenendo sempre gli stessi elementi, presentano il medesimo ordine dei costituenti e determinano parallelismi sintattici di particolare rilievo stilistico: è il caso di sequenze come «bagnati di brina, strillanti [sic] di brina»41, «sono puri anche nella volgarità, sono candidi anche nella debolezza»42, «se la vecchietta è venuta, se la vecchietta è stata pietosa»43, «fra gioconda e sentimentale […], fra nobile e popolare»44; oppure di ripetizioni di collocazioni lessicali come avviene nei testi pretestuosamente ‘tecnici’, di divulgazione: è il caso del seguente «consiglio certo contro i reumi» (in corsivo le sequenze ripetute con collocazioni lessicali): […] Prendete un litro di latte molto caldo e fatevi sciogliere dentro un’oncia di albume. Si ottiene così un primo latte leggiero a [sic] un secon
39 Ivi, rispettivamente 5 gennaio 1888, 6 gennaio 1888, 10 gennaio 1888. 40 Ivi, 31 maggio-1 giugno 1888. 41 Ivi, 4 gennaio 1888. 42 Ibidem. 43 Ivi, 7 gennaio 1888. 44 Ivi, 7-8 giugno 1888.
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do latte quagliato. Lavate la parte reumatizzata nel primo latte leggiero, mentre è ancora molto caldo. Mantenete caldo il caglio e dopo la lavatura, applicatelo come un cataplasma. Mettete sopra della flanella e andate a dormire. Tre applicazioni portano la guarigione.45
un’altra interessante e molto frequente tipologia di ripetizione nei testi di Api, mosconi e vespe presenta una struttura per così dire ‘a catena’, cioè un’accumulazione lessicale che prevede la ripetizione di un elemento con l’aggiunta di un determinante o di un elemento aggiuntivo, il quale a sua volta diventa il primo elemento di una successiva catena di ripetizioni, secondo una sequenza «a – a+b – b – b» etc. in sequenze di questo tipo b non rinvia necessariamente a un tipo lessicale identico, ma può rinviare anche a forme diverse che appartengono però a una stessa categoria grammaticale. Ecco due esempi: […] ma [a] in aperta campagna, ma sotto [a+b] i neri abeti, sotto [b] i faggi alti e dilicati, è deliziosa […].46
[…] sono così felici [a], così felici e ridono [a+b], e chiacchierano [b], e cinguettano [b] come uccelletti.47
Incipit un interessante elemento da osservare nei testi di Api, mosconi e vespe firmati Gibus sono gli incipit: contrariamente a quanto osservato recentemente48, ogni articolo della rubrica di Gibus non comincia in tono narrativo ma si apre in medias res, con costrutti brevi ed ellittici del verbo o del soggetto. Di seguito alcuni esempi di incipit con ellissi del soggetto espresso soltanto nel titolo; è un tipo frequente nei testi della rubrica: Le statue dei re. Sono già sette e se e fa un gran parlare; tutto un chiacchiericcio curioso, dove ogni tanto traluce un concetto artistico.49
Canzoni napoletane. in verità, la loro stagione non passa mai […].50
45 Ivi, 8 gennaio 1888. 46 Ivi, 4 gennaio 1888. 47 Ivi, 7 gennaio 1888. 48 Cfr. G. Farinelli, Matilde Serao: «Api, mosconi e vespe» al «Corriere di Napoli», cit., p. 147. 49 Ibidem. 50 Gibus, Api, mosconi e vespe, «Corriere di Napoli», 1-2 giugno 1888.
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cristiana di bonito730 Molti incipit presentano poi il tema di fondo dell’articolo enunciato con frasi di attacco nominale, come nei seguenti esempi: La stagione. Tempo incerto. Ma le signore si sono già rassicurate, intorno al freddo, intorno alla pioggia, sentono già che si è allontanata, verso il nord, la bufera di neve.51
Balli romani. L’altra sera ballo in casa Haseltine, signori e artisti che hanno un magnifico appartamento nel palazzo Altieri.52
Libro del cuore. Del cuore propriamente detto, di quest’organo principale, essenziale, così sensibile, così palpitante entro di noi. È il professore Domenico rainone quegli che ha scritto questo libro.53
Le frasi nominali54 sono presenti, oltre che negli incipit, in maniera vistosa all’interno dei testi, come in «Battaglia per l’arte.»55, «Splendida e divertentissima serata.»56; in alcuni casi il testo è quasi interamente redatto con frasi nominali: i lumi. Torrenti di luce, della Vittoria a san Ferdinando, da san Ferdinando a piazza Dante. Dappertutto corone di gas, candelabri, fiaccole, carcels, fin su: moltissime case di privati cittadini, illuminate. Che gente per Toledo! Alle undici di sera le carrozze andavano su tre file, al passo! Magnifica giornata!57
il costrutto nominale è presente in particolare nelle numerose descrizioni di abiti e accessori58, che occupano in genere l’ultima parte della rubrica. i testi si presentano generalmente in questo modo: un vestito da visita. Vestito di grossa seta molle color verde mandorla; grande polonese59 di
51 Ivi, 6 gennaio 1888. 52 Ivi, 9 gennaio 1888. 53 Ivi, 15-16 giugno 1888. 54 Cfr. anche P. Bianchi, «Fior di passione», «Gli amanti», «Le amanti»: linguaggio e narrazione delle passioni, cit., pp. 21-37. 55 Gibus, Api, mosconi e vespe, «Corriere di Napoli», 7 gennaio 1888. 56 Ivi, 1-2 giugno 1888. 57 Ivi, 4-5 giugno 1888. 58 Si veda quanto esposto a proposito delle descrizioni di abiti e luoghi da P. Bianchi, Ritratti e parole dal vero, cit., pp. XiV-XV. 59 Polonese è adattamento del prestito dal francese polonaise, ‘soprabito’, signi
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panno, del medesimo colore, con larghi risvolti di lontra, che chiudono su polonese di sbieco. Cappottina di lontra con ciuffo di nastri verde mandorla, e coroncina posteriore di roselline pallide. Guanti di Svezia color bianco opaco e microscopico manicotto di lontra.60
Negli incipit l’ellissi del soggetto è invece direttamente collegata al titolo degli articoli nei quali esso è espresso, come nell’interessante testo che segue, in cui Gibus presenta e ‘pubblicizza’ un lavoro di Matilde Serao61: All’erta, sentinella! di Matilde Serao. Comincerà fra due giorni, nelle appendici della edizione serale. Ma All’erta, sentinella! è un romanzo, una novella o un racconto? Chi l’ha scritto ha esitato, esita ancora a formare il carattere di questa storia. […]62
Sintassi Di notevole interesse negli articoli di Gibus è la sintassi in generale, che, come già osservato, appare spezzata e fortemente marcata. Si segnalano qui ulteriori costrutti presenti in maniera sistematica nei testi; di particolare rilievo sono i costrutti a chiasmo, nei quali l’ordine dei costituenti del primo sintagma è invertito nel secondo: «dove arriva la pioggia e il sole non arriva»63, «e le rose sono una meraviglia; e sono una meraviglia i garofani»64, «Si vedono ancora delle finestre parate e ancora dei panierini di fiori sfogliati sono buttati sulla processione»65. Molto frequenti sono inoltre costrutti marcati come le dislocazioni e i semplici rinvii pronominali cataforici: «Quanti ne debbono essere
ficato documentato nella lessicografia con attestazioni in italiano e in francese: cfr. TLF, cit., s.v. polonaise, e GDLi, cit., s.v. polonese. 60 Gibus, Api, mosconi e vespe, «Corriere di Napoli», 7 gennaio 1888. 61 Per l’attività di «promozione di sé stessa» della Serao cfr. P. Bianchi, È la réclame, bellezza, in Visibili, invisibili. Matilde Serao e le donne nell’Italia postunitaria, a cura di Gabriella Liberati, Giuseppe Scalera, Donatella Trotta, roma, Consiglio Nazionale delle ricerche, 2015, pp. 73-87 (il riferimento è alle pp. 76-77). La Serao annuncia e commenta le sue opere così come farà successivamente anche al «Mattino»: cfr. i riferimenti inseriti nei saggi di Clara Borrelli, Matilde Serao e «Flegrea», e di rosa Pisano, Nel sogno…, in Matilde Serao. Le opere e i giorni, cit., alle pp. 46 e 263n. 62 Gibus, Api, mosconi e vespe, «Corriere di Napoli», 30 maggio 1888. 63 Ivi, 4 gennaio 1888. 64 Ivi, 30 maggio 1888. 65 Ivi, 31 maggio-1 giugno 1888.
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cristiana di bonito732 nati, di funghi», «Se ne è fatta una strage, di giuocattoli66», «Nessuno la fa, la réclame ai bagni di mare napoletani e a Napoli, nelle quarte pagine dei giornali», «Ma lasciamoli cantare, i francesi», «io ne ho visti dovunque, dei fiori», «ma un po’ di noia di meno di quella che ora si soffre, la invoco con tutta l’anima»67. Si segnala inoltre un particolare uso dei deittici, come introduttori sintattici del discorso diretto, seguiti invece da introduttori di un discorso indiretto, come nell’esempio seguente: il comm. Calenda, nuovo prefetto di Palermo, a un pranzo che gli fu dato, giorni fa, ha detto ai suoi convitati questo: che quando prese commiato dal re, prima di partire per la Sicilia, il re gli disse stringendogli la mano: – A rivederci presto a Palermo.68
La scrittura è perlopiù ipotattica, volutamente e ossessivamente ridondante ma molto chiara, segnata da scelte dettate non tanto dallo scrupolo di evitare ambiguità, ma dall’intenzione di rimarcare la ridicolezza delle argomentazioni. Lo stile ‘spezzato’ è molto più vicino al registro parlato, ed è questa la cifra stilistica più interessante e innovativa della Serao, che inserisce nella cronaca giornalistica elementi linguisticamente molto marcati dell’oralità. Quella di Matilde Serao è, come si è detto, una prosa assolutamente non casuale: è solo apparentemente ‘sgrammaticata’ ed è, anzi, ben congegnata, con l’intento di attirare il lettore. Certe sue caratteristiche sono ravvisabili anche nella prosa saggistica di Francesco De Sanctis, il quale pure era accusato di non scrivere bene: anche De Sanctis, infatti, come la Serao, persegue un intento di chiarezza comunicativa che si traduce in una scrittura discorsiva, vicina al parlato nelle sue manifestazioni linguistiche e stilistiche e per questo considerata ‘scorretta’. in realtà, come osserva Nicola De Blasi, la prosa saggistica di De Sanctis è una «combinazione volutamente discorsiva e colta», ricca di elementi vicini al parlato ma proprio per questo di grande efficacia, che «può agevolare un lettore più di una prosa levigata e uniforme, così come una parete rocciosa irregolare favorisce uno scalatore più di una parete liscia e senza appigli»69.
66 Ivi, 8 giugno 1888. Si noti il dittongo in sede atona (e quindi non atteso) di giuocattoli, a partire da giuoco. 67 Gibus, Api, mosconi e vespe, «Corriere di Napoli», rispettivamente 4 gennaio 1888, 8 gennaio 1888, 30-31 maggio 1888, 7-8 giugno 1888, 14-15 giugno 1888, 20-21 giugno 1888. 68 Ivi, 6 gennaio 1888. 69 Nicola De Blasi, La “Storia della letteratura italiana” nella questione della lin
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per una lettura linguistica di api, mosconi e vespe 733 Variazione linguistica in Api, mosconi e vespe non mancano, sempre in chiave sottilmente ironica, riferimenti alla varietà dei registri linguistici. Si segnalano per esempio due articoli che trattano del degrado di alcuni caffè napoletani e della avarizia dei proprietari: in questi testi, con tono sarcastico e pungente, sono riprodotti diversi registri, da un italiano regionale a un italiano popolare, marcati diastraticamente e diatopicamente. Nel resto dell’articolo, più che in quelli sinora analizzati, l’italiano appare marcato in senso letterario, forse a sottolineare la distanza tra il pubblico del giornale (e cioè i frequentatori dei caffè napoletani) e il gestore, nel caso citato, del Caffè di Napoli (i corsivi sono dell’originale): Fiat lux! L’altra sera, ch’era domenica, la Villa Nazionale era così piena di gente, così stipata di belle signore, di belle signorine, d’allegri e galanti giovanotti, che proprio si allargava l’anima. Ma, Dio della luce, quale nera, profonda oscurità al caffè di Napoli! Caro Peppino Abate, se continuate a tener così scuro il vostro caffè, così buio il giardinetto e così calda la birra, molti cui move il disio d’una chiacchierata al fresco, davanti al mare, si allontaneranno da voi, caro Pepin! Voi siete tanto simpatico quando dite il ruche ri Santonati o il ruchini ri Matiloni; la gente ride, v’accarezza ed è contenta. Ma quando fate le tenebre nello stesso tempo in cui fate bei denari, la gente si secca assai, caro quel caro Pepin! Ebbene, e il procresso e la civirtà e l’ebbrica sinculara? Che facciamo, Peppino Abate, vogliamo rimettere i lumi a petronio?70
E, dopo poco meno di una settimana: Peppino, appiccia i lumi! una mosca, delle innumerevoli che fanno la vita nella mattina al Gran Caffè e a sera al Caffè di Napoli in Villa, una di quelle bestioline così carine, che sono delle macchie di colore così vivaci sul mensale o sui grissini, ci è venuta a dire che in seguito al nostro moscone fiat lux, due altri lumi, la sera appresso, al Caffè di Napoli, erano stutati. E il giardinetto continuava a sembrare il camposanto dei lebbrosi, sotto l’imperatore Eliogabalo, sparso di fiammelle tremolanti e malinconiche. E di su la grandiosa sala-terrazzo, ove le tavolette di legno bianco piangono il loro bel tempo antico, la loro gioventù felice passata sotto gli archi di Ciccio ’o monte, la sala superiora del ristorando anche si seppelliva nell’oscurità. Che è mai dunque, o Giuseppe? Quale mestizia ti tange?
gua, in Desanctisiana, a cura di Domenico Conte e Fulvio Tessitore, Napoli, Giannini editore, 2017. 70 Gibus, Api, mosconi e vespe, «Corriere di Napoli», 12-13 giugno 1888.
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Mira: a te rimpetto splende l’araba sala Vacca, e, più lungi, di mille fiamme riluce la cassa armonica. E tu che resti a far? Deh, appiccia i lumi! Appiccia i lumi, o Giuseppe!71
Lessico È opportuno far cenno, seppur brevemente, anche agli aspetti lessicali della prosa giornalistica di Matilde Serao/Gibus, specie per una rubrica di moda, costume e attualità qual era Api, mosconi e vespe. Gran parte del lessico degno di osservazione è segnalato da Gibus in corsivo, e si tratta quasi sempre di forestierismi o parole dialettali o italiane e diatopicamente marcate. Patricia Bianchi osserva che «il corsivo aiuta a prendere le distanze nel testo da forestierismi e da dialettalismi non sempre identificati»72; ma, mentre negli scritti narrativi i prestiti furono in genere attenuati nel succedersi delle diverse redazioni, a eccezione di particolari tecnicismi, negli scritti giornalistici di Api, mosconi e vespe il ricorso al corsivo è costante, e non è usato soltanto per prestiti interni ed esterni, ma anche per enfatizzare tecnicismi relativi al linguaggio della moda. Si segnalano, dal lessico della moda, scuffie, ‘cuffie’, pettinatura a raggi, point à l’aiguille, goletto per ‘colletto’, schiacchetto, forma Direttorio per un particolare modello di redingote, volant/volante, grisé, la due mantici per ‘la carrozza a due mantici’ (presente anche in O Giovannino o la morte), color nocella infornata. il corsivo è adoperato anche per parole come sport e sportman, e per espressioni dialettali italianizzate come chiuppo a Forcella (con chiuppo per ‘pioppo’). Frequente è il ricorso a suffissi diminutivi (divetta, manifestuccio, filuccio73). interessanti sono poi la già citata attestazione di brioche nell’accezione di ‘abbaglio’, non registrata nella lessicografia74, nonché l’uso consapevole di regionalismi in funzione straniante: è il caso della forma appiccia, ‘accendi’, ripetuta più volte nell’articolo del 18-19 giugno citato nel precedente paragrafo («Peppino, appiccia i lumi!», «Deh, appiccia i lumi! Appiccia i lumi, o Giuseppe!»).
2. I due Snob La specificità e l’originalità della prosa giornalistica della Serao, in linea con la modernità di cui la rubrica Api, mosconi e vespe trattava,
71 Ivi, 18-19 giugno 1888. 72 P. Bianchi, Ritratti e parole dal vero, cit., p. XXiV. 73 Cfr. ivi, pp. XXV-XXVi. 74 Cfr. supra alla nota 1.
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per una lettura linguistica di api, mosconi e vespe 735 emergono ancor più nettamente se si osserva la rubrica dopo il passaggio di testimone da Gibus/Matilde Serao a Snob/Salvatore Di Giacomo e roberto Bracco75. in una lettera di Di Giacomo a Giuseppe Mezzanotte (18 febbraio 1892) si chiariscono le circostanze non proprio gioviali che portarono a questo avvicendamento: Carissimo Peppino, tu mi domandi tale quantità di cose che io resto spaventato. A ogni modo cercherò di rispondere a tutto. Schilizzi, il cui carattere era incompatibile con quello di Edoardo, si è sbarazzato a un momento di lui e della Signora, per esser libero nel giornale. Ha chiamato a redattore capo un tale Andrea Cantalupi, mezzo italiano e mezzo tedesco, buon giornalista e buon diavolo. Sono usciti dal giornale Scalera e Della rocca, più don Ciccio Serao. Scarfoglio ha avuto 86 mila lire da Schilizzi e farà un giornale che vuole intitolare «Corriere del Mattino». Ora Schilizzi gli ha fatto una protesta e gli ha sequestrato corrispondenza, macchine e tutto per mezzo del procuratore del re. Egli invoca la compera che fece dell’ex «Corriere del mattino». Suoi avvocati sono Pessina, Manfredi e Marghieri. La guerra è dichiarata. Al giornale di Scarfoglio vanno: Mercatelli, Nitti, Ciamarra, Ferdinando russo, Scalinger etc. Ma credo che Edoardo, mal consigliato da Matilde, sia per dare un passo nel buio. Vedremo. La Signora ci ha lasciato la vile eredità dei ‘Mosconi’, che per ora facciamo Bracco ed io. Ho fatto pace con Bracco. Oramai era necessario per andar d’accordo nella compilazione della rubrica. Gran fermento dunque, anzi grandissimo. Ti farò sapere altre notizie appresso.76
La «vile eredità» della «Signora» dei Mosconi non fu quindi accolta con troppo entusiasmo da Di Giacomo e Bracco, i quali affrontarono l’esperienza di Api, mosconi e vespe come semplici ‘servitori dello stato’77, limitandosi a descrivere in maniera oggettiva e disinteressata eventi di attualità, politica e moda. Da un’osservazione in prospettiva
75 Tuttavia nel testo della memoria difensiva di Matilde Serao scritta nell’ambito della disputa legale tra i coniugi Scarfoglio-Serao e Matteo Schilizzi si fa riferimento a più di due autori alla redazione della rubrica dopo il 1892; il testo è pubblicato da G. infusino, I mosconi di Matilde Serao, cit., pp. 20-23. 76 La lettera è interamente pubblicata in Salvatore Di Giacomo, Scritti inediti e rari, a cura di Costantino del Franco, Napoli, Ente provinciale per il turismo, 1961, pp. 231-232. 77 in realtà anche la Serao affrontava l’esperienza giornalistica in questa prospettiva, come sottolinea Maria Angarano Moscarelli, Le dame dei mosconi e la plebe del «Ventre di Napoli»: una apparente contraddizione nelle opere di Matilde Serao
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cristiana di bonito736 linguistica della testata a partire dal 1892, e cioè dall’ingresso di Snob, emergono di fatto, rispetto alla scrittura di Gibus, molteplici differenze che evidenziano notevolmente l’originalità della prosa giornalistica di Matilde Serao. Se si considera Api, mosconi e vespe in questa diacronia, si nota un mutamento vistoso: nel 1888 la rubrica si presenta infatti al pubblico con un’impostazione innovativa, una scrittura dal piglio deciso e risoluto, con particolarità sintattiche di forte risalto, molto vicine al registro parlato piuttosto che alla classica scrittura cronachistica, con formule testuali che convogliano un’ironia pungente e un’arguta vena critica, di grande efficacia stilistica. A partire dal 1892 i testi perdono di brio e di spigliatezza, conferendo alla rubrica mero carattere di disinteressata cronaca giornalistica. Con Snob la rubrica mantiene la medesima impostazione strutturale, ma la sintassi appare molto più semplice, ipotattica e «periodica»78. Le descrizioni di abiti e accessori alla moda risultano contestualizzate («un mantello viennese. Vienna diviene ogni giorno più il centro dell’eleganza, con gran dolore dei sarti parigini […]79), stilisticamente più raffinate, corredate di commenti galanti ma molto meno marcate linguisticamente, e proprio per questa ragione appaiono meno originali. Alle frasi nominali di Serao/Gibus subentrano i periodi più lineari di Di Giacomo-Bracco/Snob, i costrutti ellittici presenti in Gibus come «tipo cameo» con Snob diventano formule: «come un collare». A titolo esemplificativo si veda il seguente articolo del 7-8 novembre 1892: La moda dei gioielli. Le collane si portano adesso anche sui vestiti da visita e non sono più riserbate soltanto agli abiti da sera. un gioiello molto elegante e che si porta a un pranzo, al teatro, e anche a un ricevimento serale, o la collana, stretta al collo, come un collare. Essa è fatta da due barbazzali di oro opaco, ed è ornata nel centro da una bella pietra, smeraldo, rubino o zaffiro, circondata di brillanti. Due brillanti grossi sono incastonati a poca distanza da questo fermaglio: talvolta, invece, tanti brillantini piccoli sono disposti in giro alla collana. È questo un gioiello solido, costoso e che non può divenire volgare. Lo consiglio alle vere eleganti.
Gli incipit sono anch’essi molto meno marcati («All’Accademia na
conservate presso la Biblioteca nazionale di Napoli, in Matilde Serao. Le opere e i giorni, cit., p. 11. 78 Cfr. M. Palermo, Linguistica testuale dell’italiano, cit., p. 209. 79 Snob [Salvatore Di Giacomo-roberto Bracco], Api, mosconi e vespe, «Corriere di Napoli», 20-21 gennaio 1893.
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per una lettura linguistica di api, mosconi e vespe 737 zionale di scherma. | L’accademia annuale di scherma avrà luogo il giorno 26 febbraio e riuscirà d’un particolare interesse […]»80), e, all’interno del corpus consultato, sono quasi totalmente assenti nei testi di Snob i costrutti con frasi nominali (a eccezione di pochissimi casi). rarissimi sono i testi in cui gli autori mostrano un coinvolgimento, e ciò avviene negli articoli di critica politica filtrati dalle descrizioni del degrado cittadino, dove si notano espressioni più marcate come «non andate, per carità, non andate a Posillipo!», ritenuta polverosa e lurida, e conclusioni velatamente allusive: «All’ultim’ora mi perviene la notizia che parecchie famiglie di distinzione, venute a Napoli a passarvi la primavera, hanno rifatte in fretta e furia le valigie e sono partite per più spirabil aere»81. Non mancano, nelle Api, mosconi e vespe di Snob, articoli di pungente critica alla letteratura contemporanea, come quello del 21-22 maggio 1893 sul «contagio letterario», il «gentile morbo» che colpisce le nuove generazioni di «scrittori, artisti, poeti napoletani», provocato dal «sentimento imitativo»; non è possibile per ragioni di spazio approfondire in questa sede questioni non prettamente linguistiche, ma sarebbe interessante osservare il contenuto di questi testi anche in relazione alla poetica generale di autori di particolare rilievo nel panorama della storia letteraria e linguistica napoletana come Salvatore Di Giacomo e roberto Bracco. Dalle indagini fin qui svolte è possibile concludere che con il passaggio a Snob la rubrica Api, mosconi e vespe del «Corriere di Napoli» assunse le caratteristiche di una qualsiasi rubrica di cronaca, e si potrebbe addirittura affermare che, da un punto di vista linguistico, Api mosconi e vespe di Snob è affine a rubriche di altro genere, come In tribunale a cura dello stesso Di Giacomo. La motivazione della mera ‘servitù’ per lo Stato addotta dai tre autori con riferimento alla scrittura giornalistica è in Bracco e Di Giacomo particolarmente manifesta, mentre da Matilde Serao, autrice ugualmente impegnata in una propria fiorente produzione letteraria, è affrontata in una maniera piuttosto stravagante, che ostenta fino a livelli estremi, con sarcasmo e ironia, la sua cifra stilistica, con una «strizzatina d’occhio»82 alle mode, ai capricci e ai «movimenti mondani» della Napoli contemporanea. È proprio il confronto con la lingua di Snob (ma anche, in generale, con
80 Ivi, 31 gennaio-1 febbraio 1893. 81 Ivi, 18-19 marzo 1893. 82 M. Stefanile, Prefazione a Gianni infusino, I mosconi di Matilde Serao, cit., p. Xii.
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cristiana di bonito738 la lingua della prosa giornalistica ottocentesca83) che fa risaltare in maniera più evidente l’originalità della scrittura giornalistica della Serao, esempio pionieristico di modernità, certamente meritevole di studi ulteriori e approfondimenti capillari, ai fini di un auspicabile profilo linguistico completo dell’autrice.
Cristiana Di Bonito CNr, istituto “Opera del Vocabolario italiano (OVi)” – Firenze
83 Cfr. almeno gli esempi di prosa giornalistica ottocentesca proposti da Luca Serianni, Storia della lingua italiana. Il secondo Ottocento, Bologna, il Mulino, 1990.
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EMANuELA BuFACCHi Matilde Serao senza Napoli. Per una variazione nella storia (e biografia) della scrittrice
Negli anni del soggiorno romano si concentra quella che viene reputata la grande stagione letteraria di Matilde Serao, eppure l’attenzione critica si è soffermata raramente e di scorcio su questo periodo eccezionalmente propizio per la produzione narrativa della scrittrice. L’articolo ne dimostra il rilievo attraverso i contributi pubblicati sul «Capitan Fracassa» e le importanti lettere fin qui inedite della Serao a Luigi Arnaldo Vassallo.
★ The golden age of Matilde Serao’s writing dates back to her years in rome. Yet, critics have rather neglected this period, although it was especially fertile for the writer’s fiction. This article demonstrates its significance through the pieces published in «Capitan Fracassa» and important, hitherto unpublished letters from Serao to Luigi Arnaldo Vassallo.
1.1 Geografia e storia di una grande stagione letteraria
Le forme di attenzione che investono gli autori e le opere forniscono il medium necessario alla loro sopravvivenza indirizzandone e determinandone la storia interpretativa di generazione in generazione. Per quanto gli argomenti utilizzati a tale scopo possano rivelarsi parziali, essi assumono – come ci ha insegnato Kermode1 – una funzione decisiva nel decretare la canonizzazione di un testo e di uno scrittore magari selezionando, privilegiando, modificando caratteri originali e prerogative. Non sorprende allora se sulla centralità del periodo romano nella formazione e nella produzione di Matilde Serao non si sia ancora adeguatamente ragionato in soggezione a una diffusa tendenza critica abi
Emanuela Bufacchi: università di Napoli Suor Orsola Benincasa; prof. associato di Letteratura italiana; e.bufacchi.unisob@gmail.com. 1 Frank Kermode, Forme d’attenzione. La fortuna delle opere d’arte, Bologna, il Mulino, 1989, pp. 79 e segg. (ed. orig. Forms of Attention, Chicago, university of Chicago Press, 1985).
II. Vie: Napoli e l’Europa
emanuela bufacchi740 tuata a concentrarsi in modo quasi esclusivo, al di là della produzione letteraria, sull’attività legata alla cosiddetta “avventura” del «Mattino». Si direbbe che, anche sotto questo particolare versante, l’energia operativa dell’immagine di Napoli sia stata ben efficace, oltre il posto reale che nella storia della letteratura occupano le opere ritenute più importanti e convincenti: dal Ventre di Napoli al Paese di Cuccagna. Qui si tratta di operazione diversa, vòlta a ricostruire un itinerario, a individuare soglie nascoste, eppure effettive di una biografia di eccezione, modernissima, tutta giocata fra giornalismo e letteratura. Anche solo un rapido sguardo alle date di pubblicazione delle principali opere della scrittrice consentirebbe di registrare il rilievo del quinquennio compreso tra il 1882 e il 1886. Nel 1883 uscirono Fantasia a Torino per l’editore Casanova (anticipato in appendice alla «rassegna» di Michele Torraca tra il luglio e l’agosto del 1882) e Piccole anime per il romano Sommaruga. Sul finire dell’anno, tra novembre e dicembre, nella «Domenica Letteraria» venne stampata La virtù di Checchina, in volume l’anno successivo per l’editore catanese Giannotta; tra il settembre del 1884 e il gennaio del 1885 apparvero sul «Capitan Fracassa» Il ventre di Napoli, prontamente edito da Treves di Milano e La Conquista di Roma, pubblicato dall’editore fiorentino Barbera nel 1885; frattanto su «La Nuova Antologia» uscirono nel 1884 i Telegrafi dello Stato, poi tra gennaio e febbraio 1885 Scuola normale femminile, tra aprile e maggio Per monaca; nel giugno sul «Fanfulla della Domenica» Non più, confluito sul finire d’ottobre, insieme ai precedenti racconti, nel volume Il Romanzo della fanciulla (Milano, Treves). intanto tra agosto e novembre venne anticipato sempre su «La Nuova Antologia» il “romanzo-saggio” Vita e avventure di Riccardo Joanna, solo in seguito edito da Galli di Milano (1887). in un arco di tempo che possiamo circoscrivere al soggiorno romano si concentra quindi quella che viene generalmente reputata la grande stagione letteraria della Serao: un periodo eccezionalmente propizio per la produzione narrativa che si dispiega e sviluppa negli stessi anni in cui giunge a compimento il fecondo apprendistato giornalistico, perfezionato con l’ambizione di assurgere da collaboratrice a redattrice fissa di una rivista tra l’altro estranea alla cerchia ristretta dei confini partenopei. Quasi a riprova di quanto «il tirocinio giornalistico promuova e non già ostacoli la vita dell’opera creativa, almeno finché il nuovo contesto sarà ancora in qualche modo collegato alla cultura alta che esso andava soppiantando»2.
2 Emma Giammattei, Il romanzo di Napoli. Geografia e storia della letteratura nel XIX e XX secolo, Napoli, Guida, 2016², p. 165.
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matilde serao senza napoli 741 L’iniziazione al giornalismo si era compiuta a Napoli per interessamento del padre, il cui ruolo è rimasto occultato, probabilmente in ragione di una marcata propensione della scrittrice a impersonare l’icona della donna capace di affermarsi sulle proprie forze e, in seguito, in ossequio a una tradizione critica alquanto debitrice del drastico giudizio formulato da Anna Banti3. Fin dall’ottobre 1876, quando a seguito della svolta governativa a sinistra4, la direzione della rivista era passata da Federigo Verdinois a Enrico Melis, Matilde aveva iniziato un’assidua collaborazione con il «Giornale di Napoli» curandovi la Rassegna teatrale, e pure intervenendo per indirizzare i lettori nella scelta delle Novità letterarie. Dal gennaio del 1878 aveva cominciato a scrivere anche sul quotidiano letterario «il Novelliere» fondato da Alfredo Monaco5, a cui parteciparono stabilmente Verdinois e Martino Cafiero, vale a dire i principali artefici del rinnovamento del «Corriere del Mattino»6, due giornalisti di vocazione e di professione che ebbero – com’è noto – un peso determinante nella rigogliosa fioritura del giornalismo letterario nella Napoli post-unitaria. Nell’aprile vi pubblicò con lo pseudonimo di Tuffolina la novella lunga Opale, subito dopo ripresentata in volume per De Angeli, editore anche della testata. A detta di Verdinois, proprio a seguito della lettura di quella prima prosa letteraria «manifestazione spontanea – troppo ingenuamente spontanea – di un ingegno fresco e potente»7, rocco De
3 Anna Banti, Matilde Serao, Torino, uTET, 1965, p. 12. 4 «il signor Federigo Verdinois abbandona il “Giornale di Napoli” per non abbandonare i suoi principi, dai quali, perduta la concessione degli atti amministrativi, il giornale suddetto fa divorzio» (Don Peppino, 1876). All’8 ottobre 1876 risale il primo Corriere teatrale a firma della Serao. Diversamente Vittoria Pascale, a cui pure resta il merito di uno studio bibliografico-critico pionieristico su fonti di prima mano, fa risalire al 1877 l’inizio della collaborazione. 5 Sugli esordi letterari della Serao: Caterina De Caprio, Tuffolina al “Novelliere”: gli esordi di Matilde Serao, «Annali dell’istituto universitario Orientale di Napoli – Sezione romanza», XXXViii (1996), pp. 133-145; Patricia Bianchi, La riscoperta di “Tuffolina”. Le prime prove narrative di Matilde Serao, «Filologia e critica», XXiii (1998), n. 3, pp. 444-458. A Caterina De Caprio si deve anche la riedizione di Opale e altri scritti per le edizioni napoletane di Dante & Descartes, 1999. 6 Sulla testata si vedano almeno i contributi di rossana Melis, La letteratura quotidiana a Napoli nel secondo Ottocento, i, «Annali della Fondazione Verga», 1996, pp. 105-162; ii, ivi, 1997, pp. 117-186; e Il Corriere del Mattino verso la terza pagina, in C’era una volta la terza pagina. Atti del Convegno, Napoli, 13-15 maggio 2013, a cura di Daniela De Liso e raffaele Giglio, Firenze, Franco Cesati Editore, 2015, pp. 65-107. 7 Federico Verdinois, Profili letterari napoletani, Napoli, Morano, 1881, pp.
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emanuela bufacchi742 Zerbi8 la ingaggiò come collaboratrice del «Piccolo». iniziò così una intensa attività fatta anche di saltuari interventi su altre testate come l’«illustrazione italiana» dei Fratelli Treves di Milano, i romani «Fanfulla» e il «Fanfulla della Domenica», diretti da Ferdinando Martini, la «Gazzetta Letteraria» e «La Gazzetta Piemontese» di Torino guidate da Bersezio; tanto che dall’ottobre 1876 al giugno 1879, attraverso un lavoro indefesso, si impegnò in un cammino di affermazione che la condusse in rapida ascesa. Al punto di ottenere a partire dal 1° luglio del 1879 – a seguito dell’assunzione di proprietà del «Giornale di Napoli» da parte dell’avvocato Gennaro Salvati e della direzione di Francesco Serao9 – l’incarico, certamente inconsueto per una giovane donna, di responsabile della pagina letteraria10. Di fronte a un così denso curriculum di collaborazioni – tali da consolidare la sua posizione all’interno dell’agguerrita schiera di produttori di notizie e da permetterle di penetrare nell’entourage del «Corriere del Mattino» fin dall’aprile del 1880 per contribuirvi stabilmente
145-151: a p. 150; poi ripubblicati insieme ai Ricordi giornalistici a cura di Elena Croce nel 1949 (Firenze, Le Monnier). 8 Sul direttore del «Piccolo», da lui fondato nel 1868 e diretto fino al 1888, tra i numerosi saggi recenti si vedano almeno Giuseppe Civili, Fare opinione: Rocco De Zerbi e Napoli nell’Italia postunitaria, Napoli, Libreria Dante & Descartes, [2005]; Barbara Manfellotto, Rocco De Zerbi edito e inedito: il giornalista, il politico, lo scrittore. Tesi di dottorato di ricerca in filologia moderna, indirizzo italianistica, XVi Ciclo, tutor: Antonio Palermo, Nicola De Blasi, Anna Maria Compagna, coordinatore: Antonio Gargano, Napoli, 2004; Ornella De rosa, Stato e nazione in Rocco De Zerbi: vita, pensiero politico e impegno sociale di un protagonista del secondo Ottocento, Bologna, il Mulino, 2010. 9 Come risulta da una lettera scritta il 5 ottobre 1878 da Matilde Serao a Vittorio Bersezio: «io ricevo puntualmente la Gazzetta politica e letteraria, perché mio padre, Francesco Serao, è direttore del Giornale di Napoli e non manca di portarmela ogni giorno» (rossana Melis, “Ci ho lavorato col cuore”. 24 lettere di Matilde Serao a Vittorio Bersezio (1878-1885), «Studi Piemontesi», XXiX (2000), n. 2, p. 371). 10 La notizia, registrata in nota nel volume di Vittoria Pascale, Sulla prosa narrativa di Matilde Serao: con un contributo bibliografico, 1877-1890, Napoli, Liguori, 1989, p. 104, nota 1, era stata anticipata con un accenno da Gianni infusino in La storia de “Il Mattino”, Napoli, Società Editrice Napoletana, [1982], p. 42. Su questo punto si vedano alcune osservazioni preliminari in Emanuela Bufacchi, Matilde Serao dalla direzione della terza pagina del «Giornale di Napoli» al supplemento letterario de «Il Mattino», in Gli intellettuali europei a cavallo tra Ottocento e Novecento. Atti del Convegno di studi della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’università Juraj Dobrila di Pola 3-7 giugno 2019 in corso di stampa.
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matilde serao senza napoli 743 dal secondo semestre del 1881 fino all’agosto 188211 –, la scelta di un trasferimento nella capitale è sembrata fin qui non abbastanza chiarita da biografi e critici. Ora, le lettere a Luigi Arnaldo Vassallo, direttore della rivista romana «Capitan Fracassa», conservate nella biblioteca universitaria di Genova consentono finalmente di mettere in luce alcuni aspetti importanti di questo spostamento che, compiuto dalla Serao ancora insieme al padre, fu certamente generato da un convincimento personale e segnato da una tenace volontà di affermazione in un più ampio panorama nazionale. Era viva in lei la persuasione che la capitale dell’italia unita potesse considerarsi un più importante trampolino di lancio anche verso l’Europa. È un percorso verso il centro, da un’antica capitale alla sede del governo della Nuova italia che non si configura diversamente da quello compiuto nel corso degli stessi anni dalla triade catanese composta da Capuana Verga e De roberto, disposti a trasferirsi da una provincia culturalmente depressa a Milano, la più europea delle città italiane, in un pellegrinaggio obbligato che pure avrebbe coinciso con il periodo di maggiore e più felice energia creativa. E soprattutto secondo una traiettoria del tutto analoga che avrebbe segnato, in sincronia, la parabola dannunziana.
1.2 Roma materna. Di un trasferimento premeditato
Dalle lettere fin qui inedite della Serao a Vassallo12 si ricava in primo luogo che fu Martino Cafiero a introdurla nella testata romana che garantirà alla Serao il sostentamento necessario al cambiamento di residenza:
Pregiatissimo Signor Cavaliere, il comune amico, signor Martino Cafiero, mi dice di dirigermi a lei per quanto riguarda il simpatico Capitan
11 Sulla produzione legata a tale collaborazione, rimasta esclusa dalla bibliografia della Pascale eppure rilevante anche per le pagine dedicate al nesso tra virtù e colpa si veda Emanuela Bufacchi, Matilde Serao e l’apprendistato napoletano, in corso di stampa. 12 i 13 autografi, conservati nel fondo Vassallo-Nurra della Biblioteca universitaria di Genova (da ora in poi BuG) con segnatura M 95742-95754, e indirizzati in ampia parte (9) a Luigi Arnaldo, alla moglie Aurelia (2) e a destinatario indefinito (2) sono ora in corso di stampa integralmente. il regesto delle lettere della Serao è consultabile in Anita Ginella Capini nel volume Lettere a Luigi Arnaldo Vassallo Gandolin, prem. di Cesare Viazzi, Genova, Brigati, 1996, pp. 161-164. ringrazio la dott.ssa Oriana Cartaregia per aver favorito una rapida consultazione dei documenti.
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emanuela bufacchi744
Fracassa. Quindi io ringrazio lei per la pronta pubblicazione della mia prosa. Spero che sia piaciuta alla direzione ed ai lettori. Nel qual caso, se lo si desidera, potrei ogni tanto mandare qualche cosa. Se poi si desidera un genere speciale, Le sarò grata dell’indicazione13.
Si tratta della prima prosa uscita a firma della Serao con una disamina giocosa sull’efficacia e l’utilità dei bozzetti, che poi confluirà nella Raccolta minima (1881) quindi in Pagina azzurra (1883) e nell’edizione del 1890 di Dal vero14. La lettera datata 14 giugno 1880 appare essere, sia per il contenuto che per la formula allocutiva di apertura, il primo abboccamento tentato dalla scrittrice per iniziare a collaborare con la testata, tanto da lasciarci supporre con una certa convinzione che l’articolo pubblicato nel 4° numero del periodico con cui Chiquita dà inizio alla rubrica Tra piume e strascichi – costruita interamente per un pubblico femminile non senza ironia e dissacrante elevazione della moda ad espressione artistica15 – non debba attribuirsi alla scrittrice, il cui debutto sembrerebbe essere appunto avviato con Bozzetti, apparso il 6 giugno del 1880. D’altra parte fin dal 1887 nelle oggi quasi introvabili Memorie di un giornalista, Ernesto Mezzabotta, una delle macchine da prosa più attive del giornalismo romano, raccontando del suo ingresso nel mondo della stampa favorito dalla sensibile rapacità intuitiva di Peppino Turco, aveva ricordato come sua personale creazione la firma Chiquita16, con cui era nominata la giovane fanciulla orfana di
13 Lettera di Matilde Serao a Luigi Arnaldo Vassallo, Napoli-Magnocavallo, 14 giugno 1880 in BuG, Fondo Luigi Vassallo-Nurra, n. 95744. 14 Matilde Serao, Bozzetti, «Capitan Fracassa», 6 giugno 1880; ora in Dal vero, a cura di Patricia Bianchi, Napoli, Dante & Descartes, 2000, pp. 148-152. 15 Questo e altri interventi di Chiquita nel «Capitan Fracassa» del 1880 sono registrati da V. Pascale, Sulla prosa narrativa di Matilde Serao, cit. 16 «Quell’io che ha in seguito versato a torrenti la prosa in tanti giornali, che ha assunto i pseudonimi più svariati, trattato le materie più diverse; quell’io che ha scritto di archeologia e di costruzioni navali, che ha redatto il Giornale delle Biblioteche e creato la Chiquita del Capitan Fracassa, io debbo il mio ingresso nelle ardue vie del giornalismo contemporaneo a quelle righe di cronaca inserite per pura compassione da Turco» (Ernesto Mezzabotta, Memorie di un giornalista. Quindici anni al fuoco, roma, Tip. Editrice industriale, 1887, pp. 36-37). Più noto il passo in cui Edoardo Scarfoglio, nella «Domenica letteraria» del 9 settembre 1883 (Cronaca Bizantina, III, Il «Capitan Fracassa»), aveva rilevato l’originaria natura maschile di Chiquita «A poco a poco entrai nel Sancta Sanctorum, e scoprii tutti i misteri. Primo e più piccante, Chiquita. Questa Chiquita era – nei primi mesi del Fracassa – un uomo, e, non se ne abbia a male, uno dei più brutti uomini che io mi abbia conosciuto». Nell’elenco degli pseudonimi compilato da Nicola Bernardini, nella Guida della stampa periodica italiana (Lecce, Tipografia editrice salentina, 1890) il nome
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matilde serao senza napoli 745 grande esperienza e singolare saggezza apparsa nel romanzo di Théophile Gautier a cui la testata evidentemente alludeva17. Non c’è dubbio comunque che almeno dall’estate del 1882 il nome del personaggio d’appendice fosse stato assunto da Matilde Serao a cui si riferiva la replica La vil prosa. “Lettera a Chiquita” del Capitan Fracassa pubblicata da Giulio Salvadori il 16 agosto 1882 su «La Cronaca bizantina»18. Nel corso dei mesi il numero di articoli elaborati dalla giovane si sarebbe rapidamente moltiplicato tanto da conquistare lo spazio di una nuova rubrica “Da roma a roma e viceversa”, destinata a trattare questioni strettamente locali e inaugurata l’8 ottobre 1881; va da sé che la materia proposta finisse in questo caso per offrire un fondato pretesto alla necessità di essere sul posto, in modo da poter aver esperienza diretta degli avvenimenti da raccontare. Appiglio a cui Matilde sarebbe ricorsa in una lettera indirizzata a Vassallo il 16 ottobre 1881: «Ecco il mio Primo roma, abbastanza bruttino. Ma converrete che è difficile scriverli lontano da roma. Se non vi piacciono, ne sospendo la spedizione» salvo poi concludere «Non affretterò la mia venuta. Prendo bene le mie misure»19. Ma il tempo della decisione era ormai maturo; tanto che due giorni prima, di ritorno a Napoli dopo un soggiorno trascorso a Cascano assieme al padre, si era spinta a dichiarare la sua volontà di trasferimento, argomentandola con ragioni certamente funzionali ad ottenere l’appoggio del direttore del «Fracassa» – qualificato, qualche tempo dopo, in una lettera non priva di ironia a Luigi
Chiquita nel «Fracassa» è attribuito senza indicazione di date prima a Ernesto Mezzabotta poi a Matilde Serao (p. 236). Anche Vincenzo Morello nella citata biografia dannunziana, raccogliendo la testimonianza orale di Gennaro Minervini ricorda Mezzabotta come «il più fecondo produttore di originale, che nel Fracassa firmava Il Pedante, il Maestro del Signorino e financo Chiquita!» (p. 34). 17 Sulla relazione tra la testata e il romanzo d’appendice Capitan Fracassa è tornata rossana Melis nell’articolo Matilde Serao una voce per le donne nel «Capitan Fracassa», in Atti del Convegno Scritture di donne fra letteratura e giornalismo, 3. Scrittrici/giornaliste giornaliste/scrittrici (Bari, 28 novembre – 1° dicembre 2007) a cura di Adriana Chemello e Vanna Zaccaro, s.l., Settore editoriale e redazionale, 2011, pp. 151-169, in part. pp. 152-154. 18 Ora in Scritti bizantini, Bologna, Cappelli, 1963, pp. 54-59. una lettera di Giulio Salvadori a Severino Ferrari testimonia inoltre il consolidarsi dell’uso diventato ormai esclusivo: «Certamente la colpa è del destino – come nei melodrammi, nei processi criminali, e nei romanzi della Serao, la tua Chiquita» (lettera di G. Salvadori a S. Ferrari [roma, estate 1883], in Giulio Salvadori, Lettere, 1. 1878-1906, roma, Edizioni di storia e letteratura, 1976, p. 42). 19 Lettera di Matilde Serao a Luigi Arnaldo Vassallo, Napoli, 16 ottobre 1881, in BuG, Fondo Vassallo-Nurra, n. 95746.
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emanuela bufacchi746 Lodi “un cretino”, forse anche con l’intendimento di dissimulare un interesse troppo soggetto a maldicenze20:
Notizie più o meno buone. Qui a Napoli, due o tre novità di vecchia data. Non ho ancora visto nessuno. Da stamattina ho lavorato moltissimo ed è l’unica attività del mio spirito. Cafiero mi ha scritto una certa lettera sentimentale e dubbiosa sulla mia partenza da Napoli: lo vedrò questa sera. Vi dirò. Napoli è nauseante. L’aria, il cielo mi sembrano torbidi e fangosi e mi sento la bocca piena di argilla e la mente impastata nella creta. Sarà il tempo come dicono i borghesi. Sono dolente perché il Piccolo non ha pubblicata la mia seconda lettera da Venezia. Smarrita o non voluta pubblicare? Non so. Questi giornali di Napoli mi seccano. Fo bene o fo male venendo a roma? Se fo male ci vengo21.
La lettera suggerisce – meglio di quanto non lascino intendere i toni sfumati della spiegazione offerta a ida Baccini22 o le suggestioni romantiche del ricordo di roberto Bracco23 – le ragioni di una parten
20 Marika Verde, Lettere di Matilde Serao a Luigi Lodi, «Otto/Novecento», XXiX (2005), n. 1, p. 120. La lettera senza data ci lascia anche una testimonianza importante sulle relazioni romane: «Se sapeste come ho desiderato roma e il Fracassa e gli amici! Forse è una follia, perché questo riposo era necessario. Mi amerete tutti di più, quando sarò di ritorno. intanto dite a Donna Bianca che non si scordi di me, a Federico che gli bacio la mano, a Turco che è un uomo senza convinzioni, a Vassallo che è un cretino e a tutti i colleghi che mi ricordo sempre, sempre di loro. il Fracassa è bello. Vi stringo cordialmente la mano». 21 Lettera di Matilde Serao a Luigi Arnaldo Vassallo, Napoli, 14 ottobre 1881, in BuG, Fondo Vassallo-Nurra, (n. 95752). Fin dal gennaio del 1879 aveva presentato Napoli come una città sfavorevole all’attività letteraria, scrivendo a Vittorio Bersezio direttore della «Gazzetta letteraria»: «qui a Napoli non si può fare nulla e si guadagna niente: si ha l’abitudine di scrivere per la gloria. il movimento letterario è minimo è lo scrittore che vuol farsi una via, bisogna che rinunci al suo paese e ricorra alla ospitalità ed alla cortesia di roma, di Torino, di Milano, etc.». La lettera è del 27 gennaio 1879 ed è pubblicata in rossana Melis, Ci ho lavorato col cuore 24 lettere di Matilde Serao a Vittorio Bersezio, «Studi piemontesi», n. 2, 2000, p. 372. 22 «Leggo l’inglese abbastanza bene, ma ho bisogno di studiarlo ancora; a roma mi propongono di studiarlo assai. È una città dove si può vivere raccolti, quando si voglia. Qui a Napoli, è impossibile. Vi è troppo sole, troppo azzurro, troppa primavera» (ida Baccini, La mia vita Ricordi autobiografici, roma-Milano, Soc. ed. Dante Albrighi e Segati, 1904, in part. p. 171). 23 «– Non tornerete mai più a Napoli nella vostra Napoli? – Spero di ritornarvi. Desidero ritornarvi. Sapete che l’adoro. Ma devo lavorare per guadagnarmi il pane quotidiano. Qui non è possibile. Troppa bellezza. Troppa gioia. Troppa poesia. Troppo mare. Troppo Vesuvio. Troppo Posillipo. Troppo amore» (roberto Bracco, La più vera Matilde Serao, in id., Nell’arte e nella vita vol. XXiV delle Opere, Lanciano, Carabba, 1941, p. 105).
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matilde serao senza napoli 747 za che avrebbe avuto come vera motivazione l’impazienza di svincolarsi da confini troppo stringenti, da relazioni diventate ingombranti, da un ambiente professionale che alla prova dei fatti era forse meno accogliente di quanto apparisse. Di lì a qualche mese, nel gennaio del 1882, appena approdata nella città eterna, Matilde appare tutta impegnata a sistemare tappeti e tendine nella casa di via dell’Archetto 2224, dove resterà fino a dicembre per poi traslocare in un appartamento più ampio in vicolo del Boccaccio 5. Senza voler troppo indugiare nei giochi di rimandi autobiografici – sollecitati da Fantasia dove la città per lo più raccolta tra Montecitorio e il Pincio, Piazza del Parlamento e Villa Borghese appare umana, materna e sorridente a Caterina Spaccapietra in Lieti e a suo marito25 o più distesamente risvegliati da Francesco Sangiorgio protagonista de La conquista di Roma che sperimenta la smania di un incontro a lungo vagheggiato e invocato, come un figlio amato e lontano, magnetizzato dal desiderio della madre26 –, varrà la pena notare che una immagine del tutto analoga a quella cristallizzata dalla prosa narrativa ricorre nelle annotazioni epistolari. Nell’ottobre del 1884 scrivendo a Giuseppe Giacosa dopo aver trascorso tre mesi a Francavilla mare in
24 Lettera di Matilde Serao a Olga Ossani datata roma, 8 gennaio 1881 [ma 1882], in Ferdinando Cordova, “Caro Olgogigi”. Lettere ad Olga e Luigi Lodi. Dalla Roma bizantina all’Italia fascista (1881-1933), Milano, FrancoAngeli, 1999, pp. 96-97. 25 «roma è umana, è materna, è sorridente a questi sposi che vengono a portare il loro amore per le sue vie aspramente selciate, nelle sue mura bigie e grandiose, sotto il suo cielo mite, di una dolcezza infinita» Matilde Serao, Fantasia, (1883) introd. di riccardo reim, Milano, Otto/Novecento, 2010, p. 115. Si noti che al di là della parentesi romana la topografia del romanzo è dominata da Centurano, borgo in provincia di Caserta, dove si trovava villa Pierantoni, adibita, da Grazia Pierantoni Mancini primogenita del patriota irpino Pasquale Stanislao e della napoletana Laura Oliva, poetessa stimata dal De Sanctis, a sede «di un’istituzione educativa a beneficio della popolazione locale e in particolare delle fanciulle» (Cfr. Luigi russo, Nuove conversazioni con Benedetto Croce, rist. in id., Il dialogo dei popoli, Firenze, il Sentiero, 1953, pp. 343-361: p. 353 e Nunzio ruggiero, Attraversare, connettere, tradurre. Modelli del cosmopolitismo femminile tra Otto e Novecento, in Potere, prestigio, servizio: per una storia delle élites femminili a Napoli (1861-1943), a cura di Emma Giammattei, Emanuela Bufacchi, Napoli, Guida, 2018, pp. 235-260: a p. 241. 26 «Sì, era roma. Adesso quelle quattro lettere, rotonde, chiarissime, squillanti come le trombe di un esercito in marcia, si disegnavano nella sua fantasia, con un’ostinazione d’idea fissa […]. La città lo aspettava, da un pezzo, come un figlio amato e lontano; e lo magnetizzava col desiderio della madre, profondo, che evoca il figliuolo […] egli aveva guardato l’orizzonte chiarissimo dietro la collina, pensando che dietro quell’arco di cielo che si piegava, grandioso, era roma che lo aspettava!» (Matilde Serao, La conquista di Roma (1885), roma, Elliot, 2014, p. 14).
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emanuela bufacchi748 un ozio produttivo che la porterà alla stesura proprio del romanzo romano, ricorrerà alla visione della roma materna pronta ad accogliere in questo caso una figlia forse troppo poco generosa con la patria adottiva, Napoli, scrutata a distanza nei tempi oscuri del colera:
quando è venuto settembre e il cholera a Napoli, per la pena, per l’agitazione, per non poter andare anche io – il papà mio avrebbe agonizzato di spavento – per tanto lutto che colpiva il mio bel paese, caro, non ho potuto più né scrivere né pensare, né fare nulla, salvo quelli articoli su Napoli, il Ventre di Napoli che ora verranno fuori in volumi. Ne sono venuta fuori con una nevralgia allo stomaco, una nevrosi, figuratevi una nevrotica grassa, è una ridicolaggine. infine sono tornata a roma prima del tempo: e già roma madre mi sta guarendo nelle sue braccia affettuose27.
Non è la cordialità premurosa quanto una benevolenza lusinghiera seppur calcolatrice quella che sembra meglio definire la favorevole accoglienza del «Capita Fracassa», dove – scrive all’amica ma rivale in amore Olga Ossani – «tutti mi amano e mi carezzano, forse perché hanno molto bisogno di me»28. Nel giro di due anni, il suo produttivo contributo all’interno della rivista diventa talmente solido e indispensabile da spingere i proprietari della testata nel marzo del 1882, dopo che la Serao all’inizio del mese a seguito di un litigio aveva presentato le dimissioni, a darle carta bianca sui soggetti da proporre e ad aumentarle prontamente la “mesata”. Almeno così dichiara per lettera ad ulderico Mariani29. Non c’è dubbio comunque che la richiesta di produzione fosse aumentata anche in forza della condizione debitoria
27 Lettere di Matilde Serao a Giuseppe Giacosa a cura di Ettore Caccia, «Lettere italiane», XXiV (aprile-giugno 1972), n. 2, p. 222. 28 Lettera di Matilde Serao a Olga Ossani datata roma, 8 gennaio 1881 [ma 1882], cit. supra, p. 97. 29 «insomma rientrai, trionfante. Essi ora hanno assoluto bisogno di me. Peppino Turco ha venduto la sua parte ed è uscito dal giornale. restiamo ordinarii Vassallo, Ferri ed io. intanto da gennaio ogni giorno il Fracassa aumenta, come risulta dal bollettino di vendita: siamo a dodicimila cinquecento copie» (Matilde Serao, Alla Conquista di Roma. Lettere a Ulderico Mariani, «Nuova Antologia», 73, 16 dicembre 1938, pp. 386-387). Sugli equilibri interni della rivista avrebbe rilevato, qualche mese scrivendo ad Onorato Fava, la progressiva emersione della componente bizantina: «Pel Fracassa mi riesce quasi impossibile aiutarvi, poiché è spiccata l’influenza bizantina, poiché vi scrivono Scarfoglio, D’Annunzio, Salvadori e Fleres, tutti bizantini. Volere o no, la cricca esiste e voi ve li inimicaste con l’articolo sulla Nuova Rivista» (lettera a Onorato Fava del 1° ottobre del 1882 in BNN Fondo Fava XX – 1 busta iii 492).
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matilde serao senza napoli 749 in cui la scrittrice tendeva spesso a trovarsi, se rifiutando con determinazione la proposta di una collaborazione straordinaria, vale a dire senza limiti nel numero di articoli consegnati e retribuiti, si preoccupava di restituire in fretta quanto dovuto alla direzione:
Non ho avuto bisogno di pensare cinque minuti su quanto mi avete detto. Vi mando la risposta immediatamente. Vi ringrazio tanto della proposta fattami a nome dei proprietarii del Fracassa di collaborare straordinariamente nel giornale, senza limitarmi il numero degli articoli, ma non credo dover accettare l’offerta. E poiché sono in debito di lire Quattrocento con l’amministrazione del Fracassa, mi affretto ad inviarle per saldare il mio conto. Credo che questo incidente non altererà le relazioni di amicizia fra voi e la Vostra devotissima Matilde Serao30.
insomma gli interventi della Serao sulle pagine del periodico romano assumono una frequenza e una consistenza tali da accordarle una funzione non riducibile a quella di semplice collaboratrice, in forza di una inarrestabile fecondità produttiva che la porta ad apparire su uno stesso numero anche con tre articoli ascritti a nome de plume differenti e quasi sempre collocati dal marzo del 1882 in prima pagina31. Lo stesso Lodi non ebbe dubbi nell’indicare lucidamente il compito del tutto eccezionale che le venne affidato, ma anche accreditato, dalla redazione:
Fu la prima donna che divenne redattrice fissa di un giornale […]. Prima di lei altre donne, pur di reale valore, avevano scritto nei giornali, ma la loro era rimasta una semplice collaborazione; il direttore pubblicava quegli articoli che credeva senza obbligo da nessuna delle due parti, a distanza indeterminata di tempo. La Serao no; era diventata redattrice fissa ordinaria, per essere pronta a compiere, pure quotidianamente, l’opera della quale era richiesta32.
30 Lettera di Matilde Serao a Luigi Arnaldo Vassallo del 4 marzo 1882, ore 11 pom. BuG, Fondo Vassallo-Nurra, n. 95750. 31 in una lettera a Mariani del 27 febbraio 1882: «i miei affari vanno così: trecento lire al mese dal Fracassa, con l’obbligo di duemila linee – a 15 centesimi – al mese e una volta al mese la firma», la lettera del 26 marzo registra un incremento di attività: «il Fracassa mi accorda i primi onori delle sue pagine: ora ci guadagno quattrocento e più lire al mese» in M. Serao, Alla Conquista di Roma. Lettere a Ulderico Mariani, cit., pp. 381 e 385. 32 Luigi Lodi cit. in F. Cordova, “Caro Olgogigi”, cit., p. 97.
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emanuela bufacchi750 2.1 Prassi e coscienza narrativa. Le lettere a Vassallo
Al di là di questa ragguardevole e quasi invasiva presenza che le consente di primeggiare rapidamente mettendo in ombra le altre firme, è poi il contenuto degli articoli che meriterebbe un’analisi approfondita. L’attenzione critica si è soffermata raramente e di scorcio su questi sei anni di collaborazione33, e laddove questo sia avvenuto si è puntato a mettere in evidenza la molteplicità dei temi toccati dalla facile penna dell’articolista, un’ampiezza di schizzi che documenterebbe una fertilità prodigiosa ma che pure lascia sottintendere una irrimediabile inconsistenza34. Tanto più che tale ricchezza di produzione resta abitualmente limitata ad ambiti prettamente femminili – tra cui spicca la fortunata e molto celebrata rubrica piccola posta, che avrà largo seguito nei rotocalchi – a cui si affiancherebbe il rilievo assoluto dei celebri stralci del Ventre di Napoli, poi apparsi in volume nel 1884 (per le edizioni Treves). in realtà, i contributi della Serao posseggono un valore più autentico e consentono di seguire da vicino, come ebbe a sottolineare Francesco Bruni35, gli approfondimenti, le ragioni e le riflessioni che la porteranno, nel genere romanzo, a delimitare e a rendere dialettico, cioè non assoluto, il protagonismo delle grandi “colpevoli della passione”36 – ben esemplificate dalla statuaria e imperscrutabile Beatrice del primo romanzo (Cuore infermo, 1881) –, e a verificare la tenuta letteraria delle virtù perfettamente incarnate nella Caterina Spaccapietra di Fantasia (1882). Questo processo di chiarificazione era stato attivato in via teorica almeno fin dalla fine del 1881 quando il ragionamento sviluppato intorno agli ingredienti narrativi che animano i personaggi si era andato rivelando irrimediabilmente soggetto alle richieste del pubblico, rese
33 il primo ampio spoglio bibliografico del «Capitan Fracassa», sebbene incompleto, si deve al già citato volume di V. Pascale, Sulla prosa narrativa di Matilde Serao. 34 La Serao scriveva di tutto: «dalla critica letteraria all’articolo di costume, alle note sulla moda femminile e sull’arredamento; si rivelò una giornalista preziosa, puntuale, diligente, sempre pronta all’ora stabilita, con quelle sue cartelline nitide che tappavano ogni buco» (Wanda de Nunzio Schilardi, Matilde Serao giornalista (con antologia di scritti rari), Lecce, Milella, 1986, p. 33). 35 Francesco Bruni, Nota al testo, in Matilde Serao, Il romanzo della fanciulla, Napoli, Liguori, 1985, pp. XLii e XLVii. 36 il richiamo ovvio è a La bellezza medusea e a La belle dame sans merci di Mario Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Firenze, Sansoni, 1966.
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matilde serao senza napoli 751 imprescindibili dall’esperienza giornalistica. Sono ancora le lettere indirizzate nell’ottobre a Vassallo a fornire informazioni interessanti:
io sto bene, ma sono così stanca, così stanca! Lavoro sino a morirne. Sono molto allegra. Leggete Malinconia, pubblicata oggi nel Piccolo, è una cosa tutta da ridere. Tutti mi dicono: voi ridete troppo. E quante altre cose m’hanno detto, è inutile raccontarvi. Sono volumi. A proposito di novelle. io ne ho scritte varie, dove il protagonista o la protagonista, quando in loro declina ogni cosa, cominciano a fare lunghi discorsi sulle precauzioni, sulla tranquillità, sulla necessità della calma ed altri ingredienti simili. Artisticamente parlando, la decadenza non si esprime altrimenti. E non vi par vero il mio procedimento? Non vi par vero? Ora ne ho una di novelle che desidero, voglio assolutamente scrivere. Mi soffoca, mi strangola a furia di tenerla in me: è più forte di me. Ma mi manca il pubblico. È proprio il male peggiore di tutti. Sapete che parlando o scrivendo si sfuga e tranquillizza l’anima […]37.
Qualche giorno dopo sarebbe tornata con disinvolta franchezza sulla stessa questione confessando all’amico e a sé stessa di essere abituata a giocare d’equilibrio, adattandosi, secondo occorrenza, a «servire il pubblico anche troppo» ma pure talvolta «a cavarsi il gusto di lavorare per sé», facendo attenzione a non imporre la propria subbiettività. La richiesta avanzata da Vassallo, che la sollecitava a ripetere la forma del Dal vero tenendosi quindi al bozzetto o alla novella borghese, era accolta con dichiarata perplessità, a memoria delle critiche ricevute da altri, e in particolare da Ernesto Mezzabotta, che le aveva consigliato di «vivere e di soffrire» quasi se, come era corsa voce, non “avesse cuore”38.
37 Napoli, 16 ottobre 1881, lettera cit. 38 «Hanno detto e dicono di me, quel che dicono di voi, Arnaldo Vassallo. Voi siete il poeta eccellente, lo scrittore brioso, il giornalista eccezionale, io la gentile scrittrice, la spiritosa scrittrice, l’osservatrice acuta. E ambedue siamo accusati di non avere cuore» (Lettera di Matilde Serao a Luigi Arnaldo Vassallo, s.l., 20 ottobre 1881, in BuG, Fondo Vassallo-Nurra, n. 95754). Sulla questione dell’autenticità di scrittura si era tra l’altro svolto il dialogo epistolare con Martino Cafiero, La politica del cuore. Alla signorina Serao, «il Corriere del Mattino», 27 aprile 1880 e Matilde Serao La politica del cuore. Al signor Martino Cafiero, ivi, 30 aprile 1880. La discussione era stata in realtà prodotta non da considerazioni di natura artistica quanto dalle accuse di cortigianeria rivolte alla Serao da parte del onorevole Agostino Bertani sulle pagine de «La Lega della Democrazia» (Un traviamento letterario, 22 aprile 1880 con relativa risposta del 26 aprile). Cfr. Bibliografia di V. Pascale, cit., p. 109, e rossana Melis, La letteratura quotidiana a Napoli nel secondo Ottocento,
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emanuela bufacchi752 Da un lato la scrittura spiritosa, l’osservazione acuta e distaccata, dall’altro le ragioni del sentimento, l’immersione nell’intimità passionale e la riemersione spontanea del sé: due direzioni possibili rispetto alle quali si esercitava la messa a punto del verismo della Serao, sebbene il consiglio di Vassallo finesse per apparirle maggiormente condivisibile:
D’altra parte, credo che abbiate ragione, dal punto di vista del pubblico. Ebbene, eviterò sempre il subbiettivismo. io posso scegliere la forma più impersonale e adattarla senza sforzo. io posso essere malinconica e scrivere la più gaia cosa del mondo, io posso essere innamorata e fare delle novelle aride e senz’amore, io posso essere stanca e scriver con la massima freschezza, io posso quello che voglio, quando scrivo. Certo non era subbiettiva la Novella fiorentina e fu scritta in un giorno in cui per mancanza d’una parola che aspettavo da colui che amo e che non veniva a vedermi, io ero contristata sino alla morte. Vedete che posso. infine io ho un ingegno molto forte e nel medesimo tempo duttile e pieghevole. Vi parlo con la massima serietà39.
Con una matura percezione e piena esibizione dei propri talenti narrativi («io posso quello che voglio, quando scrivo»), la riflessione si concentrava sugli effetti generati da un controllato distacco: una scelta lontana dalle urgenze personali ed orientata a salvaguardare e compiacere il punto di vista del pubblico, senza compromissione per l’abilità artistica ostentata comunque nell’attitudine a dissimulare il proprio stato d’animo. Quanto al citato Malinconia (dalle memorie di uno sconosciuto), l’articolo – tutto costruito sulle percezioni di una alterità ironica e dissacrante – introduce una folla di personaggi, per ora appena abbozzati in frammentarie apparizioni, che torneranno a popolare la produzione matura. Dalla finestra di una cucina, immersa nel ribollio dei maccheroni in cottura, che apre sul golfo di Gaeta si scorge, per esempio, il primo schizzo di Canituccia, prescelta due anni dopo quale protagonista di uno dei capitoli più celebri di Piccole anime; il ritratto della bimba, tratteggiato in armonica comunione con quello del maialino umanizzato, è già tutto raccolto nei prensili sensi della scrittrice, verosimilmente sopraffatta dalle visioni realmente intraviste nel glorioso paese di Cascano:
«Annali della Fondazione Verga», XiV (1997), p. 104; a cui si deve anche una prima registrazione dei contributi della scrittrice sulle pagine del «Corriere del Mattino». 39 Ibidem.
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matilde serao senza napoli 753
Come cresceva il crepuscolo, il corso incominciò e una quantità enorme di porcellini saltellanti, di maiali gravi e severi, sfilò sotto la finestra; venivano a gruppi di tre o quattro; qualcuno solitario e lento; qualcuno galoppante. Di uno, grande, grasso e lucido mi ricordo; la fanciulla che lo guidava scalza, bruna, con una testina di riccioli ispidi e selvaggi, era quasi più piccola di lui, sicuramente meno forte. Andavano accanto e lei gli parlava dolcemente, con certe intonazioni carezzevoli, chiamandolo ciccotto bello e dicendogli molte cose confuse, in cui si imbrogliavano singolarmente la pioggia che a lei aveva bagnata la gonnella ed a lui la schiena, la minestra fredda che lei andava a mangiare in casa ed il tino dove anche lui avrebbe mangiato: e lui ascoltava e abbassava il capo quasi capisse. Poi le file si fecero più rade e poco a poco la ritirata si dileguò40.
i contenuti di una scrittura spesso avvertita come rapida e sbrigativa che nasce invece, nei suoi migliori risultati, da una lunga sedimentazione del ricordo così come dell’osservazione – accumulo di «documenti umani nell’inesauribile tesoro della riflessione»41 – appaiono così lentamente fissati attraverso un lavorio di chiarificazione compiuto proprio a partire dalla prosa precipitosa degli articoli calibrati sulle richieste del pubblico. in ragione delle scelte orientate dal lettore e con la volontà di precisare le proprie inclinazioni e preferenze si avvia anche l’esercizio sulle figure femminili e sui diversi modi di raffigurare le giovani donne, intorno a cui restano esemplari prove di incipit in attesa di sviluppo narrativo le comparse del Mosaico di Fanciulle, figure messe a fuoco
40 «il Piccolo», 16 ottobre 1881. 41 Lettera di Matilde Serao a Paolo Fambri del 9 marzo 1882, «Nuova Antologia», 1° agosto 1928, pp. 382-383. Nella novella Monologo, l’unica insieme a Per i bagni ad apparire per la prima volta nella raccolta Pagina Azzurra del 1883 – combinazione di novelle già pubblicate in Dal vero del 1879 e nella Raccolta minima dell’1881 – ragiona sulla molteplicità di argomenti che le si vanno squadernando davanti agli occhi: «Argomenti ce ne sono: entrano dalla finestra, dalla porta, cadono dal cielo, nascono dai mattoni. Qui, nella via, la sarta cucina quattro carciofi in un tegamino sopra un focolaio di tufo: è un argomento. Sono le due meno un quarto, le bambine escono scherzando e ridendo dalla scuola comunale è un argomento e – oso dire – bellissimo. Suona il campanello: argomento […]» (Dal vero, a cura di P. Bianchi, cit., p. 78). una prima ricostruzione della relazione tra Dal vero (1879), Raccolta minima (1881), Pagina azzurra (1883) e le novelle edite da Galli di nuovo con il titolo Dal vero, in seguito più volte ristampate, si deve a Marie Gracieuse Martini Gistucci, L’oeuvre romanesque de Matilde Serao, Grenoble, Press universitaires de Grenoble, 1973, pp. 576-579; ulteriori approfondimenti nella Bibliografia 1877-1890 di V. Pascale in op. cit., pp. 99-166, infine nell’edizione curata da P. Bianchi a cui si rimanda anche per il regesto delle varianti.
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emanuela bufacchi754 nel febbraio del 188142 con pochi tratti di singolare vivacità: dalla giovane inglese in distaccata contemplazione di Amore e psiche, alla sonora apparizione della lavandaia che batte vigorosamente i tacchi sul terreno scosceso della collina di Posillipo, in inequivocabile contrasto con la fissa e silenziosa immobilità della duchessina paralitica; dalla bonaria vivacità di Caterina, che pure conosce l’arte seduttiva di studiate pose sentimentali, all’attricetta improvvisata che con inesperta ingenuità strappa gli applausi del pubblico. Negli articoli del «Capitan Fracassa» la questione era invece affrontata in termini teorici con l’intento prioritario di fare i conti con le preferenze di un pubblico attratto dai lineamenti della donna fatale e crudele; ad essa era contrapposta con determinazione – e in una chiave apertamente nazionalista, in forza della quale andrebbe forse anche riletta l’etichetta di antifemminismo che viene di solito addossata alla scrittrice – la figura muliebre su cui si andavano affinando contemporaneamente gli esercizi letterari: una donna dedita a un imbarazzante e quanto mai antiquato esercizio delle virtù. La donna onesta appare all’arte antiestetica e anacronistica43 fino al punto che «il romanzo la respinge da sé, la scienza non sa che farsene, e nel teatro drammatico ha le maggiori probabilità per essere fischiata»44. Se il gusto per le avventuriere è tutto straniero, mentre le signore italiane – che sono ritenute meno intelligenti – ignorano com
42 La prosa uscita sul n. 51 de «il Piccolo» di rocco de Zerbi (20 febbraio 1881) confluì nella Raccolta minima e in seguito in Dal vero, nella ed. curata da P. Bianchi, pp. 96-99. 43 «Chi la può intendere mai questa trasformazione di pregi femminili in qualità virili? il dolore era la più santa poesia femminile: il vaneggiare di una madre cha ha perso il suo bambino, la muta tetraggine della donna che vede smarrirsi l’uomo del suo cuore, l’abbattimento profondo di una fanciulla ingannata e madre, la malinconia incurabile di una giovanetta tradita, la dolce rassegnazione di quelle vittime familiari, che sopportano un padre rigoroso o una matrigna crudele o un fratello corrotto, questa forma così svariata del dolore, e pure così efficace, così commovente, è cangiata. […] Piangere una madre? No, per vendicarsi di Dio che le ha tolto il bimbo, per stordirsi andrà ogni sera al ballo, piglierà alla sua migliore amica il marito. Piangere una moglie tradita? Prenderà un boccettina di vetriolo e la butterà sul viso della rivale. Piangere una ragazza sedotta? E non ci è la rivoltella per vendicarsi? Si aspetta nella via, al cantone, il seduttore, s’inarca il grilletto, ed è presto fatto… Non vi è forse il veleno? Le donne sono istruite ora e conoscono che sia la caffeina e il curaro, l’arsenico e l’acido prussico. […] La donna d’oggi difronte all’uomo che la abbandona sceglie l’assassinio un tempo ne sarebbe morta» ([Ead.], Zerbini assolta, V, 8 febbraio 1884). 44 Ead., Letteratura. La donna tagliata a pezzi, «Capitan Fracassa», iii, 30 luglio 1882.
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matilde serao senza napoli 755 pletamente le scaltre e risolute macchinazioni con cui si conquistano e sottraggono gli uomini, non sarà certo opportuno rammaricarsi del fatto che esse rivelino con ingenua onestà di non conoscere né l’uso del vetriolo, né quello della dinamite:
O certamente la donna italiana avrà del cretino, ma noi abbiamo il piacere di non possedere né dottoresse, né avvocatesse, né professori di filosofia in gonnella. Le nostre donne mandano alla guerra gli uomini senza declamare, ma senza mormorare. Noi non abbiamo parlatrici politiche, né conferenziere economiche, ma le madri degli uomini del ’48 furono angeliche e furono ignote. La donna italiana non ispira ancora i romanzieri, né i poeti, né gli artisti sarà: ma forse costoro non la conoscono o è lei che si tiene da parte non volendo farsi conoscere. Oh permettete alla codina più arrabbiata, alla retrograda più cocciuta, a chi ha il cuore così stretto perché il patriottismo nazionale sia superiore all’umanitarismo sentimentale, permettete di essere contenta, se malgrado l’educazione, l’esempio, il contatto, la letteratura, la stampa, malgrado l’ambiente, questa donna italiana realizza ancora un ideale di grazia seducente, di modestia serena, di virtù senza pompa. La donna italiana non ha ancora né la fantasia morbosa, né i gusti depravati, né la cervelle détraquée. Elle est stupide – direbbe un francese. Lode a Dio. Tutto non è perduto ancora45.
D’altra parte il modello imperante e di maggior richiamo appare quello offerto dalla produzione contemporanea francese ben rappresentata nei suoi eccessi dai racconti sregolati e febbrili narrati nei Monstres parisiens di Catulle Mendès con la sua galleria di «mostri immondi, impossibili, assurdi»: fanciulle nobili che abbandonano la casa per darsi al vizio, poetesse che si concedono a un saltimbanco, vergini ideali che sposano un vecchio per interesse, civette glaciali che si offrono sempre senza darsi mai, amanti stupide che uccidono il genio degli artisti, marchese depravate che amano un uomo in un altro. Eclatante espressione di una tendenza letteraria ormai consolidata se «Voi, signor Flaubert, avete cercato la stupidaggine umana, la bétise? Voi, signori Goncourt, avete cercato la bruttezza? Voi, signor Zola, avete cercato il nero, il cupo, lo sporco? Questo vuole dunque il pubblico? Glielo daremo dunque. Cercheremo la mostruosità dovunque, poiché Parigi è piena di mostri»46. rispetto a un gusto letterario diffu
45 Ibidem. L’articolo non è presente nella ricognizione bibliografica di V. Pascale, Sulla prosa narrativa di Matilde Serao, cit. 46 Chiquita, Mostruosità, «Capitan Fracassa», iii, 16 luglio 1882. Cfr. F. Bruni, Nota al testo, cit., p. XLii.
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emanuela bufacchi756 so, a un’arte della scrittura che «da trent’anni gira e rigira, come un cavallo bendato, sempre intorno alle peccatrici» un’arte cieca «che trova il dramma solo nella donna mal maritata», la Serao intendeva operare un sovvertimento eclatante: spostare l’attenzione sull’innocente e casta fanciulla a torto tralasciata perché ritenuta insignificante a confronto della donna maritata:
Grave inganno, dimenticanza imprudente, quasi colpevole. Le origini del male e del bene sono nella fanciulla, già sviluppate, già perfette, pronte a manifestarsi: lo psicologo che degnasse occuparsene, l’artista che volesse interpretarle troverebbe il segreto vivo, la sorgente nascosta, tutto l’inizio di quelle donne peccatrici e drammatiche che ora conosciamo a mente. E come potrebbe la scienza dell’educazione avere il senso vero e paratico della vita, quando respinge da sé questa vita47?
La figura della sposa, funzionale all’intreccio del triangolo amoroso, fortemente produttivo in termini di ricezione, cede il posto alle giovinette i cui contorni appaiono però da riscrivere in sostanziale alternativa agli eccessi romanzeschi offerti dalla letteratura francese. Significativo in tal senso l’articolo Maldicenza dove in una commistione strettissima tra letteratura, vita e giornalismo viene misurata, attraverso l’accostamento di due episodi da cronaca giornalistica, la distanza tra un’azione congegnata come sofisticata ed eclatante, quasi “da romanzo”, e le prerogative di una vicenda vissuta nel riserbo di un’intimità fortemente lirica. Da un lato il profilo di Marcella: la bella ragazza parigina che, dopo aver apprese le intenzioni dell’amante Gaston di lasciarla per accondiscendere al programma matrimoniale impostogli dai genitori, «torna a casa, riempie la sua stanza di fiori, la profuma degli odori più squisiti d’oriente, si copre di pizzi, si stende sul letto, beve il suo oppio in una bottiglietta d’argento tutta cesellata, chiude gli occhi e si addormenta per l’ultima volta» invocando il nome dell’amante. il martirio della grisette è volutamente ricercato, quasi epicureo, un’epica impresa da melodramma. Di contro la morte volontaria di una povera popolana romana tradita dall’amore si presenta semplice, severa quasi mistica: Maria romei vuol lasciare la vita pregando, dopo aver ingoiato il più torturante dei veleni. La poesia s’invera nella vicenda della fanciulla nostrana, celata agli sguardi estranei dall’ombra di una basilica e pronta ad affrontare in solitudine la drammatica risoluzione scegliendo di martoriare il corpo
47 Matilde Serao, Per l’educazione, «Capitan Fracassa», iV, 12 giugno 1883.
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matilde serao senza napoli 757 a redenzione del sacrilegio compiuto; non ugualmente poetica, per non essere altrettanto sincera, appare l’avventura della straniera, disposta a preparare con cura lo scenario nel quale esibire la bellezza della morte trasfigurata in un sonno rinfrancato da sogni di felicità. La disperazione di Marcella non rinunzia all’effetto drammatico e alla pubblicizzazione del caso fino a suggerire ai cronisti i particolari del racconto; invece Maria si decide a morire perché ha rinunziato a tutto; dopo il tradimento, ella non pensa più a nessuno: è interamente concentrata nel suo dolore. E mentre il rinvenimento del corpo apparentemente senza vita della francese si presenta come una straordinaria mise en scene che risulta nella “resurrezione” e nell’effetto sortito sull’amante («il giornale francese informa i suoi lettori che egli è tornato per consoler cette nouvelle Marguerite Gauthier [!]»), ben diversamente Maria è destinata a «morire fra gli spasimi d’una morte crudele sopra un letto dell’ospedale della consolazione»48.
2.2 Il modello del “Romanzo napoletano”, tra riluttanze e ritorni
in questi anni, definire la propria posizione rispetto al modello francese appare alla Serao un percorso critico prioritario e imprescindibile: la scrittrice prende parte al dibattito intorno al romanzo, scegliendo per lo più di firmare i suoi pezzi così da inserirsi apertamente in un campo di discussione che restava per molti versi ancorato a un dominio esclusivamente maschile o che tale le doveva essere apparso nel contesto giornalistico napoletano. Non c’è dubbio che il suo punto di vista si fosse andato precisando proprio in quell’ambiente particolarmente ricettivo rispetto al “fenomeno Zola” e alla discussione intorno al “romanzo sperimentale”, a partire dagli interventi di rocco De Zerbi, che era alla guida di un quotidiano schierato in prima linea nella ricezione dei codici narrativi di area anglo-germanica in funzione anti-naturalista, e in particolar modo da quelli di Federigo Verdinois, che si era pronunciato a più riprese con sfavore rispetto agli eccessi patologici dell’avanguardia zoliana, sebbene si mostrassero entrambi disposti a offrire al proprio pubblico quelle stesse opere screditate nella teoria49. un’immagine ancipite quella di Zola e del naturali
48 Chiquita, Maldicenza, «Capitan Fracassa», ii, 9 luglio 1881. 49 Cfr. in part. Nunzio ruggiero, La civiltà dei traduttori. Transcodificazioni del realismo europeo a Napoli nel secondo Ottocento, Napoli, Guida, 2010, pp. 20 e segg. Si veda inoltre Barbara Manfellotto, La ricezione di Zola dal 1877 al 1887 in alcuni
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emanuela bufacchi758 smo nella stampa periodica napoletana50, che testimonia un’attenzione costante e di lunga durata, ma segnata da inflessioni critiche e polemiche, indizio di un’adesione che non fu mai piena e incondizionata. in questo ambito culturale ben definito acquistano rilievo le osservazioni con cui la scrittrice, prendendo le distanze dalle note negative apparse sul «Corriere del Mattino» nella primavera del 1878 51, aveva voluto sostenere sulle pagine del «Giornale di Napoli» (allora celandosi sotto il nome “vecchio topo”) le ragioni della riuscita di un libro vivo come l’Assommoir52, salvo poi mostrare una maggiore predilezione per il “realismo sentimentale” di Una pagina d’amore53, e richiamare l’attenzione, quasi in contemporanea, sul Samuel Brohi di Victor Cherbuliez – l’autore del Roman d’une honnête femme (1866) –, appena uscito in traduzione italiana, fino a incoraggiare i lettori ad apprezzarlo come «uno dei più belli e più interessanti romanzi moderni», esemplare prodotto della «buona scuola, che non disprezza la morale né l’ideale, pur movendo tutte le passioni umane»54. D’altra parte a considerare il ruolo catalizzatore del «Fracassa», si può sondare la maggiore autonomia di elaborazione della scrittrice, disposta a far sentire più distintamente la sua voce e ad entrare apertamente nella discussione anche in ragione della funzione dominante acquisita almeno a partire dal 1883, quando la figura del responsabile letterario indicata in raffaello Giovagnoli scomparve dalla gerenza.
periodici napoletani, in Giornalismo letterario a Napoli tra Otto e Novecento. Studi offerti ad Antonio Palermo, a cura di Pasquale Sabbatino, Napoli, ESi, 2006, pp. 385 e 422 e in termini anche correttivi rossana Melis, Il «Corriere del Mattino» verso la terza pagina in C’era una volta la terza pagina, cit., pp. 65-107: alle pp. 73 e segg. 50 Cfr. Valeria De Gregorio Cirillo, La morte di Zola nel quotidiano di Napoli «Il Mattino», «Annali dell’istituto universitario Orientale», XLV (2003), n. 2, pp. 407-423. 51 Ernesto, Emilio Zola, «Corriere del Mattino», 2, 9, 20 marzo 1878. Cfr. r. Melis, Il «Corriere del Mattino» verso la terza pagina, cit., p. 80 e N. ruggiero La civiltà dei traduttori cit., pp. 20 e segg. 52 Cit. in N. ruggiero, La civiltà dei traduttori, cit., p. 20 53 «Qui non viviamo più fra la plebe, e non c’è nulla che rivolti i più schifiltosi. L’amore di madre presentato in tutta la sua grandezza ideale. Abbiamo scene commoventi ed un dramma intimo pieno d’interesse drammatico e di emozioni vere. un ballo di fanciulli, il servizio di Maria in una chiesa di Parigi, l’amore di una serva con un soldato, sono scene di verità meravigliosa» («Giornale di Napoli», 23 settembre 1879). 54 Ivi, 16 luglio 1879.
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matilde serao senza napoli 759 Prenderà allora posizione contro Au bonheur des dames55, proprio qualche mese prima che la testata cominciasse a pubblicare la traduzione della Joie de vivre, dodicesima opera del ciclo dei rougon-Macquart annunciandola come
un grande romanzo di passione, in cui l’autore ha raccontato un dramma di famiglia, di una semplicità commovente. Dopo i grandi quadri parigini, brulicanti di folla, del Bonheur des dames, egli ha voluto dipingere una scena intima, senza descrizione, tutta uno studio di pochi personaggi; ed è così che ha scritta un’opera di pura psicologia, il cui interesse potente è nella verità dei caratteri e nel patetico dell’azione. V’è in questo romanzo una nobile figura di fanciulla, che affronta con coraggio e con valore le battaglie della vita56.
Accanto a quelle pagine con cui la redazione accordava un riconoscimento ampio alla scrittura matura di Zola, la Serao non avrebbe esitato a far risaltare un differente punto di vista sostenendolo a sua firma nell’articolo Cose di Francia pubblicato il 22 luglio 188357, costruito per condannare senza mezzi termini la produzione francese contemporanea, screditata nel confronto con la rinascita degli anni ’30 e ’50 che
aveva tutta la forma del romanzo, sperimentale, conteur, allegro, con Balzac, la Sand, Dumas, Paul de Koch, senza citare i minori […] aveva dei poeti come Musset e Baudelaire, aveva dei critici come Saint-Beuve, Gustavo Planche, Jules Janin, Pier Angelo Fiorentino; aveva un colorista come Teofilo Gautier, un giornalista come Girardin e una corrierista come Delfina de Girardin – e infine aveva anche Victor Hugo. […] fate il paragone con la letteratura moderna e vedrete lo stato di crescente decadenza in cui è la letteratura francese […]. Vi è Zola, è vero, vi è Adolphe Daudet nel romanzo: ma sia lecito a chi non può parlarne che con mestizia, trattandosi d’idoli infranti, ripetere quello che molti ripetono sottovoce: Daudet ha compiuto il suo ciclo, il suo ingegno
55 Matilde Serao, Au Bonheur des Dames, «Capitan Fracassa», 11 marzo 1883; ricordato da V. Pascale, op. cit., p. 80. il romanzo uscì nello stesso anno nella traduzione di Martini (roma, Perino). 56 Ivi, 7 novembre 1883. L’anno seguente Angelo Sommaruga, avrebbe pubblicato una versione anonima de La joie de vivre, «che sin dal titolo, equivocamente modificato in Voluttà della vita, obliterava il senso di amara ironia della sorte della protagonista e del villaggio di pescatori in cui era ambientata la vicenda» (N. ruggiero, La civiltà dei traduttori, cit., p. 30). 57 L’articolo firmato dalla Serao non è registrato nella Bibliografia della Pascale, diversamente è attestato da Anne Christine Paitrop-Porta, La letteratura francese nelle stampa romana (1880-1900). Studio e bibliografia, Napoli, Esi, 1992, p. 166.
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non subisce più alcuna trasformazione in meglio, la sua forma è esaurita.
Analogamente criticabile reputava la produzione più recente dello Zola, discutibile perché ormai divenuta industriale tanto che «la forma pare diventata metodica, matematica e la sua forza è scemata e il Bonheur de dames non è un buon romanzo, non è un romanzo divertente». L’accenno riprendeva le considerazioni argomentate nell’ampia stroncatura in cui aveva voluto confutare i meccanismi del romanzo naturalista e con essi le modalità narrative dello scrittore-spugna votato a una famelico possesso e riuso della realtà:
Ecco un libro scritto secondo la formola sperimentale. Dato un largo fondo di descrizione, come possono fornirne i grandi magazzini di mode, il Printemps, il Bon marché, il Louvre; dato un giovanotto immaginoso e audace; data una fanciulla virtuosa, immancabilmente accadrà questo, questo e quest’altro. L’autore in questa formula diventa una parte secondaria; egli non può fare altro che accumulare nel suo taccuino osservazioni, le prove, i pezzetti di descrizione che serviranno al lavoro; i personaggi non può toccarli, perché costoro vivono da sé, fanno tutto quello che impone loro la fatalità di una costituzione sana o malatticcia. La formola dice che, senza fallo una donna intelligente, nobile, ma povera messa al cospetto del lusso onnipotente, sedotta dalla privazione e dal desiderio ruberà. Emilio Zola, segretario fedele, china la testa innanzi all’assolutismo della formola.
Nella messa a confronto, Au bonheur des dames le appariva del tutto simile agli altri romanzi di Zola autore d’eccezionale e ancora insuperato con l’Assommoir ma alla prova dei fatti rassomigliava ai precedenti «come il burattino vestito da guerriero al vero guerriero, come una pallida, scolorita fotografia a una bella donna viva […] un’assonanza, un ricordo musicale». inoltre, la disillusione maggiore prodotta dall’ultima prova del romanziere francese era dovuta alla convinzione che un’opera scritta per le donne non potesse realmente piacere e non sarebbe certamente piaciuta alle donne:
invano egli avrà accumulato cataloghi di novità, cercando d’intendere questa grande cosa che è la moda, cercando di capire che sia nella vita femminile la stoffa, il merletto, la battista, la pelliccia, la piuma. invano avrà fatto l’inventario più largo della biancheria, delle confezioni, dei bottoni, dei cappellini. invano avrà voluto mettere, attraverso tutto questo, la dolcezza di una trionfatrice virtù femminile. il libro pare e parrà falso alle donne. Questo immenso soggetto del lusso femminile
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è stato intravveduto dall’intelletto geniale dello Zola, ma la sua visione è rimasta nel regno dei sogni: la realtà artistica l’ha resa troppo debolmente, pallidamente. A questo libro, che poteva essere eccezionale, ove alle profonde qualità d’analisi si fosse unita quell’intuizione innamorata del soggetto, quell’entusiasmo che cava dal sogno la vita, a questo libro manca la passione, la passione che abbatte la formola, trasforma il procedimento e crea i capolavori58.
il giudizio, severo e radicale, non sarebbe stato condiviso dai colleghi napoletani: Verdinois quindici giorni dopo sulle pagine del «Corriere del Mattino» avrebbe ritenuto di leggere nello stesso romanzo un affinamento di metodo59 e Vittorio Pica nella recensione apparsa sul «Momento» di Palermo avrebbe ripreso polemicamente il parere espresso dalla scrittrice60. Di lì a un paio di mesi lo scontro sarebbe tornato a ripetersi in riferimento alla Chérie di Goncourt: alle parole di stima pronunciate da Pica su «La domenica letteraria» del 25 maggio 1884, sarebbe in questo caso seguita la replica avversa della Serao. Pica concedeva allo scrittore il pregio di non essersi accontentato «d’indovinare, d’intuire, fondandosi sulle osservazioni proprie e su quelle degli amici», e di essersi invece «rivolto per aiuto alle donne», in modo da raccogliere «un gran numero di confidenze e confessioni, rivelanti tutto un mondo squisitamente misterioso d’ignote impressioni, giacché è risaputo che le donne sono molto restie a svelare l’intimità delle loro idee e delle loro sensazioni». La buona riuscita del romanzo era dovuta secondo il critico proprio alla capacità del Goncourt di penetrare nell’intimità femminile e in quel mondo di oggetti, sensazioni, percezioni che è esclusivo dominio della donna, qui raffigurato con mirabile intendimento in modo assai più efficace rispetto a quanto non avesse saputo intuire Zola:
L’equilibrio del suo temperamento, fatto di logica, impedisce allo Zola di comprendere, in tutta la sua svariata complessità, la donna, per la quale, e per le cose che la riguardano e la interessano, egli ha una certa disdegnosa indifferenza, come per un essere inferiore, ciò che gli vieta di penetrare a fondo le ricercate eleganze, le ingenue o studiate civetterie, le deliziose perversità […] Gli sfugge del pari tutto quello che
58 Matilde Serao, Au Bonheur des Dames, «Capitan Fracassa», iV, 11 marzo 1884. 59 Cfr. B. Manfellotto, La ricezione dell’opera di Zola dal 1877 al 1887 in alcuni periodici napoletani, cit., pp. 410-413. 60 Cfr. Alessandro Gaudio, La sinistra estrema dell’arte: Vittorio Pica alle origini dell’estetismo in Italia, Manziana, Vecchiarelli, 2006, pp. 46 e seg.
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riguarda direttamente ed esclusivamente la donna: per lui le stoffe, i merletti, le piume, i gioielli non sono che […] un obiettivo di commercio ed uno stimolo alla terribile febbre di lusso del sesso debole. […] invece Edmondo de Goncourt, e per il suo speciale temperamento di una sensitività nervosa quasi eccessiva e per lo studio diligente ed appassionato di quella società francese del XViii secolo, che egli è riuscito a far rivivere nei suoi parecchi volumi storici, ha un senso della muliebrità sviluppatissimo61.
La superiorità dello scrittore nello studio dell’intimità muliebre era ritenuta tale che Pica dichiarava impossibile poter essere da altri sorpassata. un mese e mezzo dopo la Serao, con una stroncatura perentoria – «un cattivo romanzo, noioso al pubblico, inutile all’arte» – che prelude e anticipa la prefazione de Il romanzo della fanciulla, entrava invece nell’agone assicurandosi un trionfo certo, almeno tra il pubblico femminile. Di fronte al tentativo deludente di Goncourt che con Chérie avrebbe sperato invano di poter comprendere l’animo delle fanciulle attraverso le loro confessioni, la scrittrice esibiva l’esclusiva padronanza di una materia che agli uomini resta sconosciuta, ma che ella riteneva di possedere pienamente per aver attraversato personalmente «questo drammatico tratto della vita, anzi la varia fortuna mi ha fatto passare, per più anni di seguito, a traverso un meraviglioso poliorama di fanciulle d’ogni classe, d’ogni indole, d’ogni razza»62. Si consumava così il franco riscatto della «signorina Serao» (avvinta da «una passione sfrenata e purtroppo non corrisposta, per la critica»)63 dall’ambiente partenopeo che ne aveva favorito la forma
61 Chérie, «La Domenica Letteraria», iii, 25 maggio 1884. pp. 1-2, poi in All’Avanguardia, intr. di Toni iermanno, Manziana, Vecchiarelli, 1993. in apertura dell’articolo Pica citava contrapponendovisi una recensione di Eugenio Checchi, apparsa anonima nella rubrica «Chiacchiere» in «Fanfulla della domenica» (Vi, 4 maggio 1884). Cfr. Vittorio Pica, “Votre fidèle ami de Naples”. Lettere a Edmond de Goncourt 1881-1896, a cura di Nunzio ruggiero, Napoli, Guida, 2004, pp. 28 e segg. Nello stesso torno di tempo avrebbe curato anche la traduzione della Prefazione a Chérie («Napoli», maggio-giugno 1884). Per una rassegna bibliografica sul romanzo cfr. il saggio di Marie Claude Bayle, “Chérie” d’Edmond de Goncourt, Napoli, ESi, 1983, pp. 77-143. 62 Prefazione, «Fanfulla della Domenica», 7 del 25 ottobre 1885, poi in Il romanzo della fanciulla (1885), ed. a cura di F. Bruni, cit., p. 4. 63 Vittorio Pica, La vita a rovescio, «La Domenica Letteraria», iii, 5 ottobre 1884, e 12 ottobre 1884, ora in Arte aristocratica e altri scritti su naturalismo, sibaritismo e giapponismo, 1881-1892, a cura di Nicola D’Antuono, Napoli, Edizioni Scientifiche italiane, 1995, p. 143.
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matilde serao senza napoli 763 zione porgendole quelle armi che ella aveva saputo affinare fino al punto di padroneggiarle per esprimere un’opinione diversa e finanche antagonistica rispetto agli antichi sodali. una distanza che aveva cominciato a tracciare fin dall’estate del 1882 riconducendo le critiche avanzatele da Martino Cafiero alle incomprensioni di un brontolone ancorato al passato64, ma che aveva poi più profondamente solcato, sperimentando una via d’uscita dai limiti del romanzo provinciale soffocato dai confini della città. Qualche mese dopo aver messo su carta la sua Checchina, virtuosa per caso non per volontà65 in un lento titubante e arrendevole pellegrinare sulla via romana dei Santi Apostoli, era infatti tornata a ribadire la sua estraneità al sistema letterario napoletano nell’articolo dedicato ad altra e diversa Checchina – la Vetromile di Giuseppe Mezzanotte –66, scritto anche per riscattarsi dalla mancata prefazione al romanzo dell’amico. in apertura era dichiarata la complicità con il romanziere che «appartenne, come me, a quel piccolo gruppo di scrittori giovani e meridionali che, nell’anno 1881, scrissero assiduamente nella pagina letteraria del «Corriere del Mattino» diretta da Martino Cafiero» e che insieme ragionarono sul romanzo moderno convincendosi che esso […] fosse possibile solo a Napoli e su Napoli67. Da quel convincimento («dolce egoismo di napoletani e mite ignoranza di giovanotti che non avevano ancora viaggiato») Matilde prendeva ora le distanze etichettando la fatica di Mezzanotte – poi destinato «a veder fuggire l’età fattiva in un perimetro di poche migliaia di metri»68 – come “romanzo napoletano” e motivando i di
64 «Che noi scrittori di venticinque anni, abbiamo sulla generazione di quarant’anni il vantaggio di non essere brontoloni, di non disperare l’avvenire per innalzare un passato che non ne ha bisogno, abbiamo il vantaggio di non irritarci contro ogni novità che potrebbe essere un raggio nel cielo dell’arte» (Matilde Serao, Per Giorgio Filomarino, «Corriere del Mattino», X, 24 giugno 1882). 65 Non sembra convincere l’ipotesi che sia uno strato profondo della coscienza a guidare l’azione di Checchina soprattutto dopo che si sia riconosciuta «fiacca come tutto il resto» anche la sua pratica religiosa a riprova semmai di un difetto di volontà che diseroicizza la protagonista, privandola di ogni pur nascosta qualità morale. Si veda diversamente su questo F. Bruni, Nota introduttiva, cit., pp. XXV e segg. 66 uscito precedentemente su «il Giornale di Chieti» dal primo ottobre 1882 (Antonella Di Nallo, Nota ai testi in Giuseppe Mezzanotte, Tutti i romanzi, roma, Bulzoni, 1998, p. 37). Sui rapporti tra Serao e Mezzanotte, si veda Antonio Palermo, Introduzione a Giuseppe Mezzanotte, La tragedia di Senarica, Bologna Cappelli, 1977, pp. 7-30. 67 Matilde Serao, rec. a Giuseppe Mezzanotte, Checchina Vetromile, «Capitan Fracassa», 4 luglio 1884. 68 Sono parole di Mezzanotte, che dopo la pubblicazione del romanzo tornerà
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emanuela bufacchi764 fetti in esso riscontrati con il fatto che lo scrittore (che pure era più anziano di lei) apparisse ancora molto giovane e che la Checchina Vetromile fosse il suo primo romanzo69. Di lì a breve – riferendosi alla sfortuna dell’opera motivata da una diffusa antipatia per il Sommaruga che ne deteneva la responsabilità editoriale – avrebbe esortato in una comunicazione privata l’antico amico a scrivere dell’altro, acuendo un divario ormai assoluto70. Nella prefazione alla riedizione della sua prima raccolta di novelle, esprimendo il desiderio di riscrivere tutto avrebbe poi dichiarato senza esitazioni: «Quattro anni di vita artistica militante, senza posa, bastano a trasformare lo scrittore». una trasformazione che a lei era valsa la conquista di una conveniente redenzione dall’idea che solo Napoli avesse ancora un carattere individuale, profondo, tutto proprio da poter fornire costumi e persone alla riuscita del “grande romanzo”, e che le avrebbe consentito in seguito di tornare ad avvicinarsi con differente disposizione alle vastità quasi epiche del fermento prodotto dalla folla napoletana, pronta a richiamarla a sé con la violenza attrattiva delle sue sciagure. Anni intensi e attivissimi quelli romani la cui spinta propulsiva volse a un lento progressivo esaurimento segnato dai ritmi rallentati della vita matrimoniale e della prima incerta maternità che l’avrebbero spinta a rispondere nell’aprile del 1885 all’amico Onorato Fava declinando una richiesta di recensione:
Mi duole non poterne parlare nel Fracassa, ma da due mesi non faccio più parte di quella redazione e non vi potrei contribuire neppure indirettamente. Dopo il mio matrimonio mi riposo un poco dal giornalismo: non ricomincerò che a novembre. Grazie della vostre amabili parole. Credetemi Obbligatissima Matilde Scarfoglio Serao71.
i tempi del «Fracassa» dileguavano dietro l’ombra del ricordo e con essi scompariva l’immagine di una giovane donna indipendente,
a Chieti senza allontanarsene mai più (si veda Antonella Di Nallo, voce Mezzanotte Giuseppe, in Dizionario Biografico degli italiani, roma, istituto dell’Enciclopedia italiana Treccani, 2009). Per la citazione, cfr. Luigi Valeri, Giuseppe Mezzanotte e “La tragedia di Senarica”, «La voce Pretuziana», iX (1980), n. 3. 69 M. Serao, rec. a G. Mezzanotte, Checchina Vetromile, cit. 70 Lettera di Matilde Serao a Giuseppe Mezzanotte datata 27 ottobre 1884: «Fate core e scrivete dell’altro; e alla Checchina non ci pensate più» (pubblicata in Gianni Oliva, Giuseppe Mezzanotte e la Napoli dell’Ottocento tra giornalismo e letteratura, Bergamo, Minerva italica, 1976, p. 284). 71 Lettera del 17 aprile 1885 in BNN Carteggio Fava XX – 1 busta iii 495.
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matilde serao senza napoli 765 capace da sola di concepire e di impersonare una precisa fisionomia di narratore; da quel momento in poi il binomio Scarfoglio-Serao si sarebbe andato consolidando fino a sostituirsi per lungo tempo alle singola individualità dei suoi componenti72.
Emanuela Bufacchi università di Napoli Suor Orsola Benincasa
72 La complessa impresa de «il Corriere di Napoli» implicherà la decisione definitiva di rinunciare ai nuovi orizzonti nazionali e segnerà, nonostante lo straordinario successo de «il Mattino», una temuta regressione: «Dopo due anni di tribolazioni inenarrabili, noi abbiamo venduto il nostro giornale al cav. Matteo Schilizzi di Napoli, una persona molto buona, molto intelligente e molto ricca. Non ne potevamo più. Avremmo smesso il 31 dicembre. Ora andiamo a Napoli, tutti, Edoardo, mio padre, i piccolini, io, abbiamo pagato i nostri debiti personali e del giornale: abbiamo uno stipendio di 1500 lire il mese: e siamo tranquilli. Diventiamo provinciali: ma che importa? roma è così dura!» (Lettere di Matilde Serao a Giuseppe Giacosa, «Lettere italiane», XXiV (1972), n. 2, p. 224). un provincialismo a cui avrebbe tentato anche in seguito di sfuggire, se rivolgendosi al Protonotari avrebbe, qualche anno dopo, promosso la pubblicazione di Addio, amore proprio in termini di liberazione dai confini delle napoletanità: «Questo romanzo non è di ambiente, poiché col Paese di Cuccagna che si pubblica nelle appendici del mio giornale, io ho finito di scrivere romanzi napoletani. Lascio fare ad altri: e io fo dell’altro» (BNCF, 145, f. 26, Lettera di Matilde Serao datata Napoli, 8 aprile 1889).
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ritratto giovanile di Matilde Serao.
NiCOLA DE BLASi una fioraia: una piccola migrante dal ventre di Napoli al mondo di “lassù”
il racconto Una fioraia (in Piccole anime, 1883) è letto in rapporto alla realtà urbana di Napoli nella seconda metà del secolo XiX. un indicatore spaziale (lassù) evidenzia nel testo il divario tra zone diverse, separate da un dislivello di pochi metri, ma percepite come mondi lontani. in queste pagine, che trovano un riscontro nel Ventre di Napoli e in un precedente scritto di Giustino Fortunato, l’anonima protagonista del racconto muore dopo aver varcato per la prima volta il confine tra i due mondi.
★ The short story Una fioraia (in Piccole anime, 1883) is read in relation to the urban reality in Naples in the second half of the Nineteenth century. A spatial indicator (lassù – «up there») underlines the divide between different zones, separated by a distance of just a few metres, but perceived as faraway worlds. in these pages, comparable with Ventre di Napoli and a previous piece of writing by Giustino Fortunato, the nameless heroine of the short story dies after having crossed for the first time the boundary between the two worlds.
in una Corrispondenza napoletana apparsa nel 1878 su «La rassegna settimanale», Giustino Fortunato, dopo aver additato le condizioni dei bassi («privi di luce o, specialmente ne’ rioni della marina e su per i vicoli de’ colli, umidi e muffiti») e dei fondaci («cortili vecchi e luridi, vicoletti senza uscita, cui di solito si accede per un androne, chiusi da alte fabbriche e mezzo nascosti qua e là in tutte le dodici sezioni»), richiama l’attenzione su una «parte del vecchio Napoli» (proprio così: al maschile): Ma se ciò relativamente è per la città in generale, si immagini ognuno quel che poi debba essere quella parte del vecchio Napoli, che ne è proprio il “basso ventre”. il quale è come un quadrilatero di poco più che un chilometro quadrato, circoscritto a borea dall’ultimo tratto dello Spaccanapoli, chiamato San Biagio dei Librai, a levante dal Carmine e
Nicola De Blasi: università di Napoli Federico ii; prof. ordinario di Storia della lingua italiana; deblasi@unina.it
nicola de blasi768
dal Lavinaio, a mezzogiorno dalla Marinella e dal Molo, a ponente da Fontana Medina e Monte Oliveto; è un ammasso di fabbriche deformi, un laberinto di viuzze contorte, un ingombro (meglio che un asilo) di più che 100.000 abitanti. Centomila, in un chilometro quadrato1.
Probabilmente è questa la prima occasione in cui per una parte della città di Napoli viene utilizzata l’immagine del ventre (qui «basso ventre»), già evocata da Zola per Parigi; non è da escludere quindi che proprio in questo intervento di Giustino Fortunato sia da individuare una tappa intermedia tra il romanzo Le ventre de Paris (1873) e Il ventre di Napoli (1884). Del resto, al di là dei punti di contatto tra questi scritti, è anche evidente che il titolo della Serao si collega direttamente alle parole («Bisogna sventrare Napoli») pronunciate dal presidente del consiglio dei ministri Agostino Depretis, in occasione di una sua visita a Napoli nel tempo del colera, che nel 1884 colpì Napoli, dopo aver toccato in verità altre città italiane2. Tutto Il ventre di Napoli, che riuniva tempestivamente articoli usciti sul «Capitan Fracassa», è infatti congegnato come un’articolata allocuzione al ministro, come è chiaro sin dal primo rigo del primo articolo, intitolato appunto Bisogna sventrare Napoli: «Efficace la frase. Voi non lo conoscevate, onorevole Depretis, il ventre di Napoli. Avevate torto, perché voi siete il Governo e il Governo deve sapere tutto»3. Com’è noto, nei suoi articoli Matilde Serao riprendeva l’ispirazione (e anche alcune parti) di suoi precedenti testi narrativi4. uno di
1 Giustino Fortunato, La città e la plebe, in Scritti varii, Trani, Vecchi, 1900, pp. 311-319, citazione da p. 314; già, come Corrispondenza napoletana (non firmata), «La rassegna settimanale», 21 marzo 1878, vol. i, n. 12, pp. 209-211. 2 La pandemia di colera, che colpì l’Europa tra il 1883 e il 1886, entrò in italia attraverso Marsiglia e il Piemonte, estendendosi ben presto a gran parte della penisola, fino a raggiungere nel 1884 Napoli, dove costituì «un vero flagello»: Mario Soscia, Tra storia e letteratura. Il colera in Italia e a Napoli, «Sinestesie online», 10, 2014, pp. 7-28, in particolare p. 10. 3 Matilde Serao, Il ventre di Napoli, edizione integrale a cura di Patricia Bianchi, con uno scritto di Giuseppe Montesano, Cava de’ Tirreni, Avagliano editore, 2002, p. 41. Questa edizione può considerarsi un testo di riferimento per la cura filologica. 4 «Tutto ciò che la Serao aveva notato intorno alla vita e al carattere della plebe napoletana, e che le aveva porto argomento di bozzetti (si vedano anche Piccole anime e le altre raccolte), venne fuori nel 1884, nell’occasione del terribile colera che infierì nella città e dopo la visita di re umberto alle luride strade e case dove abitava la plebe, quando il ministro Depretis, che aveva accompagnato il re e per la prima volta fatta diretta conoscenza di quell’orrido cumulo di miserie, uscì nelle parole, divenute per qualche tempo celebri: “Bisogna sventrare Napoli”. E la Serao
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una piccola migrante dal ventre di napoli al mondo di “lassù” 769 questi è il racconto Una fioraia, incluso in Piccole anime (1883)5, che rimanda a una zona del quadrilatero delimitato da Giustino Fortunato, nei pressi dei confini di San Biagio dei Librai e del tratto tra Fontana Medina e Monte Oliveto (vale a dire lungo il percorso di via Medina e di via Monte Oliveto). Con Il ventre di Napoli l’autrice vuole mostrare l’altra parte di Napoli: «Quest’altra parte, questo ventre di Napoli, se non lo conosce il Governo, chi lo deve conoscere?»6. È qui evidente una contrapposizione tra una zona nota e un’altra non conosciuta. una contrapposizione di tipo spaziale è centrale anche in Una fioraia, che presenta la tragica fine di una bambina uccisa dalle ruote di una carrozza mentre cercava di attraversare la strada. Alla storia, già tragica in sé, conferisce un particolare spessore l’ambientazione urbana, che è un elemento determinante del racconto, quasi un secondo protagonista, e non un semplice sfondo della storia. Attraverso la percezione della bambina, la città appare divisa in due parti contrapposte: una delle due per la bambina è abituale e familiare, mentre l’altra è lontana e, alla prova dei fatti, pericolosa. La zona da lei meglio conosciuta è la cosiddetta via dei Mercanti, che nelle prime pagine del racconto è qualificata attraverso una serie di tratti eloquenti: La bimba camminava lentamente, rasentando il muro, per la via stretta e tortuosa dei Mercanti […]. Camminava, senza curarsi del fango del selciato, degli urtoni che le davano, di qualche rara carrozza che passava […]. La strada dei Mercanti, lungo budello contorto, era la sua casa, ed ella ne conosceva tutte le viuzze, i vicoli ciechi, gli angiporti paurosi, le botteghe nere, i ruscelli fetidi, i portoncini angusti e bruni, illuminati da una luce fioca e grigia, le scalette smussate7.
Questa ambientazione richiede un primo necessario chiarimento sulla posizione della strada dei Mercanti, visto che in città, oggi come
scrisse una serie di articoli col titolo Il ventre di Napoli […]»: Benedetto Croce, Matilde Serao, in La letteratura della Nuova Italia, seconda edizione riveduta dall’autore, Bari, Laterza, 19222 (prima edizione, 1915), pp. 33-72 (citazione pp. 48-49); nel volume è inserito con piccole varianti (come si vedrà più avanti) un saggio già apparso in rivista (B. Croce, Matilde Serao, «La critica», i, 1903, pp. 321-351). Cfr. M. Serao, Il ventre di Napoli, cit., pp. 22-24. 5 M. Serao, Una fioraia, in Piccole anime, roma, Sommaruga, 1883, pp. 5-15. i racconti di Piccole anime non sono ricordati da Silvana Andretta, Infanzia sola e letteratura tra XVIII e XIX secolo, Firenze, Firenze Atheneum, 2005, che tratta invece (alle pp. 30-33) dello scritto La pietà inserito ne Il ventre di Napoli. 6 M. Serao, Il ventre di Napoli, cit., p. 42. 7 M. Serao, Una fioraia, cit., p. 3.
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nicola de blasi770 nell’Ottocento, non c’è una strada con questa denominazione ufficiale. La «strada dei Mercanti» infatti corrisponde a un percorso comprendente diverse strade. Si tratta cioè di una sorta di “iperonimo” o di nome comprensivo, che si riferisce a tratti stradali diversi, collocati uno di seguito all’altro. i riferimenti interni al racconto permettono peraltro di individuare i due punti estremi della strada dei Mercanti, che l’infelice bambina percorre più volte al giorno: Andava e veniva, senza posa, dalla piazzetta di Portanova, donde era il suo punto di partenza, sino alla cappella del Cerriglio, dove era il suo punto di arrivo. Si fermava a piazzetta di Porto, faceva un mezzo giro e riesciva all’antico Sedile, dava uno sguardo al simulacro del dio Orione, attaccato alla muraglia che il popolo chiama Pesce Niccolò, poi saliva per Mezzocannone, bagnandosi i piedi nelle acque azzurre, rosse, violette dei tintori che lavoravano in certi antri lugubri, intorno a caldaie nere, agitandovi un miscuglio misterioso8.
Nella città non ancora modificata dai lavori del risanamento, la strada dei Mercanti andava quindi da piazza Portanova (tuttora esistente con questo nome) a piazzetta di Porto, anch’essa riconoscibile, pur se profondamente modificata, a ridosso dell’attuale piazza Giovanni Bovio (detta piazza della Borsa), su un lato dell’attuale via Sanfelice. il percorso preciso della strada è stato ora identificato e descritto in un lavoro di Carlo de Cesare, accolto nel volume di italo Ferraro dedicato ai cosiddetti Quartieri bassi (tali in rapporto a un dislivello altimetrico). in primo luogo è ben spiegato, in questo intervento, il carattere di «un itinerario composto da più strade in sequenza, ognuna con denominazione diversa (come oggi accade, per esempio, per Spaccanapoli)»9. Tale itinerario è così ricostruito da Carlo de Cesare: piazza della Selleria, via Zecca dei Panni, via San Biagio ai Taffettanari, via Portanova, largo Portanova con la chiesa di Santa Maria in Cosmedin, via Santa Caterina Spinacorona, vico Sant’Aniello dei Grassi (tratto oggi corrispondente al cortile interno dell’edificio centrale dell’università Federico ii), vico San Pietro a Fusariello (nell’area del medesimo cortile), via Sedile di Porto (da cui si dipartono, oggi come ieri, le Gradelle di santa Barbara), via Piazzetta, via di Santa Maria del buon Cammino.10
8 Ivi, p. 6. 9 Carlo de Cesare, Un itinerario nella Napoli bassa: la ‘via dei Mercanti’, in italo Ferraro, Napoli. Atlante della Città Storica. Quartieri bassi e il “Risanamento”, Napoli, Oikos, 2018, pp. 55-57 (la citazione a p. 56). 10 Ivi, pp. 56-57.
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una piccola migrante dal ventre di napoli al mondo di “lassù” 771 Questa via dei Mercanti per la bambina è dopo tutto una domestica prigione, da cui, al colmo della disperazione e della fame, tenterà una fuga terminata tragicamente con un incidente stradale. il finale tragico segna l’apice di un disperato tentativo di scalata sociale da parte della bambina che cerca di superare i limiti del suo mondo quotidiano. il tema di fondo del racconto, infatti, è proprio la rappresentazione di un mondo chiuso, poco allettante, ma familiare. La via dei Mercanti è presentata, come abbiamo visto, nell’incipit del racconto («La bimba camminava lentamente, rasentando il muro, per la via stretta e tortuosa dei Mercanti)»; è la via delle sue peregrinazioni quotidiane, inospitale ma anche conosciuta come una casa: «La strada dei Mercanti, lungo budello contorto, era la sua casa, ed ella ne conosceva tutte le viuzze, i vicoli ciechi, gli angiporti paurosi, le botteghe nere, i ruscelli fetidi, i portoncini angusti e bruni, illuminati da una luce fioca e grigia, le scalette smussate»11. Questo percorso è contrassegnato da aggettivi e sostantivi che evocano le diverse tinte del disagio: Quelle viuzze nere, quella strettezza, quella miseria, quelle case stillanti umidità, quei cattivi odori, quei portoni sospetti, quelle tinte cupe, quell’assenza di sole, quelle facce usuraie dei commercianti, quelle facce losche dei loro mediatori, quelle facce ebeti di male femmine, quella merce gretta, impolverata, avariata, erano tutto il suo mondo12.
La sequenza di aggettivi (nere, stillanti, cattivi, sospetti, cupe, usuraie, losche, ebeti, gretta, impolverata, avariata) rimanda a un mondo che i dimostrativi (ben dodici in nemmeno quattro righi) presentano come già noto: si tratta di un mondo definito, additato più che descritto, un mondo che tuttavia è qualificato da un aggettivo che acquista una valenza cruciale, pur essendo, in apparenza, il meno valutativo: mi riferisco al possessivo suo, che nello stesso tempo rimanda all’angustia di una prigione, ma anche alla sicurezza di un ambiente noto e di facce (sostantivo ripetuto tre volte in successione anaforica) poco tranquillizzanti, ma dopo tutto conosciute. in questo scenario si muovono alcune persone, anch’esse identificate attraverso una serie di aggettivi eloquenti: Chiedeva l’elemosina, ma non gliela davano spesso. Tutta quella gente affaccendata a guadagnare una dura giornata, bottegai accaniti a imbrogliare i compratori contadini, facchini curvi sotto le balle, serve luride e straccione, non badavano a lei. Qualche galantuomo la prendeva
11 M. Serao, Una fioraia, cit., p. 6. 12 Ivi, p. 7.
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per una piccola ladra e si tastava le tasche. Dicendole una parolaccia; qualcuno, anche vestito decentemente, era povero, la guardava e si stringeva nelle spalle. A qualcuno faceva disgusto e la scacciava con un gesto di noia13.
il confine della strada più che come ostacolo fisico è percepito come invalicabile per la paura di un mondo ignoto, che dal punto di vista spaziale è collocato verso l’alto, in cima alla salita di Mezzocannone e sulla sommità dei Gradini Santa Barbara: «Arrivata su, non osava andare oltre e ridiscendeva ai Mercanti […]. Voltava a destra per la scaletta lurida di santa Barbara, s’inerpicava fino al famoso biscottaio, ma i biscotti le facevano troppo gola e scappava via»14. Nell’angustia del percorso quotidiano, la bambina avverte l’esistenza di un «altrove», che in quanto collocato al di sopra di una salita e di una scalinata è identificato in modo generico con un lassù in corsivo, che incute timore, perché connotato come ignoto rispetto alle difficoltà note e già sperimentate: Sentiva vagamente che di sopra santa Barbara, di sopra Mezzocannone, di sopra il Cerriglio, alla fine di via Principessa Margherita, vi era un altro mondo, ma ella temeva di arrischiarvisi, ne aveva una paura selvaggia. Anche giù nei Mercanti, ella aveva paura delle altre mendicanti che la picchiavano, dei cani che volevano morderla, delle guardie che potevano arrestarla: ma ella era furba a schermirsi da questi pericoli. Lassù, il pericolo era ignoto. Quando arrivava a quei limiti, dava uno sguardo sospettoso in su, poi fuggiva, nascondendosi il capo ricciuto nel braccio, come se la perseguitassero15.
Nella contrapposizione tra alto e basso (la strada è appunto nei cosiddetti Quartieri bassi), segnata dalla percezione del confine e dalla paura, si delinea una situazione esistenziale statica, che può mutare solo in peggio quando interviene un fatto nuovo, con la sparizione di una ragazza che faceva del sabato il giorno migliore nella sofferta settimana della bambina: «Al sabato una femmina giovane, col fazzoletto di seta rosso attorno al collo, la gonna corta e legata sullo stomaco, la pianella col tacco alto e il fiocco verde, la pettinessa d’argento nell’alto cocuzzolo dei capelli impomatati, le guance cariche di carminio, le dava un soldo»16. Anche questa ragazza (lo capiamo subito
13 Ivi, pp. 8-9. 14 Ivi, pp. 6-7. 15 Ivi, pp. 7-8. 16 Ivi, p. 10.
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una piccola migrante dal ventre di napoli al mondo di “lassù” 773 dopo) conduce una vita poco felice, conclusa tragicamente all’improvviso: La giovane femmina stava per lo più accantonata a un portoncino, le mani nelle taschette del grembiule, lo sguardo vagante, la fisionomia stupida, canticchiando dalla mattina alla sera una canzoncina lenta: Spina de pesce, sta vita desperata quanno fenesce? Ogni giorno, molte volte, la bimba le passava daccanto. Ma solo il sabato l’altra le dava un soldo: questo per cinque o sei mesi. Poi la donna scomparve. L’avevano buttata o s’era buttata nel pozzo17.
Allo sconforto di questa improvvisa scomparsa si aggiunge, «quella domenica», il gesto non accogliente di un sacrestano che difende la chiesa dalla sgradita invasione della bambina; a questo punto i verbi riferiti alle azioni dell’uomo sono al passato remoto (come lo scomparve di poco prima e come pochi altri – entrò, ebbe – che ora leggiamo); su uno sfondo presentato all’imperfetto si innalza quindi il picco dell’evento decisivo della narrazione18: Le botteghe erano chiuse, i viandanti frettolosi non le davano retta, dirigendosi tutti alle strade superiori, scomparendo lassù: ella entrò nella chiesa di Portanova. La chiesa era vuota, le parve immensa e paurosa; ebbe una sensazione di freddo, co’ suoi piedini nudi sul marmo; il sagrestano l’acchiappò e la mise fuori. Ella riprese la sua corsa nelle strade spopolate: si vide sola, disperata. Tutti erano andati lassù19.
Nell’improvviso senso di vuoto di una domenica pomeriggio in cui il mondo consueto si spopola, perché tutti vanno nel mondo di sopra (lassù), prende forma all’improvviso quella che a questo punto appare come una fuga disperata verso un mondo ignoto, che, per quanto spaventoso, diventa meta di una temeraria esplorazione: Allora, dimenticando la sua paura, spinta dalla fame, dall’istinto, superò la frontiera, e oltrepassato il larghetto di rua Catalana, salì gli scalini di San Giuseppe. Fu stupefatta: vedeva quello che non aveva mai visto, la strada larga, i magazzini puliti, i palazzi bianchi, i giardini, il cielo20.
La frontiera, prima solo accennata attraverso allusioni, è qui enun
17 Ivi, pp. 10-11. 18 Harald Weinrich, Tempus. Le funzioni dei tempi nel testo, Bologna, il Mulino, 20042. 19 M. Serao, Una fioraia, cit., p. 11. 20 Ivi, pp. 11-12.
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nicola de blasi774 ciata a chiare lettere: è la frontiera che divide il mondo familiare da un altro mondo, per il quale occorrono aggettivi nuovi: larga, puliti, bianchi e, poco dopo, bello) Per una precisa collocazione topografica di tale frontiera va ricordato che i Gradini San Giuseppe collegavano rua Catalana a via San Giuseppe (si veda l’immagine proposta più avanti), la strada che poi è stata cancellata dalla più larga via Medina; i gradini raggiungevano via san Giuseppe più o meno nel punto in cui oggi via Sanfelice incrocia l’attuale via Medina, cioè di fronte all’edificio della Questura. Prima dei lavori del risanamento risaltava evidentemente il contrasto tra le strade di giù e quelle di lassù, dove tutto provoca lo stupore della nuova arrivata: Dimenticava la sua fame davanti a così mirabile spettacolo: non vi pensò più davanti a un negozio di giocattoli. Lassù tutto era bello: ed ella seguì la folla che si avviava per Fontana Medina, fermandosi ogni momento, eccitata, curiosa, scordandosi di chiedere l’elemosina21.
Nel nuovo mondo sorgono però anche pericoli inattesi. Quello che poi sarà fatale, la presenza di carrozze, è anticipato quasi per caso, come un elemento implicito nel paesaggio: «Solo le carrozze la spaventavano col continuo loro incrociarsi; ma seguiva il marciapiede»22. Questo primo segnale nel testo è seguito a breve distanza da un altro, quando un equipaggio nel senso di ‘carrozza elegante’23, suscita la curiosità della bambina, attratta anche dalle signore sedute all’interno: Ogni tanto vedeva passare nell’aria un mazzetto di fiori: ogni tanto la folla si gettava da parte, per lasciar passare un equipaggio, dentro una signora bellissima, seduta in mezzo alle stoffe e ai fiori: visioni rapide, fuggevoli, fulgide, che quasi sgomentavano la bambina24.
Sappiamo che alla fine lo sgomento si trasformerà in paura e stordimento («Quelle carrozze la stordivano»25). in questo crescendo, la carrozza, inizialmente evocata per caso, si trasforma in strumento di morte. Proprio la carrozza d’altra parte rappresenta un elemento nuovo nell’orizzonte della bambina, abituata a vederne di rado: nella strada dei Mercanti, come si ricorderà, passava infatti solo qualche «rara carrozza» ed è verosimile che proprio per la sua rarità fosse anche
21 Ivi, p. 12. 22 Ibidem. 23 Cfr. Salvatore Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, Torino, utet, 1960-2002, vol. V, p. 219. 24 M. Serao, Una fioraia, cit., pp. 12-13. 25 Ivi, p. 14.
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una piccola migrante dal ventre di napoli al mondo di “lassù” 775 annunciata da un rumore inatteso. Nelle strade di lassù, invece, le carrozze sono tutt’altro che rare ed è possibile che i rumori minacciosi (provocati dalle ruote o da altro) fossero continui. D’altra parte, in una pagina di Dumas, la diversa tipologia delle strade di Napoli (solo tre – Chiaia, Toledo e Forcella – frequentate da tutti, moltissime altre solo dai residenti) è sottolineata anche attraverso un esplicito riferimento ai mezzi di trasporto che le percorrevano: «Vi sono tre modi per visitare Napoli: a piedi, in corricolo, in calesse. A piedi, si passa dovunque. in corricolo, si passa quasi dovunque. in calesse, si passa soltanto per le strade di Chiaia, Toledo e Forcella»26. Proprio lo stordimento provocato dalla carrozza determina alla fine l’incidente mortale di cui la bambina resta vittima, mentre, atterrita, cerca di attraversare la strada senza guardare. L’impatto non è descritto, ma in modo indiretto è presentato attraverso il grido di una passeggera della carrozza: Quelle carrozze la stordivano, lei che voleva passare dall’altra parte. Prese la rincorsa, abbassando il capo… Nella carrozza una signora gittò un grido e svenne. Ma sulla via, presso il marciapiede, agonizzava una innocente creatura, con la gambina sfracellata. Agonizzava, giacente fra i garofani che le si erano sparsi d’attorno, stringendone uno sul petto tenendo il panino nell’altra mano, con la faccia bianca e seria, la bocca socchiusa, coi grandi occhi meravigliati e dolorosi che guardavano il cielo27.
Prima della sua morte precoce, la bambina fa in tempo ad accorgersi che nello sconosciuto mondo di lassù sono possibili anche piccole sorprese positive: la prima è data dall’incontro con la fioraia che le regala alcuni garofani, in cui la bambina con pronto intuito commerciale vede subito un prodotto da vendere. La vendita però è meno facile del previsto («Neppure lassù erano buoni con lei»), tuttavia proprio in cambio di un fiore la piccola riceve l’inatteso guadagno di un soldo: Ella era lacera, scalza, brutta: i suoi grandi occhi spalancati mettevano paura, la sua testolina arruffata e selvaggia faceva paura. Ora la fame riappariva feroce, mettendole un fuoco nel petto, straziandola. Si trovava presso la Boulangerie française, donde usciva un odore di pane e di pasticcini che la facevano svenire. Offriva i suoi fiori macchinalmente, senza poter più parlare, con un singhiozzo lento che le sollevava il
26 Alexandre Dumas, Il corricolo, Napoli, Colonnese, 1999, p. 90. 27 M. Serao, Una fioraia, cit., pp. 14-15.
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petto. un soldato passò e comprò un garofano: dette un soldo. La bimba entrò nella panetteria e comprò un panino da un soldo. Le bastava. Voleva andar via. ricominciava ad aver paura28.
un soldo non è certo una gran somma, visto che corrispondeva in genere alla piccola elemosina richiesta per strada dagli scugnizzi, come ricorda Ferdinando russo nel primo sonetto della sua raccolta ’E scugnizze: «uno ’e miezo Palazzo, nu zziracchio, / p’avé nu soldo, nne faceva lagne!… / Nun l’aveva? Allazzava nu pernacchio»29. Anche a Torino, d’altro canto, i bambini di strada (diffusi non solo a Napoli, ma in diverse grandi città del tempo, da Londra a Milano) chiedevano come elemosina un soldo: «Sotto questi portici i bambini insistenti tormentavano i passanti alla ricerca di un po’ di carità: si cacciano fra le gambe dei passanti, gli tirano gli abiti e piagnucolano e li tormentano finché non arriva il soldo»30. il soldo, ricevuto in cambio di un fiore, pur nella sua pochezza, per la bambina evidenzia già una differenza abissale tra la strada dei Mercanti e la zona di lassù31. Sappiamo infatti che fino alla settimana precedente il soldo donatole dalla fanciulla che aspettava qualcuno ac
28 Ivi, p. 14. 29 Ferdinando russo, ’E scugnizze diciassette sonetti, a cura di Nicola De Blasi, Napoli, Dante & Descartes, 2009, p. 43, sonetto i, vv. 12-14. 30 il passo proviene da un articolo giornalistico («La gazzetta di Torino», 15 dicembre 1871) citato, insieme con altri, da Manuela Leonessa, Delinquenza minorile in Torino alla fine dell’Ottocento, «Bollettino storico bibliografico subalpino», 92, 1994, 2, pp. 556-594 (la citazione a pp. 572-573). Alla richiesta di un soldo come requisito tipico di uno scugnizzo allude anche raffaele Viviani che nella sua autobiografia ricorda il successo riscosso dalla canzone Lo scugnizzo di Giovanni Capurro e Francesco Buongiovanni: «Quando chiesi il soldo ne piovve sul palcoscenico una vera fiumana … tanto che mi dovetti riparare la faccia per non rimanere ferito. […] ricordo che solo per radunare le monetine ci misi una ventina di minuti, e tutta la gente che stava dietro le “quinte” si sporgeva, non curandosi più del pubblico, per raccoglierne quante più poteva: di urli e strepiti per non farmi sottrarre nemmeno un centesimo. ricordo che feci oltre quaranta lire» (raffaele Viviani, Dalla vita alle scene, Napoli, Guida, 1988, pp. 26-27). 31 un motivo cruciale del racconto allude quindi alla realtà composita della città di Napoli, attraversata da profondi contrasti. Tale peculiarità ha avuto d’altronde una sua lunga durata e ha comportato ancora nel Novecento (e probabilmente ancora adesso) implicazioni di taglio sociolinguistico: cfr. N. De Blasi, Per la storia contemporanea del dialetto nella città di Napoli, «Lingua e stile», XXXVii, 2002, pp. 123-157; id., Persistenze e variazione a Napoli (con una indagine sul campo), «italienisch», LiX, Mai 2013, pp. 75-92, ora riproposti con qualche cambiamento in id., Saggi linguistici sulla storia di Napoli, Napoli, Società Napoletana di Storia Patria, 2017, pp. 155-196.
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una piccola migrante dal ventre di napoli al mondo di “lassù” 777 canto a un portone rappresentava l’unica entrata regolare della bambina: insomma nella strada dei Mercanti la bambina poteva contare sull’offerta sicura di un soldo alla settimana, mentre lassù, nei pressi della Boulangerie française, ottiene un soldo dopo pochi minuti in cambio di un fiore, che ha ricevuto in regalo e con quel soldo riesce a comprare un panino in un locale rinomato32. il fiore, il soldo, il panino coincidono però con gli ultimi momenti della vita della bambina, che muore appena ha avuto il sentore di una vista diversa, non certo fatta di agi, ma almeno aperta a qualche opportunità positiva. La fuga della bambina fa venire in mente una circostanza che di norma caratterizzava, tra fine Ottocento e inizio Novecento, la vita degli scugnizzi: questi bambini di strada, che per necessità dovevano badare da soli al proprio sostentamento quotidiano (quando non dovevano farsi carico anche di familiari), spesso privi di alloggio, si dirigevano preferibilmente verso le zone della città più signorili, sia perché ben frequentate (cosa decisiva in vista di possibili elemosine o di altri guadagni), sia perché più esposte alla luce del sole, oltre che dotate di possibili ricoveri di fortuna, come per esempio i portici del Teatro san Carlo, quelli di San Francesco di Paola, o la Galleria umberto (costruita intorno al 1890)33. Lo sguardo attento della scrittrice si posa su questa bambina come, pochi anni dopo, l’indagine di Ferdinando russo si rivolgerà verso gli scugnizzi. in questo caso è lecito immaginare che la spinta iniziale del racconto, la sua occasione referenziale, per così dire, sia stata data da un evento di cronaca, una bambina uccisa dalle ruote di una carrozza, e che la narrazione sia nata attraverso una ricostruzione di un possibile antefatto. Episodi di questo tipo del resto non dovevano essere rarissimi nemmeno nei primi decenni del Novecento. un riflesso letterario al riguardo si coglie in una pagina di Maurizio De Giovanni, in uno dei romanzi dedicati al commissario ricciardi, personaggio che ha la prerogativa di percepire, a distanza di tempo, le ultime parole pro
32 La Boulangerie française che si trovava nella piazza San Ferdinando (oggi piazza Trieste e Trento), che è stata molto rinomata a Napoli dalla fine degli anni Trenta dell’Ottocento, contribuì tra l’altro a diffondere in città la fortuna della brioche e forse di altri pani e dolci di provenienza francese. A questo esercizio commerciale allude la commedia di Pasquale Altavilla, La folla pe lu ppane francese. Commedia in quattro atti, Napoli, Tipografia de’ Gemelli, 1849. 33 Sulla vita degli scugnizzi cfr. N. De Blasi, Scugnizzo. Una storia italiana, Firenze, Cesati, 2017.
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nicola de blasi778 nunciate dai defunti, rimaste in attesa di ascoltatori. Con questa sua insolita dote sensitiva, ricciardi vede e ascolta, per esempio, una bambina travolta da una carrozza nei pressi del Caffè Gambrinus: Poi un caffè veloce in piazza del Plebiscito, come d’abitudine al Gambrinus, a osservare il passaggio dei tram col solito carico di scugnizzi festanti a rimorchio, in bilico sulle rotaie, aggrappati alla carrozzerie. Mentre stringeva con le dita gelate la tazza bollente, al vetro si era accostata una bambina, il viso imbronciato: nella mano destra abbandonata lungo il corpo, un fagottino di stracci, forse una bambola. il braccio sinistro non c’era: dalla carne strappata spuntava bianco un frammento d’osso, scheggiato come un pezzo di legno nuovo. il fianco incavato, la depressione del torace sfondato. una carrozza, pensò ricciardi. La bambina lo fissava e, a un tratto, alzò il fagottino di stracci verso di lui: La figlia mia, è questa. io la faccio mangiare e la lavo. ricciardi depose la tazza, pagò e uscì. Adesso avrebbe avuto freddo tutto il giorno34.
Maurizio De Giovanni nelle vicende del commissario ricciardi, collocate negli anni Trenta del secolo scorso, fa accenno, come sappiamo, anche a notizie di cronaca recuperate dai giornali dell’epoca; perciò è probabile che l’accenno che ora abbiamo letto pure provenga da una fonte giornalistica; tuttavia non è impossibile che in questo caso sia intervenuta anche una reminiscenza letteraria seraiana. Se nella pagina di De Giovanni è evocata l’ultima frase della bambina uccisa dalla carrozza, nel racconto di Matilde Serao la narrazione avviene invece nell’assenza quasi assoluta di voci umane: un’assenza tanto più inquietante in un contesto chiassoso e animatissimo (è la “modernissima” solitudine nella folla urbana messa in risalto dalla scrittrice). A ben guardare, infatti, in tutto il racconto la parola dei personaggi è quasi assente. Solo una volta è ricordato il triste canto («Spina de pesce / sta vita desperata quanno fenesce?») della giovane donna morta nel pozzo, mentre un altro brandello di discorso diretto si trova nella richiesta rivolta dalla bambina alla fioraia: «Signora, signora – mormorò una voce infantile – dammi un fiore»35. Per il resto, a parte la risposta di uno studente, quasi assorbita nel racconto per l’omissione delle virgolette (quando sarai più grande, potrai vender fiori36), la voce umana si sente solo per il grido di terrore lanciato dalla signora
34 Maurizio De Giovanni, Il senso del dolore. L’inverno del commissario Ricciardi, Torino, Einaudi, 2012, p. 16. 35 M. Serao, Una fioraia, cit., p. 13. 36 Ibidem.
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una piccola migrante dal ventre di napoli al mondo di “lassù” 779 in carrozza e per il lamento emesso di notte dalla piccola protagonista («come un batuffolo di stracci, donde sfuggiva un sordo lamento»37). Nemmeno l’espulsione dalla chiesa di Portanova è accompagnata da parole, ma si concretizza solo nei gesti rudi e decisi di chi impedisce alla piccola “naufraga” di rifugiarsi in chiesa («il sagrestano l’acchiappò e la mise fuori»38). Forse questa penuria di interazioni (non c’è mai in verità uno scambio dialogico) riflette la totale solitudine della bambina, non molto diversa da quella di un cane randagio a cui d’altra parte la bambina è esplicitamente paragonata («quel giorno non mangiò e dormì all’aria aperta, sullo scalino della chiesa di Portanova, arrotolata come un cane»39). La solitudine della bambina, se da un lato produce l’assenza di dialogo, determina anche il fatto che della piccola non viene mai pronunciato il nome, come se esso fosse stato definitivamente cancellato dai suoi orizzonti comunicativi dopo la morte della madre («un giorno aveva avuto una madre scarna, mendica anche lei […]. Poi la madre era morta, di tifo: la bambina era rimasta sola, sul lastrico»40). in assenza del nome, alla bambina sono riferiti, come soggetti o predicativi, alcuni sostantivi (la bimba, mendica, la figlia, la bambina, una voce infantile, una innocente creatura) o pronomi (ella, essa). il racconto della bimba senza nome può essere visto in conclusione come la storia di un disperato tentativo di incontrare fortuna, finito tragicamente contro le ruote di una carrozza. La piccola fioraia, proveniente dall’indigenza assoluta sperimentata ogni giorno nel mondo della strada dei Mercanti, fugge verso il mondo di lassù, che l’avvicina a opportunità prima mai incontrate. Anche lei, nell’ambito ristretto di un orizzonte urbano, è dopo tutto sola per il mondo, come i tanti bambini emigranti che tra l’Ottocento e l’inizio del Novecento erano costretti a cercare fortuna in Paesi diversi da quelli di origine, spesso vessati da costrizioni e angherie da parte degli adulti41: si tratta a ben guardare della condizione narrata nel racconto Dagli Appennini alle Ande inserito in Cuore di Edmondo De Amicis. Quella che all’apparenza può sembrare solo un’invenzione letteraria adombra in verità una situazione reale, più volte tenuta presente in una specifica legislazione
37 Ivi, p. 9. 38 Ivi, p. 11. 39 Ivi, p. 5. 40 Ibidem. 41 Giulia Di Bello – Vanna Nuti, Soli per il mondo. Bambine e bambini emigranti tra Otto e Novecento, Milano, unicopli, 2001.
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nicola de blasi780 relativa ai bambini girovaghi e migranti42. Come si è segnalato a proposito degli scugnizzi43, una situazione del genere non riguardava del resto solo l’italia: anche Oliver Twist è per esempio la proiezione letteraria di un mondo in cui le condizioni dei bambini erano spesso drammatiche. i bambini soli, i minori non accompagnati, come suol dirsi con il linguaggio burocratico che privilegia la litote (non accompagnati invece di abbandonati o soli), com’è noto, non rappresentano del resto un fenomeno solo del passato. La particolarità è che nel racconto di Matilde Serao l’abbandono, la “migrazione” e la fine della bambina avvengono nell’area di quel chilometro quadrato metropolitano già descritto da Giustino Fortunato. La fioraia che muore, da clandestina senza nome, anche per la sua temeraria inesperienza infantile, nell’attraversare la strada, perde la vita seguendo la speranza di vita migliore, migliore anche solo di poco (un panino della Boulangerie française, che tuttavia segna la differenza tra morire d’inedia e sopravvivere), inevitabilmente può essere idealmente accostata ai tanti che muoiono oggi in una traversata perigliosa del Mediterraneo. uno dei meriti di Matilde Serao è senza dubbio quello di aver collegato le storia narrate nelle opere letterarie all’impegno sociale della sua attività giornalistica. il caso specifico del racconto qui considerato dimostra anzi che prima dei testi giornalistici, poi riuniti nel volume Il ventre di Napoli, la scrittrice prende a cuore la sorte delle persone, soprattutto dei bambini (Le piccole anime), in particolare di quelli costretti a vivere e a morire in condizioni urbane difficili44. Già da narratrice, quindi, così come poi da giornalista, accoglie nel
42 Ai bambini girovaghi e migranti fanno esplicito riferimento leggi degli anni 1873, 1888, 1901, 1910: ivi, pp. 21-70. 43 N. De Blasi, Scugnizzo, cit., pp. 74-96. 44 Benedetto Croce, con la consueta efficacia, parla di affetto materno: «E la Serao scrisse una serie di articoli col titolo II ventre di Napoli, pagine tirate d’un fiato, descrizioni rapide, aneddoti narrati con semplicità, calorosa eloquentissima perorazione a pro del popolo napoletano, pieno [sic] di quell’affetto materno del quale ella possiede il segreto» (B. Croce, Matilde Serao, cit., p. 49). in precedenza, nel testo uscito in rivista, questo passo si presentava in forma più estesa: «La Serao scrisse allora una serie di articoli, che furono raccolti col titolo Il ventre di Napoli. Sono pagine tirate d’un fiato, descrizioni rapide, aneddoti narrati con semplicità trecentesca, una vigorosa eloquentissima perorazione a prò del popolo napoletano, che la Serao fa amare, nel presentarne la miseria e l’ignoranza, con quell’affetto materno del quale ella possiede il segreto» (B. Croce, Matilde Serao, «La critica», cit., p. 334); si nota pertanto che l’accordo grammaticale tra popolo e pieno di affetto materno va inteso come effetto collaterale indesiderato della drastica riduzione del passo, laddove sarebbe «la perorazione a pro del popolo napoletano» a essere
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una piccola migrante dal ventre di napoli al mondo di “lassù” 781 suo campo di osservazione non solo la città nei suoi aspetti urbanistici, ma le persone per le quali la città dovrebbe essere, a suo parere, urgentemente sventrata o risanata. Con queste pagine, l’infanzia abbandonata a una vita randagia entra con forza anche nella letteratura italiana. Tra i ritratti infantili riconducibili a diversi ceti sociali, incontriamo altri bambini che vivono una vita difficile45, figurando in qualche modo come ideale anticipazione dei ritratti al carboncino che Ferdinando russo traccerà in dialetto negli incisivi sonetti dialettali sugli scugnizzi. il racconto Una fioraia, come si è anticipato, trova un immediato riscontro nelle pagine de Il ventre di Napoli, che lasciano vedere ampi scorci delle zone citta
piena di affetto di materno (tra l’altro, nel passaggio dalla rivista al libro, prò diventa pro, senza accento). 45 Nel saggio pubblicato in rivista Croce si sofferma su Piccole anime in un passo che poi non è accolto nel capitolo del volume: «Qualche bozzetto della Serao si riferisce direttamente alla vita della plebe. in una squisita serie di schizzi e racconti intitolata Piccole anime, – storie e profili di bambini, la cui indole essa ha esplorato con lo stesso acume e sentito con la stessa fine commozione con cui ha rappresentato la vita delle fanciulle, – accanto ai ricordi dei bimbi della scuola normale e a quelli dei giuochi fanciulleschi della propria infanzia, accanto ai drammi provocati o risoluti dall’inconscio intervento dei bambini, sono due deliziosi bozzetti: Una fioraia e Canituccia. La fioraia è una bambina che vive in istrada, tra le viuzze di Mezzocannone e di Sedile di Porto, e non ha osato mai avventurarsi verso la città grande; e quando vi si arrischia per la prima volta, nel turbinio del Carnevale, e chiede in dono e ha dei fiori, e guadagna un soldo e compra con esso un panino, nell’attraversar la strada è schiacciata sotto una carrozza signorile. – Canituccia mena a pascolare un maialetto, che diventa il suo amico, e discorre con lui, e gli confida le sue piccole ansie e i suoi desiderii; il maiale si fa grosso, tanto che quasi non può più camminare; e una sera Canituccia, muta, con gli occhi spalancati, assiste all’uccisione del suo amico: offrono anche a lei, affamata, un pezzettino della carne cucinata; essa, con un cenno del capo, rifiuta. – in un’altra raccolta è Vicenzella, la giovane popolana che campa industriosamente la vita coi piccoli mestieri, la mattina cuocendo e vendendo sulla strada il polpo bollito pel pranzo dei muratori, facchini, postiglioni di tranvai: poi, tolta la pignatta, mette in mostra una tavoletta con noci fresche, a castelletti, che vende ai fanciulli; più tardi, alle noci sostituisce le spighe di granturco arrostite; e tutti i soldi che guadagna se li lascia prendere dal suo innamorato, un giovanotto di mala vita, che la sfrutta e la tradisce. Essa lo vede passare in compagnia di una donna, gli corre dietro disperata, lo raggiunge; ma al viso brusco dell’uomo, alla sua fredda interrogazione, al suo ordine di andar subito via, china il capo, si fa umile, e va via» (B. Croce, Matilde Serao, «La critica», cit., p. 333; questo passo, in seguito tagliato, è collocato immediatamente prima del riferimento al Ventre di Napoli, qui già citato; la terza novella a cui Croce fa cenno, intitolata Nella via (Vicenzella), è inclusa nella raccolta Gli amanti). Nel racconto Una fioraia non riesco a rilevare il riferimento al carnevale messo in risalto da Croce.
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nicola de blasi782 dine interessate al risanamento. Proprio nello scritto intitolato Bisogna sventrare Napoli la strada dei Mercanti è presentata in modo eloquente: Vi avranno fatto vedere una, due, tre strade dei quartieri bassi e ne avete avuto orrore. Ma non avete visto tutto; i napoletani istessi che vi conducevano, non conoscono tutti i quartieri bassi. La via dei Mercanti l’avete percorsa tutta? Sarà larga dieci palmi, tanto che le carrozze non ci possono passare, ed è sinuosa, si torce come un budello: le case altissime la immergono, durante le più belle giornate, in una luce scialba e morta: nel mezzo della via il ruscello è nero, fetido, non si muove, impantanato: è fatto di liscivia e di saponata lurida, di acqua di maccheroni e di acqua di minestra, una miscela fetente che imputridisce. in quella strada dei Mercanti, che è una delle principali del quartiere Porto, c’è di tutto: botteghe oscure, dove si agitano delle ombre, a vendere di tutto, agenzie di pegni, banchi lotto; e ogni tanto un portoncino nero, ogni tanto un angiporto fangoso, ogni tanto un friggitore, da cui esce il fetore dell’olio cattivo, ogni tanto un salumaio, dalla cui bottega esce un puzzo di formaggio che fermenta e di lardo fradicio46.
in questa descrizione, pubblicata nel 1884, ritroviamo la poca luce, il fango, gli odori, la merce cattiva a cui si riferisce anche il racconto. identica è la definizione della strada, che qui «si torce come un budello», così come nel racconto è un «lungo budello contorto»; puntuale anche qui l’accenno al difficile passaggio delle carrozze. Nel Ventre di Napoli al centro dell’attenzione è solo la strada; nel racconto invece, con il fine di rendere ancora più evidente il carico di degrado sociale e umano implicito e inevitabile in una strada di questo tipo, è presentata la tragica individuale vicenda della bambina e della sua povertà senza rimedio. Con la strada dei Mercanti, Il ventre di Napoli ricorda anche Mezzocannone e le scale di Santa Barbara: Varie strade conducono dall’alto al quartiere Porto: sono ripidissime, strette, mal selciate. La via di Mezzocannone è popolata tutta di tintori: in fondo a ogni bottega bruna arde un fuoco vivo sotto una grossa caldaia nera, dove degli uomini seminudi agitano una miscela fumante; sulla porta si asciugano dei cenci rossi e violetti; sulle selci disgiunte cola sempre una feccia di tintura multicolore. un’altra strada, le cosidette Gradelle di Santa Barbara, ha anche la sua originalità: da una parte e dall’altra abitano femmine disgraziate, che ne hanno fatto un loro dominio, e per ozio di infelici disoccupate nel giorno o per cupo
46 M. Serao, Il ventre di Napoli, cit., p. 42. Lo scritto che apre il libro era stato in precedenza pubblicato, con il titolo Sventrare Napoli, «Capitan Fracassa», n. 258, 17 settembre 1884.
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odio contro l’uomo, buttano dalla finestra, su chi passa, buccie di fichi, di cocomero, spazzatura, torsoli di spighe: e tutto resta su questi gradini, così che la gente pulita non osa passarvi più47.
Mezzocannone e le Gradelle di Santa Barbara (scale tuttora esistenti con il loro antico tracciato che conduce da via Sedile di Porto verso largo Teodoro Monticelli) sono dipinti come luoghi infernali, da un lato per il fuoco, il fumo e la feccia di tintura multicolore derivanti dal lavoro di uomini seminudi, dall’altro per i rifiuti di ogni genere lanciati dall’alto, per ozio o per odio (efficace coppia di sostantivi differenziati solo per un fonema consonantico). Per un lavoro e per un ozio connotati in modo negativo, questi luoghi sono comunque inadatti alla gene pulita. La frontiera geografica del racconto assume i connotati di una barriera di altro genere, che nel dominio di «femmine disgraziate», oscillanti tra oziare e odiare, preclude il passaggio a chi proviene da altri luoghi. il quadro offerto dal Ventre di Napoli è noto, perciò non è il caso di ampliare le citazioni. Può essere però opportuno verificare in che modo la scrittura della Serao torna, vent’anni dopo, su questi luoghi manifestando critiche sui lavori del risanamento. Secondo la scrittrice le novità introdotte dalla nuova sistemazione urbanistica non hanno modificato profondamente la natura dei luoghi, poiché le nuove strade (la piazza della Borsa, via Guglielmo Sanfelice, il rettifilo) svolgono ormai la funzione di coprire problemi che in parte sono stati rimossi (senza essere risolti), ma in gran parte sono stati solo coperti dal paravento dei nuovi edifici: Cominciamo da quanto esiste, dietro il paravento a sinistra del rettifilo, venendo dal centro della città, andando verso la ferrovia: e osserviamo se si è risanato, come era la idea semplice e alta di tutti quelli che vollero salvare il popolo napoletano dalla sporcizia, dal vizio, dall’epidemia e dalla morte. Questo lato è il meno orribile, quando lo si percorre, passo passo, dalla spalle di via Guglielmo Sanfelice, dalle spalle dello splendido e deserto palazzo della Borsa sino laggiù, laggiù, all’Annunziata. Eppure!48.
Segue, dopo Eppure!, una galleria di immagini che dimostrano come dietro il paravento molte cose siano rimaste come prima. Tra queste, appunto, le scale di Santa Barbara: Sono rimaste intatte le oscure e malfide gradelle di Santa Maria la Nova,
47 Ivi, p. 43. 48 Ivi, p. 111.
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le antiche gradelle che conducevano al Cerriglio e che ora conducono a piazza della Borsa; intatte le strette, nere, soffocate, soffocanti gradelle di Santa Barbara, col loro angiporto che avrà duecento anni e che venti anni di risanamento edilizio, a due passi di lì, non hanno distrutto, le famose gradelle di Santa Barbara, celebri per il loro tarallaro, il biscottaio popolare, ma celebri anche per il vizio diurno e notturno, che vi ha i suoi antri più bassi e più tristi: né, a quanto pare, tutto ciò è mutato49.
Nel racconto le scale di santa Barbara erano presentate non solo come una possibile via di avvicinamento al confine di lassù che la bambina non osava oltrepassare, ma anche come luogo in cui si trovava una rivendita di biscotti. Nel 1906 troviamo ancora lì quel negozio, solo che nella prosa saggistica l’autrice accoglie la parola usuale dell’italiano locale, tarallaro, facendola seguire dalla glossa “biscottaio”. Già in questo passo, d’altra parte, si nota la scelta di adottare forme locali (qui gradelle per ‘gradini’) evidenziate dal corsivo. L’osservazione di un caso specifico permette infine di verificare come sia cambiata la modalità della scrittura tra il racconto e Il ventre di Napoli, che pure si riferiscono al medesimo quadrilatero individuato da Giustino Fortunato. Si direbbe, sulle prime, che nel passaggio da un testo all’altro sia cambiato il punto di vista. A ben guardare, invece, proprio il punto di vista sembra immutato, mentre i cambiamenti sono altri. in primo luogo Il ventre di Napoli non si rivolge solo a un ampio e generico pubblico di lettori, ma specificamente al primo ministro e ministro degli interni Depretis. in secondo luogo sono cambiati i tempi storici: tra la pubblicazione del racconto e Il ventre di Napoli l’epidemia di colera aveva provocato 7000 morti, in prevalenza proprio nell’area dei Quartieri bassi, come sarebbe stato facile prevedere e come del resto paventava già Giustino Fortunato: «Quando una epidemia ha afflitta la città, sempre in que’ luoghi ha mietute in ragione decupla le sue vittime. E allora, ma solo allora, si è levato attorno un grido unanime di terrore. Poi, cessato il pericolo, quel sozzo quadrilatero è stato subito dimenticato»50. Per Matilde Serao è quindi fondamentale che l’attenzione dei letterati e dei giornalisti si concentri di nuovo su quel «sozzo quadrilatero» per richiamare gli adeguati provvedimenti governativi. Per lo stesso motivo torna poi sull’argomento vent’anni dopo e poi ancora nel 1906 anche per sottolineare le carenze degli interventi e il rischio, sempre attuale, già paventato da Fortuna
49 Ivi, p. 112. 50 G. Fortunato, La città e la plebe, cit., pp. 314-315.
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una piccola migrante dal ventre di napoli al mondo di “lassù” 785 to, che in certi casi tutto fosse «subito dimenticato». Nell’urgenza del momento drammatico per la città, con l’allocuzione diretta a Depretis, l’autrice riecheggia le pagine di un suo racconto, ma le orienta verso l’obiettivo sfrondandole. Per questo motivo, nel permanere del punto di vista, a cambiare è la messa a fuoco, non più incentrata sulla bambina o su un personaggio a suo modo esemplare di un disagio collettivo, ma sulle strade, che in un certo senso già facevano da co-protagonista nel racconto. Si verifica quindi un processo di sottrazione, all’insegna di un procedimento “del levare”, che è stato messo in evidenza da Giuseppe Montesano: rinuncia alle lentezze e ai riempitivi romanzeschi, fa a meno dell’intrigo e procede accostando per analogie e contrapposizioni violente le zone di realtà che vuole narrare. in questo modo il filo conduttore del raccontare smette di essere temporale e consequenziale, e crea quell’effetto così particolare di affollamento e sovrapposizione dei particolari a scapito dell’ordine compositivo che è stato più volte accusato di mancare di arte51.
La scelta di «raccontare senza centro», che produce, con soluzione molto moderna, un «romanzo senza fabula», secondo l’illuminante definizione di Montesano52, conduceva Il ventre di Napoli in un punto di incontro tra saggistica e narrativa, che dalla scena d’insieme sottraeva l’evento singolo o il caso esemplare. La motivazione di tale scelta risalta con evidenza proprio nel confronto con le pagine di Una fioraia: i racconti con il loro carico di pathos, come quello legato alla triste sorte di una bambina sola al mondo, da un lato si sarebbero senz’altro impressi nella memoria dei lettori, ma dall’altro però avrebbero anche facilmente prestato il fianco al più ovvio degli alibi, in quanto sarebbero stati etichettabili (e liquidabili) come “semplice” opera di letteratura, attenta semmai a un singolo caso verosimile ma tutto sommato isolato, cosa che avrebbe rappresentato un anello debole sul piano dell’impegno sociale, all’interno di un’allocuzione direttamente rivolta a un interlocutore politico.
Nicola De Blasi università Federico ii- Napoli
51 G. Montesano, Il sipario lacerato. Viaggio al termine del ventre di Napoli, in M. Serao, Il ventre di Napoli, cit., pp. 5-20. 52 Ivi, p. 15.
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Gradelle S. Giuseppe, in raffaele D’Ambra, Napoli antica, Sorrento-Napoli, Di Mauro Editore, 1993, Tavola LXX, p. 295.
SiLViA ACOCELLA Il ventre d’Europa. La catabasi di un’anima semplice
L’anima semplice di Suor Giovanna della Croce si porta dietro, nel varco tra Ottocento e Novecento, tutte le ombre della degenerazione. il punto di vista marginale di una suora di clausura, costretta a un viaggio verso un mondo infero, acquista nello scolorimento sistematico della scrittura l’ampiezza rivelatrice di sguardo grandangolare sul tramonto dell’Occidente.
★ The simple soul of Suor Giovanna della Croce bears, midway between the Nineteenth and Twentieth century, all the shadows of degeneration. The marginal point of view of a cloistered nun, forced to journey towards an underworld, acquires, in the systematic discolouration of Serao’s writing, the revealing breadth of a wide-angle lens on the decline of the western world.
La scelta di poggiare tutto il peso della narrazione sul corpo curvo e invecchiato di una suora di clausura espulsa dal suo convento1, una figura tanto marginale da muoversi ai confini con l’oblio, e la trama di questa vicenda che, tra un secolo e l’altro, disegna, invece di una svolta, la parabola discendente di una caduta inarrestabile, diventano matrice di una scrittura insolita per la Serao, ad alto tasso di sperimenta
Silvia Acocella: università Federico ii di Napoli; prof. associato; silvia.acocella@unina.it 1 una legge del 17 luglio 1890 promossa da Francesco Crispi ordinò la soppressione dei conventi di clausura, autorizzando le autorità locali ad acquisire gli spazi non più sotto la giurisdizione dello Stato della Chiesa. Sulle pagine del giornale che dirigevano insieme, il «Corriere di Napoli», la Serao e Scarfoglio ne diedero una breve e scarna notizia. in realtà, nel convento del Suor Orsola Benincasa le residenti poterono restare protette dalla loro vita di clausura. L’alterazione dei fatti – attraverso la contaminazione con altre vicende simili (come quella delle Cappuccinelle degli incurabili, dette le Trentatré) e la consultazione delle cronache del tempo – è legata al rovesciamento della prospettiva che la Serao volle operare in questo romanzo, mostrando la vicenda non dall’esterno, ma nell’ottica di una creatura semplice esposta improvvisamente alla complessità del mondo.
silvia acocella788 zione, tanto più elaborata quanto maggiore è la sua medietà stilistica, ottenuta per desaturazione del campo cromatico. Non è vecchia come le sue compagne di clausura, all’inizio del romanzo, ma di pagina in pagina suor Giovanna invecchierà rovinosamente, in un disfacimento inarrestabile della sua condizione e del suo corpo che la porterà a essere sempre meno distinguibile nell’ombra nera della sua catabasi: il suo corpo, già curvo, s’inchina ogni giorno di più, verso la fossa e non vi cade ancora; i suoi neri abiti claustrali, si lacerano e si struggono, senza che ella possa mutarli, rinnovarli […]2.
Lungo la china di un secolo e di una civiltà, la trama romanzesca mette a fuoco i volti e le storie degli invisibili, a stento percepibili dentro una folla crepuscolare, avvolta dall’oscurità del tramonto dell’Occidente3. Dagli «stalli, da quelle nicchie nere dove le ombre nere delle suore si sprofondavano nell’ombra»4, Matilde Serao acquista una nuova capacità di vedere nel buio:
2 Matilde Serao, L’anima semplice. Suor Giovanna della Croce, introduzione di Monica Cristina Storini, roma, Edizioni Croce, 2015, p. 3. il romanzo («un’opera di grande valore narrativo [e anche storico]», come sottolinea Francesco Bruni in La scrittura della città nel Ventre di Napoli, in Album Serao, a cura di Donatella Trotta, Napoli, Casa Editrice Fausto Fiorentino, 1991, p. 92) fu pubblicato in dieci puntate, dal 20 ottobre 1899 al 5 aprile 1900, sulla rivista «Flegrea», e quasi contemporaneamente su «il Mattino», dal 10-12 dicembre 1899 al 28 febbraio-10 marzo1900, in quarantatré puntate. in questo stesso giro di mesi, la Serao spedì il testo a Hérelle perché lo traducesse in francese per la «revue des Deux Mondes» di Brunetière. i rapporti fra la Serao e Hérelle si sarebbero presto incrinati (cfr. Marie-Gracieus Martin-Gistucci, Lo specchio ribelle (George Hérelle traduttore e traditore di Matilde Serao, in Matilde Serao tra giornalismo e letteratura, a cura di Gianni infusino, Napoli, Guida 1981, pp. 45-60). La prima edizione in volume uscì per Treves nel 1901, con una lettera dedicatoria a Paul Bourget come introduzione. Come ha segnalato Clara Borrelli, le versioni a puntate su rivista ebbero per l’autrice il valore di prime bozze, sulle quali operare tagli e correzioni in cerca di un affinamento delle strategie stilistiche: cfr. Clara Borrelli, Nota al testo, in M. SErAO, L’anima semplice. Suor Giovanna della Croce, Lecce, Manni, 2005, p. 29. Per il rapporto tra la matrice comunicativa dell’articolo e la forma del racconto – tanto rilevante da caratterizzare anche lo stile dei romanzi della Serao e la loro struttura per nuclei narrativi – si rinvia alla vasta e documentata analisi di D. Trotta, Sulla via della penna e dell’ago. Matilde Serao tra giornalismo e letteratura. Con antologia di scritti rari e immagini, Napoli, Liguori, 2008. 3 Oswald Spengler, Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale, Parma, Guanda, 2002. 4 M. Serao, L’anima semplice. Suor Giovanna della Croce, cit., p. 12.
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Vi sono anime malinconiche, possenti, eroiche, tristi, fatali, che niuno vede: vi sono cuori straziati ed esaltati dalla vita, di cui niuno si accorge: vi sono ombre, nella via, che sono uomini e sono donne: vi sono fatti umani, sconosciuti, il cui carattere ha profondità non misurabili: vi sono storie, nel mondo, che farebbero fremere di stupore, e di dolore, se tutte si potessero narrare. E non è l’amore, nel suo stretto senso, che mena queste anime, questi cuori, queste donne, questi uomini; non è la passione, nel suo ardente e breve senso, che domina questi fatti. Sono altri sentimenti somiglianti, diversi, multiformi, più forti, meno forti, più saldi, meno saldi: sono altre espressioni, meno calde, più profonde, più lunghe, più tormentose e più pure: sono altre tragedie, più piene di ombra, più inguaribili, più degne di pietà e di perdono5.
Questo vacillare e precipitare delle cose che Kermode vedrà come una proiezione dell’ansia esistenziale sulla storia6 è la stessa inquietudine da «fin de siècle» con cui il medico romanziere ungherese Max Nordau aveva appena aperto la sua vasta inchiesta sulla Degenerazione7 – tradotta in italiano nel 1893-94, appena un anno dopo l’edizione originale in tedesco. Tutti i mali accumulatisi sul fondo dell’Ottocento sono raccolti da Nordau con ostinato metodo positivista, per essere inquadrati e fissati dentro le recenti categorie del darwinismo sociale. E tuttavia, quasi un’erma bifronte tra progresso e involuzione8, a cavallo tra due secoli, il degenerare implica, per la prima volta, il pericolo di una caduta all’indietro all’interno del processo evolutivo. Tra corpi deformi, stimmate, regressioni, atavismi, l’umanità sembra avere nella degenerazione la sua regola e non più l’eccezione: una «sindrome
5 Ivi, p. 7. 6 «[…] lo sviluppo del fenomeno fin de siècle dimostra ampiamente la tesi di Focillon, per cui noi proiettiamo le nostre ansietà esistenziali sulla storia. C’è insomma un effettivo rapporto fra i momenti di fine secolo e il carattere della nostra immaginazione, che pensa sempre di vivere alla fine di un’epoca» (Frank Kermode Il senso della fine. Studi sulla teoria del romanzo, Milano, rizzoli, 1972, p. 115). 7 Max Nordau, Degenerazione, versione autorizzata sulla prima edizione tedesca per G. Oberosler, vol. i, Fin de siècle – Il misticismo, Milano, Fratelli Dumolard Editori, 1893; vol. ii, L’egotismo – Il realismo – Il secolo ventesimo, Milano, Fratelli Dumolard Editori, 1894; la citazione è dal vol. i, p. 5. La prima edizione italiana di Degenerazione, pubblicata a ridosso dell’originale tedesco, si diffuse immediatamente nelle biblioteche e sui tavoli di lavoro degli scrittori. A metà tra medico e romanziere, Nordau si serve della degenerazione come di una categoria estetica, esaminando le creazioni artistiche attraverso la lente della psicopatologia. Per un quadro più ampio mi sia consentito il rinvio a Silvia Acocella, Effetto Nordau. Figure della degenerazione tra Ottocento e Novecento, Napoli, Liguori, 2012. 8 Cfr. renzo Villa, Evoluzione-degenerazione, antinomie della ragione positiva, «il piccolo Hans», a. 1985, n. 46, pp. 77-88.
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silvia acocella790 storica»9 che la figura di suor Giovanna della Croce, personaggio-riflettore del romanzo10, illumina e porta allo scoperto. il campo prospettico attivato dallo sguardo di un’anima semplice, proprio perché si situa lungo i margini, diventa un grandangolo sulla zona d’ombra della civiltà europea, che proprio nei suoi vertici scopriva la sua massima vulnerabilità. Sotto gli occhi di un’esclusa (condizione emblematica del personaggio novecentesco), che sospende ogni giudizio mentre tenta di preservare la sua intangibilità, di restare «sepolta viva» dentro il crollo materiale e morale della sua città, passa un’umanità degenerata e deforme. Come da una fessura, sotto il bianco e nero dei veli monacali, lo sguardo dell’anima semplice sembra acquistare la distanza e la precisione di un camera eye, capace di scorrere su campi lunghi e di fissarsi sui dettagli, ingrandendoli come su uno schermo cinematografico. Attraverso il personaggio-riflettore della protagonista, la focalizzazione interna della narrazione opera inquadrature ravvicinate del volto che dilatano connotati minimi, per un effetto-cinema sempre più dominante nell’immaginario collettivo, destinato a diventare L’occhio del Novecento11; un effetto più visibile là dove i contrasti tra luce e ombra rendono perturbanti le deformazioni dei corpi. Le immagini che scorrono sotto gli occhi di suor Giovanna della Croce sono parte, infatti, di uno stadio di visioni moderno ed europeo: quelle figure svisate dal loro cadere all’indietro, scarti regressivi di un movimento evolutivo già da tempo dubbio, si inquadrano in un più vasto museo antropologico degli orrori che, nel passaggio al nuovo secolo, diventa il
9 «Sindrome» (nell’originale «disorder») è il termine scelto per il suo libro sulla degenerazione da Daniel Pick, Volti della degenerazione. Una sindrome europea 1848-1918, trad. it. di S. Minucci, Firenze, La Nuova italia, 1999. 10 Ci serviamo di una categoria di James, che rosa Casapullo ha posto sulle soglie di questo romanzo, riportando la lettura critica che il romanziere inglese fece della prosa della Serao e della sua novità linguistica: cfr. M. Serao, L’anima semplice. Suor Giovanna della Croce, a cura di rosa Casapullo, Milano, rizzoli, 2006. Alla Casapullo si deve il restauro del titolo, che vedeva precedere il nome della protagonista dalla sua anima semplice. 11 Francesco Casetti, L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, Milano, Bompiani, 2009. Sul rapporto tra Matilde Serao e la settima arte si rinvia alle documentate e acute analisi di Patricia Bianchi in La scrittura di Matilde Sera per il cinema, in questi Atti, e in L’attrazione fatale dell’“arte muta” dal libro al teatro fino al cinema, in Visibili, invisibili. Matilde Serao e le donne nell’Italia post-unitaria, a cura di Gabriella Liberati, Giuseppe Scalera, Donatella Trotta, roma, CNr, 2016, pp. 149-164.
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il ventre d’europa. la catabasi di un’anima semplice 791 varco di quell’orda «vittoriosa dei brutti» che Debenedetti12 avrebbe visto dilagare nel romanzo del Novecento: una donna sedeva presso una tavola sgangherata e al chiarore di un piccolo lume a petrolio, dalla palla di cristallo verdastro, tutto unto, lavorava macchinalmente a una lunga calza di cotone rosso. Era una donna sulla cinquantina, enormemente grassa, con una grossa testa su cui si erano già fatti radi i capelli: il suo corpo non aveva più forma precisa, umana, femminile: era una massa di grasso, spalle larghissime, petto e ventre riuniti, fianchi amplissimi, braccia corte e goffe, mani rotonde, rossastre, dalle dita fiacche che si muovevano intorno ai ferri della calza. Anche il volto della donna, grosso, gonfio, con un doppio mento, con le guancie che affogavano il naso e i già piccoli occhi, era di un brutto colore vinoso, a chiazze: una espressione dura, indifferente, si distendeva su quel viso. […] Dalla tasca della gonna la donna cavò, ad uno ad uno, i cinque soldi e li depose, dopo averli novellamente contati, sovra un tavolino, a cui si appoggiava, sempre un po’ ansimante, la colossale padrona della locanda. Allora si vide, nel cerchio di luce del lume a petrolio, la mano della donna che deponeva i soldi: una mano lunga, scarnissima, dalla pelle indurita e grigiastra, su cui si disegnavano, molto grosse, violacee, le vene della mano dalle dita nodose, contratte, tremanti. La mano si ritirò, sparve, la donna restò in piedi, nell’ombra13.
Dentro la figura del degenerato, il passaggio al nuovo secolo prepara la «nascita di una nuova antropologia nella storia dell’uomo occidentale»14. Nel caso di suor Giovanna, la sua catabasi nel ventre di Napoli15 mette a nudo la scandalosa evidenza della povertà. impudica per chi, come lei, ha vissuto ed è invecchiata avvolta nei tessuti e nelle ombre della vita claustrale: […] in generale, quelle vesti e quegli aspetti rivelavano la povertà annosa, passiva, oramai di nulla vergognosa, caduta nell’abbiezione della massima sudiceria, del massimo sbrandellamento. Non solo i vestiti erano laceri, ma nessuna mano provvida era più venuta a rammendarli, a mettervi una toppa: non solo i vestiti erano stracciati, sbrandellati, sfilacciati, ma erano scoloriti, pieni di macchie, fangosi, trascinati per le vie piene di melma, sporcati addosso di notte, su giacigli ignoti,
12 Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Presentazione di Eugenio Montale, Milano, Garzanti, 1971; si cita da id., Saggi, Progetto editoriale e saggio introduttivo di Alfonso Berardinelli, Milano, Mondadori, 1999, p. 1398. 13 M. Serao, L’anima semplice. Suor Giovanna della Croce, cit., pp. 120-122. 14 romano Luperini, L’incontro e il caso. Narrazioni moderne e destino dell’uomo occidentale, roma-Bari, Laterza, 2017, p. 4. 15 il riferimento è al Ventre di Napoli, pubblicato per i Fratelli Treves nel 1884.
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sporcati di notte, forse, nelle notti ove quella gente dorme all’aria aperta, accoccolata sui gradini di una chiesa, accoccolata sugli spiragli di una cucina, di un sotterraneo. Alla luce del sole, alla chiarissima luce primaverile, quelle vesti che erano dei cenci, mostravano tutto l’orrore della lunga povertà, della lunga incuria, della crescente degenerazione: dicevano non solo la miseria, ma l’abbandono; dicevano non solo l’abbandono, ma l’oblio di ogni decenza e di ogni pudore; dicevano non solo tutto questo, ma dicevano il profondo cinismo del vizio, il cinismo fatale, assoluto, che viene dall’aver troppo digiunato, dall’aver troppo avuto freddo, dall’aver troppo patito, dall’aver troppo disperato della vita, degli uomini e di Dio16.
Alla fine del romanzo, durante la scena del pranzo offerto ai mendicanti, i volti, soprattutto quelli femminili, sono sottoposti a una carrellata spietata che porta in superficie, isolando particolari e dettagli17, la degenerazione dilagante negli strati bassi della società. È lo stile tardo della Serao che «illumina un paesaggio in sfacelo»18, il ventre di un’Europa che i bagliori dell’imperialismo impedivano di scorgere: La faccia e la persona di quelle donne erano singolari. Quasi tutte erano vecchie o sembravano tali, affrante dalla indicibile povertà, dal cibo scarso o nocivo, dai giorni senza pane, dalle stamberghe dove dormivano in quattro o cinque, in una sola camera: molte erano vecchissime con una grossa gobba, venuta dall’età e non dalla costituzione, quasi piegate in due; poche erano le giovani e queste, a occhi bassi, si erano andate a rincantucciare negli angoli, voltando la testa in là; e fra le giovani, anche, qualcuna si celava un poco con un fazzoletto annodato sotto il mento e che si abbassava sulla fronte. Molte di queste donne apparivano malate, alcune scialbe e flosce di pelle, per anemie che non si guariscono, per perdite di sangue nei miserabili parti fatti all’ospedale, donde le mandavano via dopo due giorni, per mancanza di nutrizione; altre gialle e gonfie per malattia del sangue, per malattie car
16 M. Serao, L’anima semplice. Suor Giovanna della Croce, cit., p. 137. 17 Questa attenzione per i dettagli, che si dilatano sulla pagina, spinse Spitzer ad associare la prosa della Serao a quella di Zola: Leo Spitzer, Matilde Serao (Eine Characteristick), «Germanische-romanische Monatsschrift», iV, 1914, pp. 573-584. 18 una luce soggettiva che, attraverso i «i silenzi e le fenditure», illumina un paesaggio in sfacelo è la nota dominante, per Edward Said, dello stile tardo: Edward W. Said, Sullo stile tardo, traduzione di A. Arduini, Milano, il Saggiatore, 2009, p. 29. Servendosi della lettura adorniana della fase finale di Beethoven (Spätstil Beethovens) e rintracciandone le costanti nelle opere segnate da una modernità caduta e non redenta, il critico palestinese identifica la tardività, invece che con una saggezza olimpica, con una inconciliabilità ostinata che lascia aperte tutte le contraddizioni.
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diache, per la soverchia grassezza; alcune obese, sformate. una era ributtante, con gli occhi cerchiati di rosso, sanguinolenti; un’altra nascondeva male un enorme gozzo, sotto una sciarpa; un’altra aveva un tic nervoso, per cui, ogni tanto, il viso le si torceva ed ella dava in uno scoppio di risa frenetico; un’altra si appoggiava su due gruccie tutte scorticate. La comune espressione di queste donne era un’apatia profonda, che si stendeva sui loro visi e sui loro corpi stanchi, come rilasciati, sulle mani abbandonate in grembo, o lungo la persona; ma su questo fondo gemente, si manifestavano delle diversità. Alcune fra queste donne avevano l’aria truce e giravano intorno degli sguardi feroci; altre avevano l’aspetto timido, raccolto, quasi volessero sparire dalla bizzarra riunione; altre avevano il contegno dolente di un dolore quieto, oramai, oramai costante e inconsolabile; altre avevano l’aspetto provocante e cinico. Quasi tutte tacevano […]19.
Nel mezzo del crollo delle certezze darwiniane e della fede nel movimento teleologico della storia20, il campo prospettico scelto dalla Serao, con la sua strategia stilistica fondata su un costante trascolorare delle immagini, tocca il punto nevralgico della fin de siècle21, entrando a far parte di quelle scritture di transizione, sperimentali, che si sollevavano squilibrate dalla crisi del paradigma naturalista e dalla corrosione interna del sistema di pensiero positivista. Come mettono in evidenza gli studi di Stephen Kern, andrebbe attribuita alla fase di passaggio tra Otto e Novecento una fisionomia specifica, indipendente sia dal secolo che la precede, con i suoi para
19 M. Serao, L’anima semplice. Suor Giovanna della Croce, cit., pp. 139-140 20 un ampio quadro di riferimento è quello offerto dagli studi di Luisa Mangoni dedicati alla crisi teoretica e culturale del pensiero positivista tra Otto e Novecento. i dubbi sul cammino rettilineo e progressivo della storia umana, il rilievo dato al diffondersi di comportamenti atavici e al prevalere delle eccezioni sulle norme, la constatazione che l’uomo associato, sia quello delle folle che quello della collettività istituzionale, si comporta più irrazionalmente del singolo, generano un destabilizzante percorso autocritico che matura dal cuore del positivismo, più pericoloso degli attacchi dall’esterno dell’antipositivismo. La penetrazione in Francia di autori italiani (Lombroso, Sighele, Ferrero) e il dibattito sulle folle e sulle masse (Le Bon, Ferri, Tarde) provocano, infatti, per la Mangoni, nell’ultimo decennio dell’Ottocento, una vera e propria implosione del metodo positivista: Luisa Mangoni, Una crisi di fine secolo. La cultura italiana e la Francia tra Otto e Novecento, Torino, Einaudi, 1985. 21 Si vedano, a proposito dello scambio epistolare della Serao con il suo traduttore francese Hérelle (che, nonostante le riserve espresse riguardo alla figura della protagonista, fu uno dei più acuti interpreti di Suor Giovanna della Croce), gli studi pioneristici di raffaele Giglio, Per la storia di un’amicizia. D’Annunzio, Hérelle, Scarfoglio, Serao. Documenti inediti, Napoli, Loffredo, 1977.
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silvia acocella794 digmi progressivi e le sue verità ancora raggiungibili, che da quello che la segue, chiuso, per un’amputazione simultanea del passato e del futuro, nella prigione atemporale di un eterno presente22. Suor Giovanna della Croce, emblema di questo passaggio, segna infatti una svolta nella narrativa della Serao23 che, come dice nella lettera a Bourget che funge da prefazione, dà le spalle al mondo brulicante e variopinto della mondanità, per inseguire vite-ombre che sfuggono sia alle maglie del naturalismo che a quelle dello spiritualismo. Conta, e molto, che la protagonista sia vecchia, oltre che semplice: […] aveva vissuto trentacinque anni sotto una regola ferrea che la opprimeva e la esaltava, insieme: si era invecchiata, colà. Aveva quasi sessant’anni. Non aveva specchio per vedere il suo viso, ma sapeva che i solchi del tempo vi erano impressi profondamente: erano corti, sotto le bende, i suoi capelli, ma ella sapeva che erano tutti bianchi. Adesso, certe fatiche, certe penitenze, certe astinenze la trovavano debole e scoraggiata. Adesso, nella preghiera, non trovava che dolcezza molle e quieta, mai più entusiasmo. Si sentiva ed era vecchia. Neppure sapeva più i suoi anni24.
Tutti i volti disvelati delle suore, sepolte vive, sembrano affiorare da un sepolcro e rendere visibili i segni del tempo e della sua consunzione. La degenerazione sembra scritta sulla superficie della loro pelle improvvisamente esposta, sul pallore quasi metafisico del loro dolore: Ad uno ad uno, i quattordici veli furono sollevati, gittati indietro. Quattordici volti comparvero. Eran volti di vecchie; di vecchie monache, in tutte le apparenze della vecchiaia, giunta nella solitudine, nell’astinenza e nella preghiera. Alcune scarne, con la pelle che le ossa parevan bucare; alcune grassocce e flosce; alcune emaciate; altre tutte rugose e pur tonde, come un frutto conservato lunghi anni; altre coi segni della decrepitezza, i nasi adunchi prolungati sulla bocca, le gen
22 Così Kern spiega i mutamenti radicali dell’immaginario in questo preciso arco temporale: «Nel periodo che va dal 1880 allo scoppio della prima guerra mondiale una serie di radicali cambiamenti nella tecnologia e nella cultura creò nuovi, caratteristici modi di pensare e di esperire lo spazio e il tempo. innovazioni tecnologiche che comprendono il telefono, la radiotelegrafia, i raggi X, il cinema, la bicicletta, l’automobile, l’aeroplano posero il fondamento materiale per questo nuovo orientamento […]» (Stephen Kern, Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento, Bologna, il Mulino, 19952, p. 7). 23 Cfr. Wanda De Nunzio Schilardi, «Suor Giovanna della Croce», in Angelo r. Pupino (a cura di), Matilde Serao. Le opere e i giorni, Napoli, Liguori, 2006, pp. 331-345. 24 M. Serao, L’anima semplice. Suor Giovanna della Croce, cit., p. 23-24.
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give senza denti, i menti rialzati. Tacevano: qualche fremito correva sulla loro pelle, non avvezza all’aria libera: le palpebre, ferite dalla luce, battevano. Ma su tutti i volti si distendeva un pallor grande di dolore, una espressione di rassegnazione incomparabile25.
Le stimmate della degenerazione, sulla scorta del parallelismo di Haeckel tra l’ontogenesi e la filogenesi, diventano infatti più visibili nel primo piano del volto invecchiato: Negli uomini, le stimmate della miseria, della malattia, del vizio, erano più spiccate, massime nei vecchi, nelle loro rughe, nel colore della loro pelle, nella lacrimosità degli occhi, nei nasi adunchi, nei menti rincagnati, in quelle bocche violette, in quelle bocche livide, dalle labbra rientrate, sulle gengive senza denti; lunghe storie apparivano, di decadenze fisiche e morali, di degenerazioni dei sensi e della coscienza, di traviamenti, in tutte le sudicerie della persona e delle abitudini26.
Lungo la china del secolo XiX, dove precipitano e si disperdono tutti i percorsi di formazione, è nella fitta trama di rughe che si fa leggibile quel «deperimento dell’essere storico» che Guglielmi legge come filo rosso della modernità e che da Leopardi a Nietzsche mostra il danno del passaggio della storia sulle vite degli uomini27. Selvaggio e osceno, quello del vecchio si rivela il vero volto della degenerazione28. «Mentre le ombre» si dissolvono «dai loro visi incorniciati di tele candide», di nuovo un effetto cinema si riverbera su un faccia a faccia tra suor Giovanna e una sua compagna venuta in visita, che fa giganteggiare sulla pagina, come su uno schermo, dettagli microfisiognomici (Balàzs avrebbe parlato della «scoperta del volto umano» da parte del cinema muto)29 in un bianco e nero di malinconie e segreti: Sedute, una di fronte all’altra, coi piedi sui freddi mattoni, con le mani nascoste nell’ampiezza delle maniche monacali, nell’atto tradizionale delle suore, le due vecchie si guardavano, volta a volta, con occhi teneri e tristi e, volta a volta, ripigliavano un discorso lento e sommesso.
25 Ivi, pp. 33-34. 26 Ivi, p. 140. 27 Lo sfondo su cui vanno dimensionate queste riflessioni è quello tracciato da Guido Guglielmi, La parola del testo. Letteratura come storia, Bologna, il Mulino, 1993. 28 Cfr. D. Pick, Volti della degenerazione. Una sindrome europea 1848-1918, cit. 29 Cfr. Béla Balàzs, Il Film. Evoluzione ed essenza di un’arte nuova, Torino, Einaudi, 1987, p. 61. Si segnalano, in particolare, i capitoli Vii e Viii, intitolati Il primo piano e Il volto dell’uomo (pp. 46-84).
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[…] Si guardavano, sospirando: e nelle rughe che fitte solcavano il floscio e bianco volto di suor Francesca, che era stata una giovane grassoccia e rosea, nelle rughe fini che si diramavano intorno agli occhi, intorno alla bocca della bruna e magra faccia di suor Giovanna, nella espressione di stanchezza rassegnata e pure dolente di suor Francesca, nel senso di malinconia ancora ardente, ancora vivida, di suor Giovanna, ciascuna cercava di leggere la umile storia di rimpianto segreto e inconsolabile […]30.
Ma già nelle pagine iniziali del romanzo, durante lo svelamento della badessa, la prima violenza visibile di un potere invisibile, il pallore del volto aveva reso scoperta, come un’immagine abbagliata, la radice profonda dell’esistenza umana, il dolore: Con un passo da esperto ballerino di quadriglia d’onore, il prefetto si avanzò verso la badessa delle Trentatré, suor Teresa di Gesù: mise in una mano il cappello lucidissimo e il bel bastone dal pomo di oro e con l’altra, dopo aver fatto un inchino, con l’altra mano, guantata di un guanto inglese di Lean, toccò il lungo velo della monaca e lo sollevò, con un leggiadro sorriso di galanteria. Suor Teresa di Gesù, mentre un lungo gemito di pudore offeso, di orrore religioso partiva da tutte le monache, non oppose nessuna resistenza. E un antichissimo viso di donna consumato nelle contemplazioni e nelle preghiere comparve: un viso dove alla nobiltà delle linee venuta dalla razza, si era unita la nobiltà di una vita spesa a servire il Signore, in ogni atto pietoso: un viso di donna già prossima alla morte, con qualche cosa di già libero e di augusto, in questa liberazione: un viso dove era sparso non solo il pallore della vecchiaia, della esistenza passata nell’ombra, ma il pallore di un dolore sconfinato, subìto nella più profonda rassegnazione31.
il percorso di suor Giovanna lungo le strade e i vicoli di Napoli è una caduta verso un luogo di raccolta dell’umanità degenerata e della sua comune natura dolente. La Serao traccia, di pagina in pagina, una vera e propria fenomenologia del dolore, descritto in tutte le sue forme e nelle sue pieghe più recondite: un dolore inteso come radice antropologica e motore dell’universo, come quello che nel 1898, con la pubblicazione dello Zibaldone, aveva cominciato ad alimentare le indagini della «scuola antropologica», proiettandosi verso una cognizione già novecentesca del dolore. A Bourget scriveva:
30 M. Serao, L’anima semplice. Suor Giovanna della Croce, cit., pp. 57-57 31 Ivi, pp. 32-33.
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[…] io voglio che voi troviate, sulla fronte rugata di suor Giovanna della Croce, lo stesso marchio fatale che è sulle bianche fronti delle creature, cui deste un nome e una vita mortale. Quanta distanza materiale, intellettuale, morale, non è vero? Che profonda diversità di condizione, di ambiente, di destino, non è vero? una pietruzza che rotola nel fango della via e una stella che muore, in una notte di estate, che mai possono avere di somigliante? Ebbene, esse hanno di somigliante una sola cosa, viva e schietta, ed è il dolore: hanno di somigliante questa crisi dell’anima, questa crisi così rude, che lacera tutti i veli dell’artificio sociale, che strappa tutte le leggiere parvenze della vita mondana, che dirada tutte le ipocrisie e che mostra nudo, ferito, sanguinante, il cuore umano della principessa e della sconosciuta operaia. […] Che grande cosa è il dolore, mio amico e mio Maestro, come è solenne ed ampio, come è uniforme e maestoso, come è semplice e pure svariato, come è alto, sempre, e come afferra tutti i cuori, tutte le anime, in un sol soffio tragico e tragicamente le solleva alla medesima altezza! Che grande cosa è il dolore, poichè esso solo è comune a tutti gli esseri umani, poiché esso solo li unisce, li affratella, li salda, in una simpatia universale! Che grande cosa è il dolore, poiché esso solo permette che qualunque distanza sparisca, che ogni diversità morale si cancelli, che ogni ostacolo sociale si abbatta e che due donne piangenti, una nel freddo e nel buio di una strada deserta, l’altra in una stanza ricchissima e deserta, sieno sorelle, assolutamente sorelle, innanzi alla Giustizia e alla Misericordia del Signore!32
È il dolore ad accomunare la sorte di suor Giovanna a quella di tutte le anime di un mondo dal quale tenta di non farsi assorbire, portando con sé, nella discesa delle strade e dei vicoli, nella sua caduta inesorabile verso la miseria, un’ostinata, quasi ottusa volontà di clausura: – Ah zi monaca, suor Giovanna della Croce, la religione è una bella cosa, è una grande cosa, ma il Signore ci ha troppo castigati! – Dio sa quello che fa, – mormorò la monaca. – Ah voi parlate così, perchè siete monaca; perchè non avete mai nè voluto bene a nessuno, nè desiderato niente; perchè non vi siete maritata e perchè non avete avuto figli; perchè non avete sofferto nella carne e nel cuore, zi monaca, perciò parlate! – Forse, – soggiunse suor Giovanna della Croce, umilmente, – forse! Ma Dio sa! – Dite questo, perchè il Signore vi ha risparmiata, in mezzo a tante disgrazie, – esclamò duramente la salernitana.
32 Ivi, pp. 5-6.
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– No, non mi ha risparmiata, – la monaca rispose, levando la testa, mostrando un viso scialbo e triste sino alla morte. […] – Sono all’elemosina, – soggiunse la monaca, aprendo le braccia, desolatamente. un più profondo silenzio. Si guardarono e stette, fra loro, un dolore forte come la morte33.
Nel palazzo di Vico rosario a Portamedina, l’ultimo tetto che coprirà la sua identità prima del suo annullamento nella folla indistinta dei miserevoli, la catabasi verso un mondo infero proseguirà incessante, malgrado il movimento dal basso verso i piani alti in cerca di lavoro come serva, finché un rovesciamento del sotto e del sopra (il suicidio di un uomo dell’ultimo piano) creerà un vortice, dove tutti gli eventi precipiteranno. Lo sventramento della città, che aveva spalancato vuoti e mostrato oscenamente le miserie, corrisponderà al vagare finale della protagonista curvata sotto il peso della vergogna, ombra rintanata tra le ombre, senza più un’identità. Sarà una «donna», semplicemente, indistinguibile nella folla straripante dei poveri: Prima di entrare nella Via Porto, la donna si fermò un poco, guardandosi innanzi, quasi esitasse a procedere. Erano le nove di sera e già la popolarissima strada appariva insolitamente deserta; i radi fanali a gas non poteano che dileguare fiocamente le tenebre; e nella grande ombra notturna si disegnavano bizzarri profili di ammassi pietrosi, biancheggiavano dei monticelli, si rizzavano dei pali di legno. L’opera di demolizione della vecchissima via, era cominciata da un pezzo, ma procedeva con lentezza; l’inverno piovoso ne impediva i costanti lavori e mentre tutti gli abitanti di Via Porto si venian ritirando nelle vie adiacenti, nei vicoli, nei vicoletti, nei fondachi non ancora tocchi, la grande arteria, abbandonata quasi completamente, era un ingombro di pietre, di calce, di rottami, di travi, disselciata, coi suoi fanali strappati e lasciati a giacere, lungo distesi sugli ammassi di terra, coi suoi vecchi marciapiedi diventati dei pantani di melma, d’immondizie, sotto la pioggia. La donna che doveva percorrerla, curva, guardava per terra, innanzi a sè, temendo qualche mal passo, che la facesse urtare contro qualche cumulo di pietre e cadere in qualche fosso pieno di mota: poi, con un piccolo sospiro, sollevando la gonna, si avviò con cautela. Camminava pianissimo e molto curva; ciò non le evitò di sdrucciolare malamente, due o tre volte; ogni volta si fermava, come indecisa di continuare, piccola figura perduta, in quel deserto, in quelle ombre, in quel tragitto
33 Ivi, p. 117.
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così periglioso. Pure lo compì. Scantonò per la terza via a mano diritta e il passo della donna parve si facesse meno incerto, meno pauroso: il corpo, però, non si raddrizzò34.
Suor Giovanna è di una modernità poco rumorosa, una delle tante anime semplici che, con un movimento controcorrente, sfuggivano dalle maglie del naturalismo e dello spiritualismo. La sua semplicità è al di là delle leggi positivistiche, delle spinte del misticismo, delle nuove scissioni dell’io, persino del grande tema del doppio: suor Giovanna è incapace di pensare a sé stessa come Luisa Bevilacqua, «obbliata ogni cosa della sua vita anteriore alla monacazione», ma anche, una volta dissoltasi nella sua catabasi, incapace di dire il suo nome da suora: «E non ho mai portato altro nome»35. C’è un fondo rimosso del romanzo, che resta implicito, in un altrove della coscienza che la Serao non vuole raggiungere con la sua scrittura. La profondità va nascosta in superfice, come avrebbe detto Hofmannsthal nel Libro degli amici. il mentire di Suor Giovanna, per pudore, è sempre senza peso, anche perché la sua stessa voce è «incolore, monotona»: in bianco e nero come i suoi abiti36. una scelta stilistica precisa – una scelta di semplicità – quella della Serao, se è vero che, nella revisione del romanzo per la pubblicazione, lavorò soprattutto a mitigare gli eccessi di letterarietà, a smussare le punte, limando i francesismi e riducendo gli usi regionali, semplificando anche le grafie etimologiche ed eliminando le ridondanze37. Le ripetizioni, invece, furono mantenute e difese fino all’ultimo, per controbilanciare le riserve espresse da Hérelle: in una lettera a Brunetière, del 25 gennaio 1901, poco prima dell’edizione francese, la Serao confermò le sue scelte stilistiche, dichiarando «volute» le ripetizioni e dando rilievo alla precisione dell’«idea» che orientava la scelta di «ogni frase, ogni parola»38. Lo sperimentalismo di questo romanzo parte dalla rinuncia «alla bellezza delle linee e dei colori» (come è dichiarato nella dedica a Bourget)39. Pochi anni prima, nella nota serie d’interviste ai letterati
34 Ivi, p. 119. 35 Ivi, p. 135. 36 Ivi, p. 113. 37 Cfr. M. Cristini Storini, Le anime semplici di Matilde Serao, introduzione a M. Serao, L’anima semplice. Suor Giovanna della Croce, cit., p. Viii. 38 r. Giglio, Storia di un’amicizia, cit., p. 176. 39 M. Serao, L’anima semplice. Suor Giovanna della Croce, cit., p. 6.
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silvia acocella800 pubblicata da Ojetti, nel 1895, per i tipi di Dumolard, la Serao aveva sostenuto la sua pratica di «un linguaggio incerto» e di «uno stile rotto»40, per il «calore» duraturo che la «scorrettezza» della sua scrittura dava ai i corpi. Nel ventre delle «magnifiche sorti e progressive»41 d’Europa domina una sensazione di «spegnimento»42, che sembra trovare il suo correlativo oggettivo nelle vesti monacali nere e bianche di suor Giovanna della Croce, un «vel del cor»43 contrapposto ai colori di un mondo divenuto irriconoscibile. il nero che ne Il ventre di Napoli aveva caratterizzato il permanere dei vicoli, dei ristagni dei rivoli immondi e incancellati dal risanamento, qui si fa velo di pudore, schermo di un isolamento dell’anima44. L’urto con il mondo, l’attrito con l’immondo logorano, però, questo velo proprio quando la vecchiaia, avanzando, richiederebbe maggiore protezione. il deperimento della protagonista diventa visibile in superficie, attraverso il tessuto dell’abito che, coprendo male il corpo, ne riflette all’esterno il disfacimento. Come mutata, come mutata! La sua persona alta si era curvata, nelle spalle, in segno di caducità servile; le mani brune e lunghe si erano disseccate e vi apparivano molto turgide le vene violacee, e, talvolta, un lieve tremore le agitava, queste mani. Anche i suoi panni di monaca avevano sentito il tempo che era passato: la sua tonaca nera aveva,
40 ugo Ojetti, Alla scoperta dei letterati, a cura di Pietro Pancrazi, Firenze, Le Monnier, 1946, p. 276. 41 il pessimismo di Leopardi costituisce un terreno di confronto critico più volte attraversato dagli scrittori della fin de siècle, soprattutto a ridosso del suo centenario e delle polemiche del 1898, suscitate dalle indagini cliniche e antropologiche intorno alla sua percezione del mondo. Antonio Di Grado ha ricordato la matrice psicopatologica di queste analisi: «le indagini leopardiane della scuola “clinica” dei Patrizi e dei Sergi […] muovevano, in modo più differenziato di quanto non sembri, dalle congetture di Cesare Lombroso e dai violenti esorcismi di Max Nordau» (Antonio Di Grado, Federico De Roberto e la «scuola antropologica». Positivismo, verismo, leopardismo, Bologna, Pàtron, 1982, p. 13). Si veda anche Piero Meli, Una polemica di fine Ottocento: accusa di plagio per il “Leopardi” di Federico De Roberto (con due lettere inedite di De Roberto a Carducci), «Otto/Novecento», a. 2005, n. 3, pp. 93-100, e l’intensa analisi di Beatrice Stasi, Apologie della letteratura. Leopardi tra De Roberto e Pirandello, Bologna, il Mulino, 1995. 42 M. Nordau, Degenerazione, cit., vol. i, p. 5 43 il Canto iii del Paradiso è citato in epigrafe al romanzo 44 Va ricordato che la trama di Suor Giovanna della Croce si situa a metà tra la prima (1884) e la seconda edizione (1906) de Il ventre di Napoli.
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il ventre d’europa. la catabasi di un’anima semplice 801
nelle sue pieghe, i riflessi verdastri della stoffa nera che si scolorisce; per non consumare il suo grande mantello nero, l’emblema più espressivo della sua dignità di Sepolta Viva, non lo indossava che per uscire, e intanto, mentre il manto era sospeso a un appiccapanni, contro il muro, le pareva sempre di aver freddo, di non esser completamente vestita: le sue candide bende, il suo candido goletto, non avendone ella che tre da cambiarne, troppo spesso lavati e in casa, con acqua e sapone, non avevano più il biancore immacolato, non reggevano l’insaldatura, erano giallastri, flosci, non assestavano. il cappuccio nero, rigettato sulle spalle, pendeva, anche tutto sciupato, arrotolandosi agli orli, sfrangiandosi. invano, le industri mani di suor Giovanna avevano cercato di riparare a questa crescente decadenza dei suoi panni: li portava da troppi anni e non li aveva potuti rinnovare e li vedeva deperire tristemente intorno a sè, disperdendosi così gli ultimi segni della sua vita monacale. Come mutata, come mutata!45
Se i colori del mondo alterano e consumano gli abiti monacali, la lingua in bianco e nero, la sua medietà, diviene il nuovo tessuto con il quale la Serao copre il corpo curvo e invecchiato della suora: un estremo velo di pudore per coprire il rosso della vergogna: Era una donna dall’apparenza vecchissima; la sua pelle del volto, fra giallastra e brunastra, aveva i solchi che vi possono mettere, forse, settantacinque e più anni di vita, ma di vita tormentata, torturata, fra tutti gli stenti. Cento storie di tristezza si leggevano in quel volto di decrepita, attraversato da tutte le tracce che lo sconvolsero. L’antichissima mendica era molto curva, con le spalle ad arco e col mento aguzzo, che quasi le batteva il petto: non doveva avere quasi nessun dente, poichè le labbra erano rientrate completamente sulle gengive e la bocca era rincagnata, il naso scarno dei decrepiti piegandovisi sopra. Portava, indosso, questa vecchissima mendica, uno straccio incolore di veste nera, dalle maniche troppo corte, che lasciavano vedere due mani cadaveriche: al collo aveva un cencio di scialletto di lana bianca, ma non annodato, sibbene bizzarramente tenuto fermo con uno spillo sotto il mento quasi con un singolare criterio di castità, ridicola a quell’età e in quella condizione: sulla testa che doveva esser canuta e forse rasa di capelli recenti era curiosamente annodato un fazzoletto di cotone nero, messo in tale foggia che pareva ella si fosse voluta bendare, poichè il fazzoletto le nascondeva anche le orecchie, annodandosi sotto il mento. Era collocata, questa vecchissima donna, quasi in fine della mensa dei poveri, verso l’alto della sala Tarsia, verso l’emiciclo: e colà, lontano, il movimento era molto meno vivo, la gente vi accorreva con minor premura. Essa stessa, la mendica, si era messa in un posto dimesso e
45 M. Serao, L’anima semplice. Suor Giovanna della Croce, cit., pp. 84-85.
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non moveva le braccia per paura di urtare i suoi vicini, e non si voltava nè a dritta nè a sinistra, come raccolta nell’aspettativa46.
Nella costante desaturazione cromatica del romanzo, nel bianco e nero di un tessuto linguistico che, di pagina in pagina, ricopre la protagonista, solo il colore rosso resta a tratti visibile, come un’infrazione, una ferita del pudore che si riapre nell’urto con il mondo. Prima di toccare il fondo dove il corpo curvo di vecchia e l’anima semplice di suor Giovanna si chiuderanno in un raccoglimento di lacrime sulla lapide del proprio nome, un «ultimo bagliore di rosso», quasi un’eruzione lavica della vita offesa, affiorerà sul suo «viso consunto»47. E resterà sulla pagina, come l’ultimo, irredimibile squarcio «della tela che aveva formato la sua vita»48.
Silvia Acocella università Federico ii – Napoli
46 Ivi, p. 152. 47 Ivi, p. 154. 48 Ivi, p. 51.
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MAriELLA MuSCAriELLO Declinazioni del bovarismo da Verga a Serao
La pubblicazione nel 1881 della traduzione di Madame Bovary produsse un “effetto Flaubert” su alcuni letterati italiani. in questo ambito si è scelto di analizzare il romanzo Il marito di Elena di Giovanni Verga (1882) e la novella La virtù di Checchina di Matilde Serao (1883), che si distinguono per essere l’uno molto prossimo all’archetipo francese, l’altra il suo massimo rovesciamento parodico, sicché, mentre Elena Dorello è a tutti gli effetti una “Bovary in sedicesimo”, Checchina Primicerio, attraverso i suoi atti mancati e la sua inettitudine, assume i tratti di un personaggio “novecentesco”, di indubbia modernità.
★ The 1881 publication of the italian translation of Madame Bovary generated a “Flaubert effect” amongst some italian writers. Here the analysis will revolve around the novel Il marito di Elena by Giovanni Verga (1882) and the short story La virtù di Checchina by Matilde Serao (1883). The first of these two works is extremely close to the French archetype; the second turns it on its head and furnishes a parody. Thus, whilst Elena Dorello is basically a “miniature Bovary”, Checchina Primicerio, through her failings and ineptitude, takes on the features of a “Twentieth-century” character, proving to be thoroughly modern.
Quando, nel 1881 i fratelli Treves pubblicarono la traduzione di Madame Bovary, alcuni letterati italiani si cimentarono nella riscrittura del romanzo di Flaubert che tempestivamente assunse il ruolo di un archetipo imprescindibile per raccontare lo scollamento che, in area ottocentesca, era in atto tra matrimonio e amour-passion e il tema dell’adulterio che ne era la logica conseguenza1. Tra gli scrittori soggiogati dall’«effetto Flaubert» ci sono sembrati di particolare interesse Verga e Matilde Serao per aver scelto l’uno, con Il marito di Elena del 1882, la
Mariella Muscariello, università di Napoli Federico ii; prof. associato di Letteratura italiana contemporanea; marmusca@unina.it 1 Si vedano, in proposito, Vittorio Lugli, Bovary italiane, Caltanissetta-roma, Sciascia, 1959, pp. 19-25; Fabio Danelon, Né domani, né mai. Rappresentazioni del matrimonio nella letteratura italiana, Venezia, Marsilio, 2004.
mariella muscariello804 massima prossimità al modello, l’altra, con La virtù di Checchina del 1883, il massimo rovesciamento parodico, a tratti comico, della storia e del destino dell’eroina normanna. Entrambi gli autori ci hanno lasciato testimonianza della loro ammirazione per lo scrittore di rouen. Se nel 1874, restituendo all’amico Capuana la copia in francese di Madame Bovary, Verga ne criticava l’eccessivo «realismo dei sensi» ma nel contempo vi riconosceva la presenza di «una mano maestra da cui c’è molto da imparare»2, nel maggio 1881 scriveva a Felice Cameroni: «Flaubert nel Bouvard e Pécuchet con l’assenza completa di intrigo, di dramma, di aspetti, quasi anche di descrizione secco e tranquillo, mi afferra pei capelli»3; e Matilde Serao, in un lungo articolo dell’84 sull’epistolario di Flaubert, affermava: «Tutte queste parole di realismo, naturalismo, di sperimentale, sono questioni di metodo, di meccanico: in realtà Flaubert ha fatto il più grande passo verso quello che è il desiderio e lo scopo dell’arte: la bella verità, umile e forte»4. Ma il 1881 era l’anno della pubblicazione dei Malavoglia e del suo clamoroso fiasco: c’erano tutti gli estremi, l’insuccesso del primo romanzo del Ciclo dei Vinti contro il trionfo di Madame Bovary, l’entusiasmo per Bouvard et Pécuchet che annullava ogni precedente riserva sullo stile di Flaubert, perché all’atto di cimentarsi in un nuovo soggetto, salendo con Il marito di Elena qualche gradino più su nella scala sociale, la silhouette di quell’eroina normanna, malata di desiderio ed impastoiata nella rete della bêtise bourgeoise, gli si imponesse colla forza della sua esemplarità per riprodursi, in tono minore e su scala ridotta, nelle smanie e nelle avidità di Elena Dorello. il testo dell’82 racconta il fallimentare matrimonio tra Elena, una piccola borghese determinata a parvenir, e Cesare, un giovane avvocato di origini contadine e di poche speranze che, ripetutamente tradito, ucciderà la moglie decisa ad abbandonarlo. Estesa è, in questa storia, la mappa dei prestiti dal romanzo francese: va dal soggetto – un soggetto, per dirla con Barthes, indiziale, più di sensazioni e di atmosfere che di fatti5 – alle modalità di costruzione
2 Lettera del 4 gennaio 1874, in Giovanni Verga, Lettere a Luigi Capuana, a cura di Gino raya, Firenze, Le Monnier, 1975, pp. 48-50. 3 G. Verga, Lettere sparse, a cura di Giovanna Finocchiaro Chimirri, roma, Bulzoni, 1979, p. 113. 4 Matilde Serao, Gustavo Flaubert (A proposito del suo epistolario), «Capitan Fracassa», V, 72, 13 marzo 1884. 5 il riferimento è all’ormai canonico roland Barthes, Introduzione all’analisi
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declinazioni del bovarismo da verga a serao 805 dell’intreccio, dai luoghi in cui si svolge la storia – la città e la campagna – ai tratti psico-somatici degli attanti, dai comprimari – le mediocrità di Cesare ricordano infatti gli squallori di Charles – ad alcune comparse. Ma sono soprattutto il personaggio di Elena ed il suo rapporto con gli scenari nei quali si aggira a mostrare i segni più appariscenti di intertestualità. È nel «potere concesso all’uomo di credersi diverso da quello che è», nella non coincidenza tra «l’impulso venuto dall’ambiente circostante» e «l’impulso ereditario», nel rifiuto di «tutto ciò che è uscito dal virtuale, tutto ciò che è divenuto», che Gaultier ha individuato alcune norme fondanti del «bovarismo»6. Elena, come Emma, sembra ubbidire a queste tre regole. il rapporto con l’ambiente che il destino ha loro assegnato – quello familiare prima e quello coniugale dopo – è in entrambi i casi distonico; la comune attrazione per il lusso nasce dalla percezione di essere di più e più su di ciò che le circonda; se la figlia del fattore rouault esibisce «una disinvoltura da duchessa»7, Elena, «la figlia di un povero cancelliere di tribunale», è stata «educata come una principessa»8; la musica, la pittura e soprattutto la lettura ne hanno trasformato i comportamenti, provvedendole di un’altra, intima, identità. Valga, per entrambe, come segno vistoso del rifiuto della realtà, dello stato delle cose, l’«inconsapevole volontà di essere uomo»9 che grava sui loro gesti, sulle loro emozioni. Emma ha l’impudenza di andare a passeggio con rodolphe «tenendo una sigaretta in bocca», ed Elena «ha il capriccio di guidare i cavalli accanto a Don Peppino, tenendo una sigaretta fra le labbra»10; il coraggio mostrato da Emma nell’assistere il marito durante il salasso del contadino di rodolphe, che stupisce il
strutturale dei racconti, in L’analisi del racconto, trad. di Luigi Del Grosso Destrieri e Paolo Fabbri, Milano, Bompiani, 1969, pp. 17-22. 6 Si veda Jules De Gaultier, Il bovarismo, trad. di Elisa Frisia Michel, Milano, SE, 1992, in particolare le pp. 17-32. 7 «Provò un piacere puerile a spinger con le dita le larghe portiere imbottite, aspirò a pieni polmoni il sentore di polvere nei corridoi, e, quando fu seduta nel suo palchetto, irrigidì il busto con una disinvoltura da duchessa», Gustave Flaubert, Madame Bovary [d’ora in poi citata MB], trad. di Oreste Del Buono, Milano, Garzanti, 1985, p. 180. 8 G. Verga, Il marito di Elena [d’ora in poi citato ME], in id., Tutti i romanzi, a cura di Enrico Ghidetti, Firenze, Sansoni, 1983, iii, p. 6. 9 Mario Vargas Llosa, L’orgia perpetua. Flaubert e Madame Bovary, trad. di Angelo Morino, Milano, rizzoli, 1986, p. 153. 10 MB, p. 156; ME, p. 50.
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mariella muscariello806 signor Boulanger de la Huchette avvezzo alle debolezze muliebri, si ripete nella temerarietà di Elena che – avverte il narratore – «non era di quelle che hanno paura»11; il carattere dominante di entrambe ribalta i rapporti con l’altro sesso e Léon, Charles e Cesare funzionano da elementi passivi su cui il temperamento virile della signora Bovary e della signora Dorello hanno il sopravvento; infine, uguale è il loro modo di vivere la maternità, e se, di fronte al dispetto di non aver partorito un maschio, Emma, scrive Flaubert, «girò la testa dall’altra parte, svenne», Elena, non diversamente, «voltò il capo dall’altra parte, con quell’espressione di disgusto, di dispetto infantile che hanno certi ammalati, senza aprire gli occhi»12. Entrambe in attesa di un avvenimento che le risarcisca dei tormenti della noia e delle umiliazioni della mediocrità, aborrono il presente, tutto ciò che è divenuto, per dirla ancora con Gaultier, mentre il passato ed il futuro, tempi delle promesse e dell’attesa, di ciò che poteva essere e di ciò che potrà essere, le affascina colla forza della virtualità in essi implicita. È questo, semplificato, l’identikit di una Bovary. Ora, che il nesso tra una Bovary ed i suoi scenari sia un tratto fondante di un racconto non di fatti ma di desideri, è scritto in questo libero indiretto: Nel suo struggente desiderio confondeva le sensualità del lusso con gli slanci del cuore, le abitudini eleganti con le delicatezze del sentimento. Non occorrevan forse all’amore, come alle piante indiane, terreni appositamente preparati, una temperatura particolarmente graduata? i sospiri al chiar di luna, i lunghi abbracci, le lacrime fiottanti sulle mani abbandonate, tutte le febbri della carne, tutti i languori dell’affetto non potevano certo andar separati dai balconi dei grandi castelli ove è sempre festa, da qualche salottino con tende di seta e soffici tappeti, giardiniere trionfanti di fiori, letti troneggianti su piedistalli, né dallo scintillio delle pietre preziose e dei galloni dorati delle livree13.
Dunque, non già semplici décors, gli apparati del lusso sostanziano l’immaginazione, danno corpo ai sogni e materia ai deliri di un personaggio che, per statuto, ha bisogno di «circondarsi di begli oggetti, di rabbellire il mondo fisico, di crearsi intorno un fondale sontuoso quanto i suoi sentimenti»14. Per Madame Bovary, e di riflesso per Elena Dorello, il privato «esi
11 ME, p. 124. 12 MB, p. 74; ME, p. 96. 13 MB, p. 48. 14 Ivi, p. 149.
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declinazioni del bovarismo da verga a serao 807 ge dall’intérieur di essere cullato nelle proprie illusioni e perché ciò avvenga l’intérieur diventa anche il luogo di ogni fantasmagoria»15. Anche gli abbigliamenti, come gli arredamenti, funzionano da veicoli di induzione amorosa. Eleganti, troppo, per la società zotica di campagna, tanto Emma quanto Elena sono particolarmente ricettive alle promesse implicite in un abito bello. Lo sguardo infastidito di Elena sul ritratto di Don Peppino, «insaccato in un vestito che voleva esser di città, con certi solini e certa cravatta che Elena aveva visti solamente ad Altavilla»16, prolunga lo sguardo di Emma sulle goffaggini e le ineleganze di Charles17; i «vestiti di un sarto in voga, le maniere distinte, il frasario convenzionale dei saloni» – segni inequivocabili della trasformazione di don Peppino da villico a viveur – lusingano Elena18, come «il miscuglio di trasandataggine e di ricercatezza» che rodolphe esibisce ai comizi agricoli irretisce Emma, perché le consente di supporre, coerenti all’apparenza, «la rivelazione di un’esistenza eccentrica, le sfrenatezze del sentimento, le tirannie dell’arte […] insomma quanto può sedurre o esasperare»19. Battezzare un eroe è, in molti casi, prefigurarne il destino20. Dal sontuoso nome di Elena, archetipo classico dell’eterno femminino, si passa, con il racconto lungo della Serao, al diminutivo di un vezzeggiativo – Checchina –; una scelta onomastica funzionale alla messa in scena di un personaggio di modeste proporzioni, che ha, dalla grandeur di Emma Bovary, una distanza siderale.
15 Sul significato storico degli interni si veda Walter Benjamin, Luigi Filippo o l’intérieur, in id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, trad. di renato Solmi, Torino, Einaudi, 1976, pp. 147-148. 16 ME, p. 46. 17 «Siccome per tanto tempo aveva portato il berretto da notte, il fazzoletto ora non gli stava a posto sugli orecchi; così la mattina i capelli gli ricadevano sulla faccia, tutti arruffati, imbiancati dalla lanugine del cuscino, i cui lacci si scioglievano durante la notte. Calzava sempre stivali robusti, con al collo del piede due grosse pieghe in corrispondenza delle caviglie e tutto il resto dritto e liscio, quasi fosse teso su un arto di legno. Sosteneva che non c’era nulla di meglio per la campagna», MB, p. 35. 18 «Egli aveva viaggiato e aveva lasciato qua e là un po’ della sua pinguedine e molto del suo denaro. in cambio aveva riportato dei vestiti di un sarto in voga, le maniere distinte, il frasario convenzionale dei saloni, la disinvoltura e l’impertinenza della sua ricchezza. Elena ne fu piacevolmente impressionata, quasi lusingata, come ciò fosse opera sua, pel lievito che aveva lasciato la sua memoria in quel mezzo contadino», ME, p. 118. 19 MB, p. 113. 20 Si veda Franco Ferrucci, Il battesimo dell’eroe, in Letteratura italiana. Le questioni, a cura di Alberto Asor rosa, Torino, Einaudi, 1986, pp. 887-901.
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mariella muscariello808 La prima a comparire nello squallido interno piccolo-borghese dove vivono Checchina e suo marito, Toto Primicerio, come Charles Bovary medico di nessun prestigio, un omaccione affetto da un appetito bulimico, un ottocentesco Arpagone, è la serva Susanna che è l’immagine rovesciata della giovane Félicité che, in «abito di lana turchina, guarnito di volanti», riceve Charles Bovary nella fattoria dei rouault21: Venne ad aprire Susanna, la serva. Portava un vestito di lanetta bigia, stinto, rimboccato sui fianchi, lasciandosi vedere una sottana frustra di cotonina scura; il grembiule di tela grossa era cosparso di macchie untuose; teneva in mano uno straccio puzzolente22.
È il primo «tocco di miseria» funzionale ad introdurre il lettore nella squallida casa di Checchina fotografata dalla Serao con puntigliosità descrittiva, in linea con l’evidente progetto di costruire un racconto in cui gli esistenti – gli oggetti – prevalgono sugli eventi – i fatti. il salotto, visto attraverso gli occhi dell’amica isolina, una sorta di cocotte di basso rango che, confidando a Checchina i suoi ripetuti adulteri e quanto costi in termini di denaro rendersi desiderabile, la invita a prendersi maggior cura di sé, è un’accozzaglia di oggetti desueti che Orlando avrebbe certamente inserito nella categoria del «logoro realistico»23: il divano duro, il sottolume di guttaperca rossastra, un lume di antico modello, a olio, senza paralume, le sedie di legno nero, dal colore smorto, Checchina stessa col suo «goffo vestito di lana nera», silenziosa, quasi confusa con gli oggetti, come mimetizzata nello squallore dell’habitat, raccontano, più delle parole, la vita della signora Primicerio, una vita, per così dire, vissuta per sottrazione24. Se ne accorgerà di qui a poco quando il marito l’avvertirà di avere invitato a pranzo il marchese di Aragona. il panico supera l’eccitazione: non possiede una salsiera né un’insalatiera; possiede solo sei posate d’argento di cui una forchetta ha due rebbi storti; non ha il coraggio di chiedere denaro al marito né di contrarre debiti perché, come la voce narrante ci ha avvertiti, era «una femmina senza temperamento25. insomma, dei tre tratti caratteriali sopra indicati che fanno una Bovary,
21 MB, p. 12. 22 M. Serao, La virtù di Checchina [d’ora in poi citata VdC], racconto interpretato da Marina Polacco, Lecce, Manni, 2000, p. 13. 23 Si veda Francesco Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, Torino, Einaudi, 1993, pp. 138 segg. 24 VdC, pp. 13-14. 25 Ivi, p. 15.
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declinazioni del bovarismo da verga a serao 809 Checchina non ne ha nessuno. Eppure si lascia sedurre, come Emma e come Elena, dall’eleganza e soprattutto dal profumo del conte di Aragona che offre al suo olfatto una tregua all’odore di acido fenico che emana, senza remissione, dal prosaico marito: il marchese era in soprabito chiuso, cravatta di raso bianco, con spillo di brillanti, a ferro di cavallo: si toglieva lentamente i guanti, donde le mani uscivano bianche e morbide, come quelle di una donna. […] Ella sentì il sottile profumo che egli portava, forse nei capelli, forse nel fazzoletto. un profumo molle e dolce: le pareva di averlo sulle labbra, come un sapore di zuccherino. Questo bel marchese […] disteso nella poltroncina con una gamba accavallata sull’altra, mostrava il piede aristocratico, calzato dalla calza di seta rossa e dalla scarpa di copale. […] [Checchina] di nuovo sentiva quel molle profumo di violetta, che le dava un intenerimento ai nervi26.
il marchese, esperto tombeur des femmes, comprende di aver eroso la corazza di fedeltà dell’umile Checchina, ma prima di invitarla ad un convegno d’amore nel suo «quartierino da scapolo» che è un’alcova perfetta, uno spazio avvolto nel calore della fiamma di un caminetto, riparato da tende spesse che creano una molle penombra27, ha bisogno di cambiarle il nome per fornirla di un’identità adatta al proprio censo e soprattutto perché sia pertinente al microracconto mondano di un adulterio che si sta prefigurando: «Vieni mercoledì, dalle quattro alle sei, vieni Fanny»28. Sceglie, dunque, un nome fortemente allusivo, quello della Fanny di Feydeau, anche lei, come Emma Bovary, francese e adultera29. Da qui in poi Checchina vive notti tormentate nelle quali l’audacia sottentra alla sua proverbiale pavidità sicché tutto le sembra possibile, ma già alle prime luci dell’alba ritorna la Checchina di sempre, rassegnata, succube del rozzo marito e della serva beghina. Ciononostante si risolve ad andare all’appuntamento, sebbene sia avvilita dal non avere né un abito, né un cappello, né dei guanti adatti all’occasione. Ma una serie di contrattempi le impediscono di uscire: piove e non ha un ombrello, arriva la lavandaia che lungamente litiga con Susanna, non possiede un orologio. Si fa buio, le sei sono passate e Checchina è co
26 Ivi, pp. 21-24. 27 Ivi, p. 25. 28 Ibidem. 29 Fanny è il nome della protagonista del romanzo eponimo di Feydeau, anch’essa adultera. Anche Verga nella già citata lettera a Capuana del 14 gennaio 1874, parlando di Madame Bovary la chiamava indebitamente Fanny.
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mariella muscariello810 stretta a rinunciare. Ma non rinuncia il marchese di Aragona che le invia una lettera. Anche rodolphe, per comunicare con Emma, le inviava lettere nascoste in un cestino di frutta o di selvaggina30; a Checchina viene invece recapitata da Susanna, sporca di sugo perché conservata nella busta della spesa. Finalmente Checchina apre la porta di casa e tra mille timori arriva al palazzo del marchese, ma qualcosa, o meglio qualcuno, la blocca: Sulla soglia, sbarrando la metà dell’entrata, appoggiato al muro, vi era il portinaio, un uomo alto e grosso, dalla faccia volgare e irsuta di peli bigi […] aveva un viso o brutto e brutale, una di quelle facce irriverenti che disanimano i timidi. […] la squadrava, sfacciatamente31.
Per entrare deve rivolgersi a lui, ma le manca il coraggio: «Allora Checchina abbassò il capo e se ne andò a casa rinunziando»32. un episodio, questo del portiere, che riecheggia una scena analoga del Marito di Elena. Elena si reca nella soffitta dello squattrinato poeta Fiandura per un incontro d’amore: il ciabattino lercio che faceva da portinaio si fece ripetere due volte il nome del suo inquilino, guardandola sfacciatamente, canticchiandole dietro una canzonaccia oscena, che accompagnava picchiando del martello sulla suola, mentre ella saliva rapidamente la scala sudicia e nera, premendosi la mantiglia sul seno ansante, sino a un quinto piano smantellato.33
Elena, come si è detto, non ha paura di nulla, i suoi comportamenti aderiscono come un guanto all’identikit di una impavida Bovary che non teme, ma cerca la trasgressione; Checchina, al contrario, è una Bovary per caso – sono infatti gli allegri racconti di isolina e l’inaspettato pranzo con il marchesa d’Aragona ad indurla a vestire i panni dell’eroina flaubertiana, ma sono panni che le vanno stretti, nei quali non è a suo agio come a suo agio è nella squallida vestina nera dell’irreprensibile signora Primicerio. Ma è virtù la sua? No, è, per dirla con Marina Polacco, la scelta obbligata di «un personaggio inetto e senza qualità, novecentescamente incapace di volere e di agire». il suo rispetto del patto coniugale non è altro che «un atto mancato»34.
30 MB, p. 166. 31 VdC, pp. 63-64. 32 Ivi, p. 64. 33 ME, p. 107. 34 M. Polacco, Le ambigue virtù di Checchina, ovvero: storia di un’inetta, in VdC, pp. 96-98.
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declinazioni del bovarismo da verga a serao 811 Ma c’è qualcos’altro che lega il romanzo verghiano e il racconto della Serao. Entrambi furono molto critici verso la propria opera. All’amico Capuana, infatti, Verga scriveva: «Sto scrivendo di quel cornuto del Marito di Elena, ma non ti pare che certi argomenti abbiano la jettatura?»35, e al suo traduttore, Edouard rod: «Le manderò fra un mese Il marito di Elena, di cui però non sono molto contento»36. Questo scontento nasceva dalla coscienza di aver derogato, nella rappresentazione di «un mondo intermedio tra il Gesualdo e la gente di lusso»37, agli statuti dell’impersonalità, facendosi a tratti narratore onnisciente e palese, di essere caduto, di fronte alle frenesie di una Bovary, nella trappola dell’ormai per lui desueto linguaggio di parole e non di cose, una trappola che – ne era consapevole – si sarebbe ripresentata all’atto di avventurarsi negli scenari aristocratici della Duchessa di Leyra 38. Al contrario, come ha scritto Luperini, nella Virtù di Checchina la Serao riproduce con esattezza quel doppio movimento della scrittura che Auerbach aveva individuato come tratto fondante dello stile di Flaubert: adottare la prospettiva della protagonista sicché il lettore viene indotto a vedere il quadro attraverso di lei, ma riservando al narratore la facoltà di parlare39. in questo modo la scrittrice napoletana, pur lasciando intuire a chi legge la sua simpatia per un personaggio braccato nello squallore della sua prigione domestica, fa in modo che non si attivi nessun processo di immedesimazione. Eppure, a ridosso della pubblicazione in volume dell’84, donna Matilde si affrettava a scrivere a Sidney Sonnino, alla cui rivista aveva a lungo collaborato e con il quale aveva rapporti di amicizia e di stima, una lettera che è un capolavoro di ambiguità. Si scusa per aver scritto una «novella ignobile», nella quale «quattro figure volgari vi si agitano volgarmente, senza un sentimento, senza un’idea, esseri istintivi, plebei, che non possono essere né simpatiche e neppure interessanti», ma nel contempo afferma che Checchina è anche «verità», di non aver esagerato un colore, che dal punto di vista sperimentale quella novella è perfet
35 Lettera a Capuana del 30 luglio 1881, in G. Verga, Lettere a Capuana, cit., p.
84.
36 Lettera del 10 dicembre 1881, in G. Verga, Lettere al suo traduttore, a cura di Fredi Chiappelli, Firenze, Le Monnier, 1954, pp. 50-51. 37 Giacomo Debenedetti, Verga e il naturalismo, Milano, Garzanti, 1976, p. 32. 38 Si veda Giancarlo Mazzacurati, Un ciclo interrotto: Verga dal Mastro-don Gesualdo alla Duchessa di Leyra, in id., Stagioni dell’apocalisse. Verga Pirandello Svevo, a cura di Matteo Palumbo, Torino, Einaudi, 1998, pp. 69-87. 39 romano Luperini, L’adulterio nel romanzo, in https://www.laletteraturaenoi.it, 6 febbraio 2014.
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mariella muscariello812 ta, «mi pare meravigliosa», scrive – «e dall’altra parte mi fa orrore, mi sembra, ed è ignobile»40. Ma perché questo non richiesto autodafé? È rossana Melis a spiegarcelo. All’altezza di questi anni il naturalismo francese cominciava a mostrare le sue crepe e il credo zoliano doveva misurarsi con l’avanzare dei Cavalieri dello spirito che contrapponevano l’idealismo al realismo, il racconto dell’anima alla rappresentazione del vero. Questa nuova idea di letteratura andava già facendo proseliti in italia e tra questi c’era proprio Sidney Sonnino al cui giudizio Matilde teneva moltissimo: Scrivendo, noi pensiamo a un’altra persona di cui sappiamo contraddire le tendenze e pensiamo al disgusto che avrà, leggendo la nostra prosa, e alla vergogna letteraria che ci manderà le fiamme al viso quando essa, a ragione, la troverà cattiva. E voi siete il tipo dell’uomo, per cui io non avrei mai voluto scrivere La virtù di Checchina. Sì, lo so, non me lo dite, non me lo scrivete, non lo dite ad altri, perché mi umilierebbe troppo […]41.
Ecco. È che per donna Matilde, instancabile poligrafa, che con ostinata pervicacia si era fatta largo in un mondo di uomini, che aveva raggiunto vette di visibilità e notorietà precluse ad altre scrittrici, l’insuccesso era un vulnus immedicabile. Non poteva sapere che, nel tempo, critici accreditati avrebbero oltremodo apprezzato la Virtù di Checchina, fino a considerarlo un «piccolo capolavoro»42, che le storie letterarie, però, continuano, a lasciare ai margini dei quadri storiografici della cultura ottocentesca.
Mariella Muscariello università Federico ii – Napoli
40 La lettera si legge ora in Appendice a rossana Melis, Una “Novella Ignobile”: «La virtù di Checchina», in Matilde Serao. Le opere e i giorni, Atti del Convegno di Studi (Napoli, 1-4 dicembre 2004), a cura di Angelo raffaele Pupino, Napoli, Liguori, 2006, pp. 215-217. 41 Ivi, p. 216. 42 Francesco Bruni, Nota introduttiva a M. Serao, Il romanzo della fanciulla, a cura di F. Bruni, Napoli, Liguori, 1985, p. XXXVi.
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DONATO SPErDuTO Bravate e gioco del lotto nella rabouilleuse di Balzac e nel Paese di cuccagna di Matilde Serao
Nel Paese di cuccagna, per la trattazione del tema del gioco del lotto Matilde Serao prese ispirazione dal romanzo balzachiano La Rabouilleuse. Non si limitò a basarsi sulla definizione di tale gioco come oppio del povero, ma fece altresì confluire nel suo romanzo l’aspetto farsesco presente in Balzac. La Serao intese mostrare come l’infamia rappresentata dal gioco del lotto rovini la società napoletana.
★ in Paese di cuccagna, in dealing with the theme of the lottery, Matilde Serao was inspired by Balzac’s novel La Rabouilleuse. Not only did she define this activity as the opium of the impoverished, but she also included in her novel Balzac’s farcical aspects. Serao aimed to show how the evil of the lottery undermines Neapolitan society.
1. Il lotto è l’oppio del povero Al centro del Paese di cuccagna (1891), Matilde Serao mise le conseguenze nefaste del gioco del lotto sulla società napoletana. E già nel Ventre di Napoli (1884) si era occupata della vasta diffusione del lotto: Ma non credete che il male rimanga nelle classi popolari. No, no, esso ascende, assale le classi medie, s’intromette in tutte le borghesie, in tutti i commerci, arriva fino all’aristocrazia. Dove vi è un vero bisogno tenuto segreto, dove vi è uno spostamento che nulla vale a riequilibrare, dove vi è una rovina finanziaria celata ma imminente, dove vi è un desiderio che ha tutte le condizioni dell’impossibilità, dove la durezza nascosta della vita più si fa sentire, e dove solo il danaro può essere rimedio, ivi il giuoco del lotto prende possesso, domina1.
Questa l’amara conclusione a cui giunse la Serao: «il popolo napo
Donato Sperduto: Kantonsschule Sursee (Svizzera); docente; donato.sperduto@edulu.ch. 1 Matilde Serao, Il ventre di Napoli, Milano, rizzoli, 2011, p. 63.
donato sperduto814 letano, che è sobrio, non si corrompe per l’acquavite, non muore di delirium tremens; esso si corrompe e muore pel lotto. il lotto è l’acquavite di Napoli»2. Come sottolineò Benedetto Croce, a vedere nel lotto una dipendenza o una droga, prima della Serao ci aveva pensato lo scrittore francese Honoré de Balzac nel romanzo La Rabouilleuse (1843): «Ad esprimere compiutamente l’equazione Lotto/droga è H. de Balzac, come fece ben notare Benedetto Croce parlando di un’altra scrittrice favorevole all’equazione, Matilde Serao»3. Croce si riferiva al seguente passaggio della Rabouilleuse: Questa passione del gioco tutti la condannano, ma nessuno l’ha mai studiata, come nessuno ha mai visto in essa l’oppio del povero. Eppure non è forse vero che il gioco del lotto è la fata più potente del mondo e che, per suo merito, vivono tante magiche speranze? il giro di roulette che fa intravedere un visibilio di piacere e di ricchezze è rapido come il lampo, ma il lotto fa durare questo lampo cinque intere giornate. Qual è, oggi, l’istituzione sociale che, per quaranta soldi, ha il potere di darvi cinque giorni di felicità, facendovi idealmente godere tutte le gioie del progresso?4
Matilde Serao era una grande ammiratrice di Honoré de Balzac, l’autore della monumentale Commedia umana. Se la scrittrice napoletana citò e si riferì a vari romanzi di Balzac, ve ne sono quanto meno due che giocano un ruolo importante in due suoi testi: Albert Savarus nella novella Per monaca, di cui ho già avuto modo di occuparmi5, e La Rabouilleuse nel Paese di cuccagna, romanzi che vengono analizzati in questo lavoro. Alla relazione tra La Rabouilleuse e Il paese di cuccagna accennò appunto acutamente Benedetto Croce6, notando come la Serao, parlando del gioco del lotto, ne attribuisse a Balzac la definizione di oppio del povero (o della miseria). Ma è bene partire da una presentazione sommaria del romanzo balzachiano. Nel 1840 venne pubblicato a puntate
2 Ivi, p. 65. 3 Paola De Sanctis ricciardone, Il tipografo celeste: il gioco del lotto tra letteratura e demonologia nell’Italia dell’Ottocento e oltre, Bari, Dedalo, 1993, p. 30. 4 Honoré de Balzac, Casa di scapolo, traduzione di Maria Grazia Bottai, Milano, rizzoli, 1965, p. 80. 5 Cfr. Donato Sperduto, Dalla lotta per il matrimonio al convento: Per monaca di Matilde Serao e Albert Savarus di Balzac, «Critica letteraria», XLVi (2018), n. 181, pp. 741-749. Cfr. anche M. Serao, Storia di una monaca, Napoli, ABE, 2019. 6 Benedetto Croce, Conversazioni critiche. Serie II, Bari, Laterza, 1918, pp. 300301. Sulla Rabouilleuse e sulla Ronde de nuit di Patrick Modiano, cfr. D. Sperduto, Les farces nocturnes: Balzac et Patrick Modiano, «Lendemains», XXiX (2004), nn. 114115, pp. 226-236.
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bravate e gioco del lotto in balzac e Serao 815 nel giornale «La Presse», con il titolo Les Deux frères. il titolo cambiò poi per l’edizione Souverain del 1842 (stesso anno della pubblicazione di Albert Savarus), e divenne Un ménage de garçon. infine, per l’edizione Furne della Comédie humaine, Balzac scelse il titolo definitivo La Rabouilleuse (1843) e inserì il romanzo nelle “Scene della vita di provincia”. Le due traduzioni italiane portano due titoli diversi: Il colonnello Bridau7 e Casa di scapolo. Se il primo titolo non venne mai adottato da Balzac, il secondo è la traduzione di quello frencese dell’edizione del 1842. Manca, invece, un’edizione italiana dove sia accolto e tradotto il titolo finale La Rabouilleuse. Anzi, in Casa di scapolo questo soprannome di Flore Brazier figura in francese in quanto per M. G. Bottai non avrebbe un «esatto corrispettivo in italiano»8. Personalmente, ritengo che varrebbe la pena basarsi su un termine scelto per le edizioni tedesche: “la pescatrice” (Die Fischerin)9. infatti, se etimologicamente “pescare” vuol dire tendere insidie ai pesci e catturarli, Flore Brazier (unitamente a Max Gilet) tende insidie a Jean-Jacques rouget per entrare in possesso della sua eredità. Fin dal titolo del romanzo balzachiano appare evidente che uno dei temi principali è rappresentato dal denaro. Nel Paese di cuccagna, la Serao non si limitò ad elaborare la tematica del lotto presente nella Rabouilleuse, ma vi fece confluire anche qualche aspetto farsesco al fine di elucidare la finalità edificante del suo romanzo.
2. Morire per il gioco del lotto Per Balzac, il lotto è «una droga, ma è anche una fede, una sorta di religione, al contrario della roulette, buona evidentemente per i “ricchi”, che dissipa in un attimo le immagini dei godimenti che evoca; una fede potentissima dunque perché prolunga nel tempo, con pochissimo investimento, le speranze “magiche” appunto di benessere, di felicità, di ricchezza»10. Le considerazioni di Balzac sul lotto evocate da Croce vennero poi approfondite in particolare da Antonio Gramsci
7 H. de Balzac, Il colonnello Bridau, Milano, Mondadori, 1932. in questa edizione, il soprannome “rabouilleuse” viene tradotto con “Sciaguattiera”. 8 id., Casa di scapolo, cit., p. 156n. 9 Die Fischerin im Trüben (La pescatrice nel torbido) e Die Krebsfischerin (La pescatrice di gamberetti): cfr. Betje Black Klier, Die Bonapartist-Utopia-Bildtapete, in Interieur und Bildtapete: Narrative des Wohnens um 1800, a cura di Katharina Eck e Astrid Silvia Schönhagen, Bielefeld, trascript Verlag, 2014, p. 161. 10 P. De Sanctis ricciardone, Il tipografo celeste, cit., pp. 30-31.
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donato sperduto816 nei Quaderni dal carcere. Gramsci sottolineò come la tesi di Marx, sviluppata nell’Introduzione a Per la critica della filosofia del diritto di Hegel (1843), della religione come oppio dei popoli si ispirasse anche al passo sopracitato della Rabouilleuse: il Croce aveva già notato […] che il Paese di Cuccagna (1890) aveva la sua idea generatrice in un brano dell’altro libro della Serao, Il ventre di Napoli (1884), nel quale «si lumeggia il gioco del lotto come il “grande sogno di felicità” che il popolo napoletano “rifà ogni settimana”, vivendo “per sei giorni in una speranza crescente, invadente, che si allarga, esce dai confini della vita reale”; il sogno “dove sono tutte le cose di cui esso è privato, una casa pulita, dell’aria salubre e fresca, un bel raggio di sole caldo per terra, un letto bianco e alto, un comò lucido, i maccheroni e la carne ogni giorno, e il litro di vino, e la culla pel bimbo, e la biancheria per la moglie, e il cappello nuovo per il marito”». il brano di Balzac potrebbe anche connettersi con l’espressione «oppio del popolo» impiegata nella Critica della filosofia del Diritto di Hegel […], il cui autore fu un grande ammiratore di Balzac11.
inoltre, sempre Antonio Gramsci rilevò che «è probabile che il passaggio dall’espressione “oppio della miseria” usata dal Balzac per il lotto, all’espressione “oppio del popolo” per la religione, sia stato aiutato dalla riflessione sul “pari” di Pascal, che avvicina la religione al gioco d’azzardo, alle scommesse»12. Tuttavia, i giorni di felicità dovuti al gioco del lotto alla lunga hanno risvolti poco edificanti tanto per l’autore della Commedia umana quanto per l’autrice del Paese di cuccagna e «va ricordato che sebbene la definizione del gioco di Balzac sia simile a quella della Serao, è innegabile che in Balzac la speranza che “libera” il Lotto, sebbene possa essere fallace, non produce nulla di catastrofico, non degrada, non diviene piaga sociale né incide sui destini personali […]. Del senso della catastrofe, del degrado sociale invece è piena la trattazione di Matilde Serao»13. È vero che Il paese di cuccagna non è incentrato solo sul gioco del lotto, causa della rovina materiale e morale dei molti personaggi che popolano questo voluminoso testo imitante, secondo Croce, la costruzione dei romanzi di Zola: vi figurano altresì descrizioni ‘veristi
11 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di Valentino Gerratana, Torino, Einaudi, 19772, vol. 3, pp. 1837-1838. Su Marx e Balzac, si veda anche Boris Souvarine, Controverse avec Soljénitsyne, Parigi, Allia, 1990, pp. 125-126. 12 A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., p. 1838. 13 P. De Sanctis ricciardone, Il tipografo celeste, cit., pp. 58.
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bravate e gioco del lotto in balzac e Serao 817 che’ di tradizioni napoletane, i dolci tipici della città, l’attitudine dei napoletani nei confronti del miracolo di San Gennaro, la descrizione del Carnevale. Ma è il gioco del lotto a costituire il perno diabolico intorno a cui ruota lo sfacelo di tante famiglie: il filo conduttore che lega le vicende dei molti personaggi presentati nel volume è appunto la loro comune passione per il gioco. Questi personaggi appartengono a tutti gli strati della società napoletana: da quello sottoproletario, a quello proletario, da quello piccolo-borghese a quello medio fino ad arrivare alla borghesia […]. Ma la passione del Lotto agisce sui personaggi della Serao in maniera devastante: per i miserabili diviene moltiplicatrice di miseria, per i borghesi fonte di rovina economica, per gli aristocratici accelerazione di decadenza. in tutti serpeggia la follia, il delirio, fino al paradosso14.
Allora, «il gioco diventa furioso, feroce, tanto è il desiderio del popolo di entrare nel sempre sognato Paese di cuccagna», e si realizza un’infamia: «il gioco del lotto era una infamia che conduceva alla malattia, alla miseria, alla prigione, a ogni disonore, alla morte»15. E la morte dovuta al gioco del lotto riguarda simmetricamente un personaggio balzachiano e uno seraiano. La signora Descoings è una giocatrice perseverante: da venti anni gioca lo stesso terno che però non è mai uscito. Ma questa poveretta continua a coltivare la speranza di potersi arricchire con l’agognata vincita. Arriva ad accumulare la somma di venti luigi che intende giocare il 24 dicembre 1821, certa che il suo terno questa volta uscirà finalmente. Ma non ha fatto i conti con Philippe Bridau. Mentre la Descoings esce di casa per andargli a comprare dei sigari, quel depravato di Philippe entra nella sua camera e le ruba i soldi. La disperata Descoings informa del furto Joseph, fratello di Philippe: «Avevo venti luigi nel mio materasso, erano le mie economie di due anni. Solo Philippe può avermeli presi»16. Joseph cerca di riparare il danno causato da suo fratello offrendo trecento franchi alla Descoings. Anzi, decide di recarsi in un botteghino del lotto e giocare i numeri vincenti della Descoings. Sfortunatamente, l’artista Joseph non sa dove trovarne uno nella capitale francese e, quando riesce a trovare quello che chiude per ultimo, vi arriva in ritardo. Ma proprio l’estrazione del Natale del 1821 è fatale alla signora Descoings: il suo terno esce e lei non l’ha
14 Ivi, pp. 60-61. 15 M. Serao, Il paese di cuccagna, a cura di riccardo reim, roma, Avagliano, 2008, pp. 525-526. 16 H. de Balzac, Casa di scapolo, cit., p. 93.
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donato sperduto818 potuto giocare, perdendo così tre milioni: «fu come se un fulmine l’avesse stroncata […]. un colpo apoplettico stava uccidendo la povera donna»17 che morirà pochi giorni dopo. Anche nel Paese di cuccagna troviamo un episodio simile a quello balzachiano: tra i vari giocatori accaniti figura l’avvocato Marzano. Quando il tenitore di Banco lotto don Crescenzo va a trovarlo per chiedergli di saldare il debito che ha con lui, l’avvocato è a letto, gravemente malato. Per la precisione, ha avuto «nu tocco»18, un colpo apoplettico ed è in punto di morte. il ciabattino che indicava all’avvocato Marzano i numeri da giocare al lotto spiega a don Crescenzo qual è stata la causa del colpo apoplettico: – Voi sapete, don Crescenzo, che i miei lavori di matematica, con l’aiuto di Dio, hanno fatto sempre guadagnare denaro all’avvocato. – Sì, sì, ogni tre o quattro mesi, un ambo… soggiunse scetticamente don Crescenzo. – V’ingannate, si può dire che io l’ho beneficato, e quelle misere sessanta lire che mi dava, al mese, perché io non battessi più sulle suole delle scarpe e facessi la cabala, erano neppure la centesima parte di quello che guadagnava, al mese! Ora mi abbandona, l’ingrato, così!… basta, per dirvi, ieri, io gli avevo dato, simbolicamente, certi numeri che dovevano uscire necessariamente e sono usciti, capite! – E ha guadagnato? – Niente: non li ha capiti, ne ha giuocato degli altri, la mente non lo aiutava più. Quando lo ha saputo… gli è venuto l’insulto… in salute vostra. – Ma gli avete veramente detto quelli che erano i numeri buoni? – innanzi a Dio: ma non li ha capiti19.
inoltre, nella novella seraiana Terno secco (1887) ritorna il tema della vincita mancata al lotto: la maestrina rinuncia a giocare un terno certo e a vincere un bel gruzzolo per aver dato l’ultima lira che aveva a sua figlia Caterina20.
3. Le bravate nella rabouilleuse e nel Paese di cuccagna Nella Rabouilleuse, una parte della storia è ambientata a issoudun, cittadina in cui di notte un gruppo di bonapartisti inoperosi mette in
17 Ivi, p. 97. 18 M. Serao, Il paese di cuccagna, cit., p. 497. 19 Ivi, pp. 499-500. 20 M. Serao, Terno secco, in La virtù delle donne, Cava de’ Tirreni, Avagliano, 1999, pp. 79-124.
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bravate e gioco del lotto in balzac e Serao 819 atto le proprie farse o bravate. in molti romanzi della Commedia umana, il termine “farsa” ha essenzialmente un valore negativo. indica un brutto scherzo, una bravata che impedisce a qualcuno di raggiungere i suoi obiettivi. Nel caso della Rabouilleuse, alcuni aspetti delle farse medievali figurano nelle bricconate dei giovani sfaccendati d’issoudun. in particolare, Balzac ripropone il meccanismo dell’inversione che capovolge la situazione iniziale, sicché alla fine il burlone viene burlato. Nella Rabouilleuse, Balzac presenta almeno due varianti di bravate. Da una parte vi sono quelle attuate per gioco, dall’altra le bravate miranti a danneggiare seriamente la vittima. Le burle per gioco riempiono il vuoto dovuto alla mancanza di attività ed occupazioni sensate a issoudun; quelle serie sono l’espressione della volontà di potenza, della voglia di far soccombere l’avversario. Nel suo saggio sul Riso, Henri Bergson parla dell’inversione nei seguenti termini: Spesso ci vien presentato un personaggio che prepara la rete in cui egli stesso si farà prendere; la storia del persecutore vittima della sua persecuzione, del gabbatore gabbato è il sostrato di molte commedie. Noi lo troviamo già nelle farse. L’avvocato Pathelin indica al cliente uno stratagemma per ingannare il giudice; e il cliente usa dello stratagemma per non pagare l’avvocato. una moglie bisbetica esige dal marito che faccia tutti i lavori di casa: essa gli prescrive dettagliatamente quel che deve fare su un «registro». Che essa cada in un tino, il marito si rifiuterà di trarnela fuori: «questo non è scritto sul registro». La scena moderna ha eseguite molte variazioni sul tema del “ladro derubato”; si tratta sempre, in fondo, d’una inversione di parti, e d’una situazione che si volge contro colui che l’ha creata21.
Ed è soprattutto l’utilizzo di questo meccanismo che fa della Rabouilleuse un romanzo avvincente. L’inversione costituisce la molla che fa andare avanti la losca storia, attivata da avvenimenti imprevisti che capovolgono la situazione iniziale. in tal modo, il comico cede il passo al dramma che oppone due giovani bonapartisti. Nella Rabouilleuse, Balzac narra le bravate attuate da giovani sfaccendati durante la restaurazione. A issoudun, una città senza iniziative, nemmeno commerciali, senza passione alcuna per le arti, senza amore per la scienza e nella quale ognuno restava nel suo
21 Henri Bergson, Il riso. Saggio sul significato del comico, Bari, Laterza, 1994, p. 62. Anche Croce si occupò di ironia, in particolare in riferimento all’Ariosto: cfr. D. Sperduto, Armonie lontane. Ariosto, Croce, D’Annunzio, Pavese, Carlo Levi e Scotellaro, roma, Aracne, 2013, pp. 9-14.
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donato sperduto820
buco, accadde, sotto la restaurazione, quello che fatalmente doveva accadere: ossia che nel 1816, una volta cessata la guerra, molti giovani rimasero senza una professione e perciò, nell’attesa di sposarsi o di ereditare il patrimonio dei genitori, inoperosi. Se in casa loro si annoiavano, questi ragazzi non trovarono nemmeno in città distrazione alcuna; e siccome, secondo un detto locale, «bisogna che la gioventù abbia il suo sfogo», cominciarono a divertirsi a scapito della loro stessa città22.
Le loro bravate hanno origine dalla mancanza di prospettive e di valori, condizione definita da Balzac «ristagno sociale»23. All’origine sociale delle burle si aggiunge la loro natura reazionaria. Questi giovani sfaccendati, se non cadono nella rassegnazione dell’inoperosità che può arrivare ad uccidere, pretendono distrarsi dandosi alla baldoria notturna per reagire al disimpegno del governo nei loro confronti. una decina di giovani bonapartisti, quasi tutti ufficiali prima, formano quindi una banda e si denominano «cavalieri della Baldoria»24. Quando erano ancora acefali, cioè senza un grande maestro, le loro gesta erano grossolane, «volgari: come quella di staccare e scambiare le insegne dei negozi, di suonare i campanelli delle porte, o di far precipitare con fracasso una botte, dimenticata da qualcuno davanti all’uscio, nella cantina del vicino, il quale, allora, veniva svegliato da un rumore simile all’esplosione di una mina»25. Ma con l’arrivo di un capo, le loro burle amatoriali sono diventate serie. A partire dal gennaio 1817, questi presunti cavalieri hanno un capo indiscusso (di circa trent’anni): Maxence Gilet. A issoudun, di notte questo personaggio turbolento fa regnare il terrore. Può permettersi di cacciare molti soldi e possiede anche un cavallo grazie alla sua relazione con Flore Brazier che gli consente di sfruttare lo scapolo e ricco ereditiere Jean-Jacques rouget. Tuttavia la farsa che ha come vittima il mercante spagnolo di grano Fario porta a delle conseguenze catastrofiche per Max e i suoi affiliati: questa volta il re delle burle viene burlato, e il mercante contribuisce con veemenza al capovolgimento.
22 H. de Balzac, Casa di scapolo, cit., p. 130. Anche in questo caso, la traduzione italiana non è molto felice, in quanto Balzac parla espressamente di “farse”: «ils firent leurs farces aux dépens de la ville même» (id., La Rabouilleuse, a cura di Pierre Citron, Parigi, Garnier, 1966, p. 152). 23 id., Casa di scapolo, cit., p. 125. 24 Ivi, p. 130. Balzac utilizza l’espressione «Chevaliers de la Désœuvrance»: alla traduzione “cavalieri della Baldoria” sarebbe preferibile la traduzione “cavalieri dell’inoperosità”. 25 Ibidem.
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bravate e gioco del lotto in balzac e Serao 821 una sera, l’avaro mercante stazione la sua carretta nei pressi della torre d’issoudun. Di notte, i cavalieri dell’inoperosità non perdono l’occasione per mettere in atto la burla: «la carretta fu smontata e issata pezzo per pezzo sulla torre; dove, poi, quei briganti la ricomposero, facendo sparire ogni traccia dell’operazione con tale accuratezza da lasciar credere che soltanto il diavolo o una bacchetta magica avrebbero potuto trasportarla lassù»26. il giorno dopo, Fario non trova più la sua carretta. Allora, Max entra in scena e propone di aiutare lo sfortunato mercante spagnolo. Additando la cima della torre d’issoudun, gli indica fin dove è volata la sua carretta magica. Poi, con la finta intenzione di voler aiutare l’esterrefatto Fario, sale sulla torre: «Come facciamo a calarla?» chiese lo spagnolo, i cui piccoli occhi neri esprimevano per la prima volta lo spavento, mentre il suo volto giallo e scavato, che sembrava non dover mai cambiar colore, si era fatto pallido. «Come?» replicò Max. «Ma non mi pare una cosa difficile…» E, approfittando della confusione del venditore di grano, con le sue robuste braccia maneggiò la carretta per le due stanghe in modo da poterla lanciare e poi, sul punto di lasciarla cadere, si diede a gridare con voce tonante: «Attenzione, là sotto!…» Ma non poteva esservi pericolo alcuno: avvertita da Baruch e spinta dalla curiosità, la folla si era radunata sulla piazza a una distanza sufficiente per poter vedere quello che succedeva lassù in cima. La carretta andò, assai pittorescamente, in mille pezzi27.
Lo spagnolo non può perdonare il brutto tiro fattogli da Max. Sentendosi minacciato, il capo dei cavalieri dell’inoperosità fa anche perdere a Fario buona parte del grano che intendeva vendere. Fario si allea allora con Philippe Bridau che, in esilio ad issoudun, vuole salvare l’eredità di famiglia su cui hanno posto le mani Flore Brazier e lo stesso Max. Questi riceve prima una coltellata da Fario e, dopo che ha incolpato ingiustamente Joseph Bridau, Philippe lo sfida a duello e lo uccide. Ma alla fine della storia, a venire ucciso è lo stesso Philippe: nel 1839, in un combattimento in Algeria viene decapitato e quasi fatto a pezzi dagli yatagans: chi di spada ferisce di spada perisce. Niente a prima vista fa pensare ad un legame tra le farse (bravate, birbonate, burle, scherzi, furberie) della Rabouilleuse e Il paese di cuccagna. A suggerire che invece il legame c’è contribuiscono due elementi: da un lato il modo in cui la Serao descrive le vittime del gioco del lotto, dall’altro un’azione sacrilega del marchese Cavalcanti. i personag
26 Ivi, p. 147. 27 Ivi, p. 186.
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donato sperduto822 gi e i temi ruotanti intorno al gioco del lotto nel romanzo seraiano sono usurai, strozzini, assistiti, la cabala, la rivelazione celeste, gli spiriti. Ciò che fa da loro minimo comune denominatore, a ben vedere, è proprio l’elemento “farsesco”, espressamente evocato dalla Serao. Ad esempio, quando Antonietta chiede un prestito a donna Concetta, le viene detto che non è possibile senza interessi (due lire alla settimana) e l’usuraia aggiunge: – Più presto paghi, meglio per te. io non desidero di meglio. Però ti avverto che se ti dovessi far pagare prima dalla sarta, o andartene via, o fare qualche altra simile birbonata, io ti arrivo, gioia mia, e ti faccio vedere chi è Concetta Esposito. io me ne rido di andare in galera, per il sangue mio… mi sono spiegata? – Sissignora, sissignora, – balbettava Antonietta con le lacrime agli occhi28.
il non pagare un debito equivale, dunque, ad una «birbonata». il barone Annibale Lamarra ricorre invece ad una «furberia» per giocare al lotto senza destare sospetti in sua moglie e in suo padre: Egli giocava molti biglietti da venti, da cinquanta, da cento franchi l’uno, ma temendo di essere spiato dall’avara sua moglie di cui mangiava la dote, malgrado le orribili scenate, temendo di essere sorpreso da suo padre, un pezzente risalito da scalpellino ad appaltatore, da appaltatore a possidente, aveva inventata la furberia di giocare un biglietto per parte. Da un Banco lotto all’altro, correva sbuffando, non volendo pensare che al sabato, all’estrazione in cui avrebbe vinto e ritirato la cambiale data a don Gennaro Parascandolo, quella cambiale, che portava la firma sua e di sua moglie, che lo faceva rabbrividire di terrore29.
E Cesarino Fragalà, che a furia di giocare al lotto ha fatto fallire la sua pasticceria e rovinato la famiglia, confessa a sua moglie: – Senti, senti, è una passione perfida, non sai che cosa sia, bisogna averla provata per conoscerla, bisogna aver palpitato e sognato, per sapere che è! Cominci a giocare per scherzo, per curiosità, per una piccola sfida buttata alla fortuna, e continui, punto sul vivo dalle delusioni, eccitato da un vago desiderio che si va formando: guai se prendi qualche cosa, un ambo, un piccolo terno! Guai, poiché ti appare la possibilità del guadagno, nella sua forma reale, poiché tu diventi certa, capisci, sei certa che guadagnerai una grossa somma, una immensa somma, poiché hai vinto la piccola, e ci rimetti non solo quello che hai
28 M. Serao, Il paese di cuccagna, cit., p. 180. 29 Ivi, p. 224.
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guadagnato, ma il doppio, il triplo, nelle settimane che seguono la vincita, è il denaro del diavolo che ritorna all’inferno30!
il gioco del lotto è quindi uno «scherzo» che si paga caro! Poi, a don Pasqualino, l’assistito che evoca gli spiriti per farsi dare i numeri che vende dietro lauto compenso, le sue vittime dicono: – Gaetano, il tagliatore di guanti, non è uno stupido, quando dice che voi vi burlate di noi. Quello che ci state facendo, da tre anni a questa parte, pare una burla. Sono tre anni, capite, che voi ci andate ripetendo le cose più strampalate, con la scusa che ve le dice lo spirito: tre anni che ci fate giocare l’osso del collo, con queste vostre strampalerie, e ognuno di noi, non solo non ha mai guadagnato niente, ma ha buttato la sua fortuna, dietro le vostre chiacchiere, ed è pieno di guai, alcuni dei quali irreparabili. Coscienza ne avete, don Pasqualino? Voi ci avete rovinati31!
Stufi di questa «burla», i suoi clienti finiscono per rendergli pan per focaccia: lo sequestrano e non sarà liberato finché non avrà rivelato loro i numeri giusti da giocare al lotto – chi di spada ferisce di spada perisce (anche se poi l’assistito sarà liberato): Ma il demone del gioco aveva messo sede nella loro anima, impossessandosene completamente: e tutti quanti insieme, tornando indietro, circuirono l’assistito, domandandogli ancora i numeri, i numeri certi, i veri numeri che egli conosceva e che fino allora non aveva voluto loro dare. E allora, soffocato dall’emozione, comprendendo di aver rivolta contro sé l’arma di cui sino allora li aveva feriti, colui che li aveva a poco a poco sommersi sotto le onde di un naufragio lento, colui che aveva preso il loro denaro e le loro anime, innanzi a quella insistente malnata ferocia che niente più poteva placare, innanzi a quel vero Spirito del Male, con cui, realmente, egli si era messo in comunicazione, l’assistito, vigliaccamente, provò una immensa paura e si mise a singhiozzare come un fanciullo32.
Non mancano altre burle legate al gioco del lotto nel Paese di cuccagna, ma ve ne è una che la Serao chiama proprio «farsa» e su cui vale la pena soffermarsi in quanto rievoca, in una maniera inversa, la farsa di Fario nella Rabouilleuse. il protagonista della farsa seraiana è il marchese Carlo Cavalcanti. Visto che non riesce a vincere al lotto, si sente tradito ed abbandonato dal Cristo redentore e decide di vendicarsi a mo
30 Ivi, p. 357. 31 Ivi, p. 386. 32 Ivi, p. 394.
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donato sperduto824 do suo. una notte, prende la statua dell’Ecce Homo, vi gira intorno tre volte la fune del secchio del pozzo e la scaraventa in fondo al pozzo: La mezza statua di legno, che rappresentava alla sua naturale grandezza il Divin redentore legato alla colonna, scolpita e dipinta magistralmente, avea tutto l’orribile aspetto del cadavere sanguinante: e l’acqua del pozzo in cui era stata immersa, ne aveva stinto il color di carne e il vermiglio del sangue, facendolo colare, nella duplice magica apparenza dell’assassinio e dell’annegamento. Pure, il dottor Amati si era sentito stringere il cuore, allo scoprire quella lugubre farsa, quella miscela di crudeltà e di grottesco33.
Contrariamente a quanto accade alla carretta di Fario, la statua del Cristo redentore non viene portata in cima ad una torre, ma scaraventata in un pozzo. La farsa del marchese è al contempo lugubre e sacrilega. La funesta passione per il gioco del lotto può arrivare a far commettere atti sacrileghi, come nel caso di Cavalcanti, che in più si rifiuta di dare in sposa sua figlia al dottor Amati in quanto lei deve restare pura, per potergli rivelare i numeri da giocare al lotto. Questa ossessione del padre decreterà la morte di sua figlia Bianca Maria.
4. Conclusione Nel Paese di cuccagna, per la trattazione del tema del gioco del lotto Matilde Serao prese ispirazione dal romanzo balzachiano La Rabouilleuse. Non si limitò a basarsi sulla definizione di tale gioco come oppio del povero, ma fece altresì confluire nel suo romanzo l’aspetto farsesco presente in Balzac. Tuttavia, ciò che differenzia enormemente le due opere è principalmente la loro finalità. La Serao intese mostrare come l’infamia rappresentata dal gioco del lotto rovini la società napoletana. Le vittime di tale passione funesta vengono sistematicamente castigate da Dio: Tutto un castigo, tutta una punizione tremenda: vale a dire la mano del Signore che si aggrava sul vizioso, sul colpevole e lo colpisce sino alla settima generazione; anzi lo stesso vizio, la stessa colpa, quel gioco infame, quel gioco maledetto, che si faceva strumento di punizione, contro coloro che di questo vizio, di questa colpa si erano fatti il loro idolo; nella istessa passione, come in tutte le altre, che sono fuori della vita, fuori della realtà, nella passione stessa il germe, la semente della durissima penitenza. Colpiti dove avevano peccato, anzi dal peccato stesso! Tutto un lungo scoppio di pianto, da tutti gli occhi, dai più puri,
33 Ivi, p. 413.
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uno scoppio di singulti dalle più pure labbra: una folla di povere creature oneste, dibattentisi fra la fame e la morte, scontando gli errori altrui, dando ai colpevoli il rimorso di aver gittato le persone che più amavano, in quell’immenso abisso. Non uno salvo, non uno, di quelli che avevano dato la loro vita al gioco, all’infame gioco, al gioco sciagurato, divoratore di sangue e di denaro34.
i personaggi di Balzac, dal canto loro, sono sì in preda a passioni funeste, ma non soltanto a quella del gioco del lotto. Nella Rabouilleuse, «le plus étonnamment balzacien des grands romans de Balzac»35, figurano una molteplicità di tematiche presenti nella Commedia umana quali la lotta per la successione, la preferenza materna, l’opposizione tra la capitale e la provincia, la volontà di potenza, le vittime della Storia. in particolare, Maxence Gilet e Philippe Bridau subiscono il fascino del denaro e se ne lasciano corrompere arrivando a commettere atti infami. in questo romanzo Balzac raccontò una storia di perdenti rendendo manifesta l’assenza di morale della società postrivoluzionaria e facendo capire che una società fondata esclusivamente sul potere del denaro è un’entità malata bisognosa di guarigione, di valori diversi dalla volontà di potenza e dall’accumulo di denaro. Alle tenebre del materialismo (le farse notturne) deve far seguito la luce di principî morali e spirituali. Così si spiega il trionfo finale dell’artista Joseph Bridau.
Donato Sperduto Kantonsschule Sursee (Svizzera)
34 Ivi, p. 524. 35 rené Guise, introduzione a H. de Balzac, La Rabouilleuse, Parigi, Gallimard, 1972, p. 7.
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ritratto maturo di Donna Matilde.
ANTONiO SACCONE Domenico Rea e Raffaele La Capria lettori di Matilde Serao. Una breve ricognizione
L’intervento analizza l’interpretazione dedicata a Matilde Serao da Domenico rea e raffaele La Capria. il primo allestisce un partecipe elogio dell’efficacissima cronista, dell’implacabile e spregiudicata polemista, esprimendo tuttavia forti riserve sulla narratrice, ritenendola fievole, priva di validità conoscitiva e artistica. La Capria, riprendendo anche argomentazioni del giudizio demolitorio di Henry James, inserisce la Serao tra i prototipi letterari più rappresentativi della letteratura consolatoria ispirata alla «napoletanità», al culto di un patetico populismo.
★ This essay looks at Domenico rea’s and raffaele La Capria’s reading of Matilde Serao. The former highly praises the forceful reporter, the implacable and open-minded polemicist, showing however much less enthusiasm for the writer, which he considers feeble and lacking in cognitive and artistic strength. La Capria, taking up arguments put forth by Henry James in his devastating critique, includes Serao amongst the most representative literary prototypes of a consolatory literature inspired by «Neapolitanness» and by the cult of a pathetic populism.
Discorrendo di Matilde Serao è quasi ineludibile richiamare il giudizio severo di Domenico rea consegnato, alle soglie degli anni Cinquanta del secolo scorso, al celebre scritto Le due Napoli, in cui l’autore di Spaccanapoli esprime l’urgenza di mettere fine alla «vasta tradizione indigena e straniera tanto antica e radicata da far legge», da favorire «l’errore di scambiare la finzione letteraria per la realtà stessa»1. in quella tradizione rea include anche autori, di cui pure riconosce il rilievo artistico, come Di Giacomo, la Serao, De Filippo. Della Serao dirà
Antonio Saccone: università di Napoli Federico ii; prof. ordinario di Letteratura italiana contemporanea; antsacco@unina.it 1 Domenico rea, Le due Napoli (Saggio sul carattere dei napoletani) (1951), in id., Opere, a cura e con un saggio introduttivo di Francesco Durante e uno scritto di ruggero Guarini, Milano, Mondadori, 2005, pp. 1333 e 1335.
antonio saccone828 che si tratta di una giornalista dotata di sguardo analitico coraggioso, certamente anticonvenzionale, autrice dell’acuto e intenso reportage Il ventre di Napoli, ma fievole narratrice e perciò incapace di tradurre l’indubbia perizia investigativa esibita nella sua inchiesta in un forte esito rappresentativo, in «un’opera che sappia puntare direttamente alle cose come seppe fare Verga, che spogliò le cose del folclore siciliano e le rese nude e terribili»2. Dell’abbrutente squallore espresso dal «vicolo» la Serao «ci dà, in definitiva, un’idea vivace e divertente»3. Tuttavia, al di là delle riserve espresse sulla validità conoscitiva e artistica della Serao autrice di romanzi e racconti, resta da segnare con una forte sottolineatura il partecipe elogio dell’implacabile e sarcastica polemista. uno scrittore come rea, alieno da anestetizzanti mistificazioni e interessato a perlustrare senza veli il drammatico ‘presepe’ napoletano, non può non condividere l’invettiva della Serao. Non può non sentirsi in sintonia con la determinazione con cui la reporter illumina i vistosi strappi presenti nel malioso sipario, con cui l’opera di bonifica edilizia denominata «risanamento» vuole nascondere la tragica miserabilità antropologica e sociale di Napoli. Sono le brusche lacerazioni del paravento a «mostrare l’oscurità, il luridume delle quinte, ove tutto è rancido, è puzzolente, è nauseante»4. Nelle parole con cui la Serao allestisce il suo straordinario saggio, realismo e grottesca deformazione si convertono reciprocamente. Come poteva rea non sottoscriverle, quelle parole, come testimonianza di un giornalismo moderno, capace di ‘narrare’ con tanta espressiva, spregiudicata efficacia?5 Ad oltre trent’anni di distanza le argomentazioni di rea saranno esplicitamente riprese e riprospettate (e in qualche modo radicalizzate) da raffaele La Capria. Negli scritti raccolti nel 1986 nell’Armonia perduta, l’autore di Ferito a morte esamina le ragioni e i modi in cui si è sviluppata l’idea di «napoletanità». il fallimento della rivoluzione del ’99 portò con sé anche il disfacimento del mito della «Napoli armonio
2 Ivi, p. 1338. 3 Ibidem. 4 Matilde Serao, Il ventre di Napoli, a cura di Patricia Bianchi, con uno scritto di Giuseppe Montesano, Cava de’ Tirreni, Avagliano, 2002, p. 107. 5 Su rea lettore della Serao consiglio il dettagliato esame di Annalisa Carbone, Matilde Serao nell’interpretazione di Domenico Rea, in Matilde Serao. Le opere e i giorni, Atti del Convegno di studi (Napoli, 1-4 dicembre 2004), a cura di Angelo raffaele Pupino, Napoli, Liguori, 2006, pp. 79-87. Della stessa Carbone è proficua, ai fini di una più complessiva indagine sull’autore delle Due Napoli, la lettura del volume «L’indomabile furore». Sondaggi su Domenico Rea, Napoli, Liguori, 2010.
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domenico rea e raffaele la capria lettori di matilde serao 829 sa», di cui sopravvisse solo la sua recita, «il suo guscio vuoto, il suo modello, la sua fissazione: la napoletanità»6. A nutrire quel residuo «sradicato o amputato»7, dopo che la grande era stata spazzata via dalla disfatta della repubblica partenopea, fu la piccola borghesia «involuzionaria», che, proiettata contro i movimenti della storia e ripiegata su se stessa, si isolò «in una narcisistica autocontemplazione»8. Quella napoletanità, «creazione artificiale nata da un’autentica nostalgia collettiva di uno stato precedente definitivamente perduto»9, fu alimentata dall’intento istintivamente nutrito dalla piccola borghesia di «esorcizzare la paura della plebe», di risolverne «il problema irrisolvibile e immane»10. Non identificabile in un dato meramente socioantropologico, quella «recita» si espresse anche come fenomeno intellettuale, coinvolgendo poeti e narratori attivi a Napoli tra secondo Ottocento e primo Novecento. in quella schiera di artisti primeggiano Di Giacomo e la Serao11, inscenanti la napoletanità addetta alla recita dell’Armonia smarrita. Da essi «si leva sempre in sottofondo un lamento un’accoratezza, una malinconia insopprimibili, che nascono appunto dalla discrepanza tra quella pretesa idea di Napoli e la realtà, tra ciò che si vorrebbe essere e ciò che si è»12. Anche «Donna Matilde», dunque, inserendo nei suoi giorni e nella sua produzione narrativa «le più stupide fisime dell’aristocrazia locale e la più nera miseria dei bassi», non si accorgeva che «stava contribuendo ad impastare tutto nello stesso pastone della “napoletanità”»13. Nella sua certo impietosa ricognizione della Serao narratrice, La Capria riprende l’argomentazione-principe di rea, secondo il quale «il perché [dei difetti e vizi di Napoli e dei napoletani] rilevato in parte dagli storici, non è stato mai oggetto di studio della letteratura na
6 raffaele La Capria, L’armonia perduta, in id., Opere, a cura e con un saggio introduttivo di Silvio Perrella, Milano, Mondadori, 2003, p. 661. 7 Ibidem. 8 Ivi, pp. 735-736. 9 Ivi, p. 660. 10 Ivi, p. 655. 11 La posizione stroncatoria di rea e La Capria investe anche Eduardo De Filippo, tuttavia con importanti distinguo che illustro in Antonio Saccone, Domenico Rea e Raffaele La Capria interpreti di Eduardo, in id., «Secolo che ci squarti…secolo che ci incanti». Studi sulla tradizione del moderno, roma, Salerno Editrice, 2019, pp. 167-175. 12 r. La Capria, L’armonia perduta, cit., p. 665. 13 Ibidem.
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antonio saccone830 poletana propriamente detta. Anche nei suoi maggiori scrittori, come Di Giacomo e la Serao, la causa motore è dimenticata, e il colore corrode la sostanza delle loro opere»14. La Capria inserisce la Serao tra i prototipi letterari più rappresentativi della letteratura consolatoria ispirata alla napoletanità, mirante a ripristinare in versione posticcia «l’Armonia perduta»: Non è critica nei suoi confronti perché ne condivide i valori, e non la vede mai dal di fuori. La critica, quando c’è, prende di mira le istituzioni, non la sola società così com’è (per esempio la Serao), con la sola eccezione, talvolta di Viviani. Spesso, è vero, si sente un profondo disagio esistenziale, ma resta elegiaco, non risale mai lucidamente alle cause15.
Anche in un’altra sua raccolta di interventi, L’occhio di Napoli, La Capria, a proposito di realismo riprende in qualche modo le riflessioni di rea. il realismo, annota l’autore, non si identifica nella riproduzione diretta della «realtà così com’è»: essa «a Napoli oggi è più forte di quel realismo, quel realismo non sa come rappresentarla. La realtà se la ride, quando si accorge che quel realismo vuole afferrarla»16. Ad esprimere quella realtà sono insufficienti Mastriani o la Serao, servirebbero Tolstoj e Dostoevskij, Balzac e Flaubert, gli unici in grado di trasmetterne «un’immagine mentale forte e dominante, conoscitiva»17. Per dare plausibilità critica alla sua prospettiva La Capria ricorre al giudizio, certo non benevolo, di Henry James, che aveva sottolineato la «wonderful mixture» che connota «this lady» («loud, loquaciuos, abundant, natural, happy») e nella quale lo scrittore napoletano coglie «lo spirito della napoletanità che parla per lei», «“il naturalismo paternalistico” prevalente nella narrativa meridionale»18. Traducendo e interpretando James che parla di «this lady, full of perception and vibration» ma poco interessata alle «questioni formali»19, La Capria mette
14 Ivi, pp. 732-733. 15 Ivi, p. 771. 16 r. La Capria, L’occhio di Napoli. Taccuino (1992-1993), in id., Opere, cit., pp. 946-947. 17 Ivi, p. 947. 18 Ivi, p. 976. 19 Ibidem. Quelle questioni formali erano importanti per James, ma anche per La Capria, che nello Stile dell’anatra, pubblicato da rizzoli nel 2001, esprime la sua aspirazione a far propria la naturalezza artificiale dell’anatra, che nasconde l’inesausto lavorio delle sue zampette, filando impassibilmente sulla superficie dell’acqua: «Se dovessi proprio dire qual è lo stile che preferisco, dirò che è quello dell’anatra, che senza sforzo apparente fila via tranquilla e impassibile sulla corrente del
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domenico rea e raffaele la capria lettori di matilde serao 831 l’accento sui passaggi in cui l’autore inglese, annotando che i personaggi della Serao vivono in una «realtà immobile», senza crescita interiore, perviene a questa conclusione: Non è la passione che provano i suoi personaggi a renderli interessanti, ma sembra che siano gli stessi personaggi a trovare molto interessanti le proprie passioni20.
La glossa di La Capria arriva puntuale a rimarcare la critica demolitrice di James: «[…] ed è questa “recita” tutta napoletana del sentimento che li indebolisce, a giudizio del grande romanziere»21. Ho più sopra sottolineato che La Capria individua nella débacle della rivoluzione del 1799 e nella conseguente restaurazione il discrimine storico per l’avvento della napoletanità. il discorso è riconfigurato in Napolitan graffiti (del 1998), in cui si ribadisce che la cultura napoletana, nel tentativo di difendersi dal disordine del mondo, si era dedicata al «culto dei propri sentimenti e della propria particolarità, professando un populismo locale patetico, senza prospettiva e senza ideologia (Mastriani, Serao)»22. Certo, ammette La Capria, la cultura filosofica maturata a Napoli parlava ‘europeo’, tuttavia alla letteratura narrativa e poetica napoletana non poteva certo attribuirsi «una dimensione europea», invischiata com’era nell’ottica dell’elegiaca napoletanità che, pur scaturendo dalla svolta drammatica del ’99, «non è tragica: è nevrotica semmai, ma non tragica»23. La conclusione di La Capria, appaiandosi ad alcune delle annotazioni di rea, non lascia spazio a indulgenti recuperi dell’«ottundente» napoletanità: Nella letteratura della «napoletanità» in lingua e in dialetto, forse proprio a causa dell’omologazione sociale che essa rispecchia, manca la capacità di analisi che c’è negli scrittori siciliani dello stesso periodo, un’analisi diversificata che riguarda sia il popolo (il Verga dei Malavoglia) sia la borghesia (il Verga di Mastro don Gesualdo e Pirandello) sia la
fiume, mentre sott’acqua le zampette palmate tumultuosamente e faticosamente si agitano ma non si vedono» (r. La Capria, Lo stile dell’anatra, in id., Opere, cit., p. 1600). Lo stile dell’anatra che nasconde il suo artificio, esibendosi come ‘naturale’, è, per La Capria, inassimilabile alle modalità espressive del realismo degli scrittori iscrivibili nella categoria della ‘napoletanità’, incapace di trasfigurazione, come già anticipato da rea. 20 r. La Capria, L’occhio di Napoli. Taccuino (1992-1993), cit., p. 976. 21 Ibidem. 22 r. La Capria, Napolitan graffiti. Come eravamo (1998), in id., Opere, cit., pp. 1075-1076. 23 id., L’armonia perduta, cit. p. 771.
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antonio saccone832
nobiltà (De roberto e Capuana); manca non solo il senso del tragico ma anche la grandezza che talvolta appare nelle loro opere. La grandezza a Napoli bisogna andarla a cercare negli scritti e nel pensiero, nella statura morale, di uomini come Cuoco, Spaventa, De Sanctis, Labriola, Croce e qualche altro24.
Antonio Saccone università Federico ii – Napoli
24 Ivi, p. 772.
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PAOLO GiOVANNETTi I ‘centri d’interesse’ del Paese di cuccagna e altre questioni narratologiche
il saggio argomenta l’importanza, nei romanzi di Matilde Serao, di personaggi focali suscettibili di costituire «centri d’interesse», vale a dire di rafforzare l’istanza etico-ideologica che nelle singole opere si esprime. Ciò, tuttavia, non è sintomo di un primitivismo narrativo, ma è frutto di una scelta strategica. Serao in diverse sue opere sa modulare diversamente le soluzioni enunciative, anticipando moduli pienamente modernisti, per di più venati di sensibilità gender.
★ This essay points out the importance in Matilde Serao’s novels of focal characters forming «centres of interest», i.e. strengthening the ethical-ideological character expressed by the single works. This does not however betray a narrative primitivism but constitutes instead a strategic choice. in many of her works Serao varies enunciative solutions, proving to be a forerunner of modernist techniques, including a sensibility towards issues of gender.
1. Per entrare con il piede giusto in uno degli aspetti a mio avviso più interessanti e qualificanti della tecnica narrativa di Matilde Serao, è utile usare la nozione di centro d’interesse. È stato in particolare Seymour Chatman, in un libro di una trentina d’anni fa, ad aver proposto questo sintagma, che nella forma originale suona come interestfocus1. L’espressione sostituisce o piuttosto affianca la serie infinita di tecnicismi narratologici legati alla nozione di punto di vista: dall’idea jamesiana di un personaggio riflettore, alla focalizzazione di Genette, alla prospettiva di Stanzel, magari passando attraverso l’ocularizzazione del cinema o alle nozioni di slant o di filtro proposte dallo stesso Chatman. E così via. il vantaggio metodologico di ‘centro d’interesse’ consiste nella sua natura qualitativa, valoriale, piuttosto che tecnica in
Paolo Giovannetti: università iuLM, Milano; professore ordinario di Letteratura italiana contemporanea; paolo.giovannetti@iulm.it 1 Seymour Chatman, Coming to Terms. The Rhetoric of Narrative in Fiction and Film, ithaca-London, Cornwell university Press, 1990, p. 148 e passim.
III. Le tecniche e le poetiche
paolo giovannetti834 senso stretto: rappresentando esso, con estrema chiarezza, il fulcro, il fuoco non tanto (o comunque non solo) delle percezioni fisiche di un racconto, ma della valutazione – a carico di un personaggio – dei contenuti etici, sociali, politici implicati nella storia. il dato sensoriale, cioè, è sussunto da una serie di questioni strategiche complessive, che suggeriscono, più che una prospettiva, una Weltanschauung, la maniera migliore di cogliere il nocciolo della realtà narrativa, lo storyworld in tutta la sua complessità ideale e persino ideologica. E questo tipo di considerazione vale in particolare per opere, come Il paese di cuccagna (prima edizione 1891), in cui è presente una voce narrante di tipo (fortemente) autoriale. il cosiddetto ‘narratore onnisciente’, genettianamente non-focalizzato, tende ad appoggiarsi a certi personaggi focali per definire in modo più nitido la propria visione della realtà. Ma procediamo con ordine. L’incipit del Paese di cuccagna ci consente intanto di cogliere una costante della voce di questo narratore (i corsivi sono miei): Dopo mezzogiorno il sole penetrò nella piazzetta dei Banchi Nuovi, allargandosi dalla litografia Cardone alla farmacia Cappa e di là si venne allungando, allungando, risalendo tutta la strada di Santa Chiara, dando una insolita gaiezza di luce a quella via che conserva sempre, anche nelle ore di maggior movimento, un gelido aspetto fra claustrale e monastico. Ma il gran movimento mattinale di via Santa Chiara, delle persone che scendono dai quartieri settentrionali della città, Avvocata, Stella, San Carlo all’Arena, San Lorenzo e se ne vanno ai quartieri bassi di Porto, Pendino e Mercato, o viceversa, dopo il mezzogiorno andava lentamente decrescendo; l’andirivieni delle carrozze, dei carri, dei venditori ambulanti cessava; era un continuo scantonare per il chiostro di Santa Chiara, per il vico 1.° Foglia, verso la viuzza di Mezzocannone, verso il Gesù Nuovo, verso San Giovanni Maggiore2.
Si può parlare, in maniera leggermente provocatoria, di una descrizione raccontata, vale a dire di una descrizione che rivela la dominanza di una voce narrante intenzionata a esaurire uno spazio ma attenta anche a evitare ogni effetto di focalizzazione interna. i due predicati verbali iniziali ne sono la prova lampante: penetrò e non *penetrava, si venne allungando e non *si veniva allungando; l’alternativa ogni volta scartata, forse più conforme all’impersonalità naturalista, avrebbe implicato una sorta di coinvolgimento prospettico nei luoghi rap
2 Matilde Serao, Il paese di cuccagna. Romanzo napoletano, Milano, Treves, 1891, p. 1.
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i ‘centri d’interesse’ del paese di cuccagna 835 presentati. un paio d’anni prima, del resto, Verga aveva cominciato Mastro-don Gesualdo così (corsivi miei): Suonava la messa dell’alba a San Giovanni; ma il paesetto dormiva ancora della grossa, perché era piovuto da tre giorni, e nei seminati ci si affondava fino a mezza gamba. Tutt’a un tratto, nel silenzio, s’udì un rovinìo, la campanella squillante di Sant’Agata che chiamava aiuto, usci e finestre che sbattevano, la gente che scappava fuori in camicia, gridando: – Terremoto! San Gregorio Magno! Era ancora buio. Lontano, nell’ampia distesa nera dell’Alìa, ammiccava soltanto un lume di carbonai, e più a sinistra la stella del mattino, sopra un nuvolone basso che tagliava l’alba nel lungo altipiano del Paradiso. Per tutta la campagna diffondevasi un uggiolare lugubre di cani. E subito, dal quartiere basso, giunse il suono grave del campanone di San Giovanni che dava l’allarme anch’esso; poi la campana fessa di San Vito […]3.
imperfetto e trapassato prossimo comportano la definizione di un centro deittico interno al mondo raffigurato, la costruzione di una messa fuoco da parte di un anonimo abitante di Vizzini, alla stregua di un cittadino prototipico che non coincide con nessun personaggio. La visività verghiana è di natura opposta rispetto a quella di Serao: se là coglievamo in azione l’orientamento di un narratore che dirige la descrizione – il racconto di una descrizione, appunto –, qui assistiamo al racconto di una percezione anonima, in grado a sua volta di veicolare una descrizione. resta da spiegare, nel testo di Serao, l’uso del presente, all’inizio rafforzato dall’avverbio di tempo: «conserva sempre». Si tratta di un presente che non possiamo che definire descrittivo o atemporale, in grado di nuovo di filtrare la storia attraverso un’istanza disincarnata che comporta un coinvolgimento più intellettuale che sensoriale; semmai, quel tempo verbale suggerisce l’idea che narratore e lettore abbiano qualche familiarità con i contenuti della storia. Se Verga ci invita a far parte di uno spazio sconosciuto attraverso la deissi interna a carico di un essere finzionale ‘qualunque’, Serao ci mette di fronte a un luogo che lei (in quanto ‘voce’) padroneggia e che si presume che anche il lettore (per lo meno quello che abbia a che fare con Napoli) sia tenuto a conoscere. Quest’ultimo ragionamento può sembrare un po’ arduo, ma credo che alla fine del mio intervento risulterà leggermente più chiara la particolare strategia ottica e conoscitiva di Serao.
3 Giovanni Verga, Mastro-don Gesualdo 1889, in appendice l’edizione 1888, a cura di Giancarlo Mazzacurati, Torino, Einaudi, 1992, pp. 5-6.
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paolo giovannetti836 Ma veniamo al centro d’interesse, alle sue manifestazioni. All’inizio del capitolo ii, ecco come vengono presentati Luisa e Cesare Fragalà, il giorno del battesimo della loro figlia Agnesina: – Agnesina Fragalà, bella figlia di papà, – diceva il giovane padre, curvo sulla culla di ottone luccicante come oro, tenendo aperte le cortine di merletto tutte annodate da nastri color di rosa, e vezzeggiando con le parole, con lo sguardo, col sorriso, la neonata rosea che dormiva placidamente […]. – Zitto, Cesare: farai svegliare la bimba, – mormorò sottovoce la madre, dalla toilette presso cui era seduta. – Tanto si dovrà svegliare più tardi – rispose il padre, abbassando però la voce e socchiudendo le cortine. – Non la dobbiamo mostrare ai nostri invitati? […] il lieve edificio dei nerissimi capelli di Luisa Fragalà era stato costruito con sapienza e con leggiadria: qualche ricciolo ombreggiava la breve fronte bruna e il giovanile volto ovale, dalle nere, sottili sopracciglia che sembravano arricciate, dai lunghi occhi d’Oriente di un bigio scintillante, fra dolce e malizioso, dal naso un po’ lungo, un po’ grosso, ma non goffo, dalla bocca infantile, rossa come un garofano, aveva un fascino di gioventù, di freschezza che faceva sorridere di compiacenza l’ancora innamorato marito. Anche Cesare Fragalà era giovane e bello; un po’ feminilmente bello, forse; aveva la pelle bianca come quella di una donna e i capelli castani ricciuti, ricciuti fin sulla fronte, fin sulle tempie, scoprendo, talvolta, la cute bianca della testa; il volto era rotondo, ancora un po’ infantile, malgrado i ventotto anni; ma un pallore uguale, caldo, meridionale, tutto virile, era sulle guancie accuratamente rase, ma un paio di mustacchi castani, folti un po’ arricciati alle punte, correggevano subito il carattere feminile e infantile di quel volto d’uomo4.
una perfetta dinamica autoriale, apparentemente. La descrizione dei due giovani è solo blandamente focalizzata nella prospettiva di lui (cfr. «aveva un fascino […] che faceva sorridere […] l’ancora innamorato marito»), quasi per nulla nella prospettiva di lei. Vero è che dietro lo sguardo del narratore ‘al femminile’ fa almeno per un attimo capolino la percezione della ragazza che coglie «il carattere feminile» dell’amato. È un dettaglio, quasi un’esca, che prenderà corpo nel corso del romanzo, perché Cesare si rivelerà essere marito debolissimo, privo di forza morale. Com’è noto, quando si tratta di Napoli, delle sue caratteristiche
4 Ivi, pp. 26-27.
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i ‘centri d’interesse’ del paese di cuccagna 837 sociali e storiche, quella di Serao è invece una procedura fortemente esplicativa, latamente giornalistica, nel senso che tutto della vita partenopea contemporanea, e non solo ciò che riguarda il gioco del lotto, deve essere illustrato e chiosato. un esempio fra gli infiniti possibili, tratto dal capitolo X: Calendimaggio è bello, in Napoli, per il soffio carezzoso dell’aria, per le vivide strisce di cielo azzurro, che finiscono per dar gaiezza alle strade più tetre e più truci: è bello calendimaggio, per le rose che germogliano da tutte le parti, che pare sgorghino finanche dalle mani delle donne e dei fanciulli, per tutti i semplici fiori dei giardini e degli orti: è in calendimaggio, la festa del miracoloso san Gennaro: è in calendimaggio che le reliquie di san Gennaro sono portate dal Duomo, dove sono preziosamente deposte nei sotterranei che portano il nome di Succorpo e Tesoro di San Gennaro, alla chiesa di Santa Chiara, perché il santo si degni, pregato dalla popolazione, di fare il miracolo della ebollizione del sangue5.
Assai più interessante è appunto cogliere il ruolo strategico di certi personaggi focali, solitamente femminili, che si fanno carico di amplificare al meglio alcuni temi-cardine. Ecco, nel capitolo ii, come viene introdotta la figura inquietante dell’assistito, lo straccione che millanta la propria capacità di predire i numeri che saranno estratti: […] Luisella Fragalà, singolarmente interessata, obbedendo a una voce interna, non poteva staccare gli occhi da quella bizzarra figura immobile. Era un uomo fra i trentacinque e i quaranta anni, col pallido volto emaciato di chi ha fatto un lungo e disastroso viaggio: una fitta barba nera un po’ riccia, incolta, scendeva dalle guance striate di un rosso malaticcio e nascondeva qualunque traccia di biancheria e di cravatta, al collo di quell’uomo; […]. E tutto l’uomo aveva un aspetto nel medesimo tempo malaticcio e misterioso, miserabile e ignobile nella miseria; e i suoi occhi scuri vagavano, di qua e di là, senza fermarsi mai un minuto sullo stesso punto, avendo la stessa espressione di mistero e d’ignobilità di tutta la sua persona6.
il centro d’interesse è il personaggio di Luisella, che è attratta da una persona affatto misteriosa, incomprensibile, poiché la voce narrante almeno all’inizio non la affronta secondo una procedura onnisciente. La sensibilità femminile, anche se ignara dei risvolti fattuali, deve insospettirsi di fronte a persone del genere. in questo caso è come
5 Ivi, p. 189. 6 Ivi, pp. 44-45.
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paolo giovannetti838 se il narratore delegasse Luisella a mettere in cattiva luce una certa figura narrativa, pur in assenza – appunto – di una spiegazione dettagliata. Parallela e complementare a questo percorso prolettico (il lettore attende il momento in cui il narratore fornirà una spiegazione) è la perfetta solidarietà tra sentimento del personaggio e sentimento della voce narrante. Di nuovo, si tratta di una forma di delega, ma senza alcuna suspense. il punto è che in questi casi entra in gioco l’armamentario del romanzo pre-modernista, fatto di psiconarrazione e soprattutto di monologo narrato. Siamo nel cap. V, e protagonista è Carmela la sigaraia: Aspettava, lì, a veder passare il suo eterno fidanzato raffaele detto Farfariello, che era in carrozza, con quattro altri compagni, con vestiti e cappelli eguali, ché anzi, per aver questo vestito, ella aveva dovuto rivendere certe casseruole di rame, un cassettone e due rami lunghi di fiori artificiali sotto campana, roba tutta che ella conservava per il suo matrimonio. Come le si era straziata l’anima a vendere quella roba, comperata pezzo a pezzo, a furia di stenti! Ma raffaele le aveva volute, a forza, quaranta lire – sangue di una lumaca! – perché si disperava di far cattiva figura con i compagni ed ella, che impallidiva quando lo udiva bestemmiare, aveva venduto quegli oggetti, all’impazzata […]7.
Tra l’altro si noti che a partire da «Ma raffaele» il punto di vista del fidanzato si mescola a quello di Carmela. Quasi fossimo di fronte a una percezione nella percezione, secondo un doppio incassamento:
1. La voce narrante afferma che 2. Carmela pensa e percepisce sé e 3. ciò che raffaele pensa e percepisce.
L’effetto melodrammatico è fin troppo evidente, e non è il caso di insistervi troppo. Semmai, sarà da registrare una sorta di lapsus del narratore autoriale, che pochissime pagine dopo finisce quasi per condividere la sofferenza del personaggio dietro il quale sino a quel punto si era nascosto. Nello stesso capitolo, dunque, leggiamo: in una carrozza era passato don raffaele, detto Farfariello, l’eterno fidanzato dell’appassionata Carmela: egli e i compagni suoi, per farsi veder meglio, avevano pensato di sedersi sul soffietto della carrozza, e
7 Ivi, pp. 109-110.
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i ‘centri d’interesse’ del paese di cuccagna 839
salutavano la folla, agitando dei fazzoletti di seta bianca, in punta alle mazze, come bandiere. Ahimè, egli non la vide, la ragazza che lo aspettava da tante ore all’angolo del vico D’Affitto, ed ella che aveva gridato, agitato le braccia, agitato una pezzuola bianca, restò stordita […]8.
A chi dobbiamo attribuire quell’Ahimè? Se è vero che siamo di fronte al racconto di un sentimento, quello di Carmela, è però anche vero che in questo caso esso si manifesta in maniera pochissimo focalizzata. Qui, il narratore assiste a un episodio lacrimevole con scarso incremento di ‘personalizzazione’, cioè di coinvolgimento attivo del personaggio; e finisce perciò per sospirare in prima persona condividendo il dolore del proprio delegato diegetico. Non siamo lontani dal vero o dal verosimile se dichiariamo che si tratta di un difetto di pianificazione rappresentativa, non essendo a ben vedere così frequente, nel Paese di cuccagna, che chi racconta la storia si esponga con un’enfasi tanto evidente. Molto più sintomatico, forse, è il caso (abbastanza raro, e quasi per definizione) in cui il narratore assuma una posizione divergente rispetto alla mediazione narrativa del personaggio-idea. Notevolissimo è il seguente passo, tratto dal cap. iX, in cui il nobile ludopata Carlo Cavalcanti scruta la figlia Bianca Maria addormentata, attendendo che inconsapevolmente gli riveli qualcosa di utile per il gioco del lotto. Che questa fanciulla sia uno dei centri d’interesse privilegiati, quasi non è il caso di dire. La sua alienazione tra le braccia del padre appare pertanto ancor più significativa: Adesso, cessato il batter dei denti, col respiro corto che parea le uscisse a stento dalla gola, ella ardeva tutta, il suo alito breve bruciava il collo del padre, dove la sua testa si appoggiava. A questo fiato ardente si univa il batter rapido, rapido dei polsi pieni, e il battito rapido e pieno delle tempie. Ma il marchese Cavalcanti, preso interamente dalla sua follia, nella notte gelida, in quella penombra misteriosa, accanto a quella povera anima addormentata in quell’involucro tormentato, aveva smarrito il senso del reale: e la sua ammalata fantasia assaporava acutamente il dramma di quell’ora, senza intenderne la crudeltà. Egli, anzi, vibrava di gioia, poiché credeva giunto il gran momento della rivelazione dello spirito: la fortuna di casa Cavalcanti, ecco, in quel minuto si decideva. Le ansie, i terrori, le convulsioni, le tronche parole di sua figlia si spiegavano: era l’approssimazione della Grazia. Tanto tempo, tanto tempo era passato nella infelicità e nella miseria: e ora tutto si risolveva: l’indomani, lui e sua figlia sarebbero ricchi a mi
8 Ivi, p. 115.
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lioni. Oppressa, affannata, Bianca Maria era scivolata dal petto di suo padre sui cuscini e si udiva il sibilo del suo respiro, si vedevano i suoi brillare stranamente9.
È importante il dettaglio di natura tattile, dal momento che Carlo Cavalcanti sente il calore della pelle della figlia, i tremiti del suo corpo. Siamo cioè di fronte (primi due periodi) a una percezione indiretta libera quasi esemplare. Segue un intervento della voce narrante, che va progressivamente sfumando (cfr. in particolare «la fortuna […] si decideva») in un monologo narrato, nella forma appunto dell’indiretto libero: «Le ansie […] a milioni». Dentro di sé il vecchio fantastica febbrilmente il guadagno che potrebbe riscattarlo da anni di rovina. il fatto essenziale è che il centro d’interesse, appunto sfigurato dai comportamenti convulsi del padre, esce vincente da una contrapposizione esemplarmente mélo. La condizione patetica in cui versa Bianca Maria meglio risplende nella rappresentazione tendenzialmente immediata, non mediata, dei pensieri e delle brame del nobiluomo decaduto. L’interest-focus è – ripeto – costituito dalla fanciulla, anche se il centro focale, in senso genettiano, è quello di Carlo Cavalcanti. Alla Serao del Paese di cuccagna preme l’efficacia di una rappresentazione in cui le forme del racconto flaubertiano, naturalista-verista, vengano messe al servizio di un a priori tra l’etico e il sentimentale.
2. una domanda va però fatta. Tutto ciò suggerisce qualcosa di impegnativo quanto al valore della nostra scrittrice? È corretto parlare di una sorta di monologismo, in ultima analisi ideologico, della sua scrittura narrativa, appunto nel senso che certi a priori vi fanno premio su ogni altra istanza, a partire ovviamente dall’impersonalità? E si tenga presente che ‘impersonale’ significa innanzi tutto, nella prospettiva più ampia della narrativa modernista, tendenziale cancellazione della voce narrante autoriale, e quindi largo protagonismo del personaggio, non più trattato alla stregua di un delegato dell’autore-narratore, cioè, stanzelianamente, del narratore autoriale10. Se quanto ho argomentato sopra è corretto, la Serao del Paese di cuccagna vampirizza i propri personaggi, li tiene sotto controllo e li svuota di valore attraverso un’accorta procedura, gestita dalla voce che dispiega i fatti sotto i nostri occhi.
9 Ivi, pp. 177-178. 10 Cfr. Franz Karl Stanzel, A Theory of Narrative, preface by Paul Hernadi, translated by Charlotte Goedsche, Cambridge, Cambridge university Press, 1984.
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i ‘centri d’interesse’ del paese di cuccagna 841 Vi sono evidentissimi sintomi della persistenza di questo metodo, in particolare in ambiti che forse avrebbero richiesto tecniche diverse. Propongo tre esempi, in effetti sintomatici. in primo luogo colpisce che, in un libro come Leggende napoletane (1881), dall’impostazione almeno in senso lato etnologica, Serao adotti radicali di presentazione che suonano «La quale istoria fu così»11, per di più all’interno di un esplicito coinvolgimento in prima persona della voce narrante. Vale a dire che, nel raccontare un patrimonio di leggende popolari, l’autrice si presenta attraverso una specie di enunciatore oggettivo, impegnato a veicolare qualcosa che non ha origine dalla ‘bocca del popolo’. Serao non riferisce storie udite ma certifica l’esistenza di una storia di cui è garante, e quindi è da lei stessa ‘incorporata’. Su questo coinvolgimento corporeo dovremo ritornare. Ma per il momento è curioso scoprire che il fenomeno si palesa davanti a qualcosa di molto esterno al soggetto narrativo. Leggermente diverso quanto a natura narratologica è il secondo esempio, relativo al lungo racconto All’erta, sentinella!12 del 1889. il figlioletto del capitano Gigli, direttore del carcere di Nisida, si ammala di difterite e sta per morire. il gioco di focalizzazioni è curioso, anche se credo non infrequente in un certo tipo di racconto popolare ottocentesco. il narratore fornisce ai lettori tutti gli strumenti, diciamo, diagnostici perché si possa inferire che il bambino sta morendo; non solo, è modulata con chiarezza la percezione che il fanciullo ha dei genitori stretti al suo capezzale. in definitiva, il bimbo sa di essere in punto di morte e si preoccupa per i suoi cari; ma loro non si accorgono di nulla: né della gravità della malattia né – a maggior ragione – del sentimento del figlio. È, a ben vedere, un rafforzamento in direzione – per l’ennesima volta – melodrammatica della strategia connessa all’interest-focus: l’inverosimiglianza dell’episodio passa in secondo piano rispetto all’investimento empatico richiesto al lettore, e strenuamente sostenuto dal narratore. Terzo esempio. Nella silloge Le amanti (1894) è contenuto il raccon
11 Cfr. M. Serao, Leggende napoletane, Milano, Ottino, 1881, p. 161: è l’incipit di Lu munaciello. Solo nell’introduzione al Segreto del mago, pp. 111-112, agisce il paradigma dell’ascolto (la narratrice racconta una storia udita); in tutti gli altri casi, la soggettività del popolo è reificata – assunta come dato – e fatta propria dalla voce narrante. 12 Cfr. M. Serao, All’erta, sentinella! Terno secco. Trenta per cento. O Giovannino o la morte. Racconti napoletani, Milano, Treves, 1889, pp. 1-135; l’episodio in questione è raccontato alle pp. 114-117.
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paolo giovannetti842 to L’amante sciocca13, in cui il gioco dei centri d’interesse e il loro almeno apparente annullamento (nella forma della focalizzazione zero) sono gestiti in modo quasi funambolico. il protagonista è Paolo Spada, un Andrea Sperelli in trentaduesimo: alla ricerca di un’amante ingenua, priva di vera autonomia, si imbatte in quella che può sembrare la donna perfetta. Nella seconda parte, vediamo il protagonista soprattutto attraverso gli occhi ‘sciocchi’ della malcapitata, Adele Cima, che peraltro idealizza il proprio seduttore, con atteggiamento affatto inconsapevole. il finale, secondo un plotting appunto programmato, è privo di focalizzazione: e certifica in modo oggettivo l’avvenuta reificazione della malcapitata. Ovviamente, qui il ‘patetico’, cioè la collusione del lettore con gli affetti messi a tema, prelude a un effetto ironico, novellistico in senso tradizionale, quasi boccacciano. Non per questo la strumentalizzazione del personaggio è meno evidente. Forse, anzi, lo è ancora di più, vista la struttura quasi sillogistica. Sintetizzando: se A vede in B la donna sciocca, e se B vede in A il grande amore, allora B viene asservita sentimentalmente ad A.
3. Ciononostante, sarà il caso di fare un passo oltre, e cercare di cogliere anche altri aspetti del narrare di Serao. intanto, non dobbiamo dimenticare la tecnica di un romanzo nient’affatto banale come La conquista di Roma (di datazione piuttosto alta, 1885). Qui, un lettore poco esperto delle tante maniere della scrittrice potrebbe essere colpito dal rigore con cui è realizzata una narrazione figurale, poiché il romanzo si concentra sull’esperienza del protagonista, nel caso alternandola con quella dei suoi interlocutori o con quella di un percipiente anonimo. Pagine come la seguente sono di fatto la norma: Egli restò colpito. il domino sfilò tra la folla e scomparve. La notizia lo aveva meravigliato, molto: non se l’aspettava. Che ne aveva ricavato dal suo grande discorso? una discussione lusinghiera col capo della destra, don Mario Tasca, l’oratore freddo, mite ed elegante, il moderato socialista, l’uomo politico che aveva perduto il proprio partito per la nebulosità delle proprie tendenze. E poi saluti, presentazioni, strette di mano. il ministro, rispondendo, aveva reso omaggio all’avversario, ma aveva insistito sulla proposta, e la Camera aveva votato il bilancio con una forte maggioranza. Chi si occupava più del suo discorso? L’onorevole Dalma glielo aveva detto, con quel suo poetico cinismo parlamentare: – in politica tutto si dimentica –14.
13 Cfr. M. Serao, L’amante sciocca, in Ead., Le amanti, Milano, Treves, 1894, pp. 217-299. 14 M. Serao, La conquista di Roma. Romanzo, Firenze, Barbèra, 1885, p. 157.
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i ‘centri d’interesse’ del paese di cuccagna 843 Psiconarrazione e percezione indiretta libera, con inserti di monologo narrato (e cioè discorso indiretto libero), dominano e lasciano in disparte il narratore, riducendone cioè – e di molto – l’azione enunciativa. Qui, con ogni evidenza, è messa a partito la lezione del miglior Flaubert, ma anche quella di Verga; il romanzo che «si fa da sé» prende forma grazie alla cognizione embodied del mondo caratteristica della dramatis persona, e non attraverso la situazione narrativa ereditata dalla tradizione balzacchiana o manzoniana o, peggio, ohnettiana (Le maître de forge è del 1882). Decisivo però mi sembra un altro modo di procedere, imparentato sì con certe modalità melodrammatiche, ma suscettibile di guardare oltre. Mi riferisco cioè alla capacità che Serao ha di raccontare il pensiero femminile assumendo una posizione di omodiegesi paradossale, esibendo cioè un atteggiamento a un tempo distaccato e partecipe. Per cominciare a intenderci, leggiamo un passo del Romanzo della fanciulla, tratto da uno dei bozzetti che si intitola Nella lava: rideva finanche la povera Enrichetta Brown, che quella sera aveva messo un vestito di broccato rosso nuovo ed un paio di orecchini di rubini, bellissimi; accanto a lei il vecchione geloso aveva una parrucca rossa, nuovissima, e la dentiera luccicava nella sua cornice d’oro […]. Ella sentiva, sì, sentiva in coloro che la incontravano, la pietà, la curiosità fredda, il biasimo, il disprezzo; ella sentiva sovra sé il vario giudizio della gente, ella che bella, giovane e povera, volontariamente aveva voluto sposare un vecchione schifoso e ricco, e i più benevolenti la compativano, sì, ma non la trovavano poi tanto infelice, con tutti quei quattrini, e i più severi l’accusavano d’ingordigia, la ritenevano per una venduta del matrimonio15.
il personaggio di Enrichetta Brown è molto importante, perché interpreta bene un topos del romanticismo italiano, un suo plotting ricorrente: quello della giovane di bassa condizione (si tratta solitamente di una piccola borghesia impoverita) data in sposa a un vecchio, e perciò moralmente legittimata a tradirlo. Qui, tuttavia, si noti come la voce narrante lasci spazio a due livelli di percezione: da un lato a ciò che la gente pensa di Enrichetta, dall’altro a ciò che Enrichetta vede negli sguardi degli altri. La fanciulla si vede vista: e in questo sguardo straniato oggettiva la propria alienazione. i pensieri, dunque, sono qualcosa che può essere colto dall’esterno.
15 M. Serao, Il romanzo della fanciulla. La virtù di Checchina, a cura di Francesco Bruni, Napoli, Liguori, 1985, p. 124.
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paolo giovannetti844 Nella nota prefazione al Romanzo della fanciulla16 Serao è stata a questo proposito chiarissima, allorché ha cercato di differenziare la propria opera da quella di Edmond de Goncourt, ossia dal romanzo Chérie, che giudica fallito. il punto è che, afferma Serao, le fanciulle non si confessano mai: la loro condizione sociale le costringe a una posizione di osservatrici degli altrui comportamenti. «Niuno più della fanciulla sente acutamente la vita, in un contrasto talvolta comico, talvolta doloroso». il suo essere condannata a una posizione silente fa sì che la capacità «intuitiva» e una «favolosa tenacità di memoria» siano le virtù fondamentali. Paradossalmente, visto il linguaggio usato, la sensibilità femminile sembra propiziare una procedura in senso lato naturalista, se è vero che la ragazza più di un giovane maschio sa gestire attivamente dei documenti umani: «quelle belle angelette sognanti debbono, per necessità di difesa, essere implacabili raccoglitrici dei documenti umani». Ne discende, a me sembra, una poetica dello sguardo narrativo femminile. Nel Romanzo della fanciulla in particolare, la voce narrante che l’autrice rivendica come propria (dicendosi «fedele, umile cronista della mia memoria»17) coglie nelle persone e negli oggetti contenuti impliciti che solo una sensibilità di genere è in grado di discernere e interpretare. Nello sguardo dunque è già presente qualcosa come un giudizio, una considerazione di valore orientata, tendenziosa, quando non maliziosa (o, per l’ennesima volta, melodrammatica). D’altronde, la fedeltà di Serao a questo tipo di procedura la porta a scrivere pagine come la seguente, che si presta a molte considerazioni (si tratta dell’attacco della terza parte di Nella lava): Era un grande stanzone quadrato, senza parato, dipinto semplicemente di giallo smorto: sui mattoni grezzi, sempre polverosi, malgrado l’acqua che vi buttava sempre la signora Caputo, non vi era tappeto. Lungo la parete un divano di lana cremisi, sfiancato, le due poltrone anche di lana cremisi, coperte di pezzi di merletto all’uncinetto, lavoro speciale di Enrichetta: due o tre scaffaletti di legno nero dipinto, vecchio, scrostato, su cui giacevano dei gingilli antichi e brutti, un albo di vecchie fotografie, certe scatolette di cartone coperte di conchiglie, certe bomboniere di raso stinto: un tavolino tondo in un canto, coperto di marmo bianco, già tutto macchiato di giallo, senza tappeto sopra, su
16 Su cui scrive parole interessanti Giorgia Laricchia, La soggettività femminile nel romanzo della fanciulla di Matilde Serao, «Status quaestionis», 12 (2017), pp. 210-235. 17 Le precedenti citazioni sono tratta da M. Serao, Il romanzo della fanciulla, cit., pp. 3-5.
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i ‘centri d’interesse’ del paese di cuccagna 845
cui erano posati due lumi: un pianoforte verticale, piccolino, con la spalliera di seta rossa tutta tagliuzzata e stinta: una quarantina di sedie di paglia, scompagnate, più basse, più piccole, con la spalliera rossa, con la spalliera nera: ecco tutto il mobilio18.
Tutto sommato, potremmo invocare una procedura di focalizzazione esterna, di cui certo figurano diverse infrazioni ma che sembra costituire, diciamo, il frame percettivo dominante. in realtà, aleggia una sorta di pathos implicito: nel senso che chi guarda sta di fatto argomentando la povertà di Enrichetta Caputo e di sua madre, le quali tuttavia hanno avuto l’ardire di organizzare una festa da ballo in uno spazio tanto misero. E infatti dentro tale squallore non potrà che naufragare definitivamente il fidanzamento della bella Enrichetta, che sarà rimpiazzata dalla brutta ma ricca Eugenia. Cruciale, appunto, è la condizione di eterodiegesi ‘interna’, corretta cioè da una sorta di implicazione enunciativa di tipo ideologico. La voce narrante di Serao apparentemente eterodiegetica si rivela all’opposto screziata di omodiegesi: la sua natura sessuata la costringe a stare dentro le cose, a condividere senza residui i valori femminili che nel racconto si dispiegano. È, quasi, lo stesso paradosso che Dorrit Cohn invoca di fronte alla voce narrante del testo storico19. uno storico, anche nel caso dei resoconti più scientificamente impassibili, non può non essere parte integrante di ciò che rappresenta; la sua voce è quella di qualcuno che appartiene all’umanità rappresentata, e quindi condivide i limiti che caratterizzano la nostra fisicità: e che invece il narratore autoriale non possiede (come l’impossibilità, per esempio, di narrare o restituire i pensieri dei personaggi). La narratrice sessuata è in una posizione simile: è tenuta a mostrare il contenuto gender della storia, che un occhio maschile non vedrebbe. L’iniziale ‘onniscienza’ è dunque affetta da una strisciante omodiegesi. E appunto questa implicazione se da un lato sembra far saltare le tradizionali categorie narratologiche, da un altro lato apre la strada alle tecniche cosiddette camera-eye. L’impassibilità di certi sguardi, di certe narrazioni contiene – di fatto – una soggettività, una forma di partecipazione ai destini morali del mondo. intravvedere la figura di Marguerite Duras dietro la melodramma
18 Ivi, pp. 120-121. 19 Cfr. Dorrit Cohn, Signposts of Fictionality. A narratological Approach, in Ead., The Distinction of Fiction, Baltimore and London, The Johns Hopkins university Press, 1999, pp. 109-31.
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paolo giovannetti846 tica Matilde Serao può farci sorridere – lo so. Ma una piccola verità in questa osservazione c’è: che la nostra scrittrice aveva molte più frecce al suo arco di quante forse non siamo abituati a vedere; e che un certo suo eclettismo enunciativo era frutto di un atteggiamento sperimentale (in senso, s’intende, zoliano) impegnato a esplorare le procedure narrative più adatte al tipo di rappresentazione via via pianificata. Mi rendo conto che questa conclusione in realtà apre una serie di questioni da dibattere20. Ma spero che future ricerche su Serao sondino quelli che, beninteso, non sono affatto (solo) tecnicismi.
Paolo Giovannetti università iuLM – Milano
20 A partire dalle note obiezioni di Pierluigi Pellini alla poetica verghiana, che potrebbero essere estese a Serao: se in Zola, afferma Pellini, il metodo naturalista è unico e si applica indifferentemente a ogni materia e tema, in Verga (e in Serao) agirebbe ancora una distinzione degli stili, che infatti devono cambiare a seconda delle realtà rappresentate. Cfr. Pierluigi Pellini, Naturalismo e verismo. Zola, Verga e la poetica del romanzo, Firenze, Le Monnier, 2010, pp. 128-135.
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FiLiPPO PENNACCHiO «Un pensiero sulla fronte, negli occhi, sulle labbra». Racconto figurale e istanze melodrammatiche in Fantasia di Matilde Serao
il saggio esamina in ottica narratologica il romanzo Fantasia di Matilde Serao, per mettere in luce, da un lato, la compresenza al suo interno di più modi di raccontare, dall’altro, le strategie a cui la scrittrice è ricorsa per dare forma all’interiorità dei personaggi protagonisti della storia. in particolare, si argomenta come nel romanzo convivano dinamiche di tipo figurale, per cui i contenuti narrativi sono filtrati dal punto di vista dei personaggi, e istanze di natura melodrammatica, tese alla teatralizzazione della sfera interiore di questi ultimi.
★ This essay examines from a narratological standpoint Matilde Serao’s novel Fantasia. it demonstrates, on the one hand, the coexistence of differing narrative techniques, on the other hand, the strategies deployed by the writer in giving form to the inner life of the major characters in the story. in particular, it argues that the novel contains both figural dynamics, by which the narrative subject matter is filtered from the point of view of the characters, and at the same time elements of a melodramatic nature, aimed at dramatizing the inner life of the latter.
1. intorno all’opera narrativa di Matilde Serao, com’è noto, si è scritto molto; in particolare, la critica si è soffermata sui temi in essa affrontati, sui modelli letterari presunti ed effettivi che nei singoli testi agirebbero, oltre che sui legami fra questi e l’attività giornalistica della scrittrice1. Meno è stato scritto, invece, sugli aspetti più propriamente tec
Filippo Pennacchio: università iuLM, Milano; assegnista di ricerca; filippo. pennacchio@gmail.com 1 impossibile, qui, indicare tutti i testi critici in cui questi aspetti, insieme ad altri centrali nell’attività letteraria ed extra-letteraria di Serao, sono stati trattati. Mi limito dunque a segnalare – in ordine di pubblicazione – alcune fra le principali ricognizioni d’insieme sulla scrittrice, a cui rimando per indicazioni bibliografiche più esaustive: Marie-Gracieuse Martin-Gistucci, L’œuvre romanesque de Matilde Serao, Grenoble, PuG, 1973; Vittoria Pascale, Sulla prosa narrativa di Matilde Serao. Con un contributo bibliografico (1877-1890), Napoli, Liguori, 1989; Tommaso
filippo pennacchio848 nici della narrativa di Serao, vale a dire sui modi di raccontare a cui quest’ultima è ricorsa di volta in volta per dare forma ai contenuti delle sue storie. Le prossime pagine si muovono invece in questa direzione: l’ipotesi è che lo studio ravvicinato delle dinamiche narrative attive nei testi di Serao possa metterne in luce aspetti importanti, aspetti che è probabile consentano di riflettere anche sulla sua opera in generale, su come essa si collochi nel quadro della letteratura italiana tardo-ottocentesca e poi primo-novecentesca, in particolare in relazione al consolidarsi della koinè verista da un lato e, dall’altro, all’emergere di una serie di istanze che presero più compiutamente corpo nella cosiddetta svolta interiore di inizio Novecento, con l’interesse crescente da parte di molti scrittori per l’interiorità e per la sua restituzione in termini artistici. Per svolgere questa indagine mi soffermerò su Fantasia, romanzo del 1883 e opera fra le più note di Serao, cercando di metterne in luce le principali caratteristiche formali in relazione al modo di presentare i contenuti narrativi e di restituire l’interiorità dei personaggi protagonisti del romanzo. La scelta di Fantasia è legata essenzialmente al fatto che questo testo è sempre stato considerato, con poche eccezioni (una – notissima – è quella di Edoardo Scarfoglio)2, uno dei migliori e più rappresentativi di Serao3, pubblicato in volume in quello che Antonio
Scappaticci, Introduzione a Matilde Serao, roma-Bari, Laterza, 1995; Laura A. Salsini, Gender Genres. Female Experiences and Narrative Patterns in the Works of Matilde Serao, Londra, Associated university Press, 1999; Wanda De Nunzio Schilardi, L’invenzione del reale: studi su Matilde Serao, Bari, Palomar, 2004; Angelo r. Pupino (a cura di), Matilde Serao: le opere e i giorni. Atti del Convegno di studi, Napoli, 1-4 dicembre 2004, Napoli, Liguori, 2006; Donatella Trotta, La via della penna e dell’ago. Matilde Serao tra giornalismo e letteratura, Napoli, Liguori, 2008. 2 Cfr. Edoardo Scarfoglio, Fantasie dei critici intorno alla Fantasia di Matilde Serao, in id., Il libro di Don Chisciotte, roma, Sommaruga, 1885, pp. 128-145, dove si può leggere, fra le altre cose, che «questo non è un romanzo, è una novella molto esigua, allungata e distesa infinitamente», che «tutte le sue [di Serao] osservazioni sono di seconda mano, e per la più parte false; tutte le sue contemplazioni della vita sono derivate da altri, e quasi sempre paradossali» e che «se alcuno avesse la pazienza di far l’analisi chimica dei romanzi della signorina Serao, troverebbe un miscuglio strano di reminiscenze amalgamate insieme nella papparella d’una prosa qua ciangottante con la più petulante sguaiataggine del dialetto della borghesia napolitana, là incipriata d’una polverina francese, altrove lambiccata e stiracchiata di strane chiazze di colore» (le citazioni sono tratte rispettivamente dalle pp. 134, 137, 138). 3 A ridosso della sua pubblicazione in volume, Francesco Torraca (vedi Saggi e rassegne, Livorno, Vigo, 1885, p. 256) scrisse per esempio che il romanzo «è de’ più belli tra quanti se ne sono stampati in italia da vent’anni a questa parte». Per
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racconto figurale e istanze melodrammatiche in fantasia 849 Palermo ha definito il «biennio aureo della scrittrice»4, cioè il 1883-84, quando venne dato alle stampe anche un altro fra i testi più noti e apprezzati della scrittrice, ovvero La virtù di Checchina5. D’altra parte, dietro a questa scelta c’è anche il fatto che nel romanzo – come del resto nella Virtù di Checchina – agisce a livello tematico il modello di Madame Bovary6, e dunque credo sia interessante riflettere sulla possibilità che questo modello agisca anche sul piano formale, a livello, appunto, delle tecniche narrative.
2. in estrema sintesi, Fantasia racconta la storia di un tradimento. Sullo sfondo di una Napoli ritratta per lo più nei suoi interni domestici e borghesi, Lucia Altimare, una giovane donna incline alla nevrosi e infelicemente sposata con Alberto Sanna, un suo cugino dalla salute cagionevole, s’innamora di Andrea Lieti, marito di Caterina Spaccapietra, sua amica sin dagli anni del collegio, e assieme a lui fugge da Napoli, abbandonando marito e amica e determinando in questo modo una crisi in entrambi, in particolare in Caterina, che nel momento in cui apprende la notizia si toglie la vita. Per capire come Serao abbia dato forma a questi contenuti possiamo ripartire da una pagina a mio avviso esemplare, cioè dall’incipit, o meglio dal quasi incipit7, del secondo capitolo della prima parte, ambientato nel collegio dove si svolge tutta la parte iniziale della storia: Nella classe dove le signorine tricolori prendevano la loro lezione di Storia d’italia, il meriggio afoso si faceva sentire. Due finestre sul giar
Benedetto Croce (vedi Note sulla letteratura italiana nella seconda metà del secolo XIX, «La critica», 1 (1903), p. 344) Fantasia «ci mostra l’arte della Serao nella sua maturità. il romanzo è perfettamente equilibrato», mentre Luigi russo (nei Narratori (1923), a cura di Giulio Ferroni, Palermo, Sellerio, 1987, p. 114) lo considera addirittura «il miglior romanzo della Serao». 4 Antonio Palermo, Da Mastriani a Viviani. Per una storia della letteratura a Napoli fra Otto e Novecento, Napoli, Liguori, 1972, p. 44. 5 Fantasia uscì dapprima sulla «rassegna» fra luglio e agosto 1882, per essere poi stampato in volume, nel 1883, da Casanova a Torino; è da questa edizione che saranno tratte le citazioni delle prossime pagine. La virtù di Checchina uscì invece sulla «Domenica letteraria» dal 25 novembre al 16 dicembre 1883 e fu stampato da Giannotta a Catania. 6 Su questo aspetto, cfr. rosa Maria Palermo Di Stefano, Sur quelques échos de Flaubert dans l’œuvre de Matilde Serao, «Flaubert. revue critique et génétique», 14 (2015), (data di ultima consultazione: 6 giugno 2019). 7 il brano che segue è infatti preceduto da brevi scambi di battute fra alcuni personaggi presenti sulla scena.
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dino, una porta sul corridoio, tre file di banchi, e venti alunne. Sopra una predella alta, la scrivania e la poltrona del professore. i ventaglini si agitavano, dove vivamente, dove con un movimento stracco. Qualche testa si chinava sul libro, come insonnolita. Ginevra Avigliana guardava il professore, fisamente, approvando col capo, mentre il volto aveva la espressione della distrazione. La Minichini, posato il ventaglio, aveva aperto l’occhialino e guardava sfacciatamente il professore col naso in aria, una ciocca di capelli arricciata sulla fronte, ridendo di quel suo riso muto che irritava le maestre. il professore spiegava la lezione a voce bassa. Era piccolo, magro, meschino: poteva avere un trentadue anni, ma la sua faccia emaciata, dove il bruno del colorito s’ingialliva nel pallore di qualche lunga malattia, pareva di un convalescente. una grossa testa di scienziato sopra un corpo miserabile di nano: una criniera folta, selvaggia, dove già apparivano i capelli bianchi: gli occhi fieri, timidi: una barbetta di un nero sporco, rada sulle guancie scarne. una bruttezza infelice e pensierosa. Parlava, immobile, con gli occhi chinati, muovendo solo la mano destra. Sul muro l’ombra di quella mano pareva quella di uno scheletro, tanto era sottile e adunca. Lui spiegava lentamente, scegliendo le frasi. Quelle fanciulle lo intimidivano, alcune perchè intelligenti, altre perchè impertinenti: tutte perchè donne. La sua austerità di studioso si turbava dinanzi a quegli occhi luminosi, dinanzi a quelle forme aggraziate e giovanili: quegli abiti bianchi facevano un miraggio davanti alla severità dell’uomo che si è proibito di sognare8.
in questo passaggio si possono cogliere alcuni aspetti caratteristici del modo di raccontare di Serao in Fantasia, a partire dalla presenza di una voce che non appartiene ad alcun personaggio9 e che è impegnata, almeno nelle prime righe, a mostrare dall’esterno, in modo ‘panoramico’, il mondo della storia, introducendo la classe in cui le giovani educande seguono una lezione e cogliendo alcune fra le dinamiche che al suo interno si sviluppano. Tuttavia, nel giro di poche righe questa voce sembra avvicinarsi ai personaggi, o meglio a un personaggio – Galimberti, il professore che sta tenendo la lezione e che poi, più avanti, cercherà invano di sedurre Lucia – descritto in modo dettagliato, anzi iperdettagliato, come in fondo, nel corso del romanzo, avviene ogni volta che un nuovo personaggio (o un nuovo ambiente) viene introdotto. Non per caso, recensendo il romanzo, Federico De roberto notava come Serao avesse la «smania di voler descriver troppo», per
8 Ivi, pp. 10-11 (il corsivo è nell’originale). 9 il concetto di “voce” si intende ovviamente nell’accezione di Gérard Genette: cfr. Figure III. Discorso del racconto (1972), traduzione di Lina Zecchi, Torino, Einaudi, 1976, pp. 259-310.
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racconto figurale e istanze melodrammatiche in fantasia 851 poi aggiungere che l’autrice «sdrucciola spesso per conto suo nella rettorica, nelle frasi a effetto, che romoreggiano così bene, forse perchè son vuote»10. il descrittivismo dilagante – giudicato severamente da De roberto in una recensione comunque nel complesso positiva – è del resto tipico di Serao, lo si rinviene anche in altre sue opere11; ma nel brano in questione sono altresì notevoli le generalizzazioni gnomiche, ovvero le affermazioni ‘senza tempo’, enunciate al presente, come quella conclusiva, insieme ai giudizi espliciti sui personaggi – in particolare, qui, riferiti alla sgradevolezza fisica di Galimberti e al fatto che sia intimidito dal sesso femminile –; giudizi che sembrano riprendere le opinioni che circolano nel collegio, ciò che tutte le collegiali pensano del loro professore, ma anche denotano una superiore consapevolezza della ‘voce’ che narra. Sta di fatto che di fronte a una pagina del genere possiamo identificare una serie di movenze tipiche di quel narratore che solitamente viene definito onnisciente o autoriale, per riprendere il lessico di Franz Karl Stanzel12. Proseguendo nella lettura, però, tale ruolo non si concretizza coerentemente. in effetti, ricorrono spesso forme impersonali o congetturali (già nel brano in questione, si notino «pareva» e «poteva avere», entrambi riferiti sempre al personaggio al centro della scena)13, che contraddicono l’immagine di un narratore che tutto sa. inoltre, passaggi come quello appena commentato preludono solitamente a vere e proprie scene, cioè a brani che si sviluppano tramite dialoghi. Dopo che la descrizione della classe prosegue per un altro capoverso abbia
10 Federico De roberto, Arabeschi, Catania, Giannotta, 1883, p. 174. 11 Francesco Bruni ha notato per esempio, a proposito del Paese di Cuccagna (ma si tratta di un rilievo estensibile a molte altre opere di Serao, fra cui lo stesso Fantasia), che «a un personaggio [non] si dà la parola senza che prima se ne raffiguri minutamente il fisico e il modo di vestire» (Francesco Bruni, Lingua e tecnica narrativa del verismo meridionale, «Filologia e critica», Vii (1982), p. 207). 12 Cfr. Franz Karl Stanzel, A Theory of Narrative (19822), preface by Paul Hernadi, translated by Charlotte Goedsche, Cambridge, Cambridge university Press, 1984. Va tuttavia precisato che la categoria di narratore era pressoché sconosciuta ai primi interpreti di Serao e più in generale ad autori, critici e lettori di fine Ottocento. Com’è noto, si riteneva comunemente che a raccontare fosse l’autore. 13 Cfr. anche, più avanti, e a campione dalle varie parti del romanzo, passaggi come i seguenti: «La cantatrice fissava l’altare, ma pareva che vedesse qualche cosa di là, pareva che una visione le apparisse»; «La giornata triste, lunga, acquitrinosa, moriva, moriva lentamente in un crepuscolo di pioggia che sembrava già la sera»; «ogni tanto uno stiramento nervoso le moveva la bocca, ma poteva sembrare una risata» (M. Serao, Fantasia, cit., rispettivamente alle pp. 6, 53, 284; i corsivi sono miei).
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filippo pennacchio852 mo per esempio un primo scambio di battute fra un’allieva e la maestra assistente: – Che scrivete nel vostro libro, Pentasuglia? – chiese la maestra Friscia che la spiava da qualche tempo. – Nulla – disse l’altra, una biondina ricciuta, arrossendo. – Datemi quel pezzetto di carta. – A che serve? Non vi è niente. – Datemi quel pezzetto di carta. – Non è un pezzetto di carta, maestra Friscia – disse audacemente Minichini, pigliando quel pezzetto come per porgerglielo. – Sono due, tre, quattro, dodici frammenti inutili…14.
Si tratta di una sorta di pattern. il narratore, tipicamente, dopo avere presentato spazi e personaggi cede a questi ultimi la parola, lasciando che l’azione si sviluppi in forma scenica, tramite le loro interazioni. Del resto, nel complesso del romanzo la scena è l’unità temporale prevalente, e alcuni capitoli iniziano in modo chiaramente drammatico, con quelle che somigliano a delle vere e proprie entrate in scena teatrali15. in gioco sembra esserci insomma un narratore che, pur essendo chiaramente identificabile, tende ad arretrare sullo sfondo: qui come altrove nel romanzo, sembra voler rinunciare a esibire un sapere ulteriore rispetto a quello dei personaggi o a intromettersi nel racconto per commentare ciò che avviene16. Né è detto che questo arretramento sia legato alla materia trattata: come se la storia di un adulterio si prestasse meno a generalizzazioni morali delle storie in cui sono trattati temi socialmente più impegnati, come se, in sostanza Serao non av
14 Ivi, p. 12. 15 È il caso, per esempio, del quarto e del quinto capitolo della seconda parte: «Caterina Lieti entrò, piccina piccina nella sua pelliccia, col visetto rosato sotto il berretto di lontra, le mani finemente inguantate di nero»; «– Siete voi, Galimberti? Venite pure avanti. / – Non vi secco? – e al solito inciampò nel tappeto, sedette col cappello in mano, un guanto non messo, l’altro infilato, ma non abbottonato» (ivi, pp. 91 e 107). E si tenga conto che anche La virtù di Checchina inizia con l’entrata in casa di un personaggio (un’amica della protagonista della storia), a cui la serva di casa apre la porta. 16 Beninteso, talvolta il narratore agisce in questo modo, per esempio in passaggi del genere: «Tutte le mestizie segrete, tutte le tenerezze struggitrici, tutte le effusioni angosciose, tutte le aspirazioni indefinite, tutt’i bisogni di sospirare, di piangere, che la vita crescente mette nelle fanciulle, trovavano in quell’ora la loro espansione»; «Andrea si sedette accanto a lei, sul divano, le appoggiò la testa sulla spalla, come nel tempo antico, e pianse anche lui. Due sole lagrime: bollenti, brucianti, sacrileghe» (ivi, p. 31 e p. 322). Ma, appunto, non si tratta di un modo di procedere sistematico.
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racconto figurale e istanze melodrammatiche in fantasia 853 vertisse in questo caso la necessità di una voce autorevole che spieghi chiaramente al lettore ciò che sta accadendo. Ma è un rilievo che, ora, importa poco. È invece importante sottolineare che a questo arretramento contribuisce anche il fatto che chi racconta non si limita a cedere la parola ai personaggi, ma anche si sbilancia spesso verso questi ultimi, aderendo al loro punto di vista, concedendo spazio ai loro pensieri e stati d’animo, in questo modo dando luogo a dinamiche – sempre con Stanzel – figurali, tali per cui, detto in parole povere, i contenuti narrativi vengono filtrati dai personaggi, dalle loro percezioni, dai pensieri, e più in generale dalla loro esperienza del mondo in cui sono inseriti17.
3. Niente di inconsueto, beninteso. Anche questa, in fondo, è una movenza tipica di molti romanzieri fine-ottocenteschi, un tipo di sbilanciamento che contraddistingue più in generale il romanzo europeo del periodo, e che si accentuerà notevolmente nei primi anni del Novecento. Si tratta piuttosto di riflettere su come questo sbilanciamento si realizza, a cominciare dal modo in cui la figuralità si distribuisce in un romanzo in cui ci sono quattro protagonisti. Ebbene, è significativo, intanto, notare che il punto di vista di Alberto, cioè il marito tradito, non è quasi mai preso in considerazione. Di fatto, solo in un paio di circostanze accediamo a ciò che il personaggio pensa o percepisce: in un caso, nel quarto capitolo della terza parte, siamo messi a parte delle sue sensazioni («Si sentiva la gola aspra e stretta, il petto oppresso»18); in un altro, stavolta nel quarto capitolo della quarta parte, conosciamo i suoi pensieri («Alberto credette morire dal ridere. Quella birbona di Lucia che offriva sul serio una pera ad Andrea, come per ringraziarlo, come per fargli un bel dono, e invece gli dava una pera cattiva! Che spirito, quella Lucia!»19). Per il resto, tutto ciò che sappiamo di lui ci è detto apertis verbis dal narratore. E la cosa, appunto, è significativa: nonostante il ruolo essenziale che gli tocca nella trama d’adulterio, Alberto subisce, a conti fatti, lo stesso
17 Nelle parole di Stanzel (A Theory of Narrative, cit., p. 5; il corsivo è nell’originale), «nella situazione narrativa figurale, il narratore è rimpiazzato da un riflettore: un personaggio nel romanzo che pensa, sente e percepisce, ma che non parla al lettore come fa un narratore. il lettore guarda agli altri personaggi del racconto tramite gli occhi di questo personaggio-riflettore. Poiché nessuno “racconta” in questo caso, la presentazione sembra essere diretta». 18 M. Serao, Fantasia, cit., p. 235. 19 Ivi, p. 300.
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filippo pennacchio854 trattamento riservato a diversi personaggi minori che compaiono nel romanzo20. Curiosamente, poi, anche di quanto Lucia pensa o percepisce sappiamo relativamente poco. Curiosamente, dico, poiché il titolo del romanzo suggerisce che sia lei, in quanto particolarmente dotata di fantasia, ovvero di immaginazione – e la dote, come già per Emma Bovary, non ha alcunché di positivo21 –, la protagonista. Pur essendo spesso
20 Fra cui lo stesso Galimberti, di cui conosciamo i pensieri nel secondo e quinto capitolo della prima parte e poi, ancora, nel quinto capitolo della seconda parte; Cherubina Friscia, la maestra sagrestana, che «pensava una vita intiera da passare in collegio, sempre chiusa, senza parenti, senza amici, povera, zitellona vergine, odiata dalle fanciulle»; Carolina Pentasuglia, un’altra studentessa del collegio, che «piangeva, col cuore serrato, sentendosi affogare»; il Presidente del Consiglio all’esposizione di Caserta, per il quale «L’ambiente era ancora freddo: bisognava riscaldarlo»; o ancora Giulietta, la serva di Caterina, che nel momento in cui realizza che il marito di quest’ultima non tornerà più constata – si tratta, come nel caso precedente di un indiretto libero – che «il signore, prima, era buono, poi si era fatto tutt’altro» (ivi, pp. 37, 43, 171, 389). Va inoltre notato che nel corso del romanzo ci sono focalizzazioni collettive, a carico di gruppi di personaggi. Per esempio, nella prima parte leggiamo di come le allieve del collegio «non pensavano al lavoro, tirando l’ago, arrotolando i fuselli, facendo volare la spoletta. Non vi pensavano quella mattina, in cui non si parlava d’altro che dello scandalo Altimare», o di come «Non pensavano più alle conversazioni morbose dove si ammalava la loro precoce fantasia; non pensavano più a mormorare contro la direttrice e le maestre, eterno tema su cui ricamavano le variazioni più maligne»; e più avanti abbiamo le impressioni dei passanti mentre osservano Caterina e Lucia mentre passeggiano: «La gente si voltava a veder passare quelle due signore: una coppia singolare», o quelle dei domestici della casa di Centurano dove Caterina si ritira per morire: «in fondo la compativano, ma era una cosa preveduta, tutti loro lo sapevano, da Centurano: bisognava essere ciechi, per non averlo visto» (ivi, pp. 21, 31, 93, 369-370). 21 Nel quarto capitolo dell’ultima parte, quando Carolina realizza il tradimento commesso da Lucia, assistiamo per esempio a una vera e propria requisitoria contro la ‘fantasiosità’ di quest’ultima: «La figura si ergeva sempre più, rivelando cinicamente la falsità del suo carattere, mostrando la menzogna incastrata in tutte le sue linee. Dare la fantasia per errore, la fantasia per sentimento, la fantasia per amore, la fantasia per amicizia, la fantasia per dolore: non avere altro che fantasia smagliante, rovente, e darla in cambio delle più soavi e placide cose. Fantasticare su Dio, fantasticare sulla Madonna, fantasticare sul mondo, fantasticare sull’affetto, fantasticare sempre; e mettere la falsità del sogno, nella realtà della vita. Avere la scienza della fantasia che rende provocante l’occhio, voluttuosa la voce, affascinante il sorriso, irresistibile il bacio; avere il gusto fantastico dei contrasti, stuzzicare i propri nervi col tormento altrui, creare il dramma per progetto, artificiale per sè, reale e terribile per gli altri. Così Lucia» (ivi, p. 381). Ma la contrapposizione fra gli slanci fantastici di Lucia e l’assenza di fantasia in Caterina è già impostata in apertura di romanzo, quando al collegio, nel momento in cui viene restituita una prova, il professore afferma che «“il còmpito è lungo, Altimare […] Voi avete trop
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racconto figurale e istanze melodrammatiche in fantasia 855 al centro dell’azione, Lucia è guardata quasi sempre dall’esterno. A parte qualche raro passaggio verso l’inizio e la fine del romanzo, solo in un capitolo, il terzo della seconda parte, quando Lucia è rappresentata nell’indolenza della sua routine domestica, siamo resi partecipi dei suoi pensieri. La scarsa attenzione introspettiva non impedisce al lettore di farsi un’idea coerente del personaggio, ma di certo rischia di renderlo fin troppo statico ai suoi occhi. Qualcosa del genere notava, recensendo Fantasia sulla «rassegna», Francesco Torraca, per il quale Lucia è talvolta «dipinta di maniera, forse perché la scrittrice non è penetrata molto dentro l’anima di lei (nè vi fa penetrare molto lo sguardo nostro)»22. Secondo Torraca, tuttavia, Serao avrebbe dovuto, per ovviare a questo difetto, insistere nel suo modo di raccontare: «Chi sa? un po’ meno di idealismo, un po’ più di fisiologia, l’avrebbero fatta parere più vera, più umana»23: a suggerire che per empatizzare con il personaggio non era necessario penetrare al suo interno, ma sarebbe bastato coglierne le reazioni fisiche. il rilievo ‘positivistico’ non è marginale, né è da credere che le parole del critico si riferissero soltanto al personaggio di Lucia: la sua sembra un’indicazione generale circa i modi in cui ogni buon romanziere dovrebbe agire nel dare vita ai suoi personaggi. E in effetti è probabile che questa osservazione centri almeno in parte il punto della questione, come vedremo meglio fra poche righe. Per il momento, va sottolineato che sono molte di più le occasioni in cui siamo messi a parte di ciò che pensano e sentono Caterina e Andrea. Nel caso di Caterina, lungo tutto il romanzo seguiamo la traiettoria interiore che la porta dall’armonia con l’amica di una vita, quando favorisce, benché inconsapevolmente, i suoi flirt col marito, fino al momento in cui si rende conto, quando è ormai troppo tardi, del tradimento subìto. L’informazione passa sia per vie indirette, con il narratore che racconta i suoi pensieri, sia dirette, laddove questi ultimi sono riprodotti senza intermediazioni, oltre che tramite gli indiretti liberi a carico del personaggio24. Non diversamente avviene nel
po fantasia”», laddove nel caso di Caterina «“il còmpito è arido: voi non avete fantasia, Spaccapietra”» (ivi, pp. 20, 16). 22 F. Torraca, Saggi e rassegne, cit., p. 260. 23 Ibidem. 24 Per esempio: «Caterina pensò un istante. Era un sogno questo, un singolare sogno, o lei s’impegnava per tutta la vita?»; «Caterina era un po’ preoccupata: l’avevano messa nel giurì pei lavori donneschi, alla mostra didattica. Questo titolo di dama giurata le pareva molto serio e molto compromettente: chi sa che cosa pre
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filippo pennacchio856 caso di Andrea, che soprattutto nella seconda parte del romanzo è lungamente scandagliato nei suoi moti interiori, i quali arrivano talvolta a occupare intere pagine: come nel secondo e terzo capitolo della quarta parte, quando la passione nei confronti di Lucia matura e Andrea prima «Si rodeva d’impazienza», ripensando «a quel momento in cui ella lo aveva pregato di non abbracciarla perchè lo amava», «sentendo nascere potente in sè il desiderio di dire a Lucia che le voleva bene», e poi si lascia travolgere dal desiderio di stare insieme a lei: «Perchè non gli lasciavano amare Lucia? Chi si metteva fra lui e la femmina sua? Quando Caterina si frapponeva, egli avrebbe strillato, pestato i piedi in terra, singhiozzante come un fanciullo a cui la madre toglie un balocco: le sue convulsioni interne rassomigliavano alle terribili nervosità dei bambini cocciuti, che muoiono di un capriccio non soddisfatto»25. in definitiva, rispetto a Lucia le menti di entrambi i personaggi sono molto più trasparenti, per dirla con Dorrit Cohn. E in questo senso il rilievo di Anna Banti, secondo la quale Lucia sarebbe rappresentata dall’interno a differenza di Caterina (con cui Serao, però, finirebbe per identificarsi)26, non andrebbe preso alla lettera. Piuttosto, è probabile che a Serao interessasse la storia di una coppia in dissoluzione (la coppia Caterina-Andrea, appunto) molto più che la vicenda di un’emula (peraltro del tutto consapevole, essendone una lettrice appassionata) di Emma Bovary27.
4. Per avere un quadro più chiaro di come ha lavorato Serao è necessario valutare con attenzione il modo in cui avviene lo sbilanciamento del narratore verso i personaggi, in particolare per quanto riguarda la resa dei loro pensieri e più in generale della loro interiorità. in sintesi, si può dire che tale resa è ottenuta mediante la citazione letterale dei pensieri dei personaggi, o attraverso il ricorso all’indiret
tenderebbero da lei! E se non fosse stata capace?» (M. Serao, Fantasia, cit., pp. 51 e 166). 25 Ivi, pp. 271, 272, 274, 288. 26 Cfr. Anna Banti, Matilde Serao, Torino, uTET, 1965, p. 41. 27 «– Sapete che la nostra posizione si trova nella madame Bovary? È un romanzo di Flaubert» (M. Serao, Fantasia, cit., p. 329) dice infatti Lucia ad Andrea mentre a bordo di una carrozza si stanno dirigendo verso Posillipo (l’allusione è alla nota sequenza ‘censurata’ del romanzo di Flaubert in cui Emma e Léon sono a bordo di una carrozza per le vie di rouen). E va ricordato che già in Cuore infermo un personaggio leggeva il romanzo. Sull’argomento, cfr. Vittorio Lugli, Bovary italiane, in id., Bovary italiane ed altri saggi, Caltanissetta-roma, Sciascia, 1959, pp. 19-25.
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racconto figurale e istanze melodrammatiche in fantasia 857 to libero. Soprattutto, però, alla sfera interiore e percettiva si accede indirettamente, con il narratore che racconta con parole sue ciò che i personaggi hanno in animo. Nel complesso del romanzo, a prevalere è cioè la cosiddetta psico-narrazione, sempre nei termini di Dorrit Cohn28. «Ognuno pensava qualche cosa che credeva di dover tacere»; «sapeva che Andrea non voleva mai aspettare»29: formule del genere ricorrono spessissimo, e anche quando, come nel passaggio che segue, la psico-narrazione si combina con altre tecniche, tipicamente con l’indiretto libero, l’interiorità del personaggio non ha modo di dispiegarsi appieno, essendo comunque avvertibile, alle sue spalle, la presenza di qualcuno che lo sta presentando studiatamente: Ella uscì, senza essersi accorta di nulla. Andrea si era un po’ calmato, pensando che presto sarebbe venuta Lucia, che era irragionevole pretendere che lei venisse in salotto alle nove e mezzo. Desiderava ancora di vederla, ma con un desiderio più dolce. Dietro i vetri egli stamburava con la mano una marcia, ripensando a quel momento in cui ella lo aveva pregato di non abbracciarla perchè lo amava, e egli, obbediente come un fanciullo, l’aveva lasciata. Bisognava amarla in tutt’i modi Lucia, la sua Lucia, con passione, ma con tenerezza profonda: con ardore di giovinezza, ma con rispetto e venerazione. Oh! egli aveva in cuore tutto questo30.
Si deve però aggiungere che parlare di un narratore che presenta i pensieri e più in generale l’interiorità dei personaggi non dà pienamente conto delle dinamiche narrative alla base del romanzo. E questo sia perché – lo abbiamo detto – in gioco ci sono spesso le sensazioni e le percezioni dei personaggi più che i loro pensieri, sia perché l’impressione è che la più parte dei contenuti mentali e interiori si offra come immediatamente visibile. Gli esempi sono numerosi e riguardano tutti e quattro i personaggi principali. Cito a campione dalle varie parti del romanzo: nella seconda, si dice che Caterina, guardando Lucia e Andrea discutere di comune accordo senza ancora intendere ciò che poi accadrà fra loro, «diventò rosea, da pallida che era stata»; poco più avanti, a un complimento rivoltogli da Lucia, Andrea «diventò rosso dal piacere»; e viceversa, a un’osservazione rivoltale da quest’ultimo, «Lucia si rigettò indietro fredda, silenziosa, il viso
28 Dorrit Cohn, Transparent Minds: Narrative Modes for Presenting Consciousness in Fiction, Princeton, Princeton university Press, 1978, in particolare pp. 21-57. 29 M. Serao, Fantasia, cit., pp. 121 e 268. 30 Ivi, p. 272.
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filippo pennacchio858 indurito in una espressione di collera»31. in tutti questi casi, non viene detto ciò che i personaggi pensano: il narratore mostra l’effetto fisico di quanto avviene ‘dentro’. i pensieri sono per così dire estroflessi, chiaramente visibili nel ‘fuori’, come del resto a un certo punto si esplicita: «Quando Lucia si voltò verso Andrea – siamo nel mezzo di una delle scene clou del romanzo, all’inizio dell’idillio fra i due –, aveva la faccia mutata: un pensiero sulla fronte, negli occhi, sulle labbra»32. Ora, come spiegano gli studiosi cognitivisti33, la mente (la nostra, ma anche quella dei personaggi di finzione) può essere concepita in senso esteso, non cioè come un dominio puramente interiore, sganciato dalla realtà circostante e consistente di una serie di contenuti per definizione inaccessibili; al contrario, i contenuti mentali sarebbero almeno in parte accessibili, traducendosi spesso in gesti, espressioni, atteggiamenti, tant’è che in quanto lettori possiamo ricostruire l’interiorità di un personaggio tenendo conto di come agisce e patisce rispetto al mondo esterno, e di come si relaziona agli altri personaggi. Certo, nel caso dei protagonisti di Fantasia l’impressione è che il più delle volte la fisiologia faccia premio sull’interiorità, che ‘dentro’ non ci sia nulla più di quanto dall’esterno può essere immediatamente colto; come se, in altre parole, esistesse un legame indissolubile fra moti interiori e sintomi fisici, e questi ultimi spiegassero, in certo modo esaurendoli, i primi. Da questo punto di vista, potrebbero essere estese anche a Serao le conclusioni di Nicholas Dames, il quale, studiando la rappresentazione della mente nel romanzo vittoriano, ha mostrato come ancora nel secondo Ottocento molti romanzieri sembrino dare forma nelle loro opere a un’idea espressa da Pierre-Jean-Georges Cabanis, medico e fisiologo francese attivo a fine Settecento, per cui «L’uomo non è un essere morale, se non perché ha dei nervi; i nervi, ecco tutto l’uomo»34. D’altronde, a proposito delle ‘eroine’ di Serao, isabella Pezzini ha già parlato di una «voga frenologica»: i personaggi femminili impostati dalla scrittrice, la cui caratteristica più autentica sarebbe la «trasparenza», comunicherebbero sempre in modo indiretto,
31 Ivi, pp. 130, 136, 138. 32 Ivi, p. 247 (il corsivo è mio). 33 Cfr., fra gli altri, il discorso sviluppato in Alan Palmer, Fictional Minds, Lincoln e Londra, university of Nebraska Press, 2004. 34 Cfr. Nicholas Dames, 1825-1880: The Network of Nerves, in David Herman (a cura di), The Emergence of Mind. Representations of Consciousness in Narrative Discourse in English, Lincoln e Londra, university of Nebraska Press, 2011, pp. 215239 (la traduzione è mia).
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racconto figurale e istanze melodrammatiche in fantasia 859 «attraverso la pura corporeità, che consiste nelle frasi oscure o mozze, nelle sospensioni del discorso, nel pianto, nei trasalimenti, nei trascoloramenti, negli svenimenti, nelle malattie»35. Del resto, è evidente che nei passaggi poco sopra citati, e in molti altri, agisce un principio teatrale, segnatamente melodrammatico, in base al quale i moti interiori non possono non essere mostrati, esibiti, enfatizzati, letteralmente drammatizzati36. Serao, spesso, ‘teatralizza’ le passioni che divorano i suoi personaggi; come se i conflitti interiori potessero essere rappresentati solo all’insegna dell’eccesso – con il rischio, va da sé, di una loro stereotipizzazione, della ricaduta in gesti e posture chiaramente mélo. Come quando, in una delle prime occasioni in cui Andrea e Lucia possono concedersi pochi attimi d’intimità, quest’ultima, già folle d’amore, «congiunse le mani sul petto, col desiderio che le faceva tremare la voce»37. in un caso del genere, non è difficile decifrare cosa senta il personaggio, quale sia il suo stato d’animo e quali le ragioni del suo slancio emotivo; ciò che è dentro è immediatamente visibile nel fuori, reso inequivocabile dall’icastica rappresentazione. È un modo di procedere tipico, riscontrabile anche in altri punti del romanzo e non legato al solo personaggio di Lucia. Tanto che, generalizzando, l’impressione è che in Fantasia la fiducia naturalistica nella possibilità di cogliere, tramite l’osservazione, il lavorio interiore dei personaggi trascolori nella teatralità, nell’eccesso melodrammatico, ovvero nella messa in scena diretta, senza zone d’ombra possibili, di quei contenuti. È ipotizzabile insomma che in Serao – appassionata testimone delle realtà in cui era immersa, abilissima interprete dei dati e dei segni, più in generale, che raccoglieva – fosse ancora ben viva la fiducia goncourtiana e zoliana nella capacità dello sguardo di catturare per indizi sensibili il mondo e di restituirlo nella sua essenza, in certo modo di svelarne i segreti. E certo andrebbe presa in considerazione e discussa la distanza che separa questa posizione dalle conclusioni cui De roberto giunse, solo pochi anni dopo Fantasia, nella Prefazione ai suoi Documenti umani, dove si legge che data la ricorren
35 isabella Pezzini, Matilde Serao, in umberto Eco, Maria Federzoni, isabella Pezzini, Maria Pia Pozzato, Carolina Invernizio, Matilde Serao, Liala, Firenze, La Nuova italia, 1979, pp. 75-76 (il corsivo è nell’originale). 36 il riferimento è a Peter Brooks, L’immaginazione melodrammatica (1976), traduzione di Daniela Fink, Parma, Pratiche, 1985. 37 M. Serao, Fantasia, cit., p. 181 (ma già nella prima parte del romanzo si poteva leggere che «Lucia congiunse le mani sul petto e fissò gli occhi sulla imagine della Madonna», pp. 49-50).
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filippo pennacchio860 za dei medesimi atti, parole e gesti e il fatto che essi servono «a diversissimi uomini, per diversissimi motivi in diversissime circostanze», «si vede quanta poco probabilità di successo vi sia nel desumere dagli indizi esteriori il processo latente che si svolge nelle singole coscienze»38.
5. Tenendo conto dei rilievi messi assieme fin qui, credo che si possano trarre alcune conclusioni. Anzitutto, in Fantasia convivono modi di raccontare diversi. Su un impianto sostanzialmente teatrale, dove ampio spazio ha la parola dei personaggi, agisce ancora un narratore chiaramente riconoscibile, il quale se per un verso rinuncia ad alcune tipiche prerogative autoriali, per l’altro continua a gestire saldamente la materia narrativa, flettendosi sì verso i personaggi, ma non svincolandoli mai del tutto dalla propria voce. il che non giustifica forse l’opinione di Scarfoglio per cui Fantasia sarebbe una sorta di «materia inorganica, come una minestra fatta di tutti gli avanzi, di un banchetto copioso»39, ma certo suggerisce una tenuta formale non sempre perfetta, quel miscuglio di oggettività e sentimentalità – di osservazione impassibile ed emotività ostentata – che secondo Carlo Alberto Madrignani renderebbe il verismo di Serao «realista nell’apparenza, elegiacovittimistico nella sostanza»40. Spostando la questione dalla parte del lettore, c’è da chiedersi che cosa comporti questa convivenza e alternanza di modi di raccontare, come insomma il lettore sia indotto a processare i contenuti testuali, quali tipi di competenza letteraria attivi mentre legge. La domanda, ovviamente, è almeno in parte mal posta, nel senso che il lettore di oggi inevitabilmente reagisce diversamente da quello di fine Ottocento e anche nel senso che, a conti fatti, possiamo soltanto ipotizzare in che modo i lettori di altre epoche leggessero. Tuttavia, cercando di astrarre il discorso, è probabile che ciò che Monika Fludernik ha definito experiencing, cioè quella modalità cognitiva che induce il lettore ad allinearsi al punto di vista dei personaggi, a entrare in contatto con il mondo della storia attraverso i loro occhi e i loro moti interiori, in altre parole attraverso la loro esperienza, non si attivi del tutto, sia in ragione dell’alternanza dei modi di raccontare di cui si è detto, sia
38 Federico De roberto, Prefazione a Documenti umani (1888), in id., Romanzi, novelle e saggi, a cura di Carlo A. Madrignani, Milano, Mondadori, 1984, p. 1637. 39 E. Scarfoglio, Fantasie dei critici, cit., p. 144. 40 C. A. Madrignani, La virtù di Checchina, in id., Ideologia e narrativa dopo l’Unificazione, roma, Savelli, 1974, p. 147 (corsivi nell’originale).
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racconto figurale e istanze melodrammatiche in fantasia 861 perché l’interiorità dei personaggi è spesso presentata solo esteriormente. A prevalere in Fantasia, piuttosto, e sempre nel lessico di Fludernik, sembra essere un viewing di matrice teatrale, dove per viewing s’intende quella modalità cognitiva per cui il lettore processa i contenuti guardandoli dall’esterno: come se osservasse uno spettacolo che si svolge davanti ai suoi occhi41, e senza che alla storia si acceda assecondando il punto di vista dei personaggi. Detto questo, molte sono le domande che restano aperte e le questioni che bisognerebbe approfondire. Per esempio, è interessante che nel quasi coevo La virtù di Checchina le cose stiano già in modo diverso: rimangono infatti sia l’intelaiatura teatrale che i toni melodrammatici (anche Checchina – altra moglie insoddisfatta del proprio matrimonio che sogna un’avventura con un ricco aristocratico – è rappresentata all’insegna del patetismo e dell’enfasi sui sentimenti); la focalizzazione sulla protagonista, però, è più stabile (forse perché, a differenza di Fantasia, la protagonista è una soltanto), e soprattutto c’è un uso più consistente e convincente dell’indiretto libero. E tuttavia anche in questo caso mi sembra che Madame Bovary rimanga una suggestione tematica più che stilistica. il tentativo di mettere fuori gioco l’istanza narrante, di realizzare un’opera i cui contenuti si svincolino dalla voce di qualcuno che li restituisce apertamente e dove centrali siano invece i moti interiori dei personaggi – ciò che insomma caratterizza la cosiddetta impersonalità flaubertiana – non agisce in maniera decisiva in Fantasia e nella Virtù di Checchina. il che non significa che Serao fosse più arretrata rispetto ad altri autori dell’epoca e che il suo modo di raccontare fosse già obsoleto. Se prendiamo in considerazione un altro romanzo flaubertiano, o, più precisamente, bovaristico del periodo, cioè Giacinta di Luigi Capuana, troviamo anche qui – specie nella prima versione del 1879 – vari compromessi formali e una realizzazione molto approssimativa dell’impersonalità di Madame Bovary. E nel Marito di Elena di Giovanni Verga, dato alle stampe solo pochi mesi prima che Fantasia fosse pubblicato sulle pagine della «rassegna», si possono cogliere dinamiche non diverse da quelle che abbiamo qui preso in considerazione. Né le cose cambiano radicalmente se si guarda a ciò che veniva dato alle stampe fuori d’italia nell’anno di pubblicazione di Fantasia. Anche in alcuni fra i testi oggi ritenuti esemplari del primo e del secondo naturalismo come Au Bonheur des Dames di Émile Zola e
41 Monika Fludernik, Towards a ‘Natural’ Narratology, Londra e New York, routledge, 1996, pp. 43-52.
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filippo pennacchio862 Une vie di Guy de Maupassant, entrambi del 1883 (lo stesso anno, peraltro, degli Essais de psychologie contemporaine di Paul Bourget), agiscono meccanismi figurali pur in presenza di un narratore che continua ad avere ampio spazio di manovra. E se si arretra anche solo di un paio d’anni e si sfoglia un altro testo centrale del paradigma secondoottocentesco, cioè The Portrait of a Lady di Henry James, troviamo di molto amplificate quelle dinamiche autoriali che in Serao vengono in parte dissimulate. La differenza, ciò detto, sta probabilmente nella consapevolezza teorica di questi autori, nell’organicità dei loro sforzi per tradurre in stile le rispettive idee di romanzo. Queste idee e le tecniche che da esse discendevano Serao era stata abilissima a intercettare, all’atto pratico bilanciandole tuttavia in modo imperfetto, non sempre amalgamandole armoniosamente («Mi sono affidata all’istinto» scriveva del resto, in una sorta di dichiarazione di poetica, nella prefazione al Romanzo della fanciulla42). Così come, a conti fatti, è probabile che Serao avesse in qualche modo già intuito che il vero mondo da indagare era quello interiore, senza però avere ancora trovato – per dirla con Verga – i colori adatti per rappresentarlo.
Filippo Pennacchio università iuLM – Milano
42 M. Serao, Il romanzo della fanciulla, Milano, Fratelli Treves, 1886, p. Viii.
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CONCETTA MAriA PAGLiuCA Forme e sostanze della psicologia femminile nella narrativa breve di Matilde Serao
Ci si propone di classificare i personaggi femminili della narrativa breve di Serao sulla base delle tecniche adoperate dalla scrittrice per rappresentare la loro vita interiore e delle emozioni e dei sentimenti che sostanziano la loro psicologia.
★ This essay classifies the female characters in Serao’s short stories according to the techniques applied by the writer in representing their inner self and the emotions and feelings that form their psychology.
una designazione univoca della narrativa breve di Serao è problematica. i suoi numerosi testi brevi1 sono stati variamente etichettati dall’autrice stessa: novelle, racconti, bozzetti, commedie, pastelli, confessioni, leggende, fantasie, schizzi; tra i titoli troviamo perfino mosaico e idillio. i criteri di distinzione tra l’uno e l’altro sottogenere non sono però esplicitati2. in generale, la critica ha trovato la forma breve più congeniale alla scrittrice3, che in Bozzetti loda le caratteristiche di questo genere di
Concetta Maria Pagliuca: università Federico ii di Napoli; cultore di letteratura italiana; tittypagliuca@gmail.com 1 in Marie-Gracieuse Martin-Gistucci, L’oeuvre romanesque de Matilde Serao, Grenoble, Presses universitaires de Grenoble, 1973, pp. 617-625, si contano 175 titoli. 2 Antonio Palermo, sulla base delle oscillazioni terminologiche presenti in Serao e in Verdinois ma anche in Di Giacomo, Mezzanotte e imbriani, sostiene che né la diacronia, né la tecnica narrativa possono essere assunte come principio distintivo tra “novella” e “racconto” (La coscienza letteraria degli scrittori napoletani al tempo del verismo, in I verismi regionali, Atti del Congresso internazionale di Studi, Catania, 27-29 aprile 1992, Catania, Biblioteca della Fondazione Verga, 1996, pp. 447-463). 3 Così Francesco Bruni: «riesce alla Serao la misura del romanzo breve o della novella, che richiede una minor tensione ideativa e descrittiva, e si esaurisce
concetta maria pagliuca864 componimento: «è amabilmente corto», «non ha mai in sé una grande idea» ma è caratterizzato da «una certa spigliatezza allegra»4. Al contrario, «nel romanzo ci vogliono azione, dramma, dialogo, calore e sovratutto una grammatica costante»5. un’attenta ricognizione della narrativa breve ci permetterà di mostrare come Serao orchestri le risorse retoriche a sua disposizione per rappresentare la vita interiore dei suoi personaggi femminili a seconda della classe sociale a cui appartengono. La produzione della scrittrice, come quella di Verga, è stata ascritta a due diverse stagioni, quella che potremmo definire realistica, che ci spinge a porla accanto alla triade dei veristi siciliani6, e quella sentimentale e ‘mondana’, considerata all’unanimità inferiore per verità e qualità letteraria7.
in una ricostruzione, di persone o e ambienti particolari, che non è necessario raccordare a una vicenda più vasta» (La scrittura della città nel Ventre di Napoli, in Album Serao, a cura di Donatella Trotta, Napoli, Fiorentino, 1991, p. 91), in linea con Pietro Pancrazi: «La novella e il racconto furono, e in qualche modo sempre restarono, la misura ideale di questa scrittrice. Spesso anche dentro i romanzi buoni della Serao, un occhio esperto non tarda a trovare e ritagliare la misura iniziale di una novella, o di alcune congiunte o imparentate novelle» (Serao, Milano, Garzanti, 1944, vol. i, pp. X-Xi). Tale opinione era stata già espressa anni addietro da Benedetto Croce: «Ognuno ricorda di aver, qualche volta, osservato con ammirazione gli schizzi e gli abbozzi pieni di vita coi quali un pittore s’è venuto preparando a un gran quadro che ha in mente; e poi, innanzi al quadro compiuto, ben disposto e ben calcolato, frutto di molti studi e di molte riflessioni, di aver provato qualche freddezza e come una delusione. Malgrado molte pagine splendide, confesso anch’io di preferire i bozzetti e le novelle, e fin gli articoli del Ventre di Napoli, spontanei e quasi improvvisati, al quadro sapiente, troppo sapiente, del Paese di Cuccagna» (Matilde Serao, «La Critica. rivista di Letteratura, Storia e Filosofia», 1903, n. 1, p. 337). 4 Matilde Serao, Dal vero (18903), a cura di Patricia Bianchi, Napoli, Libreria Dante & Descartes, 2000, p. 149. 5 Ivi, p. 150. 6 Cfr. P. Pancrazi, Serao, cit., vol. i, p. Vii e F. Bruni, La scrittura della città nel Ventre di Napoli, cit., p. 90. 7 Croce, ad esempio, si chiede: «Come sono nate tutte queste opere [Addio, Amore, Il castigo, Gli amanti, Le amanti]? Sono state prodotte dalla smania ch’è in molti artisti di mostrare ch’essi san fare anche ciò che fanno gli altri? Ci ha avuta la sua parte di colpa qualche critico poco sagace che ha impudentemente esortato la Serao a tentar dell’arte più fine, e a profondarsi nei segreti della psicologia?» (B. Croce, Matilde Serao, cit., pp. 346-347). Antonio Palermo, poi, intitola proprio Le due narrative di Matilde Serao un capitolo della sua monografia Da Mastriani a Viviani. Per una storia della letteratura a Napoli fra Otto e Novecento, Napoli, Liguori, 1974, pp. 33-65.
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forme e sostanze della psicologia femminile nella narrativa breve 865 Piuttosto che insistere sulla dialettica tra letteratura e paraletteratura, comunemente evocata in sede critica a proposito della giornalista-scrittrice napoletana, abbiamo selezionato un corpus di racconti tratti da diverse raccolte per evidenziare i modi della resa della soggettività e le relazioni tra questi modi e l’estrazione sociale dei personaggi rappresentati. Chiariamo subito cosa s’intende per “soggettività”. La parola “focalizzazione” e l’espressione “punto di vista”8 sono considerate dalla narratologia post-genettiana inadatte a indicare ciò che non attiene al campo visivo; pertanto, si preferisce riunire sentimenti, percezioni, sogni, ricordi, pensieri nella macrocategoria della soggettività9. innanzitutto, il “privilegio” di poter raccontare la propria storia è accordato da Serao solo a narratori alto-borghesi e aristocratici: si vedano ad esempio le prime tre novelle contenute nella raccolta Gli amanti, di cui citiamo gli incipit: Donna Grazia scrive così, di questo suo amante: La prima volta in cui Nino Stresa mi mancò di rispetto, fu in un ballo10. Anna così racconta: Per lungo tempo, l’amore che mi portava Giustino Morelli fu la mia segreta consolazione e il mio segreto orgoglio11.
8 Cfr. Gérard Genette, Figures III, Paris, Editions du Seuil, 1972; trad. it. Figure III. Discorso del racconto, Torino, Einaudi, 20062, pp. 233-242. 9 «in any event, the basic mold of the formula whose ______ orients the narrative perspective? suggests a more general fill-in like “subjectivity” rather than Genette’s own “point of view”, which is not only tautological but unhappily reintroduces the term “point of view” that “focalization” is meant to replace. indeed, supposing “subjectivity” to express a central commonality, one can quickly factor out the following more comprehensive (though still not exhaustive) list of criterial aspects: Criterial aspects of focalization Whose… (A) affect (fear, pity, joy, revulsion, etc.) (B) perception, i.e., (i) ordinary/primary/literal perception (vision, audition, touch, smell, taste, bodily sensation) (ii) imaginary perception (recollection, imagination, dream, hallucination, etc.) (C) conceptualization (thought, voice, ideation, style, modality, deixis, etc.) … orients the narrative text?» Manfred Jahn, More Aspects of Focalization. Refinements and Applications, «GrAAT», 1999, n. 21, pp. 89-90. 10 M. Serao, L’imperfetto amante (Nino Stresa), in Gli amanti (1894), Napoli, Perrella, 19083, p. 9. 11 Ead., L’imperfetto amante (Giustino Morelli), in Gli amanti, cit., p. 35.
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concetta maria pagliuca866
Teresa così racconta il suo amore per Massimo Dias: Nessun uomo mai ha saputo, nessun uomo saprà mai chi sia e che cosa sia Massimo Dias. Per conoscerlo, per intenderlo, per apprezzarlo in quel che è, in quel che vale, ci vuole una donna: e una donna che lo abbia avuto per amante come me, o che, almeno, sia stata amata da lui12.
Tutte e tre le narrazioni sono condotte in prima persona dalle protagoniste, accomunate da un’esperienza amorosa infelice. Le loro storie sono introdotte da una breve nota editoriale; tali testimonianze, dunque, nella finzione sono state raccolte e pubblicate da terzi. i racconti, poi, appaiono redatti con lo scopo preciso di essere condivisi, per via delle numerose allocuzioni sparse nel testo: Vi pare una contraddizione? Non so. Cercherò di spiegarmi meglio, e voi noterete, se vi è contraddizione13. Decidete voi14. Voi capirete meglio. Vi dirò tutto15. Nulla vi dirò di me16. Voi, forse, avrete intuito la conclusione della mia istoria17. Voi volete apprendere il come e il perché Massimo Dias sia un perfetto amante18? Mi sembra inutile di descrivervi quello che io abbia sofferto, di atroce, la prima volta in cui il suo tradimento mi fu palese come la luce del sole19. Ero innamoratissima di lui e tutta la mia anima come la mia persona gli apparteneva: figuratevi, dunque, quale violenza io doveva fare a me stessa per non vederlo, per non scrivergli, per non pronunziare neppure il suo nome20. Che dirvi21?
12 Ead., Il perfetto amante (Massimo Dias), in Gli amanti, cit., p. 59. 13 Ead., L’imperfetto amante (Nino Stresa), cit. p. 17. 14 Ivi, p. 20. 15 Ibidem. 16 Ead., L’imperfetto amante (Giustino Morelli), cit., p. 53. 17 Ivi, p. 54. 18 Ead., Il perfetto amante (Massimo Dias), cit., p. 62. 19 Ivi, 71. 20 Ivi, 72. 21 Ivi, 75.
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forme e sostanze della psicologia femminile nella narrativa breve 867 il destinatario elettivo di queste lettere-confessioni è la comunità femminile delle lettrici su cui questo genere di racconti d’evasione sortiva, per dirlo con Antonia Arslan, «un blando effetto pedago gico»22. La prima persona e la forma epistolare permettono di mantenere senza sforzo una focalizzazione coerente per tutta la lunghezza delle novelle. Le difficoltà sopraggiungono con l’adozione della situazione narrativa figurale23, in cui la narrazione è condotta in terza persona ma il lettore ha la sensazione che tutto passi attraverso la soggettività di un personaggio. Esaminiamo la novella Il viale degli oleandri (Mario Felice) contenuta nella raccolta Gli amanti, i cui protagonisti sono alto-borghesi – procederemo poi scendendo lungo la scala sociale. Mario e Maria sono amanti, ma, come avviene spesso nella narrativa seraiana, la donna è più coinvolta emotivamente nella relazione. Quando Mario la accusa di non amarlo, perciò, Maria dentro di sé si ribella: Ella non resisteva a quella negazione, ciò la esasperava e l’avviliva, non trovava nulla da rispondergli, il suo sdegno era grande come il suo terrore. Ma che uomo era dunque, questo Mario Felice, a cui ella si era avvinta? Ma che sciagurata natura di uomo, senza fede e senza speranza, senza entusiasmo e senza carità, ella si era messa ad adorare? Egli non l’aveva amata giammai; questa era la sola certezza. Aveva ceduto, riluttante, quasi pauroso, alla impetuosa passione di lei: aveva ceduto, pensoso, triste, per cortesia, per pietà, forse per una sua intima debolezza: e quella mortale tristezza che in lui sorgeva per tutte le cose e per tutti i
22 Antonia Arslan, Dame, galline e regine. La scrittura femminile italiana fra ’800 e ’900, Milano, Guerini, 1998, p. 15; e più avanti: «il modello femminile insomma è l’asessuato angelo del focolare, sposa e madre prolifica ed esemplare, o sognante fidanzata perenne che aspetta a casa l’esploratore, accontentandosi di un amore fatto di lettere e di fantasticherie» (p. 29). il rapporto tra la scelta del sottogenere epistolare e la realtà storica contemporanea è sottolineato da Gabriella romani: «Serao’s use of epistolary form for her sentimental fiction reflects her urge to influence her audience and, to this end, her willingness to tap into the life experience of her readers who, with the nationalization and larger diffusion of the postal services, were now availing themselves of this form of communication more frequently than ever before», Cœur-responding with Her readers. The sentimental Politics of Matilde Serao’s Epistolary Fiction, in Ead. Postal Culture. Reading and Writing Letters in Post-Unification Italy, Toronto, university of Toronto Press, 2013, p. 120. 23 «in the figural narrative situation, the mediating narrator is replaced by a reflector: a character in the novel who thinks, feels and perceives, but does not speak to the reader like a narrator. The reader looks at the other characters of the narrative through the eyes of his reflector-character», Franz Karl Stanzel, Theorie des Erzählens, Göttingen, Vandenhoeck & ruprecht, 19822; trad. ing. A Theory of Narrative, Cambridge, university of Cambridge, 1984, p. 5.
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sentimenti, non lo aveva mai lasciato, la felicità non aveva mai lampeggiato dai suoi occhi, non aveva mai tremato nella sua voce24.
Maria si rimprovera di essersi innamorata di un uomo freddo, triste, egoista. La sua «impetuosa passione» la pervade al punto che non può pensare ad altro. Si noti che sia nella psiconarrazione, quando cioè il narratore riassume con parole proprie gli stati d’animo del personaggio (come avviene qui da «Ella» fino a «terrore»)25, sia nello stile indiretto libero26, questo tipo di soggettività femminile si manifesta con l’accumulo di sostantivi sentimentali astratti (in corsivo nel passo), cifra stilistica dell’analisi psicologica. Tali sostantivi attengono alla sfera del sublime, sono addirittura di pertinenza spirituale – si menzionano le virtù teologali (fede, speranza e carità). il mondo reale, gli eventi esterni, le incombenze della vita quotidiana non esistono per l’innamorata ricca27. Tipicamente piccolo-borghese è invece la protagonista del racconto lungo La virtù di Checchina (1884). Guardiamo un campione nel dettaglio: un marchese che va dalle principesse e le abbraccia e dà loro del tu, a pranzo da loro! Ma perché dunque Toto lo aveva invitato? Come gli
24 M. Serao, Il viale degli oleandri (Mario Felice), in Gli amanti, cit., pp. 112-113. 25 Cfr. Dorrit Cohn, Transparent Minds. Narrative Modes for Presenting Consciousness in Fiction, Princeton, Princeton university Press, 1978, pp. 11-12 e, per una trattazione più estesa, pp. 21-57. 26 Adottiamo la definizione ormai cristallizzatasi nella critica italiana pur essendo consapevoli che sarebbe necessaria una distinzione terminologica tra il particolare tipo di discorso riportato studiato dai linguisti e la tecnica che da Flaubert in poi viene utilizzata per rendere indirettamente pensieri e parole dei personaggi, per la quale sarebbe più adatta l’etichetta narrated monologue (D. Cohn, Transparent Minds, cit., pp. 13-14 e 99-140) o represented speech and thought (Ann Banfield, Unspeakable Sentences. Narration and Representation in the Language of Fiction, BostonLondon-Melbourne-Henley, routlege & Kegan Paul, 1982, pp. 65-108). 27 Per questo tipo di personaggi in particolare vale quanto osservò a suo tempo Henry James: «Chi sono queste persone – ci domandiamo – che amano con indubbio furore, anche se quasi sempre con sorprendente brevità, ma alla cui posizione nella vita non viene fatto il minimo cenno, al punto che sembrano amare senza scopo e nel vuoto, senza maturare nessuna esperienza né risentire in alcun modo dell’ambiente in cui vivono o dell’aria che respirano. Di loro non conosciamo che le convulsioni e gli spasimi, e sentiamo ancora una volta che non è – e non sarà mai – la passione a conferire interesse all’eroe e all’eroina, ma che sono l’eroe e l’eroina stessi, col terreno su cui poggiano e gli oggetti che li circondano, a conferire interesse alla passione»: Henry James, Matilde Serao, «The North American review», vol. 172, n. 532, 1901, p. 378; trad. it. Matilde Serao, «Paragone», n. s. XLVi, n. 41-42, Ottobre-Dicembre 1993, pp. 17-18.
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era venuto in mente di far questo? […] Ora questo marchese veniva a pranzo – ed ella non sapeva che dargli da mangiare a questo nobile, avvezzo alle fantasie culinarie dei grandi cuochi. Avevano un servizio di piatti solo per sei persone, comprato a una vendita, da Stella, e mancava la salsiera e l’insalatiera: sarebbe bastato? […] E l’arrosto, l’arrosto ci voleva! Non usa il pollo, nelle case aristocratiche? Come lo avrebbe arrostito, se i fornelli erano due, in cucina, e mancava il girarrosto? Questo pranzo sarebbe costato una quantità di quattrini; come dirlo a Toto, quante cose ci mancavano nella casa28!
Checchina, alla notizia che un marchese varcherà la soglia di casa sua, è presa dal panico. Le ristrettezze in cui è costretta a vivere le appaiono ingigantite, insopportabili, irrimediabili. L’indiretto libero dei suoi pensieri riempie diverse pagine: la protagonista ora sogna di possedere un vestito nero adatto all’appuntamento galante, ora progetta la strada da percorrere per arrivarci. La passione incipiente, insomma, è legata indissolubilmente alla vita materiale, come dimostrano i numerosi oggetti (un servizio di piatti, la salsiera, l’insalatiera, l’arrosto e così via) presenti nelle sue riflessioni. rispetto al precedente di Madame Bovary qualcosa è mutato: la dimensione economica e sociale prevale su quella sentimentale; più che sul fervore dell’innamoramento, l’accento è posto sul meccanismo snobistico di emulazione che scatta in Checchina quando le si profila un’avventura con un aristocratico29. Altra esponente della classe media è la Caterina di Terno secco in All’erta, sentinella! (1889). il suo magro tenore di vita si intuisce già nelle prime pagine del racconto: La signora, mentre finiva di vestirsi, dette uno sguardo attorno. Era così poveramente arredata la casa, che ci voleva poco per tenerla pulita: la stanzetta da letto era presa dal grande letto di ferro, proprio di
28 M. Serao, Il romanzo della fanciulla. La virtù di Checchina, a cura di Francesco Bruni, Napoli, Liguori, 1985, pp. 215-217. 29 «Checchina cede al “peccato”, forse perché stufa del russare del marito; ma non si appassiona affatto, tutt’altro; entra solo in crisi il suo sistema di abitudini e con esso la routine economico-familiare: la passione adulterina le fa scoprire la sua miseria di moglie povera»: Carlo Alberto Madrignani, La virtù di Checchina, in id., Ideologia e narrativa dopo l’Unificazione. Ricerche e discussioni, roma, Savelli, 1974, p. 152. Sulla superficialità, l’artificiosità del sentimento si veda anche Wanda De Nunzio Schilardi, «Un’abbagliante luce a gas»: pagine romane di Matilde Serao, in Ead., L’invenzione del reale. Studi su Matilde Serao, Bari, Palomar, 2004, p. 223: «il tradimento di Giulia [protagonista di L’ebbrezza, il servaggio e la morte] e il mancato tradimento di Checchina sono la conseguenza di una passione cercata, costruita, un sentimento a cui abbandonarsi per una sorta di revanchismo nei confronti del marito e soprattutto una sorta di adeguamento alla morale comune».
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quelli napoletani, appena digrezzati; vi era un cassettone dal piano di legno, una toilette piccola piccola, meschina meschina, di noce dipinta, un attaccapanni e un paio di sedie. il mobilio del salotto era formato da un divano, così detto di Genova, di ferro e crine, di cui si poteva fare un letto, coperto male da una fodera di cretonne, stinta dalle soverchie lavature: da quattro sedie dure, rigide, di forma assai antiquata, da due scansie di libri e da una tavola rotonda, coperta di marmo, solida, lucida, il lusso della casa: vi si mangiava, vi si scriveva, vi si lavorava ed era pulita, bianca, fredda, era l’orgoglio della signora e della figliola. Niente altro. Non l’ombra di una poltroncina, di un tappeto, di una cortina: i mattoni, nudi; le finestre, nude; una nudità gelida30.
Grazie alla percezione indiretta libera31 si riesce a “vedere con” Caterina, a vedere attraverso i suoi occhi l’interno spoglio della dimora. La descrizione dei pezzi d’arredo è tutta filtrata dalla sua sensibilità. un po’ più avanti, invece, si registra un caso di percezione involontaria di Caterina e sua figlia, un caso di non-reflective consciousness, come direbbe Ann Banfield32: Ma la signora, tenendo con la mano esile e bianca il bicchiere, guardava il vino e non beveva: quel Marano un po’ aspro, le stizziva la tosse. Si udiva, è vero, nel palazzo Jaquinangelo un gran rumore di porte che si aprivano e si chiudevano: si udiva, nella piazza, un gran vocio, ma le due donne erano abituate al grande chiasso napoletano, e non vi ponevano mente.33
Caterina non pensa letteralmente: «questo Marano un po’ aspro mi stizzisce la tosse», pur conoscendo l’effetto che le provoca quel vino. C’è, dunque, un’altra coscienza “in scena”, una coscienza ausiliaria e supplementare di quella, evidentemente non del tutto autonoma, di Caterina, una voce dall’esterno che trascrive quanto al personaggio è noto e che può rendere conto dei suoni che arrivano dalla strada – un centro deittico34.
30 M. Serao, Terno secco, in Ead., All’erta, sentinella!, Milano, Treves, 18892, pp. 144-145. 31 Cfr. Seymour Chatman, Story and Discourse. Narrative Structure in Fiction and Film, ithaca-London, Cornell university Press, 1978; trad. it: Storia e discorso. La struttura narrativa nel romanzo e nel film, Parma, Pratiche, 1981, pp. 218-219. 32 «There are things which we are consciously aware of but are not the object of reflection», A. Banfield, Unspeakable Sentences, cit., p. 197. 33 M. Serao, Terno secco, cit., p. 182. 34 Secondo un’ipotesi molto suggestiva, non è necessario, in casi come questo, presupporre la presenza di un narratore ma è possibile attribuire la percezione a un’entità impersonale, non umana, assimilabile a uno strumento ottico, definito
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forme e sostanze della psicologia femminile nella narrativa breve 871 il passo continua con madre e figlia che discorrono dell’estate, causa di preoccupazione per la prima e motivo gioia per la seconda: E mentre si facea promettere che la madre l’avrebbe condotta alla Villa ogni sera non vedeva che la signora impallidiva, ogni volta che si nominava il luglio: poiché le vacanze estive le portavano via cinque o sei delle dieci o dodici lezioni che formavano tutta la sua piccola rendita, poiché l’estate, con la sua gran miseria dei poveri, era realmente il suo tormento maggiore. L’inverno, è vero, era dannoso per il suo petto ammalato: ma si guadagnavan denari. Ah l’estate, l’estate solo era crudele, con la sua povertà. Chissà come avrebbero scampato quest’altro? La signora chinava il capo, pensando35.
Ancora la materialità della vita quotidiana – che qui si configura come una vera e propria lotta contro gli stenti – ma, come si vede, a Caterina non vengono attribuite ampie zone di soggettività all’indiretto libero come a Checchina, si registrano solo le due frasi in corsivo nella citazione. L’ansia e la tensione traspaiono perlopiù nella forma della psiconarrazione. Consideriamo ora Una fioraia in Piccole anime (1883). una bambina di sette anni si aggira per Napoli e chiede l’elemosina. il narratore ci informa che questo «batuffolo di stracci»36 soffre la fame, la sete e il freddo, ma soprattutto teme di uscire dal suo solito percorso: Quelle viuzze nere, quella strettezza, quella miseria, quelle case stillanti umidità, quei cattivi odori, quei portoni sospetti, quelle tinte cupe, quell’assenza di sole, quelle facce usuraie dei commercianti, quelle facce losche dei loro mediatori, quelle facce ebeti di male femmine, quella merce gretta, impolverata, avariata, erano tutto il suo mondo. Sentiva vagamente che di sopra santa Barbara, di sopra Mezzocannone, di sopra il Cerriglio, alla fine di via Principessa Margherita, vi era un altro mondo, ma ella temeva di arrischiarvisi, ne aveva una paura selvaggia. Anche giù nei Mercanti, ella aveva paura delle altre mendicanti che la picchiavano, dei cani che volevano morderla, delle guardie che potevano arrestarla: ma ella era furba a schermirsi da questi pericoli. Lassù, il pericolo era ignoto37.
centro deittico ‘vuoto’ perché non antropomorfo: cfr. A. Banfield, Describing the Unobserved: Events Grouped around an Empty Centre, in The Linguistics of Writing: Arguments between Language and Literature, a cura di Nigel Fabb, Manchester, Manchester university Press, 1987, pp. 265-285. 35 M. Serao, Terno secco, cit., pp. 182-183. 36 Ead., Una fioraia, in Piccole anime, Lanciano, Carabba, 19183, p. 14. 37 Ivi, p. 13.
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concetta maria pagliuca872 Qui il lettore percepisce insieme alla protagonista, di cui il narratore verbalizza gli stati d’animo. Non ci è dato conoscere i suoi pensieri (ammesso che ne siano formulati); il lettore vede emergere soltanto emozioni primordiali, staremmo per dire animalesche: «Sentiva vagamente», «aveva una paura selvaggia». La bambina non ha una nozione precisa dell’«altro mondo», avverte confusamente il pericolo, scorge una minaccia, oltre che nei cani e nelle guardie, anche nelle sue simili. «Gemella di Una fioraia è Canituccia, con la quale la Serao si sposta nell’ambiente contadino, analizzato con maggiore distacco e reso in una prosa più sobria che sembra far tesoro della lezione verghiana di Vita dei campi»38; gemelle poiché Canituccia ha sette anni come la fioraia ed è tormentata anche lei dal freddo e dalla fame39: Ma nella notte non distingueva nulla. Camminava macchinalmente: fermandosi ogni tanto a guardare, senza vedere. i suoi piedi nudi, diventati color di polmone pel freddo di una intiera invernata, non sentivano più il terreno che si faceva glaciale, né le pietre dove inciampava. Non aveva paura della notte, della campagna solitaria: non voleva che ritrovare Ciccotto. udiva solo le parole di Pasqualina, che le dicevano non avrebbe mangiato se non riportava Ciccotto. Aveva una fame acerba e intensa che le torceva lo stomaco. Se riportava Ciccotto, avrebbe mangiato. Questo solo pensava, questo solo40.
A differenza della piccola mendicante del racconto precedente, la bambina viene almeno chiamata per nome (o, più precisamente, con un ipocoristico) e rappresentata nell’atto di pensare. «Se riportava Ciccotto, avrebbe mangiato», però, non è altro che l’eco della minaccia della nutrice. «Pure, ogni tanto, quando nelle mente chiusa di Canituccia sorgeva una idea, lei ne parlava a Ciccotto», si dice più avanti.
38 W. De Nunzio Schilardi, Le Piccole anime della Serao, in Ead., L’invenzione del reale, cit., p. 189. 39 Della fioraia si dice: «Per tre anni la vita della bambina non aveva avuto varianti. Ella non sapeva nulla, non ricordava nulla, altro che un lunghissimo giorno in cui aveva avuto sempre fame», M. Serao, Una fioraia, cit., p. 11. 40 M. Serao, Canituccia, in Piccole anime, cit., p. 43. Pertanto, una volta ritrovato il porcellino scompare anche quell’unico pensiero: «Aveva fame anche lei come Ciccotto. Seguì Pasqualina in cucina, guardandola coi suoi grandi occhi selvaggi che non sapevano chiedere. Poi sedette sullo scalino del focolare, senza dir nulla. La contadina si era seduta sulla panca ed aveva ricominciato il suo rosario. Pregava monotamente e senza fervore. La bambina, curva per non sentire lo spasimo dello stomaco, seguiva con gli occhi quella preghiera. Non pensava neppure più: aveva semplicemente e unicamente fame» (ivi, p. 45).
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forme e sostanze della psicologia femminile nella narrativa breve 873 Ma quali sono queste “idee” che la protagonista condivide con il porcellino, suo unico amico? Quando se ne tornavano a casa, gli teneva questo discorso: “Mo’, andiamo alla casa e Ciccotto se ne va alla stalla e mamma Pasqualina gli dà la cena e poi mamma Pasqualina dà la minestra a Canituccia, che se la mangia tutta tutta”. E la mattina: “Se Ciccotto non corre, se se ne sta sempre vicino a Canituccia, Canituccia lo porta alla Montagna Spaccata, all’arbusto di don Ottaviano il parroco e gli fa mangiare tante tante mele, mentre Canituccia si mangia il pane”41.
Nessuna evasione fantastica, ma un futuro prossimo e circoscritto a luoghi consueti, nessun desiderio eccezionale ma la presenza ossessiva della fame anche nelle promesse della bambina al suo compagno di giochi. Si potrebbe obiettare che la visuale confusa e ristretta della piccola fioraia e la «mente chiusa» di Canituccia siano dovute alla loro età. riportiamo quindi, a sostegno della nostra tesi, un altro brano, tratto da Nella via (Vicenzella), in Gli amanti, dove una giovane venditrice ambulante, innamorata di uno scroccone perdigiorno, non accetta l’evidenza del tradimento: Più che mai, ora, ficcava gli occhi nell’ombra, per vedere se colui che aspettava dalla mattina, spuntasse. Non badava ai golosi pescatori che venivano a comperare le spighe arrostite, due per un soldo, non badava alle parole di Maria Grazia, l’acquaiuola, che cenava con un soldo di spighe e le diceva di lasciarlo stare, Ciccillo. Ora, non aveva più pace e tutte le parole che aveva udite contro il suo innamorato, dalla mattina, le ritornavano in mente, cattive, crudeli42.
L’ultimo periodo costituisce il massimo di scavo psicologico concesso a una donna innamorata di estrazione popolare. Anche in questo caso non compaiono lunghi e complessi ragionamenti, ma sentimenti elementari: diffidenza, risentimento, amarezza. Come in Una fioraia, nessuna citazione, né diretta, né obliqua, di pensieri sotto forma di enunciati. È sì vero che ora delle parole sono presenti nella mente del personaggio: ma, come in Canituccia, non sono parole di Vicenzella, da lei attivamente elaborate, bensì parole altrui, quelle delle persone che hanno cercato di metterla in guardia da Ciccillo. La popo
41 Ivi, p. 50. 42 Ead., Nella via (Vicenzella), in Gli amanti, cit., pp. 143-144.
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concetta maria pagliuca874 lana, insomma, è incapace di elaborare un discorso suo, può solo registrare e ripetere passivamente nella sua testa le parole dette da altri. Veniamo, infine, a un altro espediente di cui si serve Serao per rappresentare la soggettività: il coro. Nella prefazione al Romanzo della fanciulla (1886) la scrittrice si vanta di aver realizzato delle «novelle corali, ove il movimento viene tutto dalla massa, ove l’anima è nella moltitudine»43. una precisazione che segue, però, fa presagire uno scarto dai procedimenti verghiani: attingendo dalla memoria, Serao non ha ricostruito un microcosmo, lo ha rivissuto. Procedendo nella lettura, infatti, non si trova spesso quel punto di vista collettivo che media interamente la narrazione nei Malavoglia, quel brusio continuo di voci indistinte che a tratti emerge ancora nel Mastro-don Gesualdo44. Si trovano invece, più di frequente, serie in cui la soggettività è moltiplicata ma resta ben circoscritta alla dimensione individuale. Si consideri questo campione prelevato da Telegrafi dello Stato: Otto e cinquantacinque. Addosso a tutte quelle fanciulle era piombata la grande stanchezza finale, l’aridità di sette ore passate in ufficio a compire un lavoro scarso e ingrato. Stavano immote, senza aver più neanche la forza di levarsi su per andarsene: avevano intensamente desiderata quell’ora delle nove, si erano consumate in quel desiderio e adesso esaurite, senza vibrazioni nervose, stracche morte dall’aspettazione, dall’ozio e dalle chiacchiere vane, non desideravano più niente. Quelle che dovevano ritirarsi a casa, pensavano alla cena e al letto, con un bisogno tutto animale di mangiare un boccone e di sdraiarsi: quelle che dovevano andare al teatro, a ballare, rifinite, esauste, spezzate in tutte le giunture, non avevano più nessuna vanità, non provavano più nessun stimolo45.
Qui il narratore si serve della psiconarrazione per rappresentare le
43 Ead., Prefazione a Il romanzo della fanciulla, cit., pp. 5-6. 44 «il grande narratore-ventriloquo che Verga era stato nei Malavoglia resta ventriloquo anche nel Mastro-don Gesualdo: fa parlare e non parla. Solo che le voci emesse sono insieme più scandite e più varie, come se da una gran massa corale di suono largo e relativamente uniforme cominciassero a isolarsi partiture più individuate, più capillarmente inseguite e approfondite attraverso una lunga parabola del tempo» (Giancarlo Mazzacurati, L’illusione del parvenu. Introduzione a Mastro-don Gesualdo, in id., Stagioni dell’apocalisse, Torino, Einaudi, 1998, p. 49). un’attenta analisi della dialettica coro/personaggi, aggiornata sulla base delle teorie narratologiche più recenti, è condotta da Paolo Giovannetti, Dai Malavoglia a Mastro-don Gesualdo: progressi della figuralità verghiana, in id. Spettatori del romanzo. Saggi per una narratologia del lettore, Milano, Ledizioni, 2015, pp. 67-175. 45 M. Serao, Telegrafi dello stato, in Il romanzo della fanciulla, cit., pp. 33-34.
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forme e sostanze della psicologia femminile nella narrativa breve 875 impiegate dopo un’estenuante giornata di lavoro. Partendo da una constatazione oggettiva, cioè la stanchezza fisica, spinge la sua virtù osservativa fino all’introspezione e rivela i pensieri delle telegrafiste esauste. Siamo di fronte all’unico caso di psiconarrazione davvero corale: nel resto della raccolta, infatti, ciascuna fanciulla ha il suo spazio, le diverse coscienze al massimo sono accostate per dare un effetto di pluralità. Si confronti lo stralcio appena analizzato con il seguente, tratto da Per monaca (sempre nel Romanzo della fanciulla): in chiesa, durante il rito in cui Eva Muscettola prende i voti, le amiche, raccolte in preghiera, pensano, sì, tutte alla novizia, ma ciascuna secondo il proprio temperamento. Citiamo con molti tagli: Tecla Brancaccio, la forte e dura volontà, l’animo coraggioso, guardava Eva Muscettola, chinava la testa e pregava: […] ignorando il grande segreto di Eva, ma intuendone lo spasimo, pregava, pregava, per i vinti come per i vincitori […]. Col capo abbassato, in un assorbimento doloroso, Giovannella Sersale non aveva il coraggio di pregare, la sua anima era immersa nel peccato, ella amava il peccato, ella non aveva il coraggio di salvarsi dal peccato, ella era indegna di pregare, indegna di inginocchiarsi innanzi a Dio, giammai la misericordia divina poteva perdonarle […]. Accanto a Maria Sannicandro Gullì, che pregava, decorosamente, per colei che fuggiva le vane pompe e anziché dare spettacolo del suo dolore, si nascondeva per sempre in una clausura, Giulia Capece pregava, ringraziando il Signore che le aveva fatto la grazia; fra due mesi ella partiva per l’inghilterra, ella sposava un vecchio principe, […] pregava quietamente, senza turbarsi, presa solo da una pietà per la bellezza di Eva, che andava a consumarsi in convento46. Viste dall’esterno, sembrano tutte unanimemente coinvolte nel momento comunitario della preghiera, ma la giustapposizione dei loro pensieri svela caratteri e destini diversi. Le figure femminili di questa novella sono medio e alto-borghesi, a differenza di quelle presenti in altre novelle del Romanzo della fanciulla, piccolissimo-borghesi e quasi proletarie: si direbbe che la voce interiore del borghese che ha conquistato l’individualità non possa confondersi, armonizzarsi con quelle dei suoi pari, come avviene per il popolino e la classe operaia47.
46 Ead., Per monaca, in Il romanzo della fanciulla, cit., pp. 86-87. 47 «L’“analisi psicologica” è privilegio dei caratteri “non dissimili” [rispetto all’autore], dei personaggi borghesi o aristocratici, contraddistinti da un’interiorità più complessa, a cui vale la pena di accedere attraverso le tecniche sottili e ‘indugianti’ dell’introspezione», sostiene Guido Scaravilli, La narratologia dei naturalisti e le classi sociali, «Status Quaestionis», 2017, n. 12, p. 206, https://ojs.uniroma1. it/index.php/statusquaestionis/article/view/13990.
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concetta maria pagliuca876 Ci pare, in definitiva, di aver individuato tre livelli ben definiti su cui è possibile disporre i personaggi femminili della narrativa breve di Serao, assumendo come criteri distintivi il contenuto delle loro menti e i modi in cui è resa la loro soggettività. Partendo dal basso, il primo livello comprende personaggi di estrazione popolare, la cui soggettività è ridotta a movimenti impulsivi, emozioni grezze, al massimo alla rievocazione meccanica di frasi altrui. il secondo livello include personaggi piccolo-borghesi nelle cui coscienze si scorgono le angustie della realtà concreta, la precarietà della situazione economica, l’ansia di una promozione sociale, restituite con un linguaggio prosastico. il terzo livello annovera i personaggi delle classi alte, con l’aleggiare degli stati d’animo e i sentimenti gratuiti e nobili di cui queste donne hanno consapevolezza e per i quali sanno da sole trovare le parole debitamente decorose ed eloquenti; si consideri, nell’ultimo passo proposto, il linguaggio che traduce l’autocoscienza individuale delle fanciulle: Tecla Brancaccio che intuisce lo «spasimo» di Eva e prega «per i vinti come per i vincitori»; Giovannella Sersale che si sente «indegna» di pregare, perché «giammai la misericordia divina poteva perdonarle»; Maria Sannicandro Gullì che prega «per colei che fuggiva le vane pompe». Alle classi alte soltanto è concessa la possibilità di gestire il racconto alla prima persona, è concessa un’autoanalisi della propria esperienza, è concessa un’eloquenza in cui prevalgono le parole della vita affettiva e il sublime delle passioni disinteressate. Soltanto questi personaggi, insomma, hanno diritto a quello che ho altrove definito «lo stile dell’anima»48.
Concetta Maria Pagliuca università Federico ii – Napoli
48 Concetta Maria Pagliuca, Lo stile dell’anima, «Status Quaestionis», 2017, n. 12, pp. 161-175, https://ojs.uniroma1.it/index.php/statusquaestionis/article/ view/13989.
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GuiDO SCArAViLLi Dal vero: casi e difetti del reflector character
Ci si propone di analizzare alcuni casi di imperfetta ‘riflettorizzazione’ in Dal vero (1879). Proprio per le loro anomalie, dovute alla scarsa padronanza, da parte della giovane Serao, delle tecniche flaubertiane della soggettivazione, tali esempi costituiscono un punto di vista privilegiato per studiare il processo di grammaticalizzazione del racconto figurale nel Naturalismo italiano.
★ This essay offers an analysis of several cases of imperfect ‘reflectorization’ in Dal vero (1879). Precisely because of their anomalies, due to the young Serao’s insufficient knowledge of Flaubert’s techniques of subjectivism, these examples constitute a privileged viewpoint in order to study the process of grammaticalization of the figural short story within italian Naturalism.
1. La teoria del racconto di Franz Stanzel è uno dei modelli narratologici più noti e diffusi presso la comunità scientifica internazionale. Essa si impernia sul concetto di mediacy, con il quale si designa l’atto o la facoltà di un’istanza narrativa di mediare un contenuto finzionale1. Secondo Stanzel, tale mediazione può avvenire essenzialmente in due modi: in maniera esplicita, per mezzo di un narratore, o implicitamente, grazie a un personaggio cosiddetto riflettore, un personaggio cioè attraverso la cui soggettività i contenuti vengono filtrati2. in quest’ul
Guido Scaravilli: Scuola Normale Superiore, Pisa; dottorando; guido.scaravilli@sns.it 1 Cfr. Franz Karl Stanzel, Theorie des Erzählens, Göttingen, Vandenhoeck & ruprecht, 1982; trad. ing. A Theory of Narrative, Cambridge, Cambridge university Press, 1984. Le opere di Stanzel non sono mai state tradotte in italia, ma sta validamente mediando nei nostri studi le idee stanzeliane Paolo Giovannetti, di cui si veda Il racconto. Letteratura, cinema, televisione, roma, Carocci, 2012, dove è incluso l’utile Approfondimento di Filippo Pennacchio, La teoria del racconto di Franz Karl Stanzel, alle pp. 217-238. i termini in italiano della teoria stanzeliana saranno sempre tratti da questo studio. 2 Si ha riflettorizzazione quando il narratore si eclissa e asseconda per larghi
guido scaravilli878 timo caso, ci troviamo in quella che il narratologo definisce situazione narrativa figurale o personale, quel tipo di narrazione in terza persona in cui la mediazione del narratore è prossima allo zero e in cui sembra che il mondo finto nel testo – ciò che Doležel ha definito storyworld – sia tutto visto dagli occhi e pensato dalla mente di qualche personaggio: «if the reader has the illusion of being present on the scene in one of the figures, then figural narration is taking place»3. in altri termini, la narrazione figurale veicolerebbe un’«illusione di im-mediatezza»4: il lettore avrebbe la sensazione di un’esperienza diretta degli eventi narrati, come se il racconto si producesse da sé ed egli entrasse in simbiosi col reflector character. un romanzo o un racconto è figurale in senso forte quando vi è un unico personaggio riflettore per tutta la sua durata, ma Stanzel stesso ha evidenziato la rarità di questa evenienza: non è infrequente, cioè, che in un romanzo latamente figurale siano individuabili zone con il narratore autoriale (analogo, in quanto a prerogative e funzioni, al narratore onnisciente di Genette)5; così come, d’altro canto, può accadere che in un testo autoriale vi siano momenti fortemente riflettorizzati.
tratti la prospettiva del personaggio. Secondo Stanzel sono esistiti storicamente nei testi narrativi tassi diversi di figuralità: solo di rado, e solo dall’inizio del Novecento, si darebbero casi in cui la mediacy di un intero testo è affidata a un unico personaggio riflettore: «in the novel with a predominantly figural narrative situation the dynamics of the alternation of basic forms and of narrative situations are reduced, since there is a tendency to retain the point of view of one character of the novel which inhibits the frequent change of the narrative situation» (F.K. Stanzel, A Theory of Narrative, cit., p. 72; il corsivo è mio). Ha proposto un’estensione di tale categoria Giovannetti, che annette al dominio della narrazione figurale anche la riflettorizzazione pluriprospettica e corale, come avviene nei Malavoglia (P. Giovannetti, Dai Malavoglia a Mastro-Don-Gesualdo: progressi della figuralità verghiana, in id., Spettatori del romanzo. Saggi per una narratologia del lettore, Milano, Ledizioni, 2016, pp. 67-124. 3 F.K. Stanzel, Die typischen Erzählsituationen im Roman. Dargestellt an Tom Jones, Moby-Dick, The Ambassadors, Ulysses, Stuggart, Wien, 1955, trad. ingl. Narrative Situations in the Novel. Tom Jones, Moby-Dick, The Ambassadors, Ulysses, Bloomington, indiana university Press, 1971, p. 23. Per il concetto di storyworld si veda, in italiano, Lubomir Doležel, Heterocosmica. Fiction e mondi possibili, Milano, Bompiani, 1999. 4 F. Pennacchio, La teoria del racconto di Franz Karl Stanzel, cit., p. 226. 5 Come spiega Pennacchio, «l’aggettivo autoriale […] è da Stanzel utilizzato» per «indicare un narratore che gode di tutte quelle facoltà spesso associate alla figura dell’autore reale. […] Per esempio, il narratore autoriale è in grado di muoversi nel tempo, retrocedendo nel passato o spostandosi nel futuro tramite slanci prolettici; ha il potere di comprimere, selezionare ed eventualmente commentare
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dal vero: casi e difetti del reflector character 879 un notevole pregio della sua teoria è, infatti, la versatilità: accanto alla situazione narrativa in prima persona, l’autoriale e la figurale – cioè le tre forme ideal-tipiche alle quali possono essere ricondotti, per Stanzel, la gran parte dei testi narrativi – vengono contemplate delle possibilità intermedie e delle anomalie6. insomma, Stanzel precisa che la coerenza oltranzista, da parte di un autore, nel realizzare un tipo puro senza alcuna infrazione, è di difficile rinvenimento non solo nel caso dei racconti figurali: egli considera le variazioni come un elemento costitutivo della narratività, e l’avvicendamento delle modalità diegetiche un arricchimento dell’opera, che è generalmente difficile ricondurre a una singola categoria nella sua interezza.
2. La nozione di figuralità – e in generale la teoria stanzeliana, con le opportune integrazioni – risulta particolarmente efficace per l’interpretazione della produzione di Matilde Serao, perché in essa sono frequenti simili variazioni strutturali. È infatti evidente, ripercorrendo agilmente il suo corpus, la propensione della scrittrice alla giustapposizione di differenti situazioni narrative: numerosi romanzi e racconti prevedono un narratore autoriale che riporta i suoi commenti e le sue considerazioni, senza rinunciare neanche al ricorso strumentale ad analessi e prolessi, e che non esita talvolta a manifestarsi con il pronome di prima persona singolare – il narratore di balzachiana memoria7. Nondimeno, numerose e significative sono altresì le isole di soggettività nei medesimi testi, cioè le zone figuralizzate, in cui a determinati personaggi è concesso, oltre che il filtraggio dell’universo diegetico, un approfondimento ‘analitico’ attraverso l’impiego delle tecniche volte alla riproduzione mimetica del pensiero e della vita interiore8. È ciò che avviene in Dal vero (1879), la prima raccolta di novelle e
la materia narrativa; soprattutto ha la facoltà di leggere nella mente dei personaggi (mindreading)» (ivi, pp. 224-225). 6 Nell’interpretazione è cruciale il ruolo cooperativo del lettore. Diversi studiosi hanno messo l’accento sugli indirizzi pre-cognitivisti della teoria di Stanzel. Al riguardo cfr. P. Giovannetti, Introduzione, in id., Spettatori del romanzo, cit., pp. 13-52. 7 Ma capita di imbattersi anche in racconti impeccabilmente figurali, come nel caso di La virtù di Checchina. 8 La narratologia post-genettiana considera inadatti i concetti di «focalizzazione» e di «punto di vista», giacché essi hanno una connotazione strettamente visiva; pertanto, si preferisce riunire nella macrocategoria della soggettività sentimenti, percezioni, sogni, ricordi e pensieri (cfr. Jahn Manfred. Frames, Preferences, and the Reading of Third-Person Narratives: Towards a Cognitive Narratology, «Poetics Today», ii, n. 2 (1997), pp. 441-68).
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guido scaravilli880 bozzetti di Serao. il filo rosso che lega i testi è il ritratto socio-psicologico della donna, che ci offre la possibilità di seguire la dinamica di elaborazione di un tema che sarà successivamente riproposto – nelle forme di un’atipica coralità – nel Romanzo della fanciulla9. Giova ricordare la vicenda editoriale e le occasioni compositive dell’opera, cioè la prima pubblicazione delle novelle, tra il 1878 e il 1879, su giornali e periodici letterari («il Piccolo», il «Capitan Fracassa», il «Giornale di Napoli», la «Gazzetta letteraria» di Torino e la «Gazzetta piemontese») e il successivo riassestamento dei testi nella raccolta del ’79. L’opera ebbe tre edizioni successive: nel 1883 essa fu riproposta con una diversa organizzazione del macrotesto, con l’aggiunta e l’espunzione di alcune novelle, e col titolo mutato in Pagina azzurra; nel 1885 venne riprodotto «il testo del 1883 senza alcuna variante»10; il titolo Dal vero fu infine ripristinato nell’edizione del 1890, l’ultima con il consenso autoriale. Dopo il primo passaggio dei testi dalle riviste al volume, quando nell’edizione del ’79 l’autrice «opera le modifiche […] più rilevanti»11, il côté linguistico dei testi rimane pressoché invariato e non si ravvisano consistenti mutamenti strutturali nelle edizioni successive. Sicché tali novelle continuano ad attestare una fase molto giovanile della scrittura di Serao, al tempo della prima stesura poco più che ventenne12. in esse emerge chiaramente la sua tendenza alla sperimentazione di diverse soluzioni formali, all’«asistematicità», con una prosa «abbondante ma torbida», priva di «un rigoroso vaglio espressivo e dalla congenita tendenza all’improvvisazione incontrollata»13.
9 Per una lettura in chiave narratologica del Romanzo della fanciulla si veda Giorgia Laricchia, La soggettività femminile nel romanzo della fanciulla di Matilde Serao, «StatusQuaestionis», n. 12 (2017), pp. 210-235. La rivista è consultabile in rete. Sulla raccolta si veda anche Francesco Bruni, Nota introduttiva, in Matilde Serao, Il romanzo della fanciulla. La virtù di Checchina, a cura di F. Bruni, Napoli, Liguori, 1985, pp. i-XXXVi. 10 Patricia Bianchi, Nota al testo, in M. Serao, Dal vero, a cura di P. Bianchi, Napoli, Dante & Descartes, 2000, p. 241. il testo adottato per questa edizione è quello del 1890. 11 Ivi, p. 245. 12 Come ha ben spiegato Bianchi, tale atteggiamento correttorio è un tratto peculiare della scrittrice, che «ripubblica i suoi testi, ricicla novelle in assetti mutati di raccolte, ma non ha attitudine e interesse a tornare sull’impianto narrativo e sulla forma linguistica: il suo lavoro di scrittura incessante, serrato, è dedicato alla produzione del nuovo e non alla revisione» (P. Bianchi, Introduzione, in M. Serao, Dal vero, cit., p. XiX). 13 Tommaso Scappaticci, Introduzione a Serao, Bari, Laterza, 1995, p. 71.
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dal vero: casi e difetti del reflector character 881 Ad uno sguardo d’insieme, è subito evidente l’originaria destinazione giornalistica di queste pagine. Non stupisce che in esse, che della prosa giornalistica hanno i tratti tipici, compresa la leggerezza conversevole e al limite mondana del tono, la voce del narratore si manifesti invasivamente. Eppure, è altresì evidente un movimento di segno opposto, una ricerca in atto dei moduli del narrare naturalista, che si manifesta con l’emersione della narrazione figurale, funzione precipua della poetica dell’impersonalità. in altri termini, si ingenera un conflitto tra la situazione narrativa autoriale e la figurale, un conflitto che interessa e che pare meritevole d’analisi, giacché gli slittamenti e le interferenze tra la zona del narratore e quelle riflettorizzate dei personaggi sono incoerenze che stridono, dal nostro punto di vista, e paiono dovute a un controllo ancora insufficiente o provvisorio, da parte della scrittrice, delle convenzioni tardo-ottocentesche dell’arte narrativa.
3. Tali incoerenze si manifestano in maniera esemplare in un passo della novella Il trionfo di Lulù. Si tratta del monologo di un uomo, roberto Montefranco, fidanzato con una ragazza allegra e arguta, Lulù, ma che prova una vaga attrazione per la sorella pensosa e melanconica, Sofia: Quel giorno […] si era disteso sulla poltrona, una gamba a cavalcioni dell’altra, lo stuzzicadenti in bocca, ed un volume delle edizioni Quadrio in mano, con la determinazione precisa di leggere. […] roberto, senza sua voglia, partiva per le incognite regioni del pensiero. … Papà è soddisfatto, le zie mi mandano la loro santa benedizione, le cuginette sono in collera […] gli amici serii mi stringono la mano – dunque fo bene ad ammogliarmi. Non si può negare che Lulù sia molto graziosa, […] quando scoppia a ridere mostrando i dentini bianchi, mi vien la voglia di stringere fra le mani quella testina leggiadra e di darle tanti e tanti di quei baci! […] Andremo d’accordo; io non posso soffrire le fronti pensierose […]. Sofia, la mia futura cognata, ha la virtù di irritarmi […]; quando lei compare, l’anima mi si chiude […]. Ma, domando io, è naturale che alla sua età quella fanciulla debba essere così seria? Avrà ventitré anni… non è brutta […]14.
Dalla frase «Papà è soddisfatto» ha inizio il monologo interiore del personaggio. Esso, da un punto di vista grammaticale, rientra pienamente nelle modalità del quoted interior monologue (monologo citato o
14 M. Serao, Dal vero, Milano, Perussa & Quadrio, 1879, pp. 44-45 (d’ora in poi citato DV). Le citazioni dalle novelle saranno tratte sempre da questo volume.
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guido scaravilli882 monologo interiore diretto), come Dorrit Cohn ha denominato questa tecnica della rappresentazione della coscienza15. il quoted monologue è un pensiero diretto con centro deittico sul personaggio, cioè la trascrizione per così dire stenografica di un discorso che il personaggio rivolgerebbe a se stesso, adoperando per designarsi la prima persona e regolando la tempistica dei verbi sul proprio presente. Tuttavia, ad uno sguardo più dettagliato, è evidente che tale monologo, in quanto a stile e forma, è atipico. Non è l’assenza delle canoniche formule introduttive al quoted monologue a sorprendere (es. «pensò», «disse a se stesso»), giacché non è affatto infrequente che esse siano omesse del tutto in situazioni analoghe16, ma una sensazione di complessiva innaturalezza, che mina l’efficacia del passo e la verosimiglianza del personaggio monologante. Per capire cosa non funzioni in questo quoted monologue, proviamo a commutarlo in un narrated monologue, cioè in un indiretto libero dei pensieri17. È necessario, secondo le leggi dell’indiretto libero, mutare la prima persona in terza e adeguare il sistema dei verbi: * il papà era soddisfatto, le zie gli mandavano la loro santa benedizione, le cuginette erano in collera […] gli amici serii gli stringevano la mano – dunque faceva bene ad ammogliarsi. Non si poteva negare che Lulù fosse graziosa; […] quando scoppiava a ridere mostrando i dentini bianchi, gli veniva la voglia di stringere fra le mani quella testina leggiadra e di darle tanti e tanti di quei baci! […] Sarebbero andati d’accordo; lui non poteva soffrire le fronti pensierose […]. Sofia, la sua futura cognata, aveva la virtù di irritarlo […]; quando lei compariva, l’anima gli si chiudeva […]. Ma, si domandava, era naturale che alla
15 Cfr. Dorrit Cohn, Transparent Minds. Narrative Modes for Presenting Consciousness in Fiction, Princeston, Princeton university Press, 1978, pp. 12-13. il quoted monologue è una delle tecniche della rappresentazione della coscienza – insieme alla psiconarrazione e al monologo narrato – di cui si avvale la narrazione figurale, come ha dimostrato Cohn. La narratologa, oltre ad aver letto Stanzel e accettato la sua nozione di figuralità, ha riflettuto sulle sue teorie, proponendo delle rettifiche al suo Typenkreis (cfr. Ead., The Encirclement of Narrative, «Poetics Today», ii (1981), vol. 2, pp. 157-182). D’altra parte la teoria di Cohn si presenta a tutti gli effetti come un arricchimento dell’impianto di Figures III (integrato dallo stesso Genette con le precisazioni contenute in Gérard Genette, Nouveau discours du récit, Paris, Editions du Seuil, 1983). La sua narratologia costituisce dunque un anello di congiunzione tra le teorie di Stanzel e di Genette. Anche di una traduzione in italiano di Transparent Minds si sente la mancanza. 16 Sull’omissione delle formule di citazione nel monologo citato si veda Ead., Transparent Minds, cit., pp. 62-63. 17 Cfr. ivi, pp. 99-109.
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sua età quella fanciulla dovesse essere così seria? Doveva avere ventitré anni… non era brutta […]18.
La sensazione di innaturalezza svanisce, e non è arduo comprendere perché. Le competenze di lettura, sviluppatesi soprattutto a partire da Flaubert e dalla forza modellizzante del suo magistero, ci rendono infatti accettabili, in un monologo narrato, prerogative che in un monologo citato parrebbero eccessive, e contrasterebbero con la verosimiglianza di un reale discorso che qualcuno potrebbe svolgere tra sé e sé. È il caso del Trionfo di Lulù, in cui la scelta del monologo citato sembra compromettere la credibilità della finzione. Ai fini di una maggiore chiarezza, giova isolare una sezione dei due testi che abbiamo esibito: Non si può negare che Lulù sia molto graziosa; […] quando scoppia a ridere mostrando i dentini bianchi, mi vien la voglia di stringere fra le mani quella testina leggiadra e di darle tanti e tanti di quei baci!19 * Non si poteva negare che Lulù fosse molto graziosa; […] quando scoppiava a ridere mostrando i dentini bianchi, gli veniva la voglia di stringere fra le mani quella testina leggiadra e di darle tanti e tanti di quei baci!
Osservando la versione in terza persona del passo, si nota che immagini mentali, sensazioni, emozioni sono tradotte in parole, come se il narratore trasformasse in materia linguistica contenuti preverbali. Ciò è ottenuto attraverso la commistione della psiconarrazione («quando scoppiava a ridere mostrando i dentini bianchi, gli veniva la voglia […]»), cioè della rappresentazione narratoriale indiretta e non drammatizzata della coscienza del personaggio, e dei tratti dell’oralità tipici del monologo narrato («tanti e tanti di quei baci!»)20. Si avvertono cioè insieme, nel mondo finzionale, la voce del personaggio e un’altra voce, quella del narratore, che s’integra con la prima e l’arricchisce: è la dinamica della «dual voice», come l’ha definita roy Pascal21. Tale effetto
18 Sulla meccanica dell’indiretto libero sempre fondamentale è il contributo di Harald Weinrich, Le transizioni temporali, in id., Tempus. Le funzioni dei tempi nel testo, Bologna, il Mulino, 1978, pp. 217-247. 19 DV, p. 44. il corsivo è mio. 20 Per il concetto di psiconarrazione cfr. D. Cohn, Transparent Minds, cit., pp. 21-31. 21 roy Pascal, The Dual Voice. Free Indirect Speech and its Functions in the Nineteenth-Century European Novel, Manchester, Manchester university Press, 1977, p. 26: «We hear in free indirect speech a dual voice, which, through vocabulary, sentence structure, and intonation subtly fuses the two voices of the character and the narrator».
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guido scaravilli884 è stato efficacemente descritto da Cohn in una pagina di commento – molto apprezzata da Palmer – ad un passo del Portrait di Joyce22: By leaving the relationship between words and thoughts latent, the narrated monologue casts a peculiarly penumbral light on the figural consciousness, suspending it on the threshold of the verbalization in a manner that cannot be achieved by direct quotation. This ambiguity is unquestionably one reason why so many writers prefer the less direct technique23.
Secondo Cohn il monologo narrato può avvalersi della «dual voice» per gettare una «penumbral light» sul personaggio riflettore, cioè come una luce sulle zone in penombra della sua coscienza, e trasporre obliquamente – con una certa «ambiguity» – il flusso dei suoi pensieri. Si capisce perché questo flusso, di immagini mentali e sensazioni, non andrebbe verbalizzato dal personaggio in un monologo citato: risulta posticcia la messa in scena di un uomo capace di articolare lucidamente in parole interiori la penombra fantastica della propria coscienza. Tali effetti sono invece conseguibili in un monologo narrato grazie all’intervento e alla supplenza del narratore. La doppia voce ha anche un’altra funzione: Sofia, la mia futura cognata, ha la virtù di irritarmi […]; quando lei compare, l’anima mi si chiude […] Ma, domando io, è naturale che alla sua età quella fanciulla debba essere così seria? Avrà ventitré anni… non è brutta […]. … A Lulù piacciono i dolci, me lo dichiarò la seconda sera che andai in casa sua […]. È carina, carina, carina! Mi ha confidato a bassa voce che quando romba il tuono, ha paura e va a nascondere la testa sotto i cuscini […]24.
22 Alan Palmer, Fictional Minds, Lincoln, university of Nebraska Press, 2004, pp. 72-73: «This note of mistery encapsulates beautifully the inadequacy of the speech category picture of the mind. Cohn’s point can be prosaically reworded by saying that the free indirect thought is good at presenting states of mind such as beliefs and attitudes almost as if they are single mental events might have taken place». Per un primo approccio alla teoria di Palmer, oltre che ai più recenti dibattiti della narratologia post-classica, si rinvia a La mente in-diretta, a cura di F. Pennacchio, Marzia Beltrami e Sara Sullam, «il Verri», LViii (2014), n. 56, pp. 87107. in questo numero monografico sono stati tradotti in italiano per la prima volta importanti saggi di Gilles Philippe, Dorrit Cohn, Monika Fludernik, Lisa Zunshine, Fredric Jameson e dello stesso Palmer. 23 D. Cohn, Transparent Minds, cit., p. 103. 24 DV, p. 48. i corsivi sono miei.
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dal vero: casi e difetti del reflector character 885 È curioso che roberto senta il bisogno di dire a se stesso che Sofia è la sua futura cognata, e che ha saputo della passione di Lulù per i dolci la seconda volta che è andato a casa sua. Queste informazioni sono chiaramente a beneficio del lettore, per metterlo surrettiziamente al corrente di dati del contesto dell’azione di cui ovviamente il personaggio non necessita. Se lo stesso testo fosse invece nella forma in terza persona, tali inserti narrativi parrebbero plausibilmente assemblati con le parole del personaggio: la «dual voice» integra testo e contesto in maniera funzionale e fluida25. Facendo un bilancio, allora, si può supporre che nelle pagine analizzate la giovanissima Serao confonda i due modelli della rappresentazione soggettiva, il monologo narrato e quello citato, attribuendo alcune prerogative del primo – gli effetti della «dual voice» che illumina le penombre della coscienza e integra testo e contesto – al secondo, che ha altre funzioni.
4. il secondo campione è tratto da Silvia, novella che racconta la vita mesta e incolore della protagonista eponima, della gretta realtà provinciale in cui trascorre i suoi giorni e del suo anonimo matrimonio. Solo l’inattesa maternità ridà alla donna un nuovo entusiasmo vitale, ridestandola dal torpore: In quelle lunghe ore di riposo, Silvia volava con la fantasia ai paesi immaginarii, sprecandovi tutta la forza accumulata nel periodo di inerzia. Ecco il bambino, bello, vivo, sangue del suo sangue, cuore del suo cuore; gli occhietti neri luccicano nel bianco visino, le labbruccie spruzzate di rosso chieggono i baci. […] Ma è possibile? Questa cosetta rosea, graziosa, quest’animuccia che ancora rammenta le voci del paradiso, è suo figlio, suo, suo, suo? […] Dio! Dio! che aveva ella fatto per meritare tanto? Oppure era una bambinetta bianca, dagli occhi glauchi e dolci, dalla vocina melodiosa […]. Non sa far altro la fanciullina che fissare i suoi grandi occhi sorpresi in quelli della madre, non chiede altro che attaccarsi alla sua gonna e se
25 il lettore avverte che, nell’impasto duale delle voci, è quella del narratore a informarlo sul contesto. Cohn, pur riconoscendo che «the very special two-in-one effect» prodotto dall’intimità fra narratore e personaggio nel racconto figurale è tale che al lettore può parere di attingere senza alcuna mediazione la voce e la prospettiva del secondo, ha rimarcato che in questa specie tecnica «the continued employement of third-person references indicates, no matter how unobtrusively, the continued presence of a narrator» (D. Cohn, Transparent Minds, cit., p. 112).
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guirla dovunque […]. Adesso i suoi occhi intelligenti si chinano sulle lettere dell’alfabeto che la madre vuole insegnarle […]. Ora Silvia comprendeva tutto, tutto: una grande tendina era stata lacerata davanti a’ suoi occhi, la rivelazione del mondo l’aveva colpita, il suo intelletto era stato invaso dalla scienza della vita […]26.
il lacerto ha una conformazione singolare, che sembra divergere dalle convenzioni dominanti a fine Ottocento quando si trattava di descrivere le fantasie di un reflector character. un esempio calzante di tale paradigma stilistico è il famoso passo flaubertiano che riproduce le fantasticherie notturne di Emma riguardanti la sua fuga in carrozza con rodolphe, che ella crede imminente, attraverso paesaggi esotici proiettati da un’accesa immaginazione: Emma ne dormait pas, elle fasait semblant d’être endormie: et tandis qu’il s’assoupissait à ses côtés, elle se révellait en d’autres rêves. Au gallop de quatre chevaux, elle était emportée huit jours vers un pays nouveau […]. Souvent, du haut d’une montagne, ils apercevaient tout à coup quelque cité splendide avec des domes, des ponts, des navires […]. On entendait sonner des cloches, hennir des mullets […]27.
E ora un’altra realizzazione del paradigma, tratta da L’Illusione di Federico De roberto: Altre volte, delle difficoltà, degli ostacoli sorgevano nella sua fantasia […]. Ella si vedeva, moribonda, con le mani affilate sulla coltre bianca: le donne singhiozzavano intorno, e a un tratto un rumore di passi, l’apparizione di una figura disfatta […]. un grido terribile gli lacerava la gola, e precipitandosi verso il letto, vi cadeva in ginocchio dinanzi […]. La funebre rappresentazione le si spiegava dinanzi con l’evidenza della realtà: sentiva le dita di lui errarle fra i capelli, vedeva i visi pallidi dei parenti, udiva le salmodìe degli agonizzanti; e delle lacrime le rigavano lentamente il viso. […] Perché quelle imagini tristi28?
Nei testi di Flaubert e De roberto si ritrova sia l’imperfetto nella
26 DV, pp. 295-296. il corsivo, il grassetto e le sottolineature sono miei. 27 Gustave Flaubert, Madame Bovary, in Oeuvres, a cura di Albert Thibaudet e rené Dumesnil, Gallimard, Paris, 1936, p. 504. il corsivo e il grassetto sono miei. Per un’analisi stilistica e strutturale delle fantasticherie di Emma Bovary cfr. G. Genette, I silenzi di Flaubert, in Figure. Retorica e strutturalismo, Torino, Einaudi, 1969, pp. 203-222. 28 Federico De roberto, L’Illusione, Milano, Libreria ed. Galli, 1891, pp. 86-87. il corsivo e il grassetto sono miei.
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dal vero: casi e difetti del reflector character 887 sezione esterna (in corsivo), in cui il macchinista ‘incornicia’ con la psiconarrazione il mondo interiore di Emma e Teresa, sia un imperfetto fantastico-onirico, volto a riprodurre le azioni e le visioni incapsulate nel ‘sogno ad occhi aperti’ dei personaggi riflettori: si vedano i verbi in grassetto29. una forte inclinazione all’uso dell’imperfetto – con la relativa estensione delle sue funzioni narrative – fu caratteristica, come è noto, della letteratura naturalista, che seguiva la strada maestra tracciata da Flaubert30. Ora, nel passo seraiano la struttura del preambolo narrativo è analoga, con Silvia colta in attitudine sognante dallo psiconarratore, che descrive all’imperfetto la sua metamorfosi spirituale; ma all’interno della fantasticheria accade qualcosa di inconsueto: le immagini mentali della donna, del mondo che le si dischiude dopo la notizia della maternità sono raccontate al presente, e hanno il presente anche le due interrogative che chiudono il primo capoverso («Ma è possibile? […] è suo figlio, suo, suo, suo?»), riferibili a un pensiero indiretto libero assai singolare. Si tratta infatti certamente di monologo narrato per l’impiego dei deittici, regolati sul personaggio nonostante l’uso della tersa persona, e per le marche dell’oralità. Ma che sia al presente rende questo monologo veramente atipico. inoltre, il presente non è adoperato per tutto il passo. Nelle frasi sottolineate, infatti, si ritrova, da un lato, un imperfetto dell’indiretto libero: «che aveva ella fatto per meritare tanto?»; dall’altro un imperfetto di stampo narrativo («era una bambinetta bianca […]), da attribuire con tutta probabilità all’istanza diegetica. in realtà, è difficile stabilire se Serao abbia preferito consapevolmente il regime del presente a quello canonico dell’imperfetto nella rappresentazione del futuro fantasticato di Silvia. Si trattò di una svista, di un ‘errore’? Esitiamo ad affermarlo; benché tale scelta diverga dalla convenzione dominante di fine Ottocento, essa ha certamente una sua efficacia, giacché pone in evidenza e in risalto, al pari di un’ipotiposi, il mondo interiore della protagonista31. il passo, malgrado l’irregolarità, risulta pienamente funzionale.
5. il terzo campione è tratto da Trilogia, una novella che troviamo solo nell’edizione del 1879 di Dal vero, e che sarà espunta nelle succes
29 È tuttavia difficile stabilire di che natura sia – cioè se descrittivo, iterativo o durativo – l’imperfetto della sezione esterna di tali passi. 30 Cfr. H. Weinrich, Tempus, cit., pp. 134-137. 31 Per gli usi peculiari del presente nella narrativa cfr. Christian Paul Casparis, Tense without time. The Present Tense in Narration, Berne, Francke, 1975.
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guido scaravilli888 sive. È un racconto d’amore in terza persona calato in un’atmosfera raffinata e di retorica sostenutezza, in cui si narra dell’innamoramento dell’aristocratica protagonista Laura e del conte Altimari: Nell’aperta pianura, Laura aveva lanciato il suo cavallo al galoppo, lieta di quello affrettato movimento che la rianimava, […] lieta di quella libertà solitaria; ma giunta sul limitare del bosco, si era sentita prendere alle spalle da una grande indolenza ed aveva messo al passo il cavallo. […] Nel suo spirito giravano lentamente pensieri calmi e sereni, ella si immergeva quasi in un letargo dolcissimo, dove non iscorgeva più il limite del presente e dell’avvenire […]. Camminò a lungo, dimenticando l’ora del ritorno; poi una piccola inquietudine subentrò alla sua pace, parve che la sua gioia diventasse arida come un fiore disseccato. Era forse il sole che giungeva al proprio zenit? Era un senso d’isolamento, d’incompleto, che la feriva? Era un lontano ed impercettibile rumore? Era l’ansietà di giungere all’angolo del viale che percorreva, per ispingere lo sguardo curioso anche più in là?32
Laura è colta in un momento meditativo antecedente all’incontro con il conte. Sembrerebbe un caso tipico di ‘progressione ascendente’ della soggettivazione del reflector character nella narrazione in terza persona. Si veda, per comprendere tale struttura, il seguente frammento flaubertiano: Elle jetait les yeux tout autour d’elle avec l’envie que la terre croulât. Pourquoi n’en pas finir? Qui la retenait donc? Elle était libre 33. Elle essaya de manger. Les morceaux l’étouffaient. Alors elle déplia sa serviette comme pour en examiner les reprises […]. Tout à coup, le souvenir de la lettre lui revint. L’avait-elle donc perdue? Où la retrouver?34
Alla descrizione del personaggio ‘dall’esterno’ («Elle jetait les yeux tout autour d’elle», «Elle essaya de manger. Les morceaux l’étouffaient») segue una presentazione indiretta dei pensieri con la psiconarrazione («avec l’envie que la terre croulât», «Et tout à coup, le souvenir de la lettre lui revint») e infine un pensiero indiretto libero dram
32 DV, pp. 221-222. il corsivo è mio. 33 G. Flaubert, Madame Bovary, cit., p. 488. il corsivo è mio. 34 Ivi, p. 513. il corsivo è mio. Per la progressione ascendente, e le varie possibilità di combinazione delle tre tecniche (psiconarrazione, monologo citato e monologo narrato) nella narrazione figurale, cfr. D. Cohn, Transparent Minds, cit., pp. 134-140.
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dal vero: casi e difetti del reflector character 889 matizzato (in corsivo), con le interrogative del personaggio volte a restituire una temperatura psicologica febbrile. Di casi simili, la letteratura naturalista è piena. Questo passo della novella Studio di donna di De roberto è un valido esempio: – Verrà?… Non verrà?… Passeggiando rapidamente da un capo all’altro della terrazza della sua villa, la duchessa di Neli si rivolgeva per la centesima volta, da che aveva incontrato l’Olderico, quella domanda. […] Ora ella si pentiva di non avergli dato ad intendere che la sua compagnia le sarebbe stata molto gradita, e che lo avrebbe rivisto con piacere in casa propria. Come era stata fredda, rigida, antipatica! Doveva certamente aver fatto un effetto di repulsione invincibile. Già, era così mal messa! Quella povera vesticciuola grigia!… Quella cappottina dell’altro anno!… Non aveva sorriso neppure una sola volta, non aveva dischiuso abbastanza le labbra perché, in mancanza di gioielli, egli vedesse almeno le perle dei suoi denti35.
Dopo il brevissimo quoted monologue («– Verrà?… Non verrà?…») la progressione è, come si può constatare, la medesima: descrizione ‘esterna’ («Passeggiando rapidamente […]»), psiconarrazione («la duchessa di Neli si rivolgeva per la centesima volta […] quella domanda», «Ora ella si pentiva di non avergli dato ad intendere […]»); infine, da «Come era stata fredda», monologo narrato dalla intensa carica emotiva. Si ritorni al testo seraiano. È solo apparentemente omologo, perché, appena dopo la psicoanalogia «parve che la sua gioia diventasse arida come un fiore disseccato», un dubbio può insinuarsi nel lettore: è possibile ascrivere le frasi evidenziate in corsivo al dominio del monologo narrato? Dell’idioletto del personaggio riflettore e della sua voce non c’è in esse traccia: questi enunciati sembrano invece a tutti gli effetti narratoriali. il contesto diegetico avvalora tale ipotesi. Si intuisce, infatti, che Laura, pur non avendo concordato con Altimari un prossimo incontro, lo spera e ha qualche ragione per crederlo imminente (i due si sono intesi con gli occhi), e perciò è inquieta. E appare chiaro che il narratore è a conoscenza dello stato d’animo del personaggio, nonché del probabile incontro tra i due innamorati. Le interrogative enfatiche evidenziate, non prive di una tonalità ironica, sembrano allora attribuibili all’istanza diegetica: è come se il narratore, informato dei fatti, volesse incuriosire il lettore e proporgli di indovi
35 F. De roberto, Documenti umani, a cura di Antonio Di Grado, roma, BelAmi Edizioni, 2009, p. 78. il corsivo è mio.
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guido scaravilli890 nare la ragione dell’inquietudine di Laura. in altri termini, queste domande non mimano il flusso dei pensieri del personaggio, ma sono piuttosto domande sul personaggio pronunciate da un’istanza narrativa superiore, che invade una zona di solito (nella progressione tipica che si è descritta) riservata al reflector character36.
6. un’invasione di campo si verifica, infine, anche nell’ultimo frammento selezionato, tratto ancora da Silvia: Era questa la miserabile creatura seduta dietro i vetri del balcone, nel puro pomeriggio estivo; la povera ed infelice creatura che non poteva comprendere la bellezza di quell’ora. Lentamente nel tramonto, l’orizzonte s’infiammava d’una luce corallina; sull’estremo lembo del cielo, una sbarra di nuvole, lunga, stretta somigliava ad un nastro d’arancio e violetto, frangiato d’oro. Poi tutto l’arco del cielo s’incendiò, ma di un incendio lento e dolce; sulle case bigie, oscure, vecchie, si riflesse un chiarore roseo che parve le ringiovanisse; i vetri delle finestre divennero abbaglianti […]. Tutto il mondo, nell’infinito amore della luce che se ne andava, parve si fosse cangiato in oro liquido e colante. Quasi per forza Silvia dovette contemplare quello spettacolo meraviglioso […]37.
Subito prima della consapevolezza della maternità, che sta per sopravvenire misteriosamente, Silvia è descritta mentre osserva da una finestra il paesaggio che ha dinanzi. Sembrerebbe il classico preambolo narrativo alla percezione indiretta libera38, frequentissimo in casi analoghi, quando cioè il personaggio riflettore, preliminarmente situato in una posizione definita e alta, inquadra (e filtra) un ambiente urbano o un paesaggio da una finestra, come in questo caso, o da un belvedere o da un altro luogo panoramico. in questi casi, di solito il narratore asseconda la prospettiva del soggetto finzionale e ne verbalizza le percezioni. Ma questa volta, nella frasi in corsivo, il narratore specifica l’impossibilità di Silvia di comprendere – e quindi di fatto mediare – il tramonto successivamente descritto. Nei periodi in tondo, dunque, il narratore non rinuncia alla sua mediacy, strabordando dai suoi confini
36 L’uso del deittico «là» al termine della citazione è un indizio di cui pure occorre tener conto, giacché esso sembra voler veicolare, come in un indiretto libero canonico, la prospettiva del personaggio riflettore. Questa interferenza tra narratore e personaggio dà credito all’ipotesi di una scarsa padronanza, da parte della scrittrice, dei meccanismi della narrazione figurale. 37 DV, pp. 292-293. i corsivi sono miei. 38 Per la percezione indiretta libera si veda Seymour Chatman, Storia e discorso. La struttura narrativa nel romanzo e nel film, Parma, Pratiche, 1981, p. 219.
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dal vero: casi e difetti del reflector character 891 e invadendo un campo finzionale – e percettivo – normalmente a carico del reflector character.
7. i passi analizzati di Dal vero sono ricchi di spunti di riflessione, perché identificano un momento della scrittura seraiana significativo se rapportato latamente all’evoluzione delle narratologia naturalista: intendendo con la parola un’intelligenza in atto del narrare che era il frutto di una riflessione generalizzante sulle tecniche e le modalità della diegesi. un incremento delle speculazioni teoriche e una maggiore sensibilità ‘narratologica’ si ebbero in particolare dopo il 1880, l’anno della morte di Flaubert, quando questo scrittore divenne quasi all’improvviso, come ha scritto Thibaudet, «instituteur» per tutta la modernità letteraria, in Francia e in Europa39. Ma con Dal vero siamo ancora alla fine degli anni ’70, nella fase antecedente al lancio paradigmatico di Flaubert e alla piena codificazione del suo magistero. in alcuni di questi testi possiamo osservare una giovanissima Serao che si cimenta nella situazione narrativa figurale, una convenzione che nel Novecento sarà un dato acquisito ma che già il naturalismo intercettò e annetté nel suo dominio, grazie agli strumenti introspettivi messi a disposizione dall’autore di Madame Bovary40. Le novelle analizzate – a monte del Flaubert «istitutivo» – rappresentano allora, forse, con tutte le loro esitazioni, irregolarità e stranezze nella costruzione del personaggio riflettore, una fase di transizione e di evoluzione. Più in particolare, dalla specola privilegiata di Dal vero sembra di cogliere il racconto figurale in un momento che potremmo definire di ancora immatura grammaticalizzazione: mentre era in corso, ad opera di tanti, la razionalizzazione ‘flaubertiana’ delle strategie espressive e ancora si potevano tentare vie diverse e invenzioni idiosincratiche, correndo il rischio di fallire ma anche avendo la possibilità di trovare qualcosa di nuovo e originale.
Guido Scaravilli Scuola Normale Superiore – Pisa
39 A. Thibaudet, Histoire de la littérature française de 1789 à nos jours, Paris, Editions Stock, 1936, p. 375. 40 Cfr. Giovanni Maffei, L’«osservazione» naturalista II. I mondi-illusione, in Il romanzo in Italia, a cura di Giancarlo Alfano e Francesco De Cristofaro, roma, Carocci, 2018, vol. ii, L’Ottocento, pp. 363-378.
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Matilde Serao con una copia del suo quotidiano “il Giorno”.
DANiELA DE LiSO Nel Paese di Gesù. I luoghi nella scrittura di Matilde Serao
il saggio propone una disamina di Nel Paese di Gesù. Ricordi di un viaggio in Palestina (Napoli, Tocco, 1899), il libro annunciato da Matilde Serao all’indomani del suo viaggio in Palestina, compiuto tra la primavera e l’estate del 1893, esperienza fondamentale per la giornalista napoletana, che da scrittrice odeporica diventa «pellegrina viaggiante», trasformando, nella prassi diegetica, i luoghi in simboli pregnanti di una spiritualità ben più profonda di quella, quasi patinata, che la critica le ha attribuito.
★ This essay offers an analysis of Nel Paese di Gesù. Ricordi di un viaggio in Palestina (Naples, Tocco, 1899), that book announced by Matilde Serao immediately after her journey to Palestine which took place in the spring and summer of 1893, a fundamental experience for the Neapolitan journalist who turns from a travelling writer into a «wandering pilgrim», transforming, in the diegetic praxis, places into symbols pregnant with a much deeper spirituality than that almost “glossy” religiosity that critics have assigned to her.
Tra il 1893 ed il 1899 compare, sulle colonne de «il Mattino»1, il resoconto del viaggio in Egitto e in Terra Santa compiuto da Matilde Serao tra la primavera e l’estate del 1893. Gli articoli, con il sopratitolo, rispettivamente, Nel Paese di Cleopatra2 e Nel Paese di Ge
Daniela De Liso: università degli Studi di Napoli Federico ii; ricercatore confermato; daniela.deliso@unina.it 1 Sul più importante quotidiano napoletano, negli anni seraiani, segnalo il lavoro di Stefania Della Badia, «Il Mattino» 1892-1917, Prefazione di raffaele Giglio, Napoli, Loffredo, 2011. Alcuni articoli relativi al resoconto del viaggio in Terrasanta furono pubblicati anche sul «Mattino-Supplemento», il cui primo numero uscì il 1° luglio 1894 e l’ultimo il 22 dicembre 1895. Per questo supplemento della domenica e la sua storia rimando alle pagine di Donatella Trotta, La via della penna e dell’ago. Matilde Serao tra giornalismo e letteratura, con antologia di scritti rari e immagini, Napoli, Liguori, 2008, pp. 44-62 e 87-92. 2 Gli articoli pubblicati con il sopratitolo Nel Paese di Cleopatra sono: Navigando
IV. I luoghi della fede
daniela de liso894 sù3, saranno poi accolti, con modifiche, in un volume, pubblicato dall’editore napoletano Tocco nel 1899, con il titolo Nel Paese di Gesù. Ricordi di un viaggio in Palestina4. il viaggio in Oriente, non più particolarmente pericoloso da quando una serie di agenzie europee, prime fra tutte quelle di Thomas Cook, avevano incrementato il numero dei viaggiatori e migliorato la qualità dei servizi offerti5, è annunciato, con toni orgogliosi, da un articolo a firma redazionale apparso su «il Mattino» il 18 maggio 1893: ieri […] Matilde Serao è partita per Alessandria d’Egitto, d’onde passerà a Giaffa e a Gerusalemme per visitare e descrivere tutti i santuari di Palestina e le rovine e i paesaggi che la leggenda di Gesù ha fatto sacri e imperituri nella memoria degli uomini. il pellegrinaggio ai luoghi Santi non ha più ora le difficoltà e i pericoli che aveva ai tempi del pio Buglione e in appresso, sino al principio di questo secolo […]. Se non che, fra queste centinaia di più viaggiatori, gl’italiani rappresentano una quantità affatto trascurabile; e mentre le terra Santa ha fornito
(8 giugno 1893), Il Nilo (11 giugno 1893), Il Paradosso (13 giugno 1893), Le Piramidi (15 giugno 1893). 3 Gli articoli pubblicati con il sopratitolo Nel Paese di Gesù sono: La ferrovia (23 giugno 1893), Il Santo Sepolcro (24 giugno 1893), L’adorazione del Sepolcro (27 giugno 1893), La notte, presso il Sepolcro (28 giugno 1893), Il Calvario (29 giugno 1893), Gerusalemme, la città (30 giugno 1893), Il Monte degli Ulivi (18 luglio 1893), Ghetsemane (19 luglio 1893), La via dolorosa (21 luglio 1893), La valle di Giosafat (22 luglio 1893), Betlemme (24 luglio 1893), Il Presepio (25 luglio 1893), Gerico? (27 luglio 1893), In Palanchino (30 ottobre 1893), Sodoma e Gomorra (7 novembre 1893), Il precursore (12 novembre 1893), Il Giordano (12 dicembre 1893), In Galilea (26 dicembre 1893), La storia della Madonna (30 dicembre 1893 e 3 gennaio 1894), La resurrezione (24 marzo 1894), Verso Nazareth (1 maggio 1894), Il Monte delle Beatitudini (13 settembre 1899), Una giornata a Nazareth (8 settembre 1899), San Francesco in Palestina: l’opera (18 settembre 1899), Una speranza (25 settembre 1899). 4 Le bibliografie seraiane riportano le seguenti edizioni: Napoli, Aurelio Tocco, 1898; Napoli, Francesco Perrella, 1898; Napoli, Aurelio Tocco, 1899; Napoli, Aurelio Tocco, 1900; Napoli, Francesco Perrella, 1900. il Perrella ne stampò un’altra edizione nel 1905. in realtà, l’edizione Tocco del 1898 non esiste: il libro ebbe la sua princeps nell’ottobre 1899, come recita il finito di stampare. Piuttosto recenti sono le ultime edizioni: Milano, Messaggerie Pontremolesi, 1989; roma, Edizioni Benincasa, 1995; ischia, imagaenaria, 2005; Catanzaro, Alicebook, 2010. Nessuna di esse è un’edizione critica. 5 Cfr. Alberto Cavaglion, Verso la Terra Promessa. Scrittori italiani a Gerusalemme da Matilde Serao a Pierpaolo Pasolini, roma, Carocci, 2016, pp. 14-16. Sull’argomento, più in generale, si vedano anche Monica Farnetti, Reportages. Letteratura di viaggio del Novecento italiano, Milano, Guerini, 1994, e Gaia De Pascale, Scrittori in viaggio. Narratori e poeti italiani del Novecento in giro per il mondo, Torino, Bollati Boringhieri, 2001.
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a tutte le letterature europee calde ispirazioni, l’italia non possiede neanche una descrizione sommaria del paese ove la nostra fede nacque, e a cui Torquato tasso conferì una quasi cittadinanza italiana: anzi Gerusalemme e la Galilea sono più sconosciute in italia dell’Africa centrale e delle sierre dell’Himalaja. Noi siamo dunque sicuri che il pellegrinaggio artistico di Matilde Serao offrirà, non pure alle anime credenti, ma anche agli spiriti che cercano solamente emozioni estetiche, una serie di lettere vivamente interessanti, nelle quali la rappresentazione fotografica dei luoghi e delle cose quali presentemente sono, sarà animata e illuminata dalla visione della più grande storia e della leggenda più patetica che siano state mai al mondo6.
il viaggio sarà il reportage di un «pellegrinaggio artistico», una definizione importante che la lettura degli articoli e poi del volume non potrà che confermare. La Serao sarà, infatti, una pellegrina, ma il gusto «artistico» non abbandonerà mai la diegesi e anzi finirà per esserne la cifra più originale. il reportage di viaggio aggiunge alla poligrafa Serao una peculiarità: in questa occasione più che nelle successive Lettere di una viaggiatrice, volume che nel 1908 raccoglierà i reportages europei inviati a «il Mattino» negli ultimi anni dell’Ottocento, il gusto descrittivo non è occhio lezioso, ma indagatore, che si posa sul reale per conoscerlo non solo geograficamente, ma anche emozionalmente. Non è un caso che proprio nell’Introduzione premessa alla prima edizione in volume di Nel Paese di Gesù la Serao delinei in maniera precisa l’identikit dello scrittore di viaggio, dopo una disamina delle tipologie del viaggiatore7: Ma io conosco un viaggiatore diverso da tutti gli altri […] un viaggiatore sentimentale e bizzarro, che obbedisce singolarmente a una curio
6 Matilde Serao in Terrasanta, «il Mattino», 18 maggio 1893. 7 «Vi è un viaggiatore comunissimo, che s’incontra dappertutto, il quale passa da un paese all’altro, con un’attività instancabile, sempre coi segni della più vivace curiosità sul volto, che compie le gite più faticose, che si azzarda nei luoghi più rischiosi, che stanca la pazienza di qualunque compagno di viaggio, che si fa maledire da qualunque cicerone, e che ritorna costantemente, da tutti i punti del globo, da lui minuziosamente descritti, manifestando la soddisfazione più sincera. Se, cortesemente, voi gli chiedete conto delle sue impressioni, egli vi comunicherà, con la massima importanza, e come se vi rivelasse una profonda verità segreta, scoperta solo da lui, che le trattorie sono care a Parigi, che Londra ha una metropolitana, che la corsa nei vaporini ferrovia sul Canal Grande di Venezia costa due soldi, che i battelli russi sono meno celebri di quelli austriaci […]. Questo viaggiatore, innocuo, del resto, e talvolta anche simpatico nella sua frivolezza, è numeroso come gli astri del firmamento: ed ha la più completa rassomiglianza con uno dei suoi eleganti bauli […]» (Matilde Serao, Nel Paese di Gesù, Napoli, Tocco, 1899, pp. iX-X).
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sità esclusiva, unica, assorbente. […] Costui, viaggiando, mentre trascura certi aspetti di cose e di persone, che sembrano più importanti, ne ricerca altri più umili, meno interessanti: mentre resta poco tempo in una grande città, si attarda due giorni nell’albergo di un villaggio: mentre non penetra, in un museo, è attirato da una fiera campestre: mentre non sa estasiarsi dove tutti si estasiano, ha un grido di ammirazione per qualche cosa che non attira nessuno. Questo viaggiatore silenzioso, capriccioso, ostinato, preso dalla sua singolare ricerca, è colui che vuol vedere palpitar l’anima dei paesi che attraversa. Ogni paese ha un’anima, lo sapete. […] Questo ho io cercato, nel mio viaggio in Palestina: ho cercato, umilmente, dove fremesse, dove vibrasse l’anima di quella Sacra Terra, che ha visto iddio, e ne ha udito la voce8.
Lo scrittore di viaggio rifugge i percorsi battuti dai molti e attribuisce importanza a particolari irrilevanti agli occhi dei più, perché il suo obiettivo è raccontare non un luogo, ma la sua anima. Nella Prefazione alle Lettere di una viaggiatrice scriverà, a corroborare questa idea, di essere partita «tante e tante volte, in epoche diverse, per paesi diversi o per gli stessi», perché viaggiare, per la giornalista, la narratrice e la donna è il «secondo dei due soli piaceri della sua anima». Aggiungerà di non aver mai viaggiato per vedere un monumento, un museo, una chiesa, ma sempre alla ricerca dell’«anima degli uomini, sparsa dovunque, nelle memorie immote e nel volto delle persone»9. Questa viaggiatrice, teleologicamente guidata alla scoperta dei luoghi, non necessariamente fisici, è l’io narrante del reportage alla base dei capitoli in cui si suddivide Nel Paese di Gesù10. L’uscita del libro fu annunciata sulle pagine di «Flegrea», la rivista, attiva negli anni 1899-1901, ideata e diretta da riccardo Forster, della quale la Serao fu collaboratrice assidua ed importante11. Nel numero del 20 settembre 1899, nella rubrica «Note di letteratura e d’arte», si
8 Ivi, pp. X-Xii. 9 M. Serao, Lettere d’una viaggiatrice, Napoli, Perrella, 1908, p. Viii. 10 i più recenti studi sul libro seraiano, volti per lo più ad indagare il contributo dell’autrice alla letteratura di viaggio e, in particolare, agli Itinera ad sancta, sono: Bartolomeo Pirone, Matilde Serao in Terrasanta, «Studia Christiana Orientalia», Collectanea, 34 (2001), Cairo-Jerusalem, Franciscan Printing Press, pp. 201-232; Benedetto Francesco Di Bitonto, Nel Paese di Gesù. Ricordi di un viaggio in Palestina. Teologia della sostituzione in uno scritto napoletano di fine Ottocento, «La rassegna mensile d’israel», vol. 75, n. 1/2 (gennaio-agosto 2009), pp. 125-142; Maria Cristina rattighieri, Matilde Serao: memories of Palestine, a Thessis submitted for the degree “Doctor of philosophy”, supervised by Y. Ben Artzi and S. Debenedetti Stow, univeristy of Haifa, 2010. 11 Cfr. Clara Borrelli, Matilde Serao e «Flegrea», in Matilde Serao. Le opere e i
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nel paese di gesù. i luoghi nella scrittura di matilde serao 897 segnalava l’imminente pubblicazione del volume. L’articolista anonimo, forse Forster, ricordava al lettore che aveva già potuto leggerne corpose anticipazioni su «il Mattino», tra il 1893 ed il 1899, e che la natura di esse aveva senza dubbio contribuito a creare, nel «pubblico dei credenti e degli artisti», «una intensa aspettazione»12. Del «grande valore artistico» del libro si offriva, del resto, un saggio eloquente, proprio nelle pagine precedenti di quello stesso numero della rivista, che pubblicava un brano dedicato a Maria di Magdala13. il 20 ottobre dello stesso anno nella medesima rubrica il recensore anonimo dichiara che l’avvenuta pubblicazione di Nel Paese di Gesù è un grande successo editoriale: «il libro è andato subito a ruba, diventando in pochissimi giorni un avvenimento letterario di primo ordine». Si tratta di un «libro d’arte», in cui «l’autrice ha disseminato i pregi di narrazione, di rilievo pittorico e di suggestiva commozione del suo mirabile talento»14. insomma l’operazione di marketing appare perfettamente riuscita e si rivelò anche fondamentale per il successo editoriale del libro, che in realtà era già in bozza nel 1898, come chiarisce una lettera del 4 marzo all’amico traduttore George Hérelle15. Ancora a lui, in una lettera dell’8 ottobre 1899, Serao ne annuncia l’uscita: Naples, le huit de octobre 1899 cher ami, je sors enfin de l’écrasant travail de réfaction du Paese di Gesù. En plain étè, rèfaire un livre abandonné depuis cinq ans, refaire des chapitres entiers et les autres les corriger cinq fois, voilà une tache que je me suis infligée, pour me punir de m’être trop amusèe, à Paris! Je suis morte de
giorni. Atti del Convegno di studi (Napoli 1-4 dicembre 2004), a cura di Angelo raffaele Pupino, Napoli, Liguori, 2006, pp. 39-53. 12 «in italia manca ancora un libro sinceramente religioso e scritto sotto l’immediata impressione d’una fede pellegrinante nei luoghi sacri; da noi la religione più che altro serve alle polemiche politiche, alle mene settarie, alle lotte di partito e ben di rado è divenuta forma d’arte, limitandosi quasi sempre a rimanere forma critica. il Paese di Gesù parlerà invece diritto ai cuori, con una larga vena di poesia, di fantasia, con una smagliante evocazione dei paesaggi che furono gli scenari della divina tragedia» («Note di letteratura e d’arte», «Flegrea», i (1899), iii, iV, p. 380). 13 M. Serao, Maria di Magdala, «Flegrea», i (1899), iii, iV, pp. 299-306. 14 «Note di letteratura e d’arte», «Flegrea», i (1899), iii, Vi, p. 381. 15 «Mais jusque là, j’ai bien du travail: je dois finir cette pauvre Ballerina: elle est absolument pauvre, vous verrez; je dois finir de corriger les épreuves du Pays de Jésus, la description de mon voyage en Terre Sainte et c’est un travail de rifazione absolument improbe!» (Lettere di Matilde Serao a George Hérelle, n. Vi, Napoli, 4 marzo 1898, in raffaele Giglio, Per la storia di un’amicizia. D’Annunzio – Hérelle – Scarfoglio – Serao. Documenti inediti, Napoli, Loffredo, 1977, pp. 153-154.
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fatigue et d’ennui: je dèteste mon livre, j’en ai comme dit Flaubert, le vomissement. il sortira jeudi, vous l’aurez, un des premiers16.
il 26 ottobre solleciterà un suo parere sul «livre de voyage»17, auspicando una traduzione francese, poi realizzata da Jean Darcy18. La lunga e complessa gestazione del libro, cui la Serao dichiarava, già nel luglio del 1899, all’amico Fogazzaro di tenere particolarmente19, ha anche alimentato un errore nelle principali bibliografie seraiane. in tutte, infatti, si suppone che la prima edizione in volume del Paese di Gesù fosse uscita per i tipi dell’editore Aurelio Tocco nel 1898, perché, in effetti, sul frontespizio così appare. Questa edizione non è mai esistita. Di essa, nel ’98, non si legge alcun annuncio e non appare nel Catalogo del Pagliaini, tra i libri pubblicati in quell’anno, ma tra quelli del 1899. È il “finito di stampare” a sgombrare il campo da ogni dubbio, rivelando che il libro fu licenziato il «iX ottobre 1899». Era, perciò, in bozze nel 1898, come scrive ad Hérelle la Serao, ma fu stampato solo l’anno successivo: il 1898 del frontespizio è un refuso. L’immediato successo editoriale porterà, comunque, a due nuove ristampe, nel 1900, una per i tipi di Tocco e l’altra per quelli di Francesco Perrella.
16 Ivi, p. 161. 17 «Que pensez vous de mon livre de voyage? Je crois qu’une traduction en français ne pourrait avoir grand succés: c’est le livre d’une croyante et les français sont bien tiédes en matiére de foi. Nous aviserons» (ivi, 26 ottobre 1899, p. 163). 18 M. Serao, Au pays de Jésus, trad. par Jean Darcy, Paris, Plon, Nourrit et C.ie, 1903. 19 in un corpus inedito di cinque lettere scritte dalla Serao a Fogazzaro, dal 3 ottobre 1885 al 27 aprile 1904, c’è una lettera dell’8 luglio, priva di anno, per noi interessante, pubblicata, in stralcio, di recente da Donatella Trotta, ma da lei erroneamente attribuita al 1898: «Carissimo amico, non vi scrivo, ma penso spesso a voi e vi voglio molto bene. Ah io non sono silenziosa, scrivo troppo per il pubblico! Così vi ho fatto spedire, dal primo luglio, il mio giornale: vi scrivo sempre e spesso, quello che scrivo, sono lettere agli amici. Questo supplemento che vi spedisco, io, contiene qualche nota che vi riguarda. io vorrei anche interessarvi a mandarmi qualche cosa, […]. Qui avete moltissimi ammiratori e amici: e questo Mattino ha una larga diffusione. Vi dico ciò, per la vostra idea! Articolo, o novella, o frammento, ci sarebbe carissimo. / il mio Paese di Gesù uscirà in ottobre: vi sono raccolte e meglio riunite le mie lettere di Palestina. Sarà un libro dell’anima, per me. un libro scritto con voluttà spirituale. io era credente: dopo il viaggio di Palestina, sono credente meglio» (D. Trotta, Racconti di un’anima tra lettere inedite e libri, in Visibili, invisibili. Matilde Serao e le donne nell’Italia postunitaria. Materiali per una mostra, a cura di Gabriella Liberati, Giuseppe Scalera, D. Trotta, roma, Consiglio Nazionale delle ricerche, 2016, p. 98).
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nel paese di gesù. i luoghi nella scrittura di matilde serao 899 È, nelle parole dell’autrice, il libro di viaggio di una credente20. Già la pratica odeporica del Settecento aveva consolidato la presenza della Palestina, accanto alle mete fondanti (roma e la Grecia) del viaggiatore occidentale, che comincia a configurarsi come un Wanderer, per il quale il viaggio diventa tentativo di sedare la propria inquietudine esistenziale21. il percorso di questo tipo di viaggiatore è costellato di confini da attraversare, di porte da aprire, solo per definire se stesso, perché, in fondo, come sostiene Leed, in un testo fondamentale della critica odeporica, «noi siamo i nostri cammini, non i nostri luoghi».22 La definizione che la Serao dà del suo libro sembra inserirsi in questa prospettiva. il viaggio in Terrasanta è un percorso fatto di luoghi fisici da attraversare per ritrovare i luoghi dell’anima. L’organizzazione in volume delle corrispondenze di viaggio diventa, per questa ragione, indispensabile23. È evidente, infatti, che il viaggio compiuto nel 1893 ebbe una
20 il discorso sull’autenticità dell’afflato religioso della Serao è ancora aperto. È evidente che questa esperienza di viaggio in Terrasanta cambiò profondamente la scrittrice e la guidò verso una spiritualità ed una religiosità che ritroveremo soprattutto nell’ultima parte della sua vita. in una lettera del 1 maggio 1927, nell’ambito del corposo carteggio (1919-1927), scrive ad Eleonora Natale Taglioni, unica amatissima figlia femmina avuta dal secondo compagno di vita, Giuseppe Natale: «La mia fede in Dio è diventata più chiara e intensa. Prego molto, nel silenzio e nella solitudine della mia casa: ho dei buoni ed elevati libri di religione che leggo spesso: e i miei notturni colloqui con la Divinità sono sorgente di calma e di pazienza. Dio, Eleonora, non mi abbandona. Sento la sua mano che, talvolta, si piega su me e io mi curvo, obbediente: ma la stessa mano mi solleva. Nelle mie preghiere voi tutti, figli miei, siete presenti e tu, specialmente, petite dernière. Chieggio a Dio che mi dia la sua luce splendente, perché possiate leggere nella vostra coscienza: e so che Esso vi ama e che voi Lo amate, oltre le contingenze umane» (D. Trotta, La spiritualità nella stagione del tramonto, «il Mattino» (Speciale Premio Serao), 29 maggio 2018. 21 Per il valore spirituale del viaggio in Terra Santa e dei suoi resoconti, dal Medioevo all’Otto/Novecento, segnalo l’Introduzione al lavoro di Alessandro Tedesco, Itinera ad loca sancta. I libri di viaggio delle Biblioteche francescane di Gerusalemme, Milano, Edizioni Terra Santa, 2017, pp. 17-36. 22 Eric J. Leed, Per mare e per terra. Viaggi, missioni, spedizioni alla scoperta del mondo, trad. it. di E. J. Mannucci, Bologna, il Mulino, 1996, p. 7. Sull’argomento si vedano anche: Eric J. Leed, La mente del viaggiatore. Dall’Odissea al turismo globale, Bologna, il Mulino, 1992; renato Martinoni, Odeporica e imagologia. La letteratura di viaggio e la questione dell’«altro», in Letteratura comparata, a cura di raffaella Bertazzoli, Brescia, La Scuola, 2010, pp. 128-157; ricciarda ricorda, La letteratura di viaggio in Italia. Dal Settecento a oggi, Brescia, La Scuola, 2012, pp. 5-63. 23 Ad Alfredo Catapano, che nel 1904 l’intervistò per pubblicarne un ritratto su «il Secolo XX» e le chiedeva le ragioni della lunga gestazione del libro, Matilde Serao dichiarava: «E sa perché? Quelle pagine avevano per me tale valore di documenti intimi, che, se pur date alla luce in un foglio che passa, non mi risolvevo mai
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daniela de liso900 ragione eminentemente pratica. «il Mattino», fondato dai coniugi Scarfoglio il 16 marzo 1892, ha poco più di un anno quando la Serao parte per il suo viaggio. il quotidiano è ancora in una fase di affermazione e consolidamento nel milieu del competitivo giornalismo quotidiano di quegli anni e i suoi fondatori possono vantare una buona esperienza non solo giornalistica, ma anche imprenditoriale. Conoscono l’eterogeneità dei gusti del loro pubblico di lettori e, sulla scorta di esperienze omologhe, garantiscono sin dall’inizio uno spazio periodico alla scrittura odeporica che, soprattutto a partire dai primi anni del Novecento, sarà in terza pagina24. Sin dall’estate del 1892 Matilde Serao era stata la «letterata viaggiante» del «Mattino», che in un avviso ai lettori del 6 luglio, ad esempio, annunciava che la giornalista sarebbe partita alla volta delle stazioni balneari e alpine più alla moda per inviarne cronache dirette a tutti i lettori meno interessati alla campagna elettorale di cui il resto del giornale si sarebbe, invece, alacremente occupato. insomma la cronaca di viaggio è un diversivo, ma anche una prova d’intelligenza socio-antropologica: buona parte del pubblico del quotidiano non va in villeggiatura e conoscerà i luoghi à la page e la loro rutilante vitalità esclusivamente attraverso le cronache della Serao. il segreto del successo di queste pagine risiede certamente anche nello stile dell’autrice, che non descrive i luoghi, ma li racconta, accendendoli così di vita. Probabilmente proprio i risultati, in termini di gradimento del pubblico, cioè d’incremento delle vendite del quotidiano, indussero il giornale a scommettere su un viaggio più impegnativo, in cui la Serao da «letterata viaggiante» si sarebbe trasformata in «pellegrina del cuore». E sarà il buon successo di questi reportage a suggerire la necessità di un volume, che come ha dimostrato Clara Borrelli25, non è ristampa tout court dei contributi giornalistici, ma attesta, invece, la capacità dell’autrice, messa spesso in discussione26, di lavorare sui testi per migliorarli e renderli funzionali alla loro destinazione. il libro è suddiviso in nove capitoli, ognuno dei quali è, a sua volta,
a stringerle nel fascio d’un libro che resta: tanto mi sembrava che sotto una tal forma, destinata ad una grande pubblicità, una parte della mia anima dovesse soffrire» (Alfredo Catapano, Matilde Serao. Note, impressioni e ricordi, «il Secolo XX», anno iii, settembre 1904, p. 854). 24 Cfr. S. Della Badia, «Il Mattino» 1892-1917, cit., pp. 143-171. 25 C. Borrelli, Matilde Serao e «Flegrea», cit., p. 44. 26 È la posizione di Patricia Bianchi, per la quale l’impegno della Serao è «dedicato alla produzione del nuovo», piuttosto che alla revisione del «vecchio» (cfr. Patricia Bianchi, Ritratti e parole dal vero, introduzione a M. Serao, Dal vero, Napoli, Libreria Dante e Descartes, 2000, p. XiX).
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nel paese di gesù. i luoghi nella scrittura di matilde serao 901 suddiviso in paragrafi, solo in parte coincidenti con le cronache di viaggio pubblicate sulle colonne de «il Mattino». il racconto inizia con l’arrivo in Egitto. il viaggiatore che racconta di questi luoghi non ha «un cervello, ma una galleria di quadri» nella testa, come scrive l’autrice nella prefazione. Questa galleria di quadri si mostra al lettore sin dal primo capitolo, Navigando verso Soria. il primo quadro è un notturno napoletano: la Serao è in partenza e guarda la città che lascia e che le appare malinconica, quasi contagiata dalla sua malinconia; è assalita da quel coacervo di dubbi e paure che s’impadroniscono del viaggiatore prima di un viaggio. il testo procede in modo dilemmatico, come la nave che solca il mare fino a raggiungere l’Egitto e il suo cuore pulsante, Il Nilo. Dal fiume e dalla sua poesia «indicibile» il lettore è guidato a scoprire nuovi quadri della galleria seraiana, attraversando la folla del Cairo, coi suoi asinelli «bourichi», accompagnati da giovanissimi asinai, monelli bruni, seminudi e dalle gambe sottili, «arabetti fini e svelti come un dardo»27 e approdando, infine, alle Piramidi. È proprio nel racconto della visita ai monumenti simbolo d’Egitto che si palesa la vera natura della viaggiatrice Serao: lungi dal celebrarne la grandezza, descriverne le caratteristiche, sottolinearne lo splendore abbagliante, il suo sguardo si sofferma sui beduini, che ne sono di fatto proprietari, e sullo scalpore che nell’occidentale suscita l’idea che un patrimonio dell’umanità possa invece appartenere ad uomini rozzi, affaristi nati, imbroglioni e venditori di souvenirs. il risultato è che il lettore che non abbia visto le Piramidi, non le vedrà neanche attraverso la Serao, che orgogliosamente sottolinea la sua scelta narrativa nella chiusa del paragrafo, intitolato Piramidi: «in quanto alle Piramidi… credo di aver detto, più volte, che esse sono altissime»28. Dall’Egitto la Serao vuole quasi fuggire, non è riuscita a carpirne l’anima29. È una tappa ineludibile, solo per ragioni pratiche, per coloro che andranno in Terra Santa, approdo vero, meta e senso del viaggio. È, infatti, con l’approssimarsi del porto di Jaffa che l’intonazione cambia. il racconto si arricchisce di notazioni moraleggianti, visivamente rappresentate, con buona forza icastica, dall’incrociarsi, in opposte direzioni, dell’imbarcazione dei pellegrini della Terra Santa e di quella dei pellegrini diretti alla Mecca: incontro di due popoli diversissimi (la nave occidentale ricca stride contro il «letamaio» dei musulmani) che
27 M. Serao, Nel paese di Gesù, cit., p. 11. 28 Ivi, p. 17. 29 Cfr. A. Cavaglion, Verso la Terra Promessa. Scrittori italiani a Gerusalemme da Matilde Serao a Pierpaolo Pasolini, cit., pp. 21-28.
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daniela de liso902 si sfiorano, come le imbarcazioni su cui viaggiano, senza incontrarsi. E quando il descrittivismo verista sta per smarrirsi in toni bourgettiani, ecco sopraggiungere la Ferrovia, brano incipitale del nuovo capitolo, il primo ambientato in Terra Santa, Sciolto il voto. il lettore non avrà il tempo di abituare lo sguardo ai colori di Jaffa, alle sue donne «bianchissime», ai giardini fioriti come quelli della penisola sorrentina, che si ritroverà a bordo del treno diretto a Gerusalemme. La descrizione di questo viaggio in treno (dagli orari improvvidi all’inesistente separazione tra prima e seconda classe) sembra una discesa agli inferi piuttosto che un iter salvifico. La preoccupazione del viaggiatore occidentale per la promiscuità degli ambienti, la confusione e il vociare ininterrotto dei passeggeri arabi, ebrei ed europei, catapultati in un improvvisato melting pot, impediscono non solo la meditazione e la preghiera, ma anche ogni tentativo di intimo raccoglimento. La situazione non muta, all’arrivo presso la chiesa in cui è custodito il Santo Sepolcro: regna sovrana una confusione di uomini e cose. La portineria è una piattaforma di legno, coperta di tappeti e cuscini, situata sotto l’arco d’ingresso, su cui sono sdraiati due o tre musulmani, impegnati a far girare tra le dita le palline d’ambra dei loro comboloi, i rosari turchi. il risultato è che neanche in chiesa il cristiano riesce a pregare. Dal punto di vista tecnico l’arrivo al Santo Sepolcro si configura come l’apice del climax ascendente, sapientemente costruito nell’intera articolazione delle pagine precedenti. Giunge finalmente il tempo della spiritualità e della preghiera, ma con un’intensità quasi inattesa e dunque stridente: Pregare, pregare? Colui che entra curvato, si rialza come abbarbagliato dalla soverchia luce e brancola, quasi cercando la tomba: e come il suo corpo crolla innanzi a quella pietra, così pare che crolli l’anima, in un oblio di ogni formola, in un abbandono spirituale, senza parole e senza idee. La preghiera? il pellegrino, venuto di lontano, che ha superato stenti e difficoltà per giungere sino a Lui, che ha subito privazioni e tristezze, che ha sognato, così ostinatamente e così ardentemente, questo minuto di avvicinamento fra sé e il suo Signore, non ha forza di pregare. Prosciolte le membra, smarrita l’anima, non può esso riunire la parola al pensiero, non può dominare il suo pensiero; la fronte poggia sul sacro marmo, immobile; la bocca schiusa, immobile, tocca così il sacro marmo, quasi non avesse neppure la forza di baciarlo: non un atto: non un gesto: l’abbattimento più profondo, come se quella emozione avesse infranto tutte le corde dell’essere30.
30 M. Serao, Nel paese di Gesù, cit., p. 31.
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nel paese di gesù. i luoghi nella scrittura di matilde serao 903 il brano è forse il luogo che più di tutti connota il libro come racconto di una «pellegrina del cuore». Si è discusso e si discute sulla spontaneità e veridicità dell’afflato religioso della Serao31: questo brano sembra preludere ad un misticismo che si paleserà in maniera più evidente nel 1894, quando sarà proprio la Serao, in un articolo apparso su «il Mattino» intitolato I cavalieri dello Spirito32, a definire le istanze del neomisticismo di quegli anni, interpretate dal punto di vista letterario nella produzione di Antonio Fogazzaro. Anche le pagine successive, relative al soggiorno a Gerusalemme, sono costantemente rivolte alla ricerca di un senso religioso profondo, ma l’occhio del viaggiatore curioso prende il sopravvento e si lancia alla scoperta del popolo di Gerusalemme, attraverso l’osservazione del ritualismo ebraico, della confusione turca, dell’irriverente mercato di inimmaginabili false reliquie33. La viaggiatrice cerca l’anima di Gerusalemme, ma non riesce a trovarla e nella sua confusione finisce per smarrire anche il senso della
31 il discorso sull’autenticità dell’afflato religioso della Serao è ancora aperto. Alberto Granese riassume bene, a grandi linee, in maniera complessiva, le diverse opinioni critiche: «Se Benedetto Croce liquidava come un “ghiribizzo” la fase mistica della Serao, in cui influssi francesi e fogazzariani si sarebbero mescolati con elementi di religione piccolo-borghese, Luigi Capuana stigmatizzava l’uso seraiano del linguaggio, mutuato dai predicatori della quaresima nei quartieri popolari di Napoli (cfr. Benedetto Croce, Matilde Serao [1903], La letteratura della nuova Italia [1915], iii, Bari, Laterza, 1973; Luigi Capuana, Lettere all’assente, Torino, roux e Viarengo, 1904). Per Borgese, la religiosità della Serao era fondamentalmente falsa, dal momento che la scrittrice non credeva alle leggende, narrate solo in base a un “compromesso di fede parolaia e di diffidenza dissimulata” (Giuseppe Antonio Borgese, San Gennaro secondo Matilde Serao, in La vita e il libro, Torino, Bocca, 1910, p. 382); per Scappaticci, lo spiritualismo seraiano era organico a un’ideologia conservatrice, volta a frenare le tensioni sociali attraverso un nuovo compito pedagogico affidato agli intellettuali (Tommaso Scappaticci, Introduzione a Serao, Bari, Laterza, 1995, pp. 123-31). Equilibrati i giudizi della Martin Gistucci, che nell’adesione della scrittrice alla mentalità convenzionale del tempo non esclude un suo bisogno di religione (Marie Gracieus Martin Gistucci, L’oeuvre romanesque de Matilde Serao, Grenoble, Pug, 1973, pp. 307 sgg.), e della De Nunzio Schilardi, che, pur ritenendola “troppo spiegata, tutta espansa all’esterno, più rituale che intimamente spirituale”, riconosce tuttavia come “autentica” la sua religiosità (Wanda De Nunzio Schilardi, introduzione a M. Serao, San Gennaro nella leggenda e nella vita, Bari, Palomar, 2000, p. XVii)» (Alberto Granese, L’onomastica mistica di Matilde Serao, «il nome nel testo». rivista internazionale di onomastica letteraria, V (2003), pp. 133-134). 32 M. Serao, I cavalieri dello spirito, «il Mattino», 8 luglio 1894. 33 Sulle caratteristiche dell’odeporica seraiana si veda anche Luca Bani, «L’assenza è un Male necessario!». I libri di viaggio di Matilde Serao, in Spazi Segni Parole. Percorsi di viaggiatrici italiane, a cura di Federica Frediani, ricciarda ricorda e Luisa rossi, Prefazione di Luca Clerici, Milano, FrancoAngeli, 2012, pp. 169-186.
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daniela de liso904 propria religiosità fino al limen di quella via dolorosa che parte dal Monte degli ulivi e giunge al Ghetsemani, alla via Crucis, al Calvario, al muro del pianto, cui sono dedicate pagine toccanti. Alla Serao non piacciono gli ebrei. Prova fastidio, nel corso di questo viaggio e di questo libro, verso di loro; ad infastidirla è il loro atteggiamento di vittime perenni, misto alla congenita presunzione che deriva loro dal ritenersi il popolo eletto. Eppure, in queste pagine dedicate al muro del pianto, gli ebrei sono solo uomini e donne di fronte alla tragedia di un dolore atavico e insanabile: Bizzarro ed emozionante spettacolo! Certo, è un pianto contagioso: certo, la nevrosi del pianto aleggia in quel vicoletto: certo, quel muro di Salomone li ipnotizza. Ma a che servono, queste parole della scienza? Essi gemono colà sovra una vera sventura: essi espiano il più grande dei peccati, essi trovano nella religione un nuovo soggetto di dolore, quando a noi è soggetto di consolazione. Come irriderli? Hanno ucciso il Signore; ma sono così miserabili, malgrado la loro tenacia, sono così privi di ogni conforto morale, malgrado il loro coraggio, che la grandezza della loro punizione impone. una fatalità li avvolge: e il loro pianto del venerdì, è lo scoppio delle anime che, dopo duemila anni, sono ancora oppresse dal fato34.
il pellegrinaggio ed il racconto proseguono con la descrizione dell’arrivo a Betlemme, presentata come Ephrata, il suo nome ebraico, che significa la fruttuosa, una sorta di nomen omen per la terra in cui nacque Gesù. Ma il libro riserva una nuova sorpresa nelle pagine successive, nel capitolo intitolato Quattrocento metri sotto il mare, che racconta il percorso verso Gerico, una delle tappe ancora “pericolose” del pellegrinaggio. La singolarità della diegesi è sottolineata subito dalla variatio stilistica, perseguita attraverso alcune pagine dialogiche, che riassumono le “interviste” condotte dalla Serao a chi ha già fatto il viaggio, nel tentativo di valutarne la pericolosità e decidere le misure cautelari da adottare. Queste pagine sono di sorprendente freschezza, soprattutto per l’adozione di una cifra stilistica colloquiale, che stride felicemente con i toni commossi delle pagine precedenti e prepara, senza dubbio, quelle celebri del viaggio In palanchino: E il palanchino va, va, in tutto quel nero, penetrandovi dentro, scendendo, inclinandosi, […] avendo solo, innanzi, un pezzo di cielo stellato. Allora, sì, che quell’andare, in tal maniera, pare l’entrare in un paese di sogno, sconosciuto, misterioso, per vie inesplorate, per cammini incerti
34 M. Serao, Nel paese di Gesù, cit., p. 62.
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e fantastici, in un breve nido alto, che è una sedia, una culla, una casetta, la dimora di un personaggio appartenente, oramai, anche a una esistenza di sogno. […] Quel movimento, nella notte, diventa sempre più proprio a un viaggio fatto nei solinghi delirii dell’allucinazione: movimento incerto, confuso, avvolto di tenebra, fra piante di tenebre, fra sentieri ignoti, sotto un arco di cielo, le cui stelle non furono mai viste da chi viene da lungi. invano lo sguardo si acuisce, nella notte: invano l’anima sognante fa piegare il corpo fuori del palanchino, cercando di scorgere la via. Vi è, forse, una via? E la meta, dov’è? Ma esiste forse, una meta, o questo viaggio ha qualche cosa d’interminabile, d’infinito, nelle oscure onde dell’aria notturna? Non andrà l’anima, per sempre, per sempre, in una grande tenebra, chiusa fra tre pareti di legno, con un moto di nave o di culla, vedendo cullarsi innanzi le stelle di una piaga ignota?35
il racconto del lungo viaggio, la descrizione dei paesaggi sospesi nella magia della loro storia guidano il lettore, attraverso il Giordano, verso la Galilea, che per la Serao è non solo il paese di Gesù giovane, nel tempo felice, ma è soprattutto il paese di Maria. Le pagine a lei dedicate sono la spia più evidente dell’autentica religiosità della Serao. Ma ancora una volta il libro sorprende, aprendosi in una schietta e fresca successione di parti diegetiche, descrittive e dialogiche, impedendo al lettore di abituarsi al tono enfatico della pellegrina di Cristo, che, all’occorrenza, si trasforma in touriste, quando racconta la sua conoscenza con il signor Hardegg, proprietario del Grand Hotel di Gerusalemme o riscopre la sua curiositas di giornalista quando ricostruisce il dialogo con il mercante ibrahim, maronita libanese, alla ricerca di Dio. L’ultima parte del libro, intitolata L’ultimo giorno, è poi una guida di viaggio, in cui la Serao fornisce informazioni meramente pratiche (la durata minima, gli alberghi, i luoghi da visitare, i costi), concludendo con la speranza che il suo libro e le informazioni in esso contenute possano indurre molti a compiere un viaggio che, «malgrado tanti passaggi dal mare alla ferrovia, dalla ferrovia alla carrozza, al palanchino, al cavallo, malgrado tanti giorni di moto continuo, e, certo, per questo, ha un fascino che si porta via, nel sangue»36. Le ultime pagine, Il commiato, ne sono prova. in esse si snoda il racconto delle ultime ore a Gerusalemme. La Serao sa che, come tutti i pellegrini, quando si arriva a Gerusalemme e poi quando si va via, occorre visitare la chiesa del Santo Sepolcro. Nella parte iniziale del libro si legge il racconto della prima visita, all’arrivo. La Serao è, in quell’occasione,
35 Ivi, p. 86. 36 Ivi, p. 144.
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daniela de liso906 distratta dalla curiosità: vuole vedere tutto, fissare ogni cosa e persona nella memoria e nel cuore, e sente su di sé il peso di quel luogo, non riuscendo, perciò, a pregare come vorrebbe. L’ultima visita al Sepolcro è ancora una volta deludente: la pellegrina è distratta dalle mille incombenze della partenza e non sa, ancora una volta, pregare. S’innervosisce, perché sa che quel viaggio l’ha inesorabilmente trasformata, sa che non potrà mai essere la stessa donna che è partita da Napoli, col cuore gonfio di curiosità e speranza. Così, un attimo prima d’andar via, torna ancora al Sepolcro, da sola e cade in una sorta di estasi. Non riuscirà a raccontare il momento: non ricorda le parole che ha pronunciato, non sa dire chi sia stato con lei nella stanza, se qualcuno l’abbia guardata, se le abbiano rivolto la parola, se abbia pianto, urlato, se sia caduta. Mentre Gerusalemme si allontana dal finestrino del treno, la Serao è raggiunta dalla consapevolezza che «tutto era finito»: Potevo vivere, patire, gioire morire, niente di tutto quello, io avrei riveduto e provato. Così, nello spasimo lacerante, quando il cuore si rompe in due, separandosi, mentre la torre di Davide si dileguava nella distanza, io feci un giuramento e feci un voto. Giurai, che, per Gesù, per la sua fede e per il suo paese, benedetto e consacrato dalla sua vita, o dalla sua morte, avrei scritto un libro, non il più artistico dei miei libri, ma il più umano: non il più bello, ma il più sincero: giurai che lo avrei scritto con umiltà e con speranza, da cristiana, per umili e speranzosi cristiani37.
Avrebbe confidato all’amico Fogazzaro, poco prima dell’uscita del libro: «io era credente: dopo il viaggio di Palestina, sono credente meglio»38. Eppure il lettore moderno non troverà in questo libro solo la pellegrina del cuore. Vi ritroverà la Serao tutta: la giornalista, la donna, la scrittrice, la verista, la tardo-romantica, la spiritualista. Non sbagliava forse, ma per motivi diversi da quelli da lei immaginati, quando scriveva che il Paese di Gesù sarebbe stato «il più umano» dei suoi libri. Nel non considerarlo «il più artistico», invece, – come se l’arte, la tecnica, l’artificio potessero togliere verità alla scrittura –, in questo sbagliava, certamente.
Daniela De Liso università Federico ii – Napoli
37 Ivi, p. 158. 38 Lettera di Matilde Serao ad Antonio Fogazzaro, Napoli, 8 luglio, in D. Trotta, Racconti di un’anima tra lettere inedite e libri, in Visibili, invisibili. Matilde Serao e le donne nell’Italia postunitaria. Materiali per una mostra, cit., p. 98.
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GiOVANNi MADDALONi Nel paese di Gesù di Matilde Serao: un’analisi linguistica
il contributo propone una lettura linguistica di Nel paese di Gesù: partendo dal quadro degli usi linguistici che accomunano la scrittura della Serao alla prosa giornalistica ottocentesca, si procede poi a una disamina delle rappresentazioni del parlato e dell’uso dei forestierismi quali elementi distintivi del realismo seraiano in quest’opera. L’analisi testuale e linguistica dimostra le peculiarità innovative dello stile della Serao che la collocano, in anticipo sui tempi, nel contesto dei turbamenti e delle inquietudini della grande letteratura europea del Novecento.
★ This essay provides a linguistic reading of Nel paese di Gesù. Beginning with the linguistic features that liken Serao’s writing to Nineteenth-century journalistic prose, it analyses the representations of spoken language and the use of foreign terms as distinctive elements of Serao’s realism in this work. A textual and linguistic analysis shows the innovative peculiarities of Serao’s style, which place her firmly – ahead of her times – within the context of the turmoil and restlessness of great Twentieth-century European literature.
Nella primavera del 1893, a un anno esatto dalla fondazione del quotidiano «il Mattino» (16 marzo 1892), Matilde Serao intraprende un viaggio in Terrasanta, le cui memorie saranno pubblicate dapprima in forma di réportage sul «Mattino-Supplemento» tra il 1894 e il 1895, per poi confluire in un volume pubblicato solo nell’autunno del 1899, «dopo lunga e attentissima revisione (insolita per i tempi “giornalistici della scrittrice”)»1, con il titolo Nel paese di Gesù. Ricordi di un viaggio in Palestina 2.
Giovanni Maddaloni: università degli Studi di Napoli Federico ii; Dottore di ricerca; maddaloni.unina@libero.it 1 Donatella Trotta, Racconti di un’anima tra lettere inedite e libri, in Visibili e invisibili. Matilde Serao e le donne nell’Italia post-unitaria, a cura di Gabriella Liberati, Giuseppe Scalera, D. Trotta, roma, Consiglio Nazionale delle ricerche 2015, pp. 97-108. 2 La prima edizione dell’opera fu pubblicata dalla Tipografia Aurelio Tocco
giovanni maddaloni908 La lunga gestazione dell’opera testimonia un paziente lavoro di elaborazione del testo, volto a recuperare e a fissare nella parola scritta non solo il ricordo degli uomini incontrati e dei luoghi visitati, con il loro inevitabile bagaglio di usi e costumi e linguaggi radicalmente diversi da quelli occidentali, ma soprattutto i frutti di un’esperienza interiore vissuta con sincera fede, quella del pellegrino inteso nel modo più autenticamente cristiano: l’homo viator che è «sempre in viaggio su questa terra e nella sua vita che sono gli spazi/tempo effimeri del suo destino dove egli cammina, secondo le sue scelte, verso la vita o verso la morte – per l’eternità»3. il risultato di questa lunga fatica è un’opera originale e complessa, in cui la vocazione giornalistica e quella narrativa, insieme a una più delicata e commossa vena intimista, si fondono, dando vita ad un testo che va oltre il semplice réportage giornalistico, ma anche al di là del descrittivismo e della pura curiosità, per quanto legittima, che non di rado caratterizzano il tradizionale libro di viaggio. Per focalizzare l’attenzione del lettore sul valore testimoniale del suo racconto, la Serao premette al volume una breve introduzione in cui scrive: Vi è un viaggiatore comunissimo, che s’incontra dappertutto, il quale passa da un paese all’altro, con un’attività instancabile, sempre coi segni della più vivace curiosità sul volto, che compie le gite più faticose, che si azzarda nei luoghi più rischiosi, che stanca la pazienza di qualunque compagno di viaggio, che si fa maledire da qualunque cicerone, e che ritorna costantemente da tutti i punti del globo, da lui minu
nell’ottobre del 1899. La data del 1898, che figura in molte pubblicazioni anche di grande prestigio, come l’Enciclopedia Treccani, è quella riportata in caratteri romani sul frontespizio del volume, predisposto molti mesi prima dell’uscita effettiva del testo. Sulle vicende relative a questo frontespizio e allo slittamento della data di pubblicazione del volume, cfr. in questo volume il contributo di Daniela De Liso Nel Paese di Gesù. I luoghi nella scrittura di Matilde Serao. Edizioni successive a quella approntata dalla Tipografia Tocco di particolare importanza furono: Firenze, Tipografia Salvadore Landi, 1900; Napoli, Francesco Perrella Editore, 1905 e 1913; Milano, Treves, 1920 e 1923. A queste sono seguite molte altre ristampe fino ad oggi, tra cui l’edizione imagaenaria 2005 e quella Monte università di Parma del 2012, curata da Mauro F. Minervino, che si rifà all’edizione Perrella del 1905 – peraltro presentata erroneamente come la prima edizione – e pubblicata con il titolo Viaggio in Palestina, con una sorta di sintesi del titolo originale. A tutt’oggi dunque manca una vera edizione critica del testo. Per la stesura di questo contributo è stata utilizzata l’edizione Tocco 1899. 3 Jacques Le Goff, L’uomo medievale, in L’uomo medievale, a cura di J. Le Goff, roma-Bari, Laterza, 2005 (1° ed. 1993), p. 8.
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nel paese di gesù di matilde serao: un’analisi linguistica 909
ziosamente visitati, manifestando la soddisfazione più sincera. Se, cortesemente, voi gli chiedete conto delle sue impressioni, egli vi comunicherà, con la massima importanza, e come se vi rivelasse una profonda verità segreta, scoperta solo da lui, che le trattorie sono care a Parigi, che Londra ha una ferrovia metropolitana, che la corsa nei vaporini sul Canal Grande di Venezia costa due soldi, che i battelli russi sono meno celeri di quelli austriaci, e che tutta l’acqua di Oriente non è potabile, nonché altre simili novità preziose e acute, che la sua sagacia ha ritrovate, nei suoi viaggi, a prezzo di fatiche, di tempo, e di denaro […]. un viaggiatore meno comune, ma non raro, è colui che domanda continuamente il pittoresco, in ogni breve tappa del suo vagabondaggio: […] il suo non è un cervello, ma una galleria di quadri: il suo spirito non è che un panorama, di cui egli desidera sempre cambiare le immagini […]. Ma io conosco un viaggiatore diverso da tutti gli altri, uomo o donna che sia, giovane, vecchio, povero, ricco: un viaggiatore sentimentale e bizzarro, che obbedisce singolarmente a una curiosità esclusiva, unica, assorbente […]. Questo viaggiatore silenzioso, capriccioso, ostinato, preso dalla sua singolar ricerca, è colui che vuol veder palpitar l’anima nei paesi che attraversa […]. Questo ho io cercato, nel mio viaggio in Palestina: ho cercato umilmente, dove fremesse, dove vibrasse l’anima di quella Sacra Terra, che ha visto iddio, e ne ha udito la voce 4.
L’anima della Palestina si offre alla contemplazione della scrittricepellegrina solo al termine di uno scavo che non le risparmia disincanto e dolore, poiché le attese della Serao, maturate sotto la spinta di un’estrema sensibilità e accresciute certamente da letture che avranno nutrito chissà quali e quante fughe dell’immaginazione, si scontrano con una realtà deludente, involgarita da quelli che, a distanza di oltre un secolo, si rivelano chiaramente ai nostri occhi come i primi sussulti di un caotico e disarticolato turismo di massa. Se infatti è ancora possibile provare le emozioni dell’antico pellegrino durante il viaggio in nave dall’italia alla Palestina (indicata nel testo come Sorìa), non avviene altrettanto durante il viaggio da Jaffa a Gerusalemme, due città messe in comunicazione da una ferrovia costruita appositamente per soddisfare la nuova esigenza di rapidità, avvertita dalla maggior parte dei viaggiatori. il treno viaggia ad una velocità assolutamente stra
4 Matilde Serao, Nel Paese di Gesù. Ricordi di un viaggio in Palestina, Napoli, Aurelio Tocco, 1899, pp. ix-xii. Da qui in avanti, il numero di pagina sarà indicato nel testo, alla fine di ogni citazione.
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giovanni maddaloni910 ordinaria per l’epoca: «è troppo rapido, voi sapete tutto, ma non vedete nulla, voi non afferrate né una linea, né una tinta, voi non capite più niente» (p. 55); i suoi frequentatori sono sporchi, maleodoranti, maleducati, soprattutto i turchi che «fumano, sonnecchiano, dormono, si svegliano, si tolgono le scarpe (quando i turchi hanno le scarpe, non vedono il momento di levarsele)» (p. 54) e sollecitano, come si vedrà meglio tra qualche pagina, la vena più sarcastica e polemica della scrittrice. La Serao non può fare a meno di esclamare: «Ah! come declinano il capo, recisi, i fiori della poesia!» (ancora p. 54), e di scrivere: il treno si approssima a Gerusalemme, e la tristezza diviene mortale. È dunque in questa forma frettolosa, affaccendata e seccata, che si deve arrivare alla città dei patriarchi e dei profeti, alla città di Davide e Salomone, alla città dove Gesù ha vissuto, ha sofferto, è morto, sulla croce? Così, proprio così, senza raccoglimento, senza silenzio e senza divozione, Gerusalemme ci apparirà, alta sui monti che essa congiunge, da quello di Bezetha a quello di Gareb, da quello di Acra a quello di Ophel, dal Moriah al Sion? Non così trivialmente, non così laidamente, la videro i fortunati, che potettero arrivarvi nei secoli trascorsi, dopo lunghi stenti, dopo inaudite fatiche, e parve loro, quale essa era, una meta divina […]. (p. 55).
L’esperienza del pellegrinaggio dunque, più di qualsiasi altro tipo di viaggio, subisce in modo traumatico il contraccolpo negativo dell’avanzata della modernità. Se infatti l’accelerazione dei tempi e la riduzione delle distanze si lasciano immediatamente percepire come elementi che andranno a minare in modo definitivo le più antiche suggestioni legate all’esperienza del viaggio in sé, come ha scritto Giulio Ferroni5, allora la morte del pellegrinaggio si configura come l’esito
5 «Nella sensibilità collettiva e nella letteratura del Settecento e dell’Ottocento si diffonde una nuova nozione del viaggio come evasione, come ricerca di luoghi lontani dalla vita ufficiale e fittizia delle città, di ambienti perfetti, incontaminati, misteriosi, fascinosi. Ma intanto, mentre il viaggio diventa protagonista delle più varie opere poetiche e narrative, nella vita di tutti i giorni raggiungere luoghi diversi è sempre più facile, più rapido, meno pericoloso: specialmente con l’espansione della ferrovia il viaggio non è più un evento straordinario, ma entra nell’esperienza quotidiana di tutti […]. Ma quanto più il viaggio diventa facile, normale, quotidiano, tanto più esso perde il valore di esperienza essenziale che aveva nelle società tradizionali: […] la grande letteratura comincia ad avvertire sempre più di frequente che l’esperienza del viaggio è delusiva, che chi parte per cercare qualcosa di assoluto finisce per trovare soltanto se stesso o per ritrovare dappertutto, in ogni luogo della terra, i segni della civiltà da cui vuole fuggire» (Giulio Ferroni, Letteratura italiana contemporanea, 2 voll., Milano, Mondadori, 2007, vol. ii, p. 329).
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nel paese di gesù di matilde serao: un’analisi linguistica 911 estremo della «morte del viaggio» (secondo la definizione dello stesso Ferroni), in quanto fine di un’esperienza il cui scopo non è l’evasione, ma la possibilità per l’uomo di vivere nella carne – attraverso la fatica, la percezione del proprio limite e del suo superamento – l’esperienza del Sacro. La fine dei «lunghi stenti» e delle «inaudite fatiche», che caratterizzavano il pellegrinaggio nel mondo antico e medievale, fa sì che il «viaggiatore comunissimo» e il «viaggiatore meno comune, ma non raro», non paghi di Venezia, Londra o Parigi, facciano capolino anche in Terrasanta. La Serao ne identifica la quintessenza negli inglesi, dei quali scrive, con pungente sarcasmo: Oh, l’abominazione della desolazione di questa ferrovia non è per noi, essa è fatta per il popolo, che assegna al tempo il valore del danaro, per il popolo, che ha sempre fretta, che vuole andare dapertutto con la massima velocità, anche al Santo Sepolcro, che vuol veder tutto nel minor tempo possibile, anche la casa di Maria di Nazareth, è per questi inglesi che si stupirebbero del nostro pallore, dei nostri pianti, delle nostre genuflessioni, è per gli inglesi, la ferrovia! Disgraziatamente, sono essi, che vengono in maggior numero qui: e le grandi valli, onde si ascende a Gerusalemme, sono già tinte del fumo male odorante della locomotiva. La Palestina ha bisogno degli inglesi: ne vive! (pp. 56-57).
A questa sorta di viaggiatore – il touriste, secondo la definizione spregiativa e riduttiva della stessa Serao6 – ogni emozione del pellegrinaggio è sconosciuta. Né la visita al Santo Sepolcro e ai luoghi della Passione, né il passaggio attraverso le vie di Gerusalemme, di cui la Serao tenta di cogliere «il popolo» e «l’anima» (pp. 95-107), scuotono il suo torpore spirituale, sicché anche l’addio a questi luoghi si configura come un momento in cui pellegrino e touriste sono destinati a non comprendersi. Al «dolore profondo, sgorgante dall’anima spasimante» (p. 363) della Serao, fa da contrappunto una reazione quasi di scherno. Scrive infatti la Serao:
6 Ivi, p. 92. La scelta della Serao di adoperare la forma touriste nel corso dell’intera narrazione è senza dubbio un espediente retorico il cui intento esplicito è quello di definire la differenza con i veri pellegrini e stigmatizzare con il sarcasmo la spensieratezza vacanziera e i comportamenti di certi gruppi di pellegrini stranieri tutt’altro che dediti al raccoglimento, alla penitenza e alla preghiera. Lo dimostra il fatto che, a quest’altezza cronologica, l’uso della forma italiana turisti è attestato già da molti anni. Si veda al riguardo Patricia Bianchi, L’uso delle parole ‘sandwich’ e ‘turisti’ in una traduzione italiana di “Notte e mattino” di Bulwer-Lytton del 1842, «Lingua nostra», 58 (1-2), 1998, pp. 21-22.
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Attorno a me, degli inglesi, vedendomi, dallo sportello, guardare così intensamente e piangere, dissero, fra loro, che io dovevo essere malata o pazza: mi rammentai, più tardi, il suono di quelle parole, non le compresi, allora, subito (p. 363).
L’addio alla Terra Santa e la certezza di non potervi mai più tornare sollecitano la scrittura, che si configura così come l’esito del duplice bisogno interiore di testimoniare l’esperienza di grazia del pellegrinaggio e riviverlo attraverso le parole. Così la Serao chiude il suo libro: Tutto era finito. Potevo vivere, patire, gioire, morire, niente di tutto quello io avrei riveduto e provato. Così, nello spasimo lacerante, quando il cuore si rompe in due, separandosi, mentre la torre di Davide si dileguava nella distanza, io feci un giuramento e feci un voto. Giurai, che, per Gesù, per la sua fede e per il suo paese, benedetto e consacrato dalla sua vita, e dalla sua morte, avrei scritto un libro, non il più artistico dei miei libri, ma il più umano: non il più bello, ma il più sincero: giurai che lo avrei scritto con umiltà e con speranza, da cristiana, per umili e speranzosi cristiani. E ho tenuto il giuramento e sciolgo, oggi, il voto. io depongo questo libro ai piedi della croce, ad essa tendendo le braccia, per me, per i miei figli, mormorando per me, per essi, le parole degli antichi cristiani: Ave, spes unica (p. 364).
il giudizio elaborato da Matilde Serao sul suo libro, da lei definito «non il più artistico dei miei libri, ma il più umano: non il più bello, ma il più sincero», può costituire un punto di partenza valido anche per una ricognizione linguistica dell’opera. Se da un lato, infatti, la Serao si pone di fronte alla materia trattata con quell’umiltà che lei, donna credente, reputa quanto mai necessaria e con intenti primariamente apologetici, dall’altro va ribadito, come è stato detto all’inizio, che i quattro anni di lavoro sul testo non sono trascorsi invano. Nel paese di Gesù si rivela un libro di ampi propositi letterari oltre che spirituali e mostra un’accurata elaborazione sia sul piano strutturale che linguistico. Le soluzioni più caratteristiche della prosa giornalistica di fine Ottocento7 si ritrovano soprattutto nella prima parte dell’opera, nelle pagine che descrivono il viaggio verso la Terra Santa e che la Serao
7 Luca Serianni, Il secondo Ottocento, Bologna, il Mulino, 1990, pp. 27-37. Per un quadro esaustivo dei rapporti tra giornalismo e letteratura nel contesto culturale napoletano si legga invece raffaele Giglio, Letteratura in colonna. Letteratura e giornalismo a Napoli nel secondo Ottocento, roma, Bulzoni, 1993 e dello stesso di Letteratura e giornalismo, Napoli, Loffredo, 2012.
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nel paese di gesù di matilde serao: un’analisi linguistica 913 intesse, come è stato anticipato, di notazioni pungenti sui viaggiatori e, non di rado, sugli autoctoni. il registro brillante trova uno dei suoi punti di forza nella figura retorica dell’ironia che, come abbiamo già accennato, non risparmia quasi nessuno. Tra i bersagli più ricorrenti, vanno menzionati innanzitutto i viaggiatori inglesi, numerosissimi, invadenti e dal comportamento più vicino a quello del turista che del pellegrino. Di essi si sottolinea, ad esempio, l’attaccamento alle forme di svago e di piacere tipiche delle loro terre d’origine: Sulla via di Ghesireh, che è la passeggiata alla moda del Cairo, e il suo Bois de Boulogne […] dopo aver varcato il ponte di Ghizeh, sul Nilo, lo spettacolo diventa sempre più vario, più bizzarro, più nobile. Qui, in un vasto prato che attornia una palazzina, due o tre famiglie inglesi giuocano a tennis, al crocket, mentre, al limitare del parco, un gruppo di giovanotti inglesi galoppano, lanciando i loro focosi cavalli: e i servi neri aspettano, pazienti, tenendo al morso gli impazienti cavalli di ricambio: piccoli breacks passano, carichi di bei ragazzi, di bambinaie, di governanti (pp. 30-31).
Ma ancor più sarcastica è la descrizione della preghiera dei gruppi inglesi protestanti, gelida ed enfatica al tempo stesso. Scrive la Serao: Su tutto e su tutti vi è, a bordo, come dovunque, all’estero, un grosso nucleo d’inglesi, provvisti di tutti i biglietti Cook’s possibili e immaginabili, che, dopo il bagno, passeggiano a piedi nudi, in coperta, sino alle nove della mattina, e dopo la seconda colazione si fanno leggere la Bibbia, in inglese, da un immancabile Clergyman, notando tutti i passaggi del Santo Libro, che han rapporto al loro viaggio, alle loro prossime escursioni: e, con quelle voci senza tonalità musicali, voi udite i nomi santi, intercalati da interiezioni britanniche: … ooh! Jericho!… ohoh… Holy Land… ohoh Jordan! Malgrado la suprema indifferenza con cui questi nomi vengono da loro pronunziati, voi, nella imminente emozione delle ore che scorrono e che vi avvicinano a Jaffa, trasalite (p. 44).
Chiassosi e fastidiosi sono invece i pellegrini musulmani incrociati a Porto Said e diretti verso La Mecca (p. 40), così descritti: intanto, un tumulto si leva dal mare, presso Porto Said. Tutti si sporgono, dai parapetti del bordo, tutti guardano una grossa nave che passa accanto a noi, così carica di turchi che c’incute meraviglia e sgomento. Vi sono turchi a poppa, a prua, sulla terrazza di comando, persino sulle barche sospese lungo la panciuta e lenta nave: sono vecchi, giovani, donne, bimbi: sono laceri, scalzi, sudici: essi pregano, parlano, cantano, gridano, urlano: è un’apparizione così bizzarra e così paurosa, che nessuno parla più. È il pellegrinaggio dei musulmani, che va alla Mec
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ca e si dirige verso Gedda, il porto musulmano per cui tutti i fanatici si avviano in processione, alla tomba del profeta (p. 45).
Agli inglesi indifferenti e ai musulmani fanatici, attributo che oggi un giornalista userebbe con cautela, bisogna aggiungere i viaggiatori turchi o ebrei incontrati in treno e descritti, come abbiamo letto precedentemente, come fumatori fastidiosi, sonnecchianti, maleodoranti. Le descrizioni procedono con grande vivacità, con un andamento colloquiale sottolineato dall’uso dell’allocutivo voi rivolto ai lettori («… voi, nella imminente emozione delle ore che scorrono e che vi avvicinano a Jaffa, trasalite», p. 44; «… già, in voi, nasce quello stato d’animo, fatto di muta trepidazione, di imminente tenerezza», p. 53), dall’uso frequente delle frasi interrogative («Dov’è dunque la nostra città, dove sono i suoi incanti?», p. 20; «Nella notte, avete mai percorso, dubitando, un grande salone oscuro?», p. 22; «… non è forse quello, lassù, il monte del Cattico Consiglio, dove i farisei si riunirono con Caiphas per deliberare la morte di Gesù?», p. 55), dall’uso di frasi marcate come la frase scissa («È, dunque, in questa forma frettolosa, affaccendata e seccata, che si deve arrivare alla città dei patriarchi e dei profeti, alla città di Davide e di Salomone, alla città dove Gesù ha vissuto, ha sofferto, è morto, sulla croce?», p. 55; «È così che noi dobbiamo giungere… dove la presenza di Dio fu palese agli uomini e donde partì la poesia della croce?», p. 55; «Ed è, infine, dal Monte degli ulivi, che Gesù salì al cielo…», p. 115) o la dislocazione a destra («… ne ha visti altri, lui, di porti cattivi…», p. 45), da usi informali come la concordanza a senso («… un gruppo di giovanotti inglesi galoppano…», p. 31). Va notato però, ed è questo un primo indizio di un’elaborazione letteraria lenta e accurata, come questo tono colloquiale e certe strutture sintattiche proprie del parlato8 si collochino in una cornice complessivamente ipotattica. Alla paratassi propria del parlato e dello stile giornalistico, infatti, la Serao predilige qui un periodare più articolato, complesso, ma al tempo stesso di grande chiarezza ed efficacia descrittiva. Leggiamo, ad esempio: Domenica mattina. Poco dopo l’alba, il comandante si avvicina a un gruppo di viaggiatori un po’ nervosi, che hanno dormito male, e indica loro, sull’orizzonte, una nuvola azzurra viva, nell’azzurro più smorto del cielo crepuscolare. Terra Santa! Tutta la popolazione del battello si riversa alla prua, con un moto precipitoso, con una consecutiva immo
8 Paolo D’Achille, L’italiano contemporaneo, Bologna, il Mulino, 2003.
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bilità, acuendo lo sguardo, per indovinare la terra in quella massa informe e imprecisa. Passa il tempo, così, vedendo emergere da quella nuvola viva il contorno più preciso della terra e la collina, infine, la collina dove Jaffa si eleva, fra i suoi orti, fra i suoi giardini di aranci e di limoni, dove ancora il maggio lascia dei fiori fragranti; tutto il suo porto, un vano simulacro di porto, biancheggia di spuma irritata che combatte inanemente contro gli irti scogli: la nave austriaca si arresta, lentamente (pp. 46-47).
il ritmo della narrazione è incalzato dall’uso della frase nominale, utilizzata per fornire un indizio temporale («Domenica mattina.»), o dall’interiezione («Terra Santa!»), ma poi si distende in un’armoniosa tessitura di subordinate, tra le quali però fa capolino un tratto linguistico dell’uso medio, il dove in funzione di sulla quale («la collina dove [sulla quale] Jaffa si eleva») e in cui («fra i suoi giardini di aranci e limoni, dove [in cui] ancora il maggio lascia dei fiori fragranti»). Anche in altri passi della narrazione troviamo soluzioni analoghe, ad esempio nella frase nominale interrogativa («Popolo di Gerusalemme, il turco?», p. 98), che è uno dei tanti stratagemmi comunicativi per chiamare in causa direttamente il lettore. Sempre la frase nominale, infine, torna dove occorre più efficacemente fissare un’impressione o un ricordo («immota, immutabile, l’anima di Gerusalemme», p. 104; «Nulla di più leggiadro che il piccolo villaggio di Aïn-Karem, nelle montagne», p. 173). Quando i ricordi della Serao si allontanano dall’Egitto, dal Nilo, dal Cairo, dal viaggio in nave o in treno e procedono verso la Terra Santa, lo stile della prosa si fa sempre più ricercato. Nel rievocare le immagini del Santo Sepolcro, della Via della Croce o della Valle di Giosafat (forse la pagina più bella e suggestiva del racconto), la giornalista lascia spazio alla scrittrice, con esiti che modificano profondamente l’andamento della narrazione e l’intenzione evocativa della parola. Leggiamo, ad esempio, nel paragrafo Adorando, dedicato alla visita al Santo Sepolcro: il pellegrino, venuto di lontano, che ha superato stenti e difficoltà per giungere fino a Lui, che ha subìto privazioni e tristezze, che ha sognato, così ostinatamente e così ardentemente, questo minuto di avvicinamento fra sé e il suo Signore, non ha forza di pregare. Prosciolte le membra, smarrita l’anima, non può esso riunire la parola al pensiero, non può dominare il suo pensiero; la fronte poggia sul sacro marmo, immobile; la bocca schiusa, immobile, tocca così il sacro marmo, quasi non avesse neppure la forza di baciarlo: non un atto: non un gesto:
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l’abbattimento più profondo, come se quella emozione avesse infranto tutte le corde dell’essere. Qualcuno piange, sì. Appena caduto in ginocchio, come se il cuore si fosse spezzato, scoppia in disperati, alti, inconsolabili singhiozzi, battendo col capo e col petto contro quella pietra, irrorando di caldissime lacrime quel freddo sasso, abbracciandolo avidamente, stringendovisi come all’estrema salvazione umana, cercando di costringerlo a sé, come per immedesimarvisi, come per morirvi di dolore, di pentimento, di amore (p. 73).
L’enfasi è estrema, accentuata da un’aggettivazione insistita, che vuole restituire ogni minima sensazione fisica (pensiamo all’antitesi delle caldissime lacrime sul freddo marmo) e, nella sua sincerità, non arretra di fronte al rischio del patetico e dell’uso di forme alquanto stereotipate (pensiamo ai singhiozzi alti, disperati, inconsolabili o al morire di dolore, di pentimento, di amore). un secondo esempio interessante è la conclusione del paragrafo dedicato alla valle di Giosafat: Colui che sente passar l’ora, nella valle di Giosafat, e neppure avverte più che l’ora passi, non rammenta più le tenere carezze dei figli, il dolce sorriso dei parenti, il lume soave degli occhi amichevoli: poiché egli ha soltanto il senso di una solitudine mai cessante, di un deserto che nulla più verrà ad animare, salvo una tremenda catastrofe finale. Tutte le energie, colà, si spengono sotto quel soffio funebre; tutta la bellezza delle cose si vela di fitti e sempre più avvolgenti veli bigi e cupi; tutte le ribellioni dell’anima si chetano in un sonno lugubre, nel gran torpore invincibile che dà l’aspetto delle cose nude, tetre, finite alla vita. Chi discese nella valle di Giosafat osò molto. il brivido di terrore, di dolore, che lo coglie, gli dà il supremo avvertimento. Questa è la valle della Morte (pp. 145-146).
Anche in questo caso, l’uso degli aggettivi ha un peso determinante nel creare l’atmosfera. La contrapposizione tra le carezze tenere, il sorriso dolce, il lume soave e il soffio funebre, il sonno lugubre, i veli bigi e cupi, oltre naturalmente alla chiusura epigrafica («Questa è la valle della morte»), non lascia dubbi sul fatto che la fervente apologeta non sappia e non voglia rinunciare a soluzioni da romanzo popolare, quasi da racconto gotico, per coinvolgere il più possibile i suoi lettori. in questa prosa intermedia tra réportage e narrazione romanzesca, meritano una particolare attenzione le rappresentazioni del parlato. Contrariamente a quanto avviene nella maggior parte delle opere di narrativa, Nel Paese di Gesù non concede amplissimi spazi al dialogato, con poche eccezioni: quella dedicata ai commenti dei pellegrini su Ge
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nel paese di gesù di matilde serao: un’analisi linguistica 917 rico (pp. 182-188), il capitolo sulla rosa di Gerico (pp. 209-221) e l’episodio del mercante di grano ibrahim (pp. 236-244), un cristiano maronita legato ai frati francescani presenti sul territorio, che conserva ricordi pieni d’ammirazione dell’italia e, in modo particolare, della fede sincera e umile dei napoletani. La Serao si fa testimone, presso i suoi lettori, di una realtà caratterizzata da una ricchissima commistione di lingue, la cui circolazione è uno dei tanti segni eloquenti dell’universalità del messaggio religioso irradiatosi dalla Palestina in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Da qui, la scelta di evocare in modo particolare le lingue semitiche attraverso il richiamo delle loro sonorità, rappresentate come parte integrante del paesaggio naturale e umano. L’aspetto fonico è descritto e rappresentato anche di là da quel po’ di lessico che alla Serao è possibile recepire e riportare, sicché alla trascrizione filologica di stralci di parlato si sostituiscono, nella maggior parte dei casi, le impressioni, le suggestioni di una scrittrice che rappresenta sé stessa come una parlante che si relaziona ad altri parlanti e che, dal confronto con le sonorità più caratteristiche di lingue altre, lontane e profondamente diverse, trae ulteriori spunti di ricerca dell’“anima” dei luoghi a lei cari. Sin dai primi giorni, queste lingue in contatto tra loro, le voci, le sonorità, rivelano di non essere il vero segreto della radicale diversità della vita condotta nei luoghi del viaggio. Scrive la Serao: Voi sentite, che il segreto di quella esistenza non è in quella folla di arabi, di greci, d’italiani, di francesi, non è in quel gridìo gutturale di tutti, su cui stridono le voci dei venditori ambulanti… (p. 22).
Eppure è impossibile sfuggire alle suggestioni sonore di quella realtà profondamente cosmopolita che la scrittrice descrive nelle sue variazioni: Le eleganti botteghe abbassano le loro tende, con lo strider dei ferri che le sostengono, contro la crescente fiamma del sole: e gruppi di avventori, di amici, di viandanti disoccupati, vi si fermano innanzi, chiacchierando vivamente in arabo con sonorità gutturali e pur dolci, dove la sillaba al mette sempre la sua mollezza, la sua liquidità, chiacchierando in greco con sonorità soavi musicali, chiacchierando in francese con quel rapido cinguettìo di uccelli al tramonto (p. 26).
L’arabo, colto in questo passo in uno dei suoi tratti più noti e riconoscibili, l’articolo determinativo al, appare altrove come una lingua intimamente contraddittoria, molle, musicale, ma al tempo stesso aggressiva e nervosa. Osservando una contrattazione tra mercanti di
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giovanni maddaloni918 grano, la Serao scrive di «quel sonoro e musicale linguaggio arabo e9 che pare il linguaggio costante della collera, mentre venditore e compratore sono calmissimi e il cammello aspetta inginocchiato» (p. 93). in questo composito panorama linguistico, non manca l’italiano. L’italiano risulta essere addirittura la lingua più parlata in Palestina, dopo quelle degli autoctoni, e ciò pare a prima vista un paradosso, dal momento che i gruppi di pellegrini italiani sono i meno numerosi, come testimonia l’autrice: Quanti italiani, ci vanno, in Palestina? Pochi? Pochissimi. Ma non sono credenti, forse? Sì, sono credenti. Ma, non hanno molti la fede ardente e operosa: ma, molti altri, non hanno né poco, né abbastanza denaro da andare: ma, mancano di energia fisica, altri, e altri di energia morale: e moltissimi sono ignoranti, non sanno come ci si va, in Palestina! Peccato! Eppure, sapete la lingua che si parla di più, in Sorìa? È l’italiana! (p. 46).
La ragione di questa diffusione è spiegata molto più avanti, nel racconto, ed è la presenza dei frati francescani, denominati in questi luoghi Padri di Terra Santa. Annota la Serao che «essi dirigono delle scuole, dove non insegnano che la lingua italiana, poiché San Francesco era italiano» (p. 323). uno spazio non trascurabile nel perimetro della Terra Santa è anche quello occupato dal francese, il cui radicamento sul territorio si spiega, come accade per l’italiano, con la presenza dei religiosi. La collina del Carmelo è infatti la sede del Monastero dei Carmelitani dedicato alla Beata Vergine, come spiega la Serao: Quassù, nel parlatorio del convento, i monaci del Carmine, tutti francesi, gentili, un po’ taciturni, un po’ fieri, nelle loro vesti bianche, questi Carmes déchaussés, che sono stati allevati ed educati nel convento limitrofo, danno medaglie, rosarii, orazioni stampate, in onore di Nostra Signora del Carmelo. Si offre un’elemosina in cambio. Solo l’eau des Carmes, costa tre lire la grossa bottiglia, una e cinquanta la piccola bottiglia […] (p. 249; corsivi nel testo).
il viaggio sta per toccare una nuova, fondamentale tappa, Nazareth, e la Serao si sposta guidata da un frate francescano, Padre Marcello, francofono come i suoi confratelli Carmelitani. La Serao ha con lui pochi, brevi scambi di battute in francese (pp. 252-259), mentre, poche pagine dopo, nel descrivere la giornata trascorsa a Nazareth,
9 Così nel testo.
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nel paese di gesù di matilde serao: un’analisi linguistica 919 l’autrice riporta in francese, lingua a lei ben nota, la promessa del frate di celebrare una messa con un’intenzione per suo figlio (p. 271) e le parole che il religioso dedica a un gruppo di bambini che li ha circondati per chiedere l’elemosina (p. 276): Ogni tanto, padre Marcello levava gli occhi sul paesaggio e indicava qualche cosa: – Voilà le grand Hermon. […] Era in Terra Santa da quindici anni: era padre guardiano di Nazareth da poco, ma quante volte aveva fatto quella via a cavallo, in carrozza e persino a piedi: – À pieds, mon père? – Pourquoi non, Madame? J’ai été un peu malade, après: mais très peu. Ogni tanto, a destra, a sinistra, un monte tutto verde compariva, lontano, vicino, scostandosi sempre, sempre presente. – Le Thabor? […] – Il y a beaucoup de turcs ici, mon père? – Heureusement, non – dice a bassa voce e con dolcezza il magro fraticello di San Francesco. […] – Voilà les monts de Gelboè – dice il cortese monaco. […] – Votre réve a été realisé, mon père? – Oh, oui madame! – esclama lui con un senso di piena felicità – Mon réve ne valait pas la realité (pp. 252-259). […] – Je dédierai cette messe à votre petit garçon, madame, et vous l’entendrez – mi concluse quella gentilissima anima di frate. E immediatamente, io fui confortata, giacché egli mi aveva fatto la promessa che consola. […] – Moi aussi, je donne toujours quelque chose à ces enfants – mi soggiunse il frate – Je pense que l’enfant Jésus était comme eux, ici, avec la méme figure, peut-étre…(pp. 271-276)10
Da notare la grafia delle forme réve, méme, étre, caratterizzata dall’uso dell’accento acuto al posto del circonflesso, probabilmente una svista del tipografo e una mancata correzione dell’autrice. Se dunque arabo, italiano e francese sono le tre lingue dominanti sul territorio, non stupisce che la loro mescolanza sia la base della lin
10 in entrambe le citazioni, i corsivi sono nel testo.
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giovanni maddaloni920 gua franca in cui Matilde Serao si imbatte, ovvero la lingua dei dragomanni. A queste singolari figure di guide turistiche, interpreti e organizzatori a tutto tondo dei viaggi in Palestina, la Serao dedica ampio spazio sul finire della sua narrazione. Leggiamo: il nome di dragomanno dovrebbe significare strettamente, interprete: ma dall’Egitto a tutta la Sorìa, il suo senso si sviluppa, si allarga, e dragomanno finisce per esprimere la qualità dell’interprete e del cicerone, della guida e della scorta, dell’amico e del servo […]. Tre giorni soltanto io ho vissuto, dalle nove del mattino alle sette di sera, con Ahmed, il turco con un occhio solo e con la faccia arguta, che fu il mio dragomanno di Alessandria; ma il suo gergo italo-marsigliese-arabo, mi sta sempre fisso nella memoria […] (p. 343).
Anche in questo caso tuttavia, come abbiamo visto per le lingue semitiche, a differenza di quel che accade con il francese, la Serao si limita ad evocare questa lingua franca, ma non fissa sulla pagina scritta uno o più esempi che possano assumere per i lettori un valore di testimonianza. i pochi dialoghi tra la Serao e i dragomanni incontrati durante il viaggio sono in italiano. Tutto ciò che ci è dato di conoscere sono due forme lessicali, forse le uniche due ricordate dall’autrice per la loro bizzarrìa, ovvero sfunx per sphinx (‘sfinge’ in francese), utilizzata dal dragomanno Hassan, e la forma verbale di interlingua rangio nella frase «Va bene: non ci pensate: io rangio questo» (in corsivo nell’originale, p. 348) del dragomanno issa, con la quale questi si riferisce alla sua disponibilità ad organizzarsi al meglio11 per accontentare le richieste della viaggiatrice, che la Serao stessa riconosce obbiettivamente come «capricci» (sempre p. 348). in questa cornice, la finalità essenziale delle scelte lessicali è quella di contribuire più efficacemente alla resa di certe atmosfere, a quella pittura d’ambiente realista, che tanto importante si era rivelata per l’affermazione della cronista quanto della narratrice. Agli usi lessicali propri del giornalismo di fine Ottocento,12 va ricondotto l’alternarsi di elementi del lessico basico e colloquiale con voci di matrice e tradizione essenzialmente letteraria. È il caso di cupreo sole, ‘sole di rame’ (p. 21), luce mattinale, ‘luce mattutina’ (p. 26), cinerei veli, ‘veli color cenere’ (p. 26), tinnire, ‘tintinnare’ (p. 27), elegan
11 Poiché la lingua dei dragomanni, come è stato detto, è il risultato dell’incontro di italiano, arabo e francese, sembra evidente la derivazione di questa forma franca proprio dall’italiano arrangiare, la cui origine è francese (arranger). 12 L. Serianni, Il secondo Ottocento, cit., p. 31.
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nel paese di gesù di matilde serao: un’analisi linguistica 921 za natìa (p. 36), Niuno eguaglia (p. 36), La carrozza s’invesca, ‘La carrozza si invischia’ (p. 34). Da notare anche l’uso delle forme leggiéro, leggiéra, leggiére in stoffe leggiere multicolori (p. 29), musica leggiera lontanissima (p. 30), leggiero vestito (p. 33) e ancora nocciuola (p. 28) o passeggiero (p. 28), scelte per la loro evidente prossimità al lessico napoletano caratterizzato dalla dittongazione metafonetica. Non meno interessante appare un elemento morfologico che si presenta a più riprese, ovvero l’alternarsi tra imperfetto indicativo in -o e in -a. Leggiamo così nella stessa pagina mentre io passeggiava e anche passeggiavo lentamente a capo basso (p. 201), e, nella medesima frase, Io non gli credeva. Sapevo… (p. 212), o anche il verbo essere in -a nella costruzione Io era discesa (p. 220). Ma ciò che contribuisce a rendere più realistico ed evocativo il lessico è l’alto tasso di forestierismi con cui la Serao fa rivivere, nell’immaginazione del lettore, il mondo dei touristes e quello degli autoctoni, le voci delle strade e dei mercati, delle donne e dei dragomanni, dei religiosi delle diverse confessioni cristiane (e non solo) e dei fedeli pellegrini. Degli inglesi e dei francesi, come è facile immaginare, il lessico richiama soprattutto la frivolezza, il distacco totale dalla vera esperienza spirituale, sicché apprendiamo che ciò che conta per gli inglesi sono ale, ‘birra’ («accanto a loro, alcuni inglesi bevono il loro ale, in silenzio grave», p. 30), il tennis, il crocket e le passeggiate in breacks, ‘modello di carrozza sportiva e da passeggiata’ (p. 31). i turisti francesi, dal canto loro, arricchiscono soprattutto la cultura culinaria della Serao, con i loro spuntini a base di petit fours, ‘piccola pasticceria’ (p. 30), soupirs, ‘conetti di cioccolato su base di pasta frolla e cuore di panna montata’ (p. 30), madeleines, ‘maddalene’ (p. 30), babas, ‘babà’ (p. 30). Non mancano ovviamente elementi lessicali del francese anche al di fuori di questo irridente ambito descrittivo, come nei lunghi dialoghi tra la Serao e i frati, che abbiamo citato precedentemente, o quando la Serao descrive la char-à-bancs, ‘grande carrozza per più viaggiatori’ (p. 253), o l’abbigliamento del mercante di grano ibrahim con la sua redingote nera (p. 238). il mondo arabo, con cui la Serao si confronta sin dai primi momenti del viaggio, è evocato innanzitutto dalle dahabeah, ‘navi bianco perla’ (p. 23), o da parole note come fez, pascià (pp. 27-28), bazar (p. 29) o ancora bouricho/bourichi, ‘asinello/i’ (p. 28). Su due parole però, fellah/fellahine e sais, occorre fermarsi un momento in più. Con le parole fellah/fellahine, la Serao indica, lei stessa ce ne informa, ‘donne arabe del popolo’: [ 15 ]
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Sulla riva, spesso, un gruppo di fellahine, le donne arabe del popolo, tutte chiuse nel gran manto nero, col viso coperto dal velo nero che è fermato sulle sopracciglia dalla fibbia di metallo, coi piccoli piedi scalzi, riempie le anfore di acqua del Nilo, sollevandole sulle spalle, con un moto grazioso: alcune di queste fellah immergono le gambe nell’acqua, e vi si curvano quasi dentro, come se il sacro fiume le attirasse (p. 24).
Di solito, a proposito di fellah/fellahine, i dizionari riportano il significato di ‘lavoratore della terra’. Nel GDLI, il fellah è «‘lavoratore della terra’, ‘contadino’, ‘proletario arabo’ (in partic., egiziano e palestinese)».13 Nel Sabatini-Coletti, la definizione di fellah è «in Egitto, in Palestina e in altri paesi arabi, contadino di bassa estrazione»; con questo significato, la parola è indicata come attestata dal sec. xvii.14 il Vocabolario Treccani invece riporta che tale significato entra nella letteratura europea nel sec. xix, a indicare specificamente i lavoratori della terra di Egitto e Palestina.15 Le donne descritte dalla Serao però non hanno né l’abbigliamento, né i comportamenti di lavoratrici della terra; sembrano piuttosto donne di casa intente ad una delle tante attività domestiche di un tempo, la raccolta dell’acqua al fiume. La descrizione delle anfore sollevate sulle spalle «con un moto grazioso» evoca un’immagine ben presente nell’immaginario collettivo occidentale relativo al Medio Oriente e a certi popoli africani. il significato di fellah/fellahine riportato dalla Serao è dunque senza precedenti e la sua attestazione sembra di non poco interesse. Per quanto riguarda sais, il suo interesse è legato al fatto di essere riferito ad un mestiere certamente esistito anche a Napoli, ma evidentemente, a questa altezza cronologica, caduto in disuso. Scrive la Serao: il sais è una delle istituzioni del lusso egiziano più simpatiche. Questo sais è un arabo, per lo più, scelto fra i più belli, fra i più perfetti di forme, agilissimo, vestito di lievi mussole bianche, con una giacchetta rossa o azzurra, tutta ricamata d’oro: egli ha un berretto anche ricamato d’oro e circondato di mussola bianca, un corto sciabolotto attaccato alla cintura di metallo, e nelle mani una mazza lunga e sottile. È scalzo,
13 Salvatore Battaglia, Grande Dizionario della Lingua Italiana, vol. v, Torino, uTET 1968, p. 798. 14 Francesco Sabatini-Vittorio Coletti, DISC. Dizionario Italiano Sabatini Coletti, Milano, rizzoli-Larousse 2003-2007 (1° ed. Firenze, Giunti 1997-1999). in questo caso, è stata consultata l’edizione online https://dizionari.corriere.it >fellah. 15 Anche in questo caso è stata consultata l’edizione online www.treccani. it>vocabolario>fellah.
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nel paese di gesù di matilde serao: un’analisi linguistica 923
naturalmente. Correndo, fuggendo, egli precede sempre la vettura aristocratica, facendo far largo, e le sue gambe corrono più dei cavalli, le mussole bianche si agitano al vento: egli ha l’aria di volare. Quando i padroni lo comandano, egli sale in serpa: talvolta, si attacca dietro alle balestre della vettura, in una posa fiera e non curante (pp. 28-29).
Così descritto, fatte le dovute differenze di costume (fattura degli abiti, piedi scalzi), il sais non è altro che un lacchè, ovvero quella figura che a Napoli era indicata con il nome di volantello proprio perché aveva “l’aria di volare” ogni qual volta precedeva o seguiva la carrozza dei padroni, balzandovi su al minimo richiamo. L’esistenza di questa figura è attestata principalmente da fonti Settecentesche, soprattutto dalle commedie di Francesco Cerlone, celebre librettista di Paisiello e di Cimarosa, in cui il volantello, quale lacchè, servitorello, “spalla” del padrone, compare in numerosi testi.16 Lo stupore e il divertimento della Serao di fronte a questa istituzione “delle più simpatiche” e l’impossibilità, per lei, di associare le due figure del sais e del volantello lasciano intendere verosimilmente che a fine Ottocento, a Napoli, siano scomparsi sia il mestiere che, di conseguenza, il lemma. Come mai, però, la Serao non ne avesse perlomeno una memoria letteraria, è una curiosità destinata forse a rimanere senza risposta. Tra le altre parole straniere citate, menzioniamo il serbocroato gouzla, ‘gusla’, strumento musicale popolare a corda singola di area balcanica, derivato dalla lira bizantina (p. 32); le parole turche loukoumìs, ‘dolcetti tipici turchi a base di aromi vari, frutta secca, zucchero a velo o farina di cocco’ (p. 30), elek, ‘setaccio’ (p. 32), khan, ‘brandelli di muro senza tetto’ (p. 167), moukres, ‘cavallari’ (p. 167), zaptiè, ‘soldato’ (p. 168), oltre agli appellativi Naby Issa, ‘profeta Gesù’ e Sitti Mariam, ‘Madama Maria’ (entrambi a p. 98); l’arabo hadgi (p. 46), con cui si indicano i pellegrini che hanno portato a buon fine un pellegrinaggio a La Mecca, narghilè (p. 59), Hattine, ‘monte delle beatitudini’
16 Su Francesco Cerlone, le sue opere e il suo tempo, si vedano in particolare Benedetto Croce, I teatri di Napoli, Napoli, Pierro, 1891; ora Milano, Adelphi, 1992, alle pp. 220-221; ulisse Prota-Giurleo, Breve storia del teatro di corte e della musica a Napoli nei sec. XVII-XVIII, nel volume Il teatro di corte del Palazzo Reale di Napoli, Napoli, Stabilimento L’Arte Tipografica, 1952, edizione limitata di 500 esemplari, pp. 131-132; Giovanni Maddaloni, La lingua dell’opera teatrale di Francesco Cerlone, Tesi di dottorato, Tutor Prof. Nicola De Blasi, Napoli, università degli studi Federico ii, 2013. Tra i testi in cui ritroviamo la figura del volantello, si possono citare L’osteria di Marechiaro, Le trame per amore, Il finto medico, Le astuzie amorose.
[ 17 ]
giovanni maddaloni924 (p. 259); il greco Panagia, ‘più grande dei cieli’, appellativo della Madonna (p. 44). Da rilevare anche l’attestazione del termine di origine persiana backschich ‘denaro pagato sottobanco’ (p. 339) per ottenere qualunque cosa, dalla scorta di un beduino all’affitto di un cavallo o di un «palanchino, per le persone pigre, o malate» (p. 339).17 Non trascurabili anche le attestazioni di onomastica tradizionale dei luoghi visitati. Possono essere citati, ad esempio, gli antroponimi Mohamed (p. 38), Ibrahim (p. 238), Ahmed (p. 343), Hassan (p. 344), Issa (p. 346) e i toponimi Ephrata (p. 161), Nahim (p. 168), Aïn-Karem (p. 173), Esdrelon (p. 227), oltre al già citato Sorìa, ‘Palestina’ (p. 41). Le conclusioni che si possono trarre, al termine di questa disamina breve e necessariamente provvisoria, vorrebbero suffragare la tesi di una oggettiva impossibilità di circoscrivere un’autrice come Matilde Serao nell’alveo, sia pure eccelso, del verismo. È indubbio che anche in quest’opera, pur proiettandosi fuori dagli ambienti romano e napoletano, la Serao non rinuncia agli strumenti narrativi a lei più congeniali, quali l’attenzione alla vita delle persone, agli ambienti, al colore locale; ma è altrettanto vero che questa propensione al realismo non è mai disgiunta da una vena sentimentale e intimista che non appartiene alla tradizione di Capuana, Verga, De roberto e nemmeno alle pagine narrative più pregevoli dello stesso Edoardo Scarfoglio. L’apertura all’oltre spirituale, nettamente in contrasto con le istanze del positivismo che tanta influenza esercitavano sul verismo in italia e, più in generale, sul naturalismo europeo, conduce la Serao al di là del realismo puro – sempre ammesso che questo sia mai esistito – e, collocandola in una posizione di radicale inappartenenza rispetto alle tendenze culturali del suo tempo, sembra farne un’antesignana di quella «malattia dell’infinito»18 che sarà uno dei tratti distintivi della cultura europea del Novecento.
Giovanni Maddaloni università Federico ii – Napoli
17 in origine, il termine indica il ‘dono’, la ‘mancia’. in senso traslato, sta ad indicare la ‘corruzione’. Con entrambi i significati, lo ritroviamo in inglese (baksheesh), in francese (bakchich), nei paesi di lingua tedesca (bakschich), nei Balcani e nei paesi che appartennero all’impero Ottomano. La forma backschich presente nel testo è, come si vede, una via di mezzo tra la grafia francese bakchich e quella tedesca bakschich e potrebbe essere frutto di una originale trascrizione del termine della Serao. 18 Pietro Citati, La malattia dell’infinito, Milano, Mondadori, 2014.
[ 18 ]
rAFFAELE GiGLiO L’abiura di Matilde Serao. Dalla Chiesa greco-scismatica alla Chiesa di Roma
Questo saggio presenta il “processetto” con il quale Matilde Serao nel 1871 abiurò la fede greco-scismatica chiedendo al Cardinale Arcivescovo di Napoli, Sisto riario Sforza, di entrare a far parte della Chiesa di roma.
★ This article contains the ecclesiastical procedure by means of which Matilde Serao in 1871 abjured her Greek-schismatic faith, requesting from the Cardinal Archbishop of Naples, Sisto riario Sforza, that she might be admitted to the Church of rome.
in questo volume sono presenti più contributi che mettono a fuoco attraverso diversi riferimenti la religiosità di Matilde Serao. Gli interventi di Donatella Trotta e di Daniela De Liso sono esaustivi per recuperare sia da lettere private sia da un’opera della scrittrice il suo sentimento religioso. La fede di donna Matilde, non certamente donna bigotta del proprio tempo, è espressione di una maturità di pensiero nata da riflessioni sui testi sacri e da “letture” del quotidiano, espresso attraverso le variegate figure femminili che animano le pagine dei suoi racconti e dei suoi romanzi. Pertanto non credo che occorra altro scritto per chiarire ed esporre il credo di una donna che manifestava un sentimento religioso eguale per intensità al suo impegno sociale per la costruzione di un mondo più equo e più vicino al dettato evangelico. Tuttavia, per ricordare anche l’impegno di Gennaro Luongo1, caro
raffaele Giglio: prof. Emerito università di Napoli Federico ii; giglio@unina.it 1 Gennaro Luongo (1943-2017), professore ordinario presso l’università di Napoli Federico ii di Agiografia e di Letteratura Cristiana Antica, co-fondatore del Coro Polifonico dell’Ateneo, aveva assunto l’incarico di Direttore del Museo Storico Diocesano all’indomani del collocamento a riposo dal ruolo accademico. in pochi anni aveva avviato una ristrutturazione dell’Archivio ed aveva organizzato una mostra dei documenti più accattivanti ritrovati dal titolo Personaggi illustri
raffaele giglio926 collega, troppo presto chiamato ad animare i prati celesti, mi soffermo a ripercorrere la fase iniziale che condusse una giovane Matilde ad intraprendere il percorso della fede della Chiesa romana e che ora possiamo conoscere in virtù del lavoro svolto dall’illustre collega nel riordinare l’Archivio Storico Diocesano di Napoli. infatti qui, tra i cosiddetti “processetti”2, si conserva anche l’abiura della religione greca scismatica presentata da Matilde Serao il 5 dicembre 1871, all’età di 15 anni, per essere accolta nella religione cristiana. La domanda è controfirmata anche dai genitori della scrittrice. il documento, che rispecchia la pratica allora in uso con la sottoscrizione ed accettazione della dichiarazione di Fede redatta da urbano Viii, conferma la confessione religiosa della Serao, poi dichiarata in modo più ampio e circostanziato attraverso la sua lunga attività di scrittrice con opere in cui il sentimento religioso non è solo componente della struttura morale dei personaggi creati dalla sua fantasia, ma è anche aperta confessione dell’anima ed elemento fondante della propria coscienza, che del sentimento religioso era stata sempre permeata. L’abiura, di cui qui di seguito offro la documentazione burocratica per le parti che la confermano, evitando di trascrivere la lunga Confessione di Fede di Urbano VIII, che corrisponde nel complesso all’attuale formula del Credo della Chiesa romana, non solo ci consente di varcare la soglia dell’anima della quindicenne postulante, ma ci ritorna utile anche per definire, attraverso la firma autografa apposta alla richiesta, l’esatto casato di Paolina, la madre di donna Matilde: Borrely Scanavy3. La storia di questo momento spirituale di Matilde è racchiuso in poche carte e si sviluppa dal 5 dicembre 1871 al maggio dell’anno successivo. Questa è la richiesta autografa presentata dalla Serao4:
della città, che doveva essere inaugurata il 22 settembre del 2017, giorno in cui, invece, furono celebrati i suoi funerali. un breve Ricordo del Luongo, scritto da Antonio V. Nazzaro, è reperibile sul sito www.societanazionalescienzeletterearti.it, in attesa della pubblicazione del volume miscellaneo in sua memoria. 2 i “processetti” contengono le pratiche burocratiche istruite dalla Curia Arcivescovile di Napoli per concedere al richiedente l’accesso ai sacramenti. il “processetto” che interessa Matilde Serao è conservato nel Fondo: Abiure e battesimi sub conditione, 1861-1881, 3 dell’Archivio Storico Diocesano di Napoli. 3 Si veda la riproduzione del documento alla fine di questo intervento. 4 Archivio Storico Diocesano di Napoli, Fondo: Abiure e battesimi sub conditione, 1861-1881, 3, c. 2.
[ 2 ]
l’abiura di matilde serao 927
Eminenza reverendissima Essendo io nata in Grecia, battezzata e cresciuta nella Chiesa Ortodossa (Greco-Scismatica) fino all’età di 16 anni5, avendo io conosciuto di non esser nella via retta – avuto il consenso dei miei genitori, padre cattolico e madre scismatica – domando di essere riunita alla Vera Chiesa Cattolica Apostolica romana. Della Eminenza Vostra Dev. ma ed umi.ma figlia Matilde Serao
i genitori dimandano come sopra Francesco Serao Paolina Serao nata Borrely-Scanavy
Napoli 5 Dicembre 1871
La domanda fu così archiviata: reg. Vol. 3 Fol. 72 N. 1730.
il 21 dicembre 1871 la richiesta fu affidata a don raffaele de Martinis, dei Signori della Missione, affinché l’oratrice fosse istruita, come avverte una nota manoscritta apposta sul lato sinistro della carta. Questa la dichiarazione inviata al Cardinale dopo l’istruzione della pratica6: A Sua Eminenza il Cardinale Arcivescovo di Napoli Eminenza Matilde Serao greca scismata, in data del 5 dicembre 1871, supplicava l’Eminenza vostra per essere riunita alla Chiesa Cattolica di rito latino. L’E. V. si degnò disporre che il sottoscritto si occupasse della istruzione dell’oratrice. il sottoscritto ha l’onore di partecipare a V. E. che la detta Serrao [sic] è completamente istruita, e fermamente deliberata ad abiurare gli errori dello scisma grego [sic]; laonde inchinandosi al bacio della sacra porpora supplica l’Eminenza Vostra, affinché disponga per l’abiura. Napoli 18 gennaio 1872 raffaele de Martinis P[adre] d[ella] Missione
5 in verità, essendo nata il 7 marzo 1856, la Serao alla data del 5 dicembre 1871 non è ancora sedicenne. 6 Archivio Storico Diocesano di Napoli, Fondo: Abiure e battesimi sub conditione, 1861-1881, 3, c. 3.
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raffaele giglio928 L’abiura avvenne il 26 maggio 1872; la Serao lesse e firmò la Confessione di fede di UrbanoVIII, che è presente in questo processetto ed occupa sette carte manoscritte. Trascrivo qui solo la parte conclusiva dove è riportata la formula del giuramento7: Questa vera fede Cattolica, fuori la quale nessuno può essere salvato, che io professo presentemente, io M[atilde] S[erao] prometto e voglio e giuro di conservarla e confessare la medesima intera ed inviolabile costantemente coll’aiuto di Dio, fino all’ultimo sospiro della mia vita e di aver cura altrettanto che sarà in me, che sia tenuta, insegnata e predicata da quelli che mi sono soggetti e la cura dei quali mi riguarderà nel mio impiego. Così iddio mi sia di aiuto ed i Santi Vangeli di Dio. Napoli il 26 maggio 1872 Matilde Serao
Segue poi la seguente attestazione8: Attesto io qui sottoscritto che per facoltà delegatami dall’Eminentissimo Cardinale Arcivescovo di Napoli ho ricevuto innanzi a tre testimoni l’abjura dello Scisma e degli errori della Chiesa Orientale Greco Scismatica della Signora Matilde Serao di Francesco, e Paolina Borrely Scanavy, secondo la formola della Professione di Fede prescritta dal Pontefice urbano Viii, dalla stessa Signora Serao recitata e sottoscritta. Ed in fede Napoli, 25 maggio 1872 Lorenzo Goffredi Sacerdte della Congregazione della Missione
Fin qui la documentazione che ci dichiara il passaggio alla Fede della Chiesa romana della Serao, nella quale le date non hanno una razionalità temporale. Noto ad esempio che il sacerdote Lorenzo Goffredi attesta che l’abiura è avvenuta il 25 maggio del 1872, mentre la firma della Serao, apposta in calce alla Confessione di Fede di Urbano VIII, e che ferma il momento dell’effettiva abiura, porta la data del giorno 26 maggio. L’istruzione religiosa della Serao avvenne in meno di un mese; infatti padre raffaele de Martinis, al quale fu affidato l’incarico in data 21 dicembre 1871, il 18 gennaio del 1872 poteva già assicurare il Cardinale Arcivescovo di Napoli, Sisto riario Sforza, che l’oratrice era
7 Archivio Storico Diocesano di Napoli, Fondo: Abiure e battesimi sub conditione, 1861-1881, 3, c. 11. 8 Archivio Storico Diocesano di Napoli, Fondo: Abiure e battesimi sub conditione, 1861-1881, 3, c. 12.
[ 4 ]
l’abiura di matilde serao 929 «completamente istruita, e fermamente deliberata ad abiurare gli errori dello scisma grego [sic]». Pur notando come alcune date riportate in calce ai documenti lasciano supporre una sorta di cammino privilegiato per l’accoglienza dell’abiura di una giovane, ancora certamente non nota a quell’altezza temporale, seppure figlia di un giornalista modesto, queste carte ci riportano una grafia della scrittrice ancora molto elementare, attestante il suo ingresso nel mondo degli alfabetizzati da pochi anni, come la sua biografia ci ha sempre tramandato.
raffaele Giglio università Federico ii – Napoli
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raffaele giglio930 [ 6 ]
La domanda presentata da Matilde Serao al Cardinale Arcivescovo di Napoli (Archivio Storico Diocesano di Napoli, Fondo: Abiure e battesimi sub conditione, 1861-1881, 3, c. 2.).
iNDiCi DELL’ANNATA 2019 (A. XLVii)
SAGGi Gianni Oliva, «Questi, che mai da me non fia diviso» (inf. V, 135) pag. 3 Gáldrick de la Torre Ávalos, Garcilaso de la Vega lettore di Vittoria Colonna: per una interpretazione del sonetto Cla- rísimo marqués, en quien derrama » 13 Alviera Bussotti, Alfieri e i soggetti storici moderni nelle pa- gine del «Conciliatore» » 41 raffaele Cavalluzzi, La vita degli uomini come “storia di sangue e corpi nudi”. Personaggi omodiegetici del Sentiero dei nidi di ragno di I. Calvino » 59 Giovanni De Leva, La guerra dei padri. Beppe Fenoglio e il pri- mo conflitto mondiale » 77 Sebastiano Valerio, Canti e silenzi dei pastori nell’Arcadia di Sannazaro » 213 Patrizia Pellizzari, Una inedita postilla e l’ultimo Alfieri li- rico fra Pindaro e Chiabrera » 233 Marco Dondero, “Apparizioni” primonovecentesche del Leo- pardi personaggio » 259 Cristina Zampese, «Un bel gesolreutt». «Il canto XVI del Tas- so» di Manzoni e Visconti » 271 Mario Cimini, Lo strano caso della Figlia di iorio: Mila di Codra “bagascia” e “creatura di Cristo” » 281 roberto Gigliucci, Pirandello e Josiah Royce » 293 Giulia Tellini, Corallina 1751-1753. Sulla Donna vendi- cativa di Goldoni » 419 Francesco roncen, L’idillio negato: bozzetti agresti e pa- storali nella poesia narrativa italiana tra Sette e Ottocento » 459 roberta Colombi, Le “prospettive” della Satira tra impe- gno e disincanto. Da Leopardi agli scrittori del risorgi- mento » 489 Chiara Piola Caselli, un’antologia foscoliana della poe- sia medievale. Prime note sulla Critical Anthology of italian Poetry pag. 507
indici dell’annata 2019 (a. xlvii)932
Angelo Fàvaro, Quella «luce di consapevolezza realistica», o l’ironia dell’Ariosto in un articolo di Alberto Moravia » 531 Antonio Lucio Giannone, il «prismatico genio»: momen- ti della ricezione letteraria di Leonardo nel Novecento » 553 Donatella Trotta, racconti di un’anima: ritratto (inti- mo) di una poligrafa » 649 Vincenzo Caputo, «Io non m’intendo di pittura». Note su letteratura e arti figurative in Matilde Serao » 679 Patricia Bianchi, La scrittura di Matilde Serao per il cinema » 693 Cristiana Di Bonito, Da Gibus a Snob: per una lettura lin- guistica di Api, mosconi e vespe al «Corriere di Napoli» » 715 Emanuela Bufacchi, Matilde Serao senza Napoli. Per una variazione nella storia (e biografia) della scrittrice » 739 Nicola De Blasi, Una fioraia: una piccola migrante dal ven- tre di Napoli al mondo di “lassù” » 767 Silvia Acocella, il ventre d’Europa. La catabasi di un’ani- ma semplice » 787 Mariella Muscariello, Declinazioni del bovarismo da Verga a Serao » 803 Donato Sperduto, Bravate e gioco del lotto nella Rabouil- leuse di Balzac e nel Paese di cuccagna di Matilde Serao » 813 Antonio Saccone, Domenico rea e raffaele La Capria lettori di Matilde Serao. una breve ricognizione » 827 Paolo Giovannetti, i ‘centri d’interesse’ del Paese di cuc- cagna e altre questioni narratologiche » 833 Filippo Pennacchio, «un pensiero sulla fronte, negli oc- chi, sulle labbra». racconto figurale e istanze melodram- matiche in Fantasia di Matilde Serao » 847 Concetta Maria Pagliuca, Forme e sostanze della psico- logia femminile nella narrativa breve di Matilde Serao » 863 Guido Scaravilli, Dal vero: casi e difetti del reflector cha- racter » 877 Daniela De Liso, Nel paese di Gesù. i luoghi nella scrittura di Matilde Serao » 893 Giovanni Maddaloni, Nel paese di Gesù di Matilde Serao: un’analisi linguistica » 907 raffaele Giglio, L’abiura di Matilde Serao. Dalla Chiesa greco-scismatica alla Chiesa di roma » 925
MEriDiONALiA Flora Di Legami, Un ironico gioco di contrappunti. il Deca- meroncino di Luigi Capuana » 93
indici dell’annata 2019 (a. xlvii) 933
Claudia Corfiati, Sannazaro e Virgilio. La poetica della dif- frazione pag. 307
CONTriBuTi Elisa Tinelli, Prolegomeni all’edizione critica del De regno et regis institutione di Francesco Patrizi da Siena » 113 Stefano Evangelista, Idealismo e modernismo nella cultura letteraria fin de siècle alla luce delle corrispondenze fogazza- riane » 135 Virginia di Martino, «In terra d’oltremare» o «in una villa solitaria»: l’esilio nei Colloqui di Guido Gozzano » 161 Carlangelo Mauro, Sull’ultimo Cucchi. Ritorno alle origi- ni senza affanno » 173 Maria Shakhray, Tra epica e storia: continuità e innovazione nel Conquisto di Granata di Girolamo Graziani e La Au- stríada di Juan Rufo » 325 Debora Carcea, Dal «secol superbo e sciocco» al «trionfo del- la spazzatura». L’ultimo Montale e il Leopardi satirico » 339 riccardo Gasperina Geroni, Donne ribelli, donne oggetto: il mondo femminile nei racconti di Alberto Moravia » 357 Francesca Fistetti, Fantasmi, simulacri, pregnant void. il pianeta azzurro di Luigi Malerba » 373 Gabriella Capozza, Galilei e la Stella nuova tra scienza e letteratura » 569 ignazio Castiglia, «L’arte drammatica incivilisce e nobi- lita le nazioni»: osservazioni sul teatro di Francesco Be- nedetti (1785-1821) » 589 Annalisa Carbone, «il desiderio di un altrove»: Calvino e «il vivere da straniero» » 615
NOTE Francesco Tateo, Fortuna di un (presunto) errore testuale: Aulo Gellio, 1, 23, 8; Giovanni Pontano, Aegidius, 44 » 191 Bruno Bonifacino, Le lettere di Elena De Bosis a Camillo Sbarbaro » 395
rECENSiONi
Gabriele d’Annunzio, «La miglior parte della mia anima». Lettere alla moglie (1883-1893), a cura di Cecilia Gibel- lini, Milano 2018 (umberto Lorini) » 197
indici dell’annata 2019 (a. xlvii)934
Fabio Moliterni, Sciascia moderno. Studi, documenti e car- teggi, Bologna 2017 (irene Pagliara) pag. 199 Clara Leri, “Questo strano, lunghissimo viaggio”. Cristina Campo tra dialogo epistolare e bellezza liturgica, Alessan- dria 2018 (Paolo L. Bernardini) » 202 C’è un lettore in questo testo? Rappresentazioni della lettura nella letteratura italiana, a cura di Giovanna rizzarel- li e Cristina Savettieri, Bologna 2016 (Alberto Com- parini) » 205 Giovanni Pontano, Actius: de numeris poeticis, de lege histo- riae, a cura di Francesco Tateo, roma, roma nel rina- scimento, 2018 («rr inedita, saggi 76») (John Butcher) » 401 Domenico Chiodo, Armida da Tasso a Rossini, Manziana, Vecchiarelli, 2018 (Giuseppe Andrea Liberti) » 406 Asteria Casadio, Ugo Piscopo tra critica e scena, Teramo, Evoé edizioni, 2018 (Franco Trifuoggi) » 408 Vetrine di cristallo. Saggi su Silvana Grasso, a cura di Gandol- fo Cascio, Venezia, Marsilio, 2018 (Mara Boccaccio) » 411 Sebastiano Grasso, È ancora tempo di arcobaleni?, Milano, ES, 2019 (Giuseppe Amoroso) » 413 Dario Malini, La Grande Guerra di Italo Svevo. La scoperta di una fonte letteraria ignota de La coscienza di Zeno, Mi- lano, ArteGrandeGuerra edizioni, 2018 (Giuseppe An- drea Liberti) » 414 Virna Brigatti, Diacronia di un romanzo.«Uomini e no» di Elio Vittorini (1944-1966), Milano 2016; Virna Brigatti, Elio Vittorini.La ricerca di una poetica, Milano 2018 (Alber- to Comparini) » 629 Franco Fortini, La guerra a Milano. Estate 1943. Edizione critica e commento a cura di Alessandro La Monica, prefazione di Stefano Carrai, Pisa 2017 (Giuseppe A. Liberti) » 631 Giampaolo Borghello, Sequenze. Percorsi, problemi e scor- ci di storia della letteratura italiana, Venezia 2019 (Giusep- pe A. Liberti) » 633 raffaele Cavalluzzi, Sogni da sogni. Studi di letteratura e cinema, Bari 2018 (Viviana Tarantino) » 638 Vetrine di cristallo. Saggi su Silvana Grasso, a cura di Gan- dolfo Cascio, Venezia 2018 (Mara Boccaccio) » 640
iNDiCE DEi COLLABOrATOri
Acocella Silvia, 787 Amoroso Giuseppe, 414
Bernardini Paolo L., 205 Bianchi Patricia, 693 Boccaccio Mara, 413, 642 Bonifacino Bruno, 395 Bufacchi Emanuela, 739 Bussotti Alviera, 41 Butcher John, 406
Capozza Gabriella, 569 Caputo Vincenzo, 679 Carbone Annalisa, 615 Carcea Debora, 339 Castiglia ignazio, 589 Cavalluzzi raffaele, 59 Cimini Mario, 281 Colombi roberta, 489 Comparini Alberto, 208, 631 Corfiati Claudia, 307
De Blasi Nicola, 767 De la Torre Avalos Galdrick, 13 De Leva Giovanni, 77 De Liso Daniela, 893 Di Bonito Cristiana, 715 Di Legami Flora, 93 Di Martino Virginia, 161 Dondero Marco, 250
Evangelista Stefano, 135
Favaro Angelo, 531 Fistetti Francesca, 373
Gasperina Geroni riccardo, 357
Giannone Antonio Lucio, 553 Giglio raffaele, 925 Gigliucci roberto, 293 Giovannetti Paolo, 833
Liberti Giuseppe Andrea, 408, 415, 633, 637 Lorini umberto, 199
Maddaloni Giovanni, 907 Mauro Carlangelo, 173 Muscariello Mariella, 803
Oliva Gianni, 3
Pagliara irene, 202 Pagliuca Concetta Maria, 863 Pellizzari Patrizia, 233 Pennacchio Filippo, 847 Piola Caselli Chiara, 507
roncen Francesco 459
Saccone Antonio, 827 Scaravilli Guido, 877 Shakhray Maria, 325 Sperduto Donato, 813
Tarantino Viviana, 640 Tateo Francesco, 191 Tellini Giulia, 419 Tinelli Elisa, 113 Trifuoggi Franco, 411 Trotta Donatella, 649
Valerio Sebastiano, 213
Zampese Cristina, 271
rEFErAGGiO 2019
«Critica letteraria» applica il criterio dei due revisori anonimi; il primo è interno al Comitato scientifico della rivista; solo dopo l’approvazione da parte dell’interno il Direttore sottopone al revisore esterno il saggio da valutare per la pubblicazione; il saggio viene inviato privo del cognome dell’autore e di ogni altra citazione che possa far risalire ad esso. i valutatori esterni sono conosciuti solo dal Direttore; ognuno si sceglie uno pseudonimo; è con questo che il Direttore comunica il risultato della valutazione all’autore del saggio.
Per l’anno 2019 hanno svolto tale attività i colleghi che hanno scelto questi pseudonimi: Agostino, Alfa!, Arcangelo Fiore, Belacqua, Cavaliere, Egmont, Contessa Lambertini, Franz Joseph, Galletta, Guglielmo Marinelli, Laelio, Lenòr, Levante, Marte, Melissa, Mhchele Strogoff, Omicron, Perelà, Pietro Meloni, Saave, Sale Marino, Sigismondo, Tom, Topo Gigio.
Questa è la tabella riassuntiva del lavoro svolto nell’anno: SAGGi: pervenuti 37 saggi; approvati dai referees interni 34; approvati dai referees esterni e pubblicati 34. MEriDiONALiA: pervenuti 3 saggi; approvati dai referees interni 3; approvati dai referees esterni e pubblicati 3. CONTriBuTi: pervenuti 19 saggi; approvati dai referees interni 11; approvati dai referees esterni e pubblicati 11. NOTE: pervenute 2 note; approvate dai referees interni 2; approvate dai referees esterni e pubblicate 2.
il Direttore responsabile di «Critica letteraria», a nome del Comitato direttivo/scientifico e dell’Editore Paolo Loffredo, ringrazia i Docenti italiani e stranieri che, generosamente, hanno accettato di collaborare alla revisione anonima dei contributi scientifici.