saggi
JANIS VANACKER
L’Orco in Matteo Maria Boiardo
e in Ludovico Ariosto: osservazioni circa
la mostruosità e il modello antico di Polifemo
This study examines the figure of the Ogre both in Matteo Maria
Boiardo’s Orlando innamorato and in Ludovico Ariosto’s Orlando furioso.
The author examines the monstrousness of the character by
taking into due account the results achieved in the field of the monster
theory, then underlines the inter-textual connections between the
two episodes dedicated to the Ogre in the literature of the Renaissance
and the classical versions of the myth of Polyphemus, with a
special regard to the representation of the monster and to the plot.
1. Introduzione
Il presente saggio mira a studiare la rappresentazione e la vicenda
dell’Orco nei poemi cavallereschi rinascimentali. L’Orco è un mostro
immaginario che viene spesso avvicinato al mitico ciclope Polifemo e
che, nella letteratura italiana, compare per la prima volta nell’Orlando
innamorato di Matteo Maria Boiardo, in un passo al quale, più tardi, si
ispirerà Ariosto per la messa in scena del personaggio corrispondente
nell’Orlando furioso. La figura dell’Orco, a tutt’oggi, non ha suscitato
grande interesse critico: concentrandosi soprattutto sul numero più
elevato di riscritture rinascimentali e barocche del mito polifemico1,
1 Quanto alle riscritture italiane rinascimentali e barocche del mito di Polifemo
(e Galatea), occorre menzionare le Stanze per la Giostra (I, ott. 115-118) di Angelo
Poliziano; il Corinto di Lorenzo de’ Medici; le Rime (Egloga quarta, Galathea) di
Bernardo Tasso; Il Polifemo (1600) di Tommaso Stigliani; le Rime boscherecce (1602) e
l’Adone (XIX, ott. 125-232) di Giambattista Marino; La Galatea (1603), una tragedia
di Pomponio Torelli; Le grotte di Fassolo (1622), un poemetto di Gabriello Chiabrera
e la Galatea (1643), un poemetto in cinque canti di Carlo de’ Dottori. Per quanto
concerne gli studi dedicati alla fortuna del mito polifemico, si vedano: M.T. Acquaro
Graziosi, Polifemo e Galatea. Mito e poesia, Roma, Bonacci, 1984; M. Dolores
Saggi
628 JANIS VANACKER
gli studiosi si sono quasi sempre riferiti all’Orco in modo indiretto e
superficiale. Le (scarse) riflessioni svolte intorno a questa creatura fantastica
sono imperniate su alcune questioni che intendiamo riconsiderare
e approfondire in questa sede: si tratta, in linea di massimo, della
mostruosità dell’Orco e dei rapporti intertestuali tra il personaggio in
Boiardo, l’omologo ariostesco e le fonti antiche dedicate a Polifemo.
2. «tanto istrana ed orrida figura2»: l’Orco boiardesco
A portare per primo sulla nostra scena letteraria l’Orco – come protagonista
autentico, e non solo come presenza obliqua e allusiva, utile
per lo più quale termine assoluto di comparazione – è com’è noto il
conte Matteo Maria Boiardo nel suo Orlando innamorato3.
Con queste parole Baldan apre l’unico saggio finora dedicato alla
figura dell’Orco nei poemi cavallereschi di Boiardo e Ariosto. L’episodio
al quale accenna lo studioso viene narrato nel terzo libro dell’Orlando
innamorato: Mandricardo e Gradasso, viaggiando in barca verso
la Francia, arrivano un giorno ad «uno ostello» (O.I. III, iii, 23, v. 5) che
a prima vista sembra un luogo desolato. L’attenzione degli uomini viene
attirata da una donna nuda legata «con catene al sasso,/ Chiedendo
morte […]» (O.I. III, iii, 24, vv. 5-6). I cavalieri apprendono che si tratta
di Lucina, la consorte del re di Damasco e che è stata catturata dall’Orco,
il terribile abitante dell’isola. Le ottave successive offrono al lettore
una descrizione del mostro visto attraverso gli occhi della sua vittima:
Dimora uno orco là sotto a quel scoglio:
Non so se altro orco voi vedesti mai,
Ma questo è sì terribile alla faccia,
Che al ricordarlo il sangue mi se agiaccia.
Apena apena che parlar vi posso,
Valencia, Trasmissione e rielaborazione del mito letterario di Polifemo nella lirica italiana
del Seicento: le Stanze pastorali di Tommaso Stigliani, «Quaderni d’italianistica» 21,
2 (2000), pp. 59-75; D. Sbacchi, Polifemo: varianti del mito da Omero a Marino, «Quaderni
d’italianistica», 23,1 (2002), pp. 49-64; M.C. Cabani, Il grande occhio di Polifemo.
Visione e voyeurismo nella tradizione barocca di un mito classico, in Id., L’occhio di
Polifemo. Studi su Pulci, Tasso e Marino, Pisa, Edizioni ETS, 2005, pp. 146-220.
2 O.I., III, iii, 39, v. 4. Eccetto indicazione contraria, tutte le citazioni dell’Orlando
innamorato sono tratte dalla seguente edizione: M. M. Boiardo, Orlando innamorato,
a cura di R. Bruscagli, Torino, Einaudi, 1995 (O.I.).
3 P. Baldan, Metamorfosi di un orco, Milano, Edizioni Unicopli, 1983, p. 9.
[ 2 ]
L’Orco in Matteo Maria Boiardo e in Ludovico Ariosto 629
Ché il cor mi trema in petto di paura.
Grande non è, ma per sei altri è grosso,
Riccia ha la barba e gran capigliatura;
In loco de occhi ha due cocole de osso,
E bene a ciò providde la natura,
Ché se lume vedesse, a tondo a tondo
Avria disfatto in poco tempo il mondo.
Né vi è diffesa, a benché non gli veda,
Ché, come io dissi, il perfido è senza occhi.
Io già lo vidi (or chi fia che lo creda?)
Stirpar le quercie a guisa de finocchi;
E tre giganti che avea presi in preda,
Percosse a terra qua come ranocchi;
Le cosse dispiccò dal busto tosto,
E pose il casso a lesso e il resto a rosto.
Però che sol se pasce a carne umana,
E tien de sangue de omo a bere un vaso.
Ma gite voi in parte più lontana,
Che quel malvagio non vi senta a naso;
A benché giace adesso nella tana,
Che per dormir là dentro si è rimaso;
Ma come se resvegli, incontinente
Al naso sentirà che quivi è gente.
E come un bracco seguirà la traccia;
Non valerà diffesa, né fuggire,
Ché cento miglia vi darà la caccia,
E converravi in tutto al fin perire.
(O.I. III, iii, 27, v. 5-31, v. 4)
Convinta di non poter tornare viva al suo paese, Lucina insiste che
gli uomini tacciano la sua sventura a suo marito, per impedire che
questo, in un tentativo di salvarla, venga ucciso dall’Orco. Mandricardo,
nonostante le proteste della «donzella», non può resistere alla tentazione
di scuotere la catena che la lega alle rocce. Al suono di una
campana l’Orco esce dalla sua tana. Gradasso riceve un colpo estremamente
violento e viene incarcerato nella spelonca del mostro, mentre
Mandricardo viene inseguito «per ogni balzo e per ogni sentiero»
(O.I. III, iii, 46, v. 3). La straordinaria scena di caccia si termina quando
il cavaliere salta un burrone che il mostro, data la sua cecità, non vede.
Il mostro cade nel precipizio, il che permette a Mandricardo di tornare
alla caverna per liberare il suo compagno. Una volta liberata Lucina,
i tre personaggi salgono a bordo della nave del padre della donna
che è apparsa improvvisamente per salvarli. L’episodio si chiude
[ 3 ]
630 JANIS VANACKER
quando l’Orco, ormai uscito dal precipizio, lancia alla barca «un gran
pezzo de monte» (O.I. III, iii, 56, v. 3) in un vano tentativo di ostacolarne
la fuga.
In questa prima sezione intendiamo esaminare l’origine e la mostruosità
della figura dell’Orco. Se l’origine etimologica del vocabolo
«Orco» – che proviene dal latino Orcus, ossia «divinità dei morti» o
«sede dei morti»4 – indica già lo stretto rapporto tra il mostro e la tematica
della morte, Baldan sottolinea che si tratta persino della «morte
stessa, intesa non come ministro che adempie dei voleri divini, ma come
selvaggia e autonoma forza brutale che azzanna in modo insensato
e imprevedibile i vivi”5. Studi folklorici dimostrano che questo personaggio
ricorre in varie tradizioni culturali e in varie epoche6. L’Orco
assume, molto spesso, il ruolo di antagonista in narrazioni che Gilmore
chiama Culture Hero myth: in queste storie, che sviluppano il tema
dell’iniziazione, un (giovane) eroe s’inoltra nella dimora di un mostro
che deve sconfiggere prima di poter riconquistare la libertà7. Questi
racconti – chiamati anche universal combat myth8 – affondano le radici
nelle religioni di civiltà arcaiche secondo le quali la destruzione di una
gigantesca figura mostruosa da parte di un eroe coincide con la fondazione
della civilizzazione umana9.
Per definire la mostruosità dell’Orco, appare opportuno considerare
gli studi svolti nell’ambito della cosiddetta monster theory10. Si ribadisce,
all’interno di questo filone critico, l’idea che il mostro11, indipen-
4 Cfr. Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, di M. Cortelazzo e P. Zolli,
2a ed. a cura di M. Cortelazzo e M.A. Cortelazzo, Bologna, Zanichelli, 2008.
5 Baldan, Metamorfosi di un orco, cit., p. 21.
6 J. Glenn, The Polyphemus Folktale and Homer’s Kyklopeia, in «Transactions and
Proceedings of the American Philological Association», 102 (1971), p. 141: «Undoubtedly
the idea of man-eating ogres (with one or more eyes) has occurred independently
to storytellers all over the world».
7 D.D. Gilmore, Monsters. Evil beings, Mythical Beasts and All Manner of Imaginary
Terrors, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 2003, p. 5; cfr. anche:
P. Orvieto, Labirinti, castelli, giardini. Luoghi letterari di orrore e smarrimento, Roma,
Salerno, 2004, p. 14.
8 Cfr. N. Cohn in Gilmore, ivi, pp. 27-28.
9 Ibidem.
10 Cfr. J.J. Cohen (ed.), Monster Theory: Reading Culture, Minneapolis, University
of Minnesota Press, 1996.
11 Si è deciso di seguire, nell’ambito del presente saggio, la definizione del mostro
proposta da Gilmore (Monsters. Evil beings, Mythical Beasts and All Manner of
Imaginary Terrors, cit., p. 6) che considera questi esseri «supernatural, mythical, or
magical products of the imagination». Mettendo in rilievo il ruolo dell’immagina-
[ 4 ]
L’Orco in Matteo Maria Boiardo e in Ludovico Ariosto 631
dentemente dal contesto storico o culturale, costituisce il risultato di
una costruzione mentale basata su schemi convenzionali12. Bisogna
accennare, a questo proposito, al «paradigma della mostruosità»13, un
concetto lanciato da R. Waterhouse, che, legando creature fantastiche
moderni, quali Dracula e Frankenstein, a Grendel, il mostro messo in
scena nel poema epico Beowulf, evidenzia la ricorrenza di alcune caratteristiche
generali all’interno della rappresentazione di figure mostruose.
I mostri, in primo luogo, sono quasi sempre degli esseri fisicamente
deformi che, comportandosi in modo ostile nei confronti degli
uomini, si rivelano allo stesso tempo profondamente malvagi14. A costituire
un componente incontestabile della mostruosità è, quindi, anche
l’idea di minaccia15. Il mostro genera nell’uomo l’angoscia perché
la sua presenza implica la possibilità di un grave danno. Il pericolo
rappresentato dal mostro può tradursi in una minaccia di morte, oppure,
a livello psicologico, nella messa a rischio dell’identità umana. A
livello collettivo si attribuisce al mostro la capacità di compromettere
l’ordine morale o il sistema sociale16: «Nell’antagonista si accumulano
e prendono forma, animale o umana, le paure e rimozioni del lettore:
è una inquietante minaccia alla pretesa di un dominio antropocentrico
nel mondo»17. Non sorprende, in quest’ultima prospettiva, che i mostri,
al solito, sono situati in luoghi geograficamente (ma anche mentalmente)
remoti. In altre parole, l’Altro, che il mostro incarna, viene
posizionato fuori o ai margini della società umana18.
zione nella creazione di figure mostruose, lo studioso esclude dalla categoria dei
mostri sia personaggi umani quali streghe, maghi o criminali, sia personaggi, che,
come gli spettri, sono in realtà uomini defunti.
12 Ibidem.
13 Cfr. R. Waterhouse, Beowulf as Palimpsest, in J. J. COHEN, Monster Theory:
Reading Culture, cit., p. 29: «the monster paradigm» (La traduzione italiana è nostra.).
14 Ivi, pp. 28-36.
15 N. Carroll, The Philosophy of the Horror or Paradoxes of the Heart, New York
and London, Routledge, 1990, p. 43.
16 Ibidem.
17 P. Orvieto, Labirinti, castelli, giardini. Luoghi letterari di orrore e smarrimento,
cit., p. 16.
18 D.D. Gilmore, Monsters. Evil beings, Mythical Beasts and All Manner of Imaginary
Terrors, cit., pp. 12-13. Cfr. anche P. Orvieto, La descrizione del difforme e del
mostruoso nella letteratura cavalleresca del Quattrocento. Lettura postcoloniale, in Ecfrasi.
Modelli ed esempi fra medioevo e rinascimento, a cura di G. Venturi e M. Farnetti,
Roma, Bulzoni, 2004, p. 165: «La letteratura europea di tutti i tempi […], per giustificare
l’invasione politica sulla base di una superiorità antropologica, ha artifi-
[ 5 ]
632 JANIS VANACKER
A completare il cosiddetto «paradigma della mostruosità» sono,
secondo Gilmore, anche due altri elementi: lo studioso pone in risalto
non soltanto la tendenza dei mostri a nutrirsi di carne umana, vale a
dire l’antropofagia, ma anche il carattere ibrido delle figure mostruose19.
L’ibridismo, ossia l’unione anormale di due o più elementi eterogenei20,
riguarda sia la combinazione di tratti (fisici e comportamentali)
umani, animali e/o di aspetti vegetali, sia la neutralizzazione di
categorie spazio-temporali oppositive quali il contrasto tra «vivo» e
«morto» o quello tra «dentro» e «fuori»21. Gli esseri immaginari che
rientrano in questa classe sono chiamati da Carroll fusion figures: secondo
lo studioso queste creature vanno distinte da un secondo gruppo
di mostri ai quali appartiene, ad esempio, il lupo mannaro, e che
dissocia identità o concetti spazio-temporali attraverso il procedimento
di scissione (fission)22.
Nonostante il carattere universale di tutte queste caratteristiche, la
capacità dei mostri di confondere o disintegrare categorie tradizionali
rende particolarmente complesso il lavoro di classificazione23. Sebbecialmente
costruito e discriminato l’Altro, genericamente definibile con Edward
Said come ‘orientale’: il selvaggio, il non-evoluto e, come alieno maschile – anche
nel nostro caso della letteratura cavalleresca –, il mostruoso e il difforme o, nel caso
del genere femminile, la conturbante e sempre sessualmente disponibile donnabambina
».
19 D.D. Gilmore, Monsters. Evil beings, Mythical Beasts and All Manner of Imaginary
Terrors, pp. 6-9.
20 Cfr. J. Vanacker, L’hybride dans les traductions des Métamorphoses: le mythe
d’Actéon, in Ovide, figures de l’hybride, H. Casanova-Robin (ed.), Paris, Champion,
2009, p. 361: “l’association composite de deux éléments ou plus de nature hétérogène,
anormalement réunis”. La traduzione italiana è nostra.
21 N. Carroll, The Philosophy of the Horror or Paradoxes of the Heart, cit., p. 43.
22 Ivi, p. 46: «In fusion, categorically contradictory elements are fused or condensed
or superimposed in one unified spatio-temporal being whose identity is
homogeneous. But with fission, the contradictory elements are, so to speak, distributed
over different, though metaphysically related, identities. The type of creatures
that I have in mind here include doppelgangers, alter-egos, and werewolves».
23 Cfr. J.J. Cohen, Monster Theory: Reading Culture, cit., p. 6: «The monster always
escapes because it refuses easy categorization». (Il corsivo è nostro.) D. Williams
(Deformed Discourse. The Function of the Monster in Mediaeval Thought and Literature,
Montreal, McGill-Queen’s University Press, 1996, p. 107) considera la classificazione
dei mostri un’opera paradossale: «The attempt to create a system of
descriptive categories for that which exists to resist and confound systematization
involves an obvious contradiction, but in the building of taxonomies of the monster,
the contradiction seems not to have been felt very sharply. Numerous systems
have been put forward, either in ignorance of the absurdity involved, or, in some
cases perhaps, with delicate sensitivity to the irony that in attempting to describe
[ 6 ]
L’Orco in Matteo Maria Boiardo e in Ludovico Ariosto 633
ne sia possibile basare la nostra lettura su di un’altra tassonomia, il
quadro appena tracciato risulta uno strumento utile nell’analisi del
personaggio dell’Orco dal momento che prende in considerazione la
condotta e le proprietà fisiche del mostro24.
Se, secondo la definizione di M. Bal, la descrizione è un frammento
testuale in cui si attribuiscono delle caratteristiche a degli oggetti25, ci
concentreremo, in un primo tempo, sui passi descrittivi nell’episodio
boiardesco (O.I., III, iii, 27-31; 38-39) per sapere se e in che modo l’Orco
corrisponda con la classificazione dei mostri appena discussa. La prima
descrizione compare nel monologo di Lucina, la seconda viene
pronunciata dal narratore. Si noti che la dama accenna prima alla terribilità
della creatura che l’ha catturata:
Non so se altro orco voi vedesti mai,
Ma questo è sì terribile alla faccia,
Che al ricordarlo il sangue mi se agiaccia.
Apena apena che parlar vi posso,
Ché il cor mi trema in petto di paura.
(O.I., III, iii, 27, vv. 6-8 – 28, vv. 1-2).
Questi versi fanno apparire in filigrana la Divina Commedia: tre elementi,
ossia l’allusione alla paura, il ruolo della memoria che riaccende
il turbamento e le difficoltà di testimoniare di un’esperienza orrenda,
richiamano a memoria l’esordio dell’Inferno dantesco26.
La prima caratteristica fisica del terribile orco appare la sproporzione:
il mostro – che non è alto «ma per sei altri […] grosso» (ott. 28,
v. 3) – ha il gozzo «grande a mezo il petto» (ott. 38, v. 4) e ciascun dito
grande «quanto una gamba» (ott. 39, v. 1). Si tratta, inoltre, di un essere
cieco – ha «in loco de occhi […] due cocole de osso» (ott. 28, v. 5) – e
coperto di lunghi peli («riccia ha la barba e gran capigliatura», ott. 28,
the monster that is itself paradox, the paradox of taxonomy finds its justification».
24 Riferendosi alle Etymologiae di Isidoro di Siviglia, Williams (Ivi., p. 108) parte
dall’idea che il corpo umano costituisce un modello rilevante per la classificazione
dei mostri: la tassonomia da lui proposta (pp. 107-176) si fonda sulla parte del
corpo maggiormente deformato (la statura, la testa, la bocca, gli occhi, gli orecchi
e le labbra ecc.) e valorizza soprattutto le caratteristiche fisiche dei mostri.
25 M. Bal, Narratology. Introduction to the Theory of Narrative, Toronto, University
of Toronto Press, 2009 (1a ed. 1985), p. 36: «I will (…) define a description as a
textual fragment in which features are attributed to objects».
26 Cfr. Inf., vv. 4-6: «Ahi quanto a dir qual era è cosa dura/ esta selva selvaggia
e aspra e forte/ che nel pensier rinova la paura!» (Si cita da Dante Alighieri, Inferno,
a cura di E. Pasquini e A. Quaglio, Roma, Garzanti, 2000 (1a ed. 1982).
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634 JANIS VANACKER
v. 4; «Longhi una spanna ha e peli in ogni ciglio», ott. 38, v. 8): quest’ultima
caratteristica suscita l’immagine di un animale. A confermare
l’associazione all’universo ferino sono inoltre le zanne («E denti ha for
di bocca, come il porco», ott. 38, v. 5), il «muso» (ott. 38, v. 6) e l’olfatto
particolarmente fine: l’Orco, «che sol se pasce a carne umana» (ott. 30,
v. 1), annusa gli uomini che si avvicinano alla sua tana (ott. 30, vv. 5-8).
Una volta sentito l’odore umano, egli esce dalla spelonca e, «come un
bracco» (ott. 31, v. 1), segue la traccia finché sia in grado di catturare la
sua preda. Il mostro si conduce in modo estremamente aggressivo: la
sua forza fisica gli permette di «stirpar le quercie a guisa de finocchi»
(ott. 29, v. 4) e di percuotere a terra dei giganti come fossero «ranocchi»
(ott. 29, v. 6). Il carattere repellente della figura viene evidenziato dal
riferimento al corpo sporco che manifesta anche le tracce della sete di
sangue («Né vi crediati che abbi il muso netto,/ Ma brutto e lordo e di
sangue vermiglio», ott. 38, vv. 6-7; «e negre l’ungie e piene di sozzura
», ott. 39, v. 2).
Nelle descrizioni dell’Orco ritroviamo tutte le caratteristiche tradizionalmente
attribuite ai mostri immaginari: egli si rivela un essere
morfologicamente deforme, un antropofago profondamente crudele
che viene accostato a porci e a cani da caccia. Salta agli occhi, anche
nelle ottave che circondano i passi descrittivi, l’insistenza sulla ferinità.
Nell’ultima parte dell’episodio, ad esempio, il narratore si serve del
procedimento della similitudine per evocare il comportamento animale
dell’Orco. Quando Mandricardo, cercando di ferire l’antagonista
colossale, gli lancia addosso una pietra, il paladino accende l’ira del
mostro in modo tale che questo «come un verro, ha la schiuma alla
bocca» (ott. 43, v. 8). Mandricardo fugge, mentre l’Orco «dietro al cavalier
par che se metta,/ Come un seguso a l’orme de una fiera (ott. 44,
vv. 1-2). Nella scena finale, quando il mostro getta «un pezzo de monte
» alla barca del padre di Lucina, il narratore afferma: «E tanto passa,
che va come il buffolo,/ Che il muso ha fuori e i piedi in su la sabbia»
(ott. 57, vv. 1-2).
Se, come segnalavano già gli antichi manuali di retorica, la descrizione
(ecfrasi o ipotiposi) assume il ruolo di porre davanti agli occhi la
realtà evocata27, il lettore, visualizzando l’Orco, non ha quindi l’im-
27 Cfr. B. Mortara Garavelli, Manuale di retorica, Milano, Bompiani, 2005, p.
238: «È il “porre davanti agli occhi”, in evidenza, appunto, l’oggetto della comunicazione,
mettendone in luce particolari caratterizzanti, per concentrare su di esso
l’immaginazione (phantasia, in greco; visio, in latino) dell’ascoltatore, la sua capacità
di raffigurarsi nella mente ciò di cui si parla, di tradurre le parole in immagini».
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L’Orco in Matteo Maria Boiardo e in Ludovico Ariosto 635
pressione di «vedere» una persona umana: dal punto di vista fisico,
nessun elemento nelle descrizioni fa presumere che il mostro abbia un
corpo umano normale. A livello comportamentale, inoltre, non si può
affermare che l’Orco – che incarcera e cucina le vittime catturate (ott.
29, vv. 7-8) – rispetti le regole di condotta generalmente osservate in
una comunità umana: manifestando comportamenti umani aberranti,
il personaggio conferma la tesi secondo la quale i mostri immaginari
rappresentano metaforicamente le proprietà e gli istinti dell’uomo che
vanno respinti o eliminati28. Non sorprendono, in questa prospettiva,
gli aggettivi sostantivati – «il perfido» (ott. 29, v. 2); «quel malvagio»
(ott. 30, v. 4); «quel perverso» (ott. 45, v. 2) – utilizzati da Lucina e dal
narratore per indicare il colosso boiardesco.
3. Modelli dell’Orco boiardesco
La seconda problematica che intendiamo affrontare concerne le
fonti alle quali si è ispirato il Conte di Scandiano sia per la rappresentazione
dell’Orco, che per la vicenda sviluppata intorno al personaggio.
Pio Rajna, nel suo ormai classico saggio dedicato alle fonti dell’Orlando
furioso, segnala due analogie in merito al rapporto tra l’Orco
boiardesco e la figura antica di Polifemo. Senza riferirsi a testi classici
precisi, lo studioso afferma: «Nella composizione di Matteo Maria era
entrato come elemento Polifemo; ché l’Orco è cieco (…), e lancia dietro
alla nave fuggitiva uno smisurato macigno […]»29. Secondo Baldan,
Boiardo ha «inserito l’autonoma e folklorica figura dell’Orco in un
contesto memore di echi polifemici»30. In altre parole, la vicenda del
mostro richiama quella di Polifemo nell’Eneide di Virgilio e nelle Meta-
Si veda anche la definizione di ecfrasi fornita dal retore Ermogene citata da P. Galand-
Hallyn (Le reflet des fleurs. Description et métalangage poétique d’Homère à la
Renaissance, Genève, Droz, 1994, p. 10): “L’ekphrasis est un discours narratif détaillé,
vivant […] et mettant sous les yeux ce qu’il montre. On fait des descriptions tant
de personnes que d’événements, de saisons, d’états, de lieux et de nombreux autres
sujets […]».
28 Cfr. D.D. Gilmore, Monsters. Evil beings, Mythical Beasts and All Manner of
Imaginary Terrors, cit., p. 4: «most authorities agree that imaginary monsters provide
a convenient pictorial metaphor for human qualities that have to be repudiated,
externalized, and defeated, the most important of which are aggression and sexual
sadism, that is, id forces».
29 P. Rajna, Le fonti dell’Orlando furioso, Firenze, Sansoni, 1975, p. 282.
30 P. Baldan, Metamorfosi di un orco, cit., p. 94.
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morfosi ovidiane, mentre la mostruosità dell’Orco «attinente all’orizzontale,
al gonfio, al vasto»31 e la messa in scena di una «vergine rapita
e tenuta con la forza»32 sono due elementi da «ricollocare (…) nel
cuore più antico della fiaba»33. Nell’ultima parte del suo saggio, però,
Baldan sfuma la sua analisi osservando che
anche dietro l’orrenda creatura dell’Innamorato si profila l’ombra del
solito Polifemo. Non tale da pregiudicare il reale significato dell’episodio,
ma comunque avvertibile, sia pure come eco libresca e non modello
a tutto tondo […]34.
Le osservazioni imprecise degli studiosi indicano la necessità di un
esame più approfondito dei testi antichi dedicati a Polifemo. La prima
versione letteraria conosciuta risale ad Omero che, nel nono libro
dell’Odissea, narra l’avventura vissuta da Ulisse e i compagni di viaggio
nella terra dei Ciclopi (Od. IX, vv. 105-566). All’inizio dell’episodio
il poeta offre – tramite il narratore che coincide con Ulisse – una descrizione
della razza dei Ciclopi:
Di là navigammo avanti, sconvolti nel cuore,
e dei Ciclopi alla terra, ingiusti e violenti,
venimmo, i quali fidando nei numi immortali,
non piantano pianta di loro mano, non arano;
ma inseminato e inarato là tutto nasce,
grano, orzo, viti […]
Non hanno assemblee di consiglio, non leggi,
ma degli eccelsi monti vivono sopra le cime
in grotte profonde; fa legge ciascuno
ai figli e alle donne, e l’uno dell’altro non cura.
[…]
Non hanno i Ciclopi navi dalle guance di minio,
non mastri fabbricatori di navi ci sono […]
(Od. IX, vv. 105-115; vv. 125-126)35
31 Ivi, p. 15.
32 Ivi, p. 17.
33 Ibidem; Cfr. Quanto all’Orco boiardesco, si consulti anche p. 18: “Il suo Orco
esce volutamente, con tutta la sua carica demonica e con una selvaggia violenza
icastica, dal mondo degli incubi popolari venendone qui a rappresentare anche un
prezioso documento storico-culturale”.
34 Ivi, pp. 93-94.
35 Si cita dalla traduzione italiana che compare nella seguente edizione: Omero,
Odissea, Testo originale a fronte, trad. di R. Calzecchi Onesti, Torino, Einaudi,
1989.
[ 10 ]
L’Orco in Matteo Maria Boiardo e in Ludovico Ariosto 637
Il filo conduttore, all’interno di questo passo, è costituito dalla totale
assenza di una società civile: i Ciclopi sono definiti in modo negativo
– si noti la ripetizione dell’avverbio «non» – attraverso gli aspetti
della civiltà umana che ignorano, cioè l’agricoltura, la viticoltura, la
legislazione e la navigazione36. Una volta scoperta la spelonca di Polifemo,
Ulisse descrive il personaggio in questi termini:
Qui un uomo aveva tana, un mostro, che greggi
pasceva, solo, in disparte, e con gli altri
non si mischiava, ma solo viveva, aveva animo ingiusto.
Era un mostro gigante; e non somigliava
a un uomo mangiatore di pane, ma a picco selvoso
d’eccelsi monti, che appare isolato dagli altri.
(Od. IX, vv. 187-192)
Le difficoltà di definire l’identità del Ciclope – è un uomo, un animale,
un mostro o un gigante? – si spiegano con il carattere ibrido di
questa figura, una caratteristica che appare dalle sue attività (la custodia
del gregge) e il modo di vivere (la vita solitaria, la tana). Dal punto
di vista della fisionomia, la descrizione omerica si rivela molto vaga:
se ne deduce solo che Ulisse sta per incontrare un pastore gigantesco.
Ci si chiede come visualizzare, ad esempio, la testa, il busto o le arti
del Ciclope. Sorprende, a questo proposito, il fatto che il narratore non
alluda all’unico occhio del mostro, una caratteristica molto tipica del
corpo ciclopico e che è ritenuta da numerosi autori posteriori ad Omero.
La creatura monoculare rappresenta una chiara aberrazione rispetto
alla norma rappresentata dall’uomo binoculare. Il silenzio su quest’aspetto
fondamentale della mostruosità può spiegarsi in due modi:
oppure il poeta credeva che il pubblico antico si fosse già abbastanza
familiarizzato con il personaggio monocolo, oppure egli aveva l’intenzione
di evidenziare altre caratteristiche, quali la rozzezza e la vita
solitaria. Molto illustrativo, a questo proposito, risulta l’associazione
di Polifemo alla cima boscosa di una montagna. L’evocazione del paesaggio
alpestre consolida in modo poetico l’immagine del Ciclope
solitario sviluppata sin dall’inizio dell’episodio.
Occorre precisare che, nell’Odissea, la questione della mostruosità
di Polifemo viene legata anche al motivo dono ospitale. Quando Ulisse,
rinchiuso nell’antro del Ciclope, chiede un dono in segno di bene-
36 Cfr. S. Clay Scott, Man, Mind, and Monster: Polyphemus from Homer through
Joyce, «Classical and Modern Literature: a Quarterly», 16 (1995), n. 1, pp. 23-25.
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638 JANIS VANACKER
volenza, il colosso agguanta e mangia due dei compagni. Il giorno
dopo il pastore gigantesco promette a Ulisse – che nel frattempo si è
identificato falsamente come «Nessuno» – che il dono ospitale consisterà
nell’essere mangiato per ultimo (Od. IX, vv. 369-370). Com’è noto,
Ulisse inventa uno stratagemma: dopo aver ubriacato il mostro,
egli spinge, con l’aiuto dei compagni, un palo d’ulivo appuntito e infuocato
nell’unico occhio del Ciclope (Od. IX, vv. 375-394). Gli Achei
riescono a fuggire dalla spelonca legandosi ai corpi delle pecore o, nel
caso di Ulisse, afferrando la pancia di un ariete.
Se il rifiuto di offrire un dono ospitale testimonia della primitività
di Polifemo, occorre sottolineare, tuttavia, che il mostro manifesta alcune
caratteristiche tipiche dell’uomo evoluto. Si pensi, ad esempio,
alla comunicazione linguistica che svolge un ruolo centrale nell’episodio
omerico. La conversazione tra Ulisse e il gigante (Od. IX, vv. 252-
286; vv. 347-370), il breve dialogo tra questo e i simili (Od. IX, vv. 403-
412) e l’apostrofe rivolto al montone (Od. IX, vv. 447-460) indicano che
Polifemo dispone del dono della parola. I numerosi riferimenti, inoltre,
alle attività pastorali del mostro (pascolare il gregge, mungere le
pecore ecc.) suscitano subito l’immagine di un pastore dalle fattezze
umane37. Le parole patetiche, infine, che il Ciclope rivolge all’ariete,
esprimono un autentico sentimento di tenerezza che contrasta con
l’immagine del cannibale spietato38.
In epoca romana l’episodio di Polifemo viene riscritto da Virgilio
nell’Eneide (III, vv. 554-691). Come sostiene Glenn, il Ciclope messo in
scena nel poema latino rimane fedele all’omologo omerico nel senso
che in ambedue i poeti evocano un essere profondamente ambivalente:
si tratta, in entrambi i casi, di una creatura malvagia e aggressiva,
ma che, visto il rapporto affettivo con il gregge, manifesta anche un
lato umano39. Nel terzo libro dell’epopea Enea e i suoi compagni di
viaggio sbarcano in Sicilia, dove incontrano Achemenide, uno dei
compagni di Ulisse che è stato abbandonato nel corso della fuga
dall’isola dei Ciclopi. Nel resoconto della sua vicenda (En. III, vv. 613-
654), Achemenide presenta Polifemo come un gigantesco pastore mo-
37 J. Glenn, Virgil’s Polyphemus, «Greece and Rome», 19 (1972), n. 1, p. 35.
38 Ivi, p. 59; Si veda anche S. Clay Scott, Man, Mind, and Monster: Polyphemus
from Homer through Joyce cit., p. 46.
39 J. Glenn, Virgil’s Polyphemus, cit., p. 59: «Both poets depict a fiendish, brutal
ogre, but they memorably enrich their characterization by showing a human, pathetic
side of the blinded giant, racked with pain, seeking consolation in his animals
».
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L’Orco in Matteo Maria Boiardo e in Ludovico Ariosto 639
nocolo con cui è difficile interagire e che mangia la carne umana40. La
mostruosità fisica del Ciclope accecato contrasta con la sua (patetica)
ricerca di consolazione presso le pecore:
Gli manca la vista, è un mostro deforme, smisurato;
avanza tenendo in mano il tronco d’un pino, che serve
a dar fermezza ai suoi passi, gli stanno intorno le pecore,
unico suo piacere, unico suo conforto…
(En. III, vv. 658-661)41
Oltre l’Eneide, la figura di Polifemo costituisce una fonte d’ispirazione
per due episodi nelle Metamorfosi di Ovidio. Nel libro quattordicesimo
del poema il personaggio Achemenide prende di nuovo la parola:
questa volta Enea e i suoi compagni raggiungono la città di Cuma
dove incontrano Macareo, un altro membro dell’equipaggio di Ulisse
rimasto in Italia. Macareo riconosce Achemenide e lo invita a narrare
la sua vicenda (Met. XIV, vv. 167-222). Il resoconto dell’Achemenide
ovidiano, che racconta solo gli eventi accaduti dopo l’evasione degli
Achei, desta grande orrore per via della continua insistenza sulla crudeltà
e l’omofagia di Polifemo. Non troviamo, in questo passo, nessun
riferimento alle attività pastorali del Ciclope. A costituire il filo conduttore
dell’episodio, invece, è l’angoscia di Achemenide provocata
dalla minaccia di venir mangiato vivo dal colosso42. Se Ovidio mette in
40 En. III, vv. 619-622: «[…] Ipse arduus, altaque pulsat/ sidera […]/ nec visu
facilis nec dictu adfabilis ulli;/ visceribus miserorum et sanguine vescitur atro».
trad. it.: «Lui è così alto che tocca/ le stelle sublimi […] nessuno può vederlo,/
nessuno può parlargli. Si ciba delle viscere/ e del sangue dei miseri che riesce a
acchiappare»; vv. 635-637: «et telo lumen terebramus acuto/ ingens quod torva
solum sub fronte latebat,/ Argolici clipei aut Phoebeae lampadis instar». trad. it.:
«bucammo con un palo appuntito/ il solitario occhio che gli stava nascosto/ sotto
la fronte torva, come uno scudo argivo/ o come il disco del sole»; vv. 641-642:
«Nam qualis quantusque cavo Polyphemus in antro/ lanigeras claudit pecudes
atque ubera pressat,/ centum alii curva haec habitant ad litora vulgo/ infandi
Cyclopes et altis montibus errant», trad. it.: «Almeno cento altri orribili Ciclopi/
abitano su questi curvi lidi, qua e là/ ed errano per gli alti monti, tutti grandissimi/
spaventosi e feroci, eguali a Polifemo/ che chiude nella caverna le pecore e le
munge». Tutte le citazioni dall’Eneide nonché le traduzioni italiane sono tratte da:
Virgilio, Eneide, trad. di C. Vivaldi, Milano, Garzanti, 2008 (1a ed. 1990).
41 «monstrum horrendum, informe, ingens, cui lumen ademptum/ Trunca
manum pinus regit et vestigia firmat;/ lanigerae comitantur oves; ea sola voluptas/
solamenque mali».
42 Met. XIV, vv. 167-168: «[…] Iterum Polyphemon et illos/ adspiciam fluidos
humano sanguine rictus». Trad. it.: «[…] Che io torni a vedere Polifemo/ e quel
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640 JANIS VANACKER
rilievo l’atrocità degli atti cannibalistici, non sorprende il fatto che il
mostro da lui descritto, pur disponendo del dono della parola, si serve
soltanto della comunicazione linguistica per esprimere, nei confronti
degli Achei, il desiderio di una vendetta sanguinolenta43.
Nel libro precedente (Met. XIII, vv. 750-897) Polifemo appare il protagonista
di una vicenda che integra la tradizione epica nella versione
idillica che, sin da Teocrito, descrive l’amore non corrisposto del Ciclope
per la ninfa Galatea44. Sviluppando il tema del triangolo amoroso,
Ovidio evoca gli amori di Galatea e Aci, che viene brutalmente
ucciso da Polifemo. Baldan intravvede un legame significativo tra l’indole
dell’Orco boiardesco e l’atteggiamento ostile del Ciclope nei confronti
dell’amante. Bisogna precisare, però che, nonostante le somiglianze
fisiche con l’omologo omerico, la passione amorosa per la ninfa
trasforma il personaggio in un essere tormentato che trascura il
suo ceffo grondante di sangue umano»; vv. 174-175: «ille dedit, quod non anima
haec Cyclopis in ora/venit […]». Trad. it.: «Grazie a lui, quest’anima mia non è finita
in bocca al Ciclope»; vv. 198-203: «[…] Me luridus occupat horror/ spectantem
vultus etiamnum caede madentes/ crudelesque manus et inanem luminis orbem/
membraque et humano concretam sanguine barbam./ Mors erat ante oculos, minimum
tamen ipsa malorum./ Et iam prensurum, iam nunc mea viscera rebar/ in
sua mersurum […]». Trad. it.: «[…] Io livido inorridisco,/ mentre osservo il suo
volto ancora fradicio di strage,/ le mani spietate, l’orbita vuota del suo occhio,/ le
sue membra e la barba incrostata di sangue umano./ Avevo la morte davanti agli
occhi e pur era il male minore./ Già temevo che mi ghermisse, che ingoiasse nelle
sue/ le mie viscere […]»; vv. 210-215: «Me tremor invasit: stabam sine sanguine
maestus,/ mandentemque videns eiectantemque cruentas/ ore dapes et frustra
mero glomerata vomentem/ talia fingebam misero mihi fata parari;/ perque dies
multos latitans omnemque tremescens/ ad strepitum, mortemque timens […]».
Trad. it.: «Mi prese un tremito; abbattuto, esangue stavo lí/ a vederlo masticare e
sputare cibo/ sanguinolento, a vederlo vomitare bocconi insieme al vino,/ e immaginavo
che avrei fatto la stessa misera fine./ Per molti giorni mi tenni nascosto,
ansando al minimo fruscio,/ con la paura della morte […]». Tutte le citazioni dalle
Metamorfosi nonché le traduzioni italiane sono tratte dalla seguente edizione: Ovidio,
Metamorfosi, trad. di M. Ramous, Milano, Garzanti, 2000.
43 Met. XIV, vv. 192-197: «[…] “O, si quis referat mihi casus Ulixen,/ aut aliquem
e sociis, in quem mea saeviat ira,/ viscera cuius edam, cuius viventia dextra/
membra mea laniem, cuius mihi sanguis inundet/ guttur et elisi trepident sub
dentibus artus,/ quam nullum aut leve sit damnum mihi lucis ademptae!”». Trad.
it.: «“Oh se la fortuna mi riportasse qui Ulisse/ o qualcuno dei suoi compagni, per
sfogare la mia rabbia,/ per mangiarne le viscere, per dilaniarlo vivo/ con queste
mani, per saziare la mia gola col suo sangue/ e sentirmi palpitare sotto i denti le
membra stritolate!”»
44 Cfr. S. Clay Scott, Man, Mind, and Monster: Polyphemus from Homer through
Joyce, pp. 53-56.
[ 14 ]
L’Orco in Matteo Maria Boiardo e in Ludovico Ariosto 641
gregge (Met. XIII, v. 763) e che non prova più il desiderio di nutrirsi di
carne umana45. Questi cambiamenti comportamentali introdotti da
Ovidio non fanno che allontanare il Ciclope dal mostro omofago
nell’Orlando innamorato.
Il confronto tra le fonti antiche e il poema boiardesco rivela però
che Polifemo – almeno la variante epica – condivide con l’Orco quattrocentesco
le caratteristiche universali della mostruosità: si tratta, in
ambedue i casi, di un cannibale malevole e fisicamente difforme. Dietro
il Ciclope (epico) e l’Orco si delinea senza dubbio il medesimo archetipo,
cioè un mostro smisurato e eccessivamente aggressivo che
minaccia di morte ognuno che invade il suo territorio. Una lettura più
approfondita dimostra però che ogni autore pone in risalto un altro
aspetto della mostruosità. Se in Omero il Ciclope significa «la quintessenziale
senofoba interpretazione dello straniero»46, in Ovidio egli viene
presentato come un terribile antropofago o come un amante infelice,
mentre in Boiardo l’Orco appare in primo luogo una creatura ferina.
A livello corporeo, la fisionomia robusta e animale dell’Orco diverge
in modo sostanziale da quella del gigante monocolo evocato dai
poeti classici: come indicano Pio Rajna e Baldan, la fonte d’ispirazione,
per quest’ultimo aspetto, è costituita molto probabilmente dalla tradizione
fiabesca. Dal punto di vista comportamentale, il rapporto tra il
Ciclope e l’Orco si rivela determinato dal grado di umanità: più Polifemo
manifesta caratteristiche umane (custodia del gregge, comunicazione
linguistica, affetto per animali o amore per una ninfa), più egli si
allontana dal mostro crudele messo in scena dal Conte di Scandiano.
Dal punto di vista dell’intreccio, Baldan indicava giustamente il
rapporto intertestuale tra la storia dell’Orco e quella ovidiana del Polifemo
innamorato. Per la scena dell’inseguimento di Mandricardo e
per quella del lancio del «gran pezzo de monte» – che riprende, come
segnala Baldan, quasi alla lettera il testo antico47 – Boiardo attinge
molto probabilmente dalle Metamorfosi (XIII) dove Polifemo insegue
Aci prima di ucciderlo.
45 Met. XIII, vv. 768-769: «caedis amor feritasque sitisque inmensa cruoris/ cessant,
et tutae veniunt abeuntque carinae». Trad. it.: «Il gusto della strage, la ferocia
e la sete immensa di sangue/ svaniscono; le navi vanno e vengono sicure».
46 J.J. Cohen, Monster Theory: Reading Culture, cit., p. 14.
47 Cfr. Met. XIII, vv. 882-884: «Insequitur Cyclops partemque e monte revulsam/
mittit, et, extremus quamvis pervenit ad illum/ angulus e saxo, totum tamen
obruit Acin». Trad. It.: «Il Ciclope l’insegue e, staccato un pezzo di monte,/ glielo
scaglia contro: benché soltanto lo spigolo esterno/ del masso lo colpisca, Aci ne
viene del tutto travolto». I corsivi sono nostri.
[ 15 ]
642 JANIS VANACKER
Occorre segnalare, però, che, per quanto concerne il rapporto tra
Boiardo e l’Eneide, il poeta italiano non si è ispirato ad un solo passo
(III, vv. 655-681)48. Per comprendere pienamente l’influsso dell’episodio
di Achemenide in Virgilio, è necessario concentrarsi sulla figura di
Lucina. Baldan situa il personaggio femminile nell’evoluzione, osservabile
all’interno del genere fiabesco, dalla «moglie-vittima» alla «moglie-
complice»49. Secondo lo studioso, la presenza, in Ariosto, di
una moglie a disagio nei confronti del “legittimo” consorte, subdola
verso lui quanto invece è premurosa verso il rivale del marito, presuppone
in una fase più arcaica una ragazza presa, contro la sua volontà,
a viva forza da un bruto che poi ha regolarizzato la sua posizione50.
Quanto a Lucina, egli afferma: «Sospettiamo però, […], che il Boiardo
si rifacesse a scaturigini fiabesche più antiche (fase della vergine
rapite e tenuta con la forza) […]»51. Un confronto tra l’episodio nell’Orlando
innamorato e quello virgiliano rivela però delle analogie tra il
caso di Lucina e quello di Achemenide. Mandricardo e Gradasso raggiungono
in barca il territorio dell’Orco dove vedono una «dama
ignuda e scapigliata», che, essendo separata dai prossimi, e temendo
una morte atroce, esprime il desiderio di morire: «Morte, – diceva – o
tu, morte, me aiuta,/ Ché ogni altra spene è ben per me perduta!» (O.I.
III, iii, ott. 24, vv. 7-8). La donna chiede ai cavalieri di ucciderla cosicché
non sarà divorata dall’Orco: «[…] Deh! Per pietate/ Tagliatime
qua tutta con le spate./ E se il celo o fortuna vôl che io pèra,/ Per le
man de omo almen possa perire,/ Né divorata sia a quella fiera,/ Ché
peggio assai è il strazio che il morire» (O.I. III, iii, ott. 25, v. 8-26, vv.
1-4). Il medesimo argomento – la preferenza di venir ucciso da uomini
e non da un mostro omofago – viene formulato da Achemenide, l’uomo
selvaggio incontrato da Enea il giorno dopo l’arrivo in Sicilia:
«Gettatemi a pezzi nelle onde,/ allora, affogatemi in mare. Se devo
proprio morire/ voglio almeno morire per mano di esseri umani!»52.
48 P. Baldan, Metamorfosi di un orco, cit., p. 93: “Si sarebbe anzi tentati di spiegare
l’estrema minaccia dell’Orco e tutto il contesto, ipotizzando da parte del Boiardo
una contaminatio operata attingendo dai vv. 655-681 di Eneide, III, e dai vv.
870-884 di Metamorfosi, XIII”.
49 Ivi, p. 16.
50 Ibidem.
51 Ivi, p. 17.
52 En. III, vv. 604-606: «Pro quo, si sceleris tanta est iniuria nostri,/ spargite me
in fluctus vastoque immergite ponto;/ si pereo, hominum manibus periisse iuvabit
».
[ 16 ]
L’Orco in Matteo Maria Boiardo e in Ludovico Ariosto 643
Le parole del Greco, la situazione pericolosa in cui egli si trova, oltre
che il ruolo di Enea nel salvare la vita del povero: sono altrettanti elementi
riecheggiati dalla storia dell’Orco e che dimostrano che Boiardo,
mettendo in scena Lucina, propone in realtà una nuova versione
di Achemenide.
Se, almeno dal punto di vista della vicenda, il Polifemo virgiliano
appare un modello per l’episodio dell’Orco, bisogna segnalare, per la
completezza della nostra lettura, che un altro passo dell’Orlando innamorato
richiama la versione omerica. Nel primo libro del poema un
frate narra a Orlando, appena imprigionato da Zambardo, come era
riuscito una volta a fuggire dalla caverna di un «un gigante troppo
smisurato» (O.I. I, vi, ott. 24, v. 2) grazie all’aiuto di Dio. Lo sbranamento
di «un nostro fraticel […]» (O.I. I, vi, ott. 25, v. 4) da parte del
mostro che «Un occhio solo aveva in mezo al fronte» (O.I. I, vi, ott. 24,
v. 3) non può che ricordare gli atti omofaghi del Ciclope omerico. A
confermare il rapporto intertestuale con l’Odissea è, senza dubbio, anche
la scena in cui Orlando – liberato dal gigante che aveva l’intenzione
di mangiarlo – vince il duello con il mostro accecandolo con un
dardo:
Non fallò il colpo quel segnor d’Anglante,
Ché proprio a mezo l’occhio l’ebbe còlto.
Un sol ne avea, come odisti davante,
E quel sopra del naso in ima al volto:
Per quello occhio andò il dardo entro al cervello;
Cade il gigante in terra con flagello.
(O.I. I, vi, ott. 34, vv. 3-8)
4. L’Orco ariostesco: modelli mostruosi
La figura dell’Orco ricompare nell’Orlando furioso di Ludovico
Ariosto. Nel diciassettesimo canto del poema si legge come il personaggio
Grifone giunge a Damasco dove, il giorno dopo, avrà luogo
una giostra. Il cavaliere e i suoi compagni stanno contemplando gli
edifici ornati e le attività degli abitanti quando un cavaliere ospitale
gli invita ad una cena. La sera il damasceno gli narra la sventura subita
dal re Norandino, l’evento che viene commemorato attraverso la
festa. Tornando un giorno da Cipro dove aveva ottenuto per moglie
Lucina (la figlia del re di Cipro), Norandino e la sua compagnia – di
cui faceva parte anche il narratore – arrivarono ad un’isola che, a pri-
[ 17 ]
644 JANIS VANACKER
ma vista, sembrava un luogo ameno (O.F. XVII, 27). Il re si era inoltrato
in un bosco per cacciare, quando, improvvisamente, i cortigiani rimasti
sulla spiaggia videro apparire l’Orco. Il mostro catturò immediatamente
alcune persone che, dopo, vennero incarcerate in una spelonca
che funzionava anche da stalla per un gregge. Nel frattempo
Norandino era tornato alla spiaggia dove “il suo danno comprende”
(O.F. XVII, ott. 36, v. 2)53. Seguendo le orme nella sabbia, il re riuscì a
trovare la caverna dove lo aspettava la moglie dell’Orco. La “matrona”
gli consigliò di fuggire se non voleva essere mangiato vivo dal
mostro che sentiva a naso le persone maschili che intendeva divorare.
Norandino rifiutò l’idea di abbandonare Lucina: si fece ungere il corpo
di grasso e indossò la pelle di una pecora. Raggiunto i compagni
nella spelonca, il re gli invitò subito a seguire il suo esempio. Grazie
allo stratagemma inventato dalla moglie dell’Orco, tutti i cortigiani
riuscirono a scappare, eccetto Lucina, che dall’Orco venne incatenata
alla cima di uno scoglio. Norandino, travestito da pecora, non lasciò
l’isola, come i compagni, ma preferì rimanere vicino alla moglie finché,
un giorno, «il figlio d’Agricane e ’l re Gradasso» (O.F. XVII, ott.
62, v. 8) riuscirono a liberare Lucina.
Evocando gli eventi accaduti prima dell’arrivo di Mandricardo e
Gradasso sull’isola dell’Orco, quest’episodio stabilisce un chiaro rapporto
intertestuale con la vicenda narrata da Boiardo. L’Orlando innamorato,
tuttavia, non costituisce l’unica fonte da cui attinge Ariosto.
L’ultima questione che intendiamo lumeggiare concerne i legami tra
l’episodio dell’Orco nell’Orlando furioso, quello boiardesco e la storia
antica di Polifemo. Stando a Baldan, per plasmare la figura dell’Orco,
Ariosto riannoda con la tradizione classica in modo tale che si tratti di
una reinvenzione rispetto al protagonista mostruoso messo in scena
dal Conte di Scandiano54: «Il richiamo al canone classico porta l’autore
a, per così dire, “polifemizzare” il personaggio in maniera radicale».
Questa tesi ricompare nei saggi dedicati alla fortuna rinascimentale e
barocca del mito polifemico: M. Dolores Valencia, ad esempio, cita
l’episodio ariostesco in un elenco di «versioni mitologiche della favola
53 E ccetto indicazione contraria, tutte le citazioni dall’Orlando furioso sono tratte
dalla seguente edizione: Ludovico Ariosto, Orlando furioso, a cura di L. Caretti,
Presentazione di I. Calvino, Torino, Einaudi, 1992 (1a ed. 1966) (O.F.).
54 P. Baldan, Metamorfosi di un orco, cit., p. 13: “È chiaro che questo ritratto è
una trasposizione pressoché letterale dell’altro, l’anello di congiungimento obbligato
se si voleva riconoscere l’esistenza di una figura già data e non inventarne
una di nuova (anche se è proprio questo che finisce col fare l’Ariosto)”.
[ 18 ]
L’Orco in Matteo Maria Boiardo e in Ludovico Ariosto 645
di Polifemo presenti nella letteratura italiana»55. Secondo M. C. Cabani,
«[…] l’episodio ariostesco dell’Orco […]» non è altro che «una libera
reinterpretazione del Polifemo omerico»56. Nessuno studioso segnala
il rapporto tra la vicenda dell’Orco in Boiardo e quella di Polifemo
nell’Eneide virgiliano. Occorre aggiungere che la posizione di Baldan
si rivela ben più drastica di quella formulata da Pio Rajna secondo
il quale Ariosto, «valendosi dell’episodio del Ciclope nell’Eneide (III,
569), e del suo prototipo nell’Odissea (IX, 166)» non fa altro che approfondire
una pista suggeritagli da Boiardo57.
Proponiamo di verificare le osservazioni degli studiosi studiando
in un primo tempo la descrizione dell’Orco pronunciata dal narratore
damasceno:
Non gli può comparir quanto sia lungo,
sì smisuratamente è tutto grosso.
In luogo d’occhi, di color di fungo
sotto la fronte ha duo coccole d’osso;
Verso noi vien (come vi dico) lungo
il lito, e par ch’un monticel sia mosso.
Mostra le zanne fuor, come fa il porco;
ha lungo il naso, il sen bavoso e sporco.
Correndo viene, e ’l muso a guisa porta
Che ’l bracco suol, quando entra in su la traccia.
Tutti che lo veggiam, con faccia smorta
in fuga andamo ove il timor ne caccia.
Poco il veder lui cieco ne conforta,
quando, fiutando sol, par che piú faccia,
ch’altri non fa, ch’abbia odorato e lume:
e bisogno al fuggire eran le piume.
(O.F. XVII, ott. 30-31)
Una prima differenza con l’orco nell’Orlando innamorato concerne,
secondo Baldan, la messa in rilievo della «dimensione verticale» della
figura che sarebbe più conforme con la «linearità del gusto classico»58:
55 M. Dolores Valencia, Trasmissione e rielaborazione del mito letterario di Polifemo
nella lirica italiana del Seicento: le Stanze pastorali di Tommaso Stigliani, cit., p. 61.
Il riferimento all’episodio ariostesco dell’Orco compare in un elenco tra la versione
del mito di Polifemo di Poliziano (Stanze per la Giostra) e quella di Tommaso Stigliani
(Il Polifemo. Stanze Pastorali).
56 M.C. Cabani, Il grande occhio di Polifemo. Visione e voyeurismo nella tradizione
barocca di un mito classico, cit., p. 148.
57 P. Rajna, Le fonti dell’Orlando furioso, cit., p. 282.
58 P. Baldan, Metamorfosi di un orco, cit., p. 14.
[ 19 ]
646 JANIS VANACKER
anche se il riferimento alla grossezza viene ripreso per creare «una
perturbazione prospettica dello sviluppo lineare»59, la ricorrenza, nell’ottava
30, del vocabolo «lungo» dimostra – sempre secondo Baldan
– che, per Ariosto, la lunghezza sia «il carattere predominante»60 del
mostro. Considerando l’ottava in questione, si noti che il sintagma
«quanto sia lungo» nel primo verso si riferisce alla lunghezza del personaggio,
ma che questo aspetto viene legato al fatto di essere «sì smisuratamente
[…] tutto grosso» (v. 2). In realtà, come indica Caretti, i
primi due versi dell’ottava significano: «tanta è la sua grossezza che
non si può notare bene in lui la lunghezza»61. In altre parole, l’Orco «è
più grosso che alto»62. Non è difficile, inoltre, cogliere l’insistenza sulla
robustezza del mostro attraverso l’uso di avverbi, quali «smisuratamente
» e «tutto», per specificare l’aggettivo «grosso». Vale la pena aggiungere
che la seconda occorrenza della parola «lungo» (ott. 30, v. 5),
in quanto preposizione, significa «rasente»: ripetendo il sintagma
«lungo il lito» nell’ottava precedente (ott. 29, v. 4), questo vocabolo
non offre informazioni circa le dimensioni dell’Orco. Nell’ultimo verso
dell’ottava, poi, si legge che il mostro ha «lungo il naso»: il naso
lungo non è un elemento che contribuisce a suggerire una figura alta,
anzi, esso pone in risalto le sue dimensioni orizzontali. Si condivide
con Baldan l’idea che il narratore damasceno accenna alla lunghezza
dell’Orco – si noti, a questo proposito, anche l’associazione al monte
(«par ch’un monticel sia mosso») che riecheggia la similitudine omerica
(cfr. sopra) – ma non è possibile affermare che l’altezza sia l’aspetto
che «maggiormente si evidenzia»63 o che l’allusione a questa caratteristica
contribuisca a trasformare l’Orco boiardesco in un personaggio
polifemico.
Esaminando la descrizione del mostro ariostesco, non si può negare,
invece, il forte legame con l’omologo nell’Orlando innamorato.
Quanto alla fisionomia – va notato la ripresa alla lettera di alcuni versi
boiardeschi64 – l’Orco rimane un essere cieco che «Mostra le zanne
59 Ibidem.
60 Ibidem.
61 Cfr. Ludovico Ariosto, Orlando furioso, ed. cit., p. 448: Caretti offre la parafrasi
in una nota a pié di pagina.
62 Ibidem.
63 P. Baldan, Metamorfosi di un orco, cit., p. 14.
64 Si confronti i versi «In luogo d’occhi, di color di fungo/ sotto la fronte ha
duo coccole d’osso» (O.F. XVII, ott. 30, vv. 3-4) con «In loco de occhi ha due cocole
de osso» (O.I. III, iii, ott. 28, v. 5). Ripresa quasi letteralmente dal testo boiardesco
(«E denti ha for di bocca, come il porco», O.I. III, iii, ott. 38, v. 5) si rivela anche il
[ 20 ]
L’Orco in Matteo Maria Boiardo e in Ludovico Ariosto 647
fuor, come fa il porco (O.F. XVII, ott. 30, v. 7); un mostro che ha «il sen
bavoso e sporco» (O.F. XVII, ott. 30, v. 8) e un muso che a «guisa porta/
che ’l bracco suol, quando entra in su la traccia (O.F. XVII, ott. 31,
vv. 1-2): l’accostamento al cinghiale selvatico e al cane da caccia non
può che richiamare a memoria la figura descritta da Lucina (cfr. sopra).
La somiglianza fisica tra i due «orchi» è confermata anche dal
motivo dell’olfatto: come l’omologo boiardesco, l’Orco nell’Orlando
furioso sente a naso le sue vittime umane (O.F. XVII, ott. 31, vv. 5-8). Si
osservi, inoltre, che, a parte le caratteristiche morfologiche, Ariosto
riprende dal Conte di Scandiano due altri elementi: si tratta del riferimento
all’impossibilità di fuggire il mostro cieco e dell’evocazione
della sua tana «cavata in lito al mar dentr’uno scoglio» (O.F. XVII, ott.
33, vv. 1-2)65.
Se Baldan e Pio Rajna pongono in risalto l’influsso della figura antica
di Polifemo sulla raffigurazione dell’Orco nell’Orlando furioso, ci si
chiede quali sono esattamente i paralleli tra i due personaggi. Sia l’Orco
cinquecentesco, sia il Ciclope manifestano le caratteristiche tipiche
dei mostri immaginari (deformità fisica; ibridismo; omofagia; ostilità
verso gli uomini; una dimora fuori dalla società, cfr. sopra). Dal punto
di vista fisico, si è appena dimostrato che il mostro ariostesco non viene
presentato come un gigante monocolo e che questo si avvicina soprattutto
all’Orco boiardesco. Se, inoltre, consideriamo i tratti che, da
Omero a Ovidio, determinano il lato umano di Polifemo – si pensi al
ciclope-pastore che è in grado di conversare e di provare affetto per
animali (o per Galatea) – risulta chiaro che l’Orco in Ariosto condivide
con il Ciclope antico solo la capacità di pascolare un gregge.
verso «Mostra le zanne fuor, come fa il porco (O.F. XVII, ott. 30, v. 7). Per quanto
riguarda «il sen bavoso» (O.F. XVII, ott. 30, v. 8), inoltre, si veda il verso «E, come
un verro, ha la schiuma alla bocca» (O.I. III, iii, ott. 43, v. 8). Per quanto riguarda i
parallelismi lessicali tra i due episodi, si consulti anche G. Sangirardi, Boiardismo
ariostesco. Presenza e trattamento dell’Orlando Innamorato nel Furioso, Lucca, Maria
Pacini Fazzi Editore, 1993, pp. 131-132.
65 Quanto alla fatalità dell’incontro con l’Orco, si vedano i versi successivi: O.I
III, iii, ott. 29, vv. 1-2: «Né vi è diffesa, a benché non gli veda,/ Ché, come io dissi,
il perfido è senza occhi»; ott. 31, vv. 2-4: «Non valerà diffesa, né fuggire,/ Ché cento
miglia vi darà la caccia,/ E converravi in tutto al fin perire» e O.F. XVII, ott. 31,
vv. 5-8: «Poco il veder lui cieco ne conforta,/ quando, fiutando sol, par che piú
faccia,/ ch’altri non fa, ch’abbia odorato e lume:/ e bisogno al fuggire eran le piume
». Per quanto concerne la tana dell’Orco si metta a confronto il verso boiardesco
«Dimora uno orco là sotto a quel scoglio» (O.I. III, iii, ott. 27, v. 5) con O.F. XVII, ott.
33, vv. 1-2: «Portòci alla sua tana il mostro cieco, cavata in lito al mar dentr’uno
scoglio».
[ 21 ]
648 JANIS VANACKER
La rappresentazione dell’Orco-pastore nell’Orlando furioso si riallaccia
sia all’Odissea, che alle Metamorfosi. Dall’immagine ovidiana di
Polifemo che accompagna il canto per Galatea con il suono della zampogna,
Ariosto ricava il riferimento allo strumento musicale: l’Orco,
dopo aver imprigionato i compagni del re Norandino, «[…] sen va
dove il suol far satollo,/ sonando una zampogna ch’avea in collo»
(O.F. XVII, ott. 35, vv. 7-8)66. Dal lamento intonato dal Ciclope innamorato
il poeta riprende l’allusione al numero infinito di pecore che l’Orco
custodisce: «Tanto n’avea, che non si numerava;/ e n’era egli il pastor
l’estate e ’l verno» (O.F. XVII, ott. 34, vv. 5-6)67. Il testo omerico,
inoltre, compare in filigrana quando il narratore ariostesco allude alle
attività pastorali dell’Orco, e più precisamente quando fa riferimento
all’azione di condurre le pecore fuori da o dentro la stalla68.
Se Baldan dichiara che l’Orco messo in scena nell’Orlando furioso «è
semplicemente un Polifemo che di Orco ha solo […] il nome e del quale
ripete stancamente schemi di maniera», la rilettura dell’episodio in
questione e il confronto con i modelli anteriori rivelano che occorre
attenuare questa posizione. È ben vero che la vicenda dell’Orco in
Ariosto si distingue dalla versione corrispondente nell’Orlando innamorato
per l’introduzione dell’archetipo omerico. Tuttavia, non pare
66 Cfr. Met. XIII, vv. 784-786: «sumptaque harundinibus compacta est fistula
centum,/ senserunt toti pastoria sibila montes,/ senserunt undae […]». Trad. it.:
«prese una zampogna composta da un centinaio di canne,/ e tutti i monti allora
risonarono di note pastorali».
67 Cfr. Met. XIII, vv. 821-823: «Hoc pecus omne meum est; multae quoque vallibus
errant,/ multas silva tegit, multae stabulantur in antris;/ nec, si forte roges,
possim tibi dicere, quot sint». Trad. it.: «Tutto questo bestiame è mio; molto altro
vaga per le valli,/ molto si nasconde nel bosco e molto ancora è chiuso nelle grotte./
Se tu me lo chiedessi, non saprei dirtene il numero».
68 Cfr. O.F. XVII, ott. 47: «Norandino ubidisce; et alla buca/ de la spelonca ad
aspettar si mette,/ acciò col gregge dentro si conduca;/ e fin a sera disïando stette./
Ode la sera il suon de la sambuca,/ con che ’nvita a lassar l’umide erbette,/ e
ritornar le pecore all’albergo/ il fier pastor che lor venía da tergo»; ott. 48, vv. 7-8:
«Vien l’Orco inanzi, e leva il sasso, et apre:/ Norandino entra fra pecore e capre»;
ott. 54, vv. 5-8: «Alla spelonca, come apparve il primo/ raggio del sol, fece il pastor
ritorno;/ e dando spirto alle sonore canne,/ chiamò il suo gregge fuor de le capanne
»; ott. 60, vv. 1-2: «La sera, quando alla spelonca mena/ il gregge […]»; Omero,
Od. IX, vv. 237-241: «Lui nell’ampia caverna spinse le pecore pingui,/ tutte quante
ne aveva da mungere […] Poi, sollevandolo, aggiustò un masso enorme, pesante,/
che chiudeva la porta […]»; vv. 312-316: «Mangiato, spinse fuori dall’antro le pecore
pingui,/ senza fatica togliendo l’enorme masso […] e con un lungo fischio al
monte volse le pecore pingui/ il Ciclope […]»; vv. 336-337: «A sera tornò, le pecore
bei velli pascendo,/ e subito nel vasto antro spinse le pecore pingui […]».
[ 22 ]
L’Orco in Matteo Maria Boiardo e in Ludovico Ariosto 649
lecito affermare che il poeta abbia convertito l’Orco boiardesco in un
personaggio (quasi) identico al Polifemo classico. La necessità di sfumare
l’interpretazione di Baldan viene confermata dall’assenza totale,
nell’Orco ariostesco, di alcuni tratti umani attribuiti al ciclope sin dai
tempi di Omero. Più che stabilire un rapporto di equazione tra Polifemo
e il ‘suo’ Orco, Ariosto mette in scena una figura mostruosa che
costituisce un amalgama di vari intertesti. Che il poeta riesca a creare
una straordinaria fusione di materiali provenendo da fonti disparate,
appare non soltanto dal personaggio dell’Orco, ma anche dalla vicenda
costruita intorno al mostro.
Per quanto riguarda l’Odissea, salta agli occhi, anzitutto, il fatto che
Ariosto non riprende nessuno dei motivi che Glenn considera elementi
più che essenziali dell’episodio omerico di Polifemo: si tratta del
motivo dell’inebriamento del mostro, quello dell’accecamento con
uno spiedo e quello dello stratagemma del falso nome «Nessuno»69.
Non possono esistere dubbi, però, sulle analogie tra la vicenda di Ulisse
e quella dell’Orco nell’Orlando furioso: le analogie concernono l’imprigionamento
dei compagni di Norandino nella caverna dell’Orco e
la fuga di questi sotto spoglie ovine. Rinchiudendo la compagnia in
una grotta mediante un grande sasso, il mostro ariostesco imita il Ciclope
antico70. E anche l’immagine dell’Orco che, nel momento dell’evasione,
tocca la schiena delle pecore per accertarsi che le sue vittime
non stiano uscendo dalla spelonca, ripete una scena descritta
nell’Odissea71. Bisogna osservare, però, che Ariosto non esita a introdurre
delle modifiche rispetto a questo modello: per poter raggiungere
la sua dama nella spelonca, Norandino, travestito da pecora, conduce,
in un primo tempo, l’azione inversa da quella eseguita da Ulisse
e i suoi compagni: «Vien l’Orco inanzi, e leva il sasso, et apre:/ Norandino
entra fra pecore e capre» (O.F., XVII, ott. 48, vv. 7-8). E anche il
metodo della fuga si rivela alterato: Norandino e i suoi amici non sono
legati a delle pecore come i compagni di Ulisse e non afferrano la pan-
69 J. Glenn, The Polyphemus Folktale and Homer’s Kyklopeia, cit., p. 138 e pp. 161-
163.
70 O.F., XVII, ott. 35, vv. 5-6: «Viene alla stalla, e un gran sasso ne leva:/ ne
caccia il gregge, e noi riserra quivi»; Omero, Od. IX, vv. 240-241: «Poi, sollevandolo,
aggiustò un masso enorme, pesante,/ che chiudeva la porta […]».
71 O.F. XVII, ott. 55, vv. 1-4: «Tenea la mano al buco de la tana,/ acciò col gregge
non uscissin noi;/ ci prendea al varco; e quando pelo o lana/ sentia sul dosso,
ne lasciava poi». Omero, Od. IX, vv. 441-443: «il padrone tastava la schiena di tutte
le bestie,/ ch’eran già ritte; non sospettò lo stolto che gli uomini/ eran legati sotto
le pance delle bestie lanose».
[ 23 ]
650 JANIS VANACKER
cia di un ariete come l’eroe omerico, ma si spalmano il corpo di grasso
prima di indossare una pelle ovina. Si è visto, inoltre, che Lucina non
riesce a fuggire dalla caverna: diversamente dallo stratagemma inventato
dal figlio di Laerte, quello eseguito da Norandino si rivela parzialmente
fallito.
Coglie l’attenzione il dettaglio dell’unzione del corpo perché questo
motivo permette ad Ariosto di connettere l’archetipo omerico di
Polifemo con l’episodio dell’Orco nell’Orlando innamorato. Come già
indicato, il cannibale che ha catturato Lucina compensa la cecità con
un olfatto fine. Anche se il narratore boiardesco accenna due volte alla
ricerca di prede attraverso il fiuto72, solo nell’Orlando furioso il motivo
dell’odorato assume un ruolo decisivo nella fuga dalla caverna e,
quindi, nel tentativo di sconfiggere il mostro. Di conseguenza, in Ariosto
sono più frequenti i riferimenti a questo motivo. La «matrona»
dell’Orco, ad esempio, spiega a Norandino che l’Orco mangia solo le
vittime maschili: «Sentirà a naso il sesso differente./ Le donne non
temer che sien uccise:/ gli uomini, siene certo; et empieranne/ di
quattro, il giorno, o sei, l’avide canne» (O.F., XVII, ott. 42, vv. 5-8). In
un’altra allusione alle capacità olfattive dell’Orco, la moglie insiste
che il re si allontani dall’isola: «Ma vattene, per Dio, vattene, figlio,/
che l’Orco non ti senta e noi t’ingoi./ Tosto che giunge, d’ogn’intorno
annasa,/ e sente sin a un topo che sia in casa” (O.F., XVII, ott. 43, vv.
5-8). Infine è la stessa moglie a proporre a Norandino di spalmarsi di
grasso.
Il ruolo assunto dalla moglie nell’ingannare l’odorato dell’Orco dimostra
che Ariosto, mediante il motivo olfattivo, stabilisce un rapporto
intertestuale anche con una terza tradizione, ossia quella delle fiabe
popolari. Secondo Pio Rajna il poeta, per questa figura femminile, si è
ispirato «direttamente dai racconti popolari, ai quali è famigliarissima
»73. Nell’Orlando furioso questo personaggio rappresenta il polo
umano opposto alla violenza gratuita dell’Orco: ella è in grado di provare
emozioni umane («Qui abitava una matrona seco,/ di dolor piena
in vista e di cordoglio», O.F., XVII, ott. 33, vv. 5-6), e si rivela l’indispensabile
aiutante di Norandino dal momento che è invenzione sua
anche la parte dello stratagemma che riguarda il travestimento in pecora:
La donna fe’ che ’l re del grasso prese,
72 Cfr. O.I. III, iii, ott. 30, vv. 3-4, vv. 7-8; ott. 31, vv. 1-2.
73 P. Rajna, Le fonti dell’Orlando furioso, cit., p. 283.
[ 24 ]
L’Orco in Matteo Maria Boiardo e in Ludovico Ariosto 651
ch’avea un gran becco intorno alle budelle,
e che se n’unse dal capo alle piante,
fin che l’odor cacciò ch’egli ebbe inante.
E poi che ’l tristo puzzo aver le parve,
di che il fetido becco ognora sape,
piglia l’irsuta pelle, e tutto entrarve
lo fe’ (…).
O.F. XVII, ott. 45, vv. 5-8 – 46, vv. 1-4
Se Pio Rajna afferma che «l’astuzia, che procaccia la liberazione a
tutti gl’infelici rinchiusi nella caverna […] è insegnata da Ulisse»74, risulta
chiaro che, ad aver tratto lezioni dalla fonte epica, non è l’eroe
tradizionale, cioè il re Norandino alla ricerca della dama, bensì la moglie
dell’Orco.
Ricordando l’osservazione di Glenn secondo la quale Omero crea,
nell’episodio di Ulisse e i Ciclopi, un eroe straordinariamente ingegnoso
in circostanze eccezionalmente difficili, il lettore capisce che la
passività di Norandino, che, travestito da pecora, trascorre ancora
quattro mesi sull’isola dell’Orco dopo la liberazione di Lucina, costituisce
un enorme contrasto con il figlio di Laerte75. Se la nostra analisi
dimostra che, con il re di Damasco, Ariosto offre una parodia dell’eroe
omerico, essa conferma allo stesso tempo le conclusioni di Guthmüller
circa il riuso di testi antichi da parte del poeta rinascimentale:
Ariosto riprende dai miti un certo numero di elementi che permettono
al lettore di identificare il suo modello. In questo modo il poeta invita il
lettore al confronto. Il lettore riconoscerà che il poeta moderno si comporta
nei riguardi delle sue “fonti” da “artefice sovrano” che disfa il
suo modello a piacere fondendo i singoli elementi con elementi di altra
provenienza e di sua invenzione. Nascono da questa riscrittura racconti
sostanzialmente nuovi che entrano in gara con i testi classici76.
Janis Vanacker
(Universiteit Gent, Belgio)
74 Ivi, pp. 282-283.
75 J. Glenn, The Polyphemus Folktale and Homer’s Kyklopeia, cit., p. 180.
76 B. Guthmüller, Il poema mitologico e il romanzo cavalleresco, in Il mito nella
letteratura italiana, a cura di P. Gibellini, Brescia, Morcelliana, 2005, vol. I, «Dal
Medioevo al Rinascimento», p. 529.
[ 25 ]
giuseppe de marco
Il viaggio attraverso i «Frammenti di un diario»
di Giorgio Caproni
This study takes into account some pages of an almost unknown
diary written by Giorgio Caproni in 1948-1949 which deserve to be
read and analyzed in depth. A special attention is paid to his journey
to Poland during the Writers World Congress for Peace. As for
Caproni’s output, two important characteristics are pointed out:
“verticality” as the distinctive feature of Genoa and the essential
role played by Leghorn, where the poet spent his childhood. Leghorn,
in particular, stands for a memorable moment of his life which
reappears throughout his works.
1. Una preliminare declinazione del viaggio
Il viaggio costituisce all’interno della poesia di Giorgio Caproni –
come è noto ai suoi lettori – una valenza dominante; è uno dei temi da
sempre prediletti dal poeta, con tutte le dimensioni che l’hanno caratterizzato
attraverso le varie raccolte1; basti pensare al Congedo del viaggiatore
cerimonioso, testo eponimo della raccolta del 1964, che prospetta
la prosopopea del viaggiatore cerimonioso e verboso, disposto, ormai,
a scendere dal treno con la sua «valigia pesante»2, anche se ignora la
1 Si vedano, fra gli altri, i contributi di A. Dei, Caproni. I viaggi, la caccia, «Studi
Italiani», I (1989), 2, pp. 125-146; G.L. Beccaria, Viaggiatore del nulla, «La Stampa-
Tuttolibri», 29 dicembre 1990; L. Surdich, Caproni, i viaggi, il viaggio, in G. Caproni,
Frammenti di un diario (1948-1949), a cura di F. Nicolao, con una Nota di R.
Debenedetti, Introduzione di L. Surdich, Genova, San Marco dei Giustiniani,
1995, pp. 13-39; G. De Marco, Il motivo del viaggio come metafora dell’esistenza umana:
il «Congedo» di Giorgio Caproni, in Id., Le icone della lontananza. Carte di esilio e
viaggi di carta [2008], Roma, Salerno Editrice, 20092, pp. 2001-210; Id., Scaglie tematico-
metaforiche in Caproni: l’esilio, il viaggio, «Studi Novecenteschi», XXXV (2008), 76,
2, pp. 505-521.
2 G. Caproni, Congedo del viaggiatore cerimonioso, v. 44, Congedo del viaggiatore
cerimonioso & altre prosopopee [1964], in Id., L’opera in versi, Edizione critica a cura di
Il viaggio attrav erso i «frammenti di un diario» di Caproni 653
sua destinazione: «Il luogo del trasferimento / lo ignoro» (vv. 20-21).
Invero, quello di Caproni è un viaggiare che prestamente si trasforma
in un restare, in particolare nel Franco cacciatore esso si esibisce soprattutto
nella forma stravagante del capovolgimento basato sull’accostamento
rimico (‘viaggiare / restare’) e fonico (‘via / mai’), nonché nell’uso
incalzato della negazione. In tal modo, l’ancoraggio al reale del
viaggio è costituito dal porto del ritorno indietro, l’inevitabile prospettarsi
dell’esperienza in direzione del suo luogo di partenza, verso
ciò che si concedeva “prima” del viaggio stesso:
Se non dovessi tornare,
sappiate che non sono mai
partito.
Il mio viaggiare
è stato tutto un restare
qua, dove non fui mai3.
A riesaminarle queste forme di viaggio, sottendono un’accezione
che oltrepassa la descrizione o la ponderazione circa il divenire di un
iter, pertanto, nel Congedo, si ravviva la metafora della vita come viaggio,
in cui, attraverso il prevalente pathos di un «congedo», si tenta di
riconquistare un brandello di utilità necessaria ad assicurare una condizione
di stoica risolutezza al trauma del distacco: «io / sono giunto
alla disperazione / calma, senza sgomento»4.
Altra ‘idea’ o rappresentazione del viaggio è individuabile nel corso
della lettura dell’opera in versi caproniana. Ed ecco profilarsi il
viaggio-destino di Enea, «solo nella catastrofe»5, nella cui mitica immagine
il poeta vede proiettata la propria condizione di cupo disorientamento
e la percezione di struggente solitudine negli immediati
anni del dopoguerra:
Io come sono solo sulla terra
coi miei errori, i miei figli, l’infinito
caos dei nomi ormai vacui e la guerra
L. Zuliani, Introduzione di P.V. Mengaldo, Cronologia e Bibliografia a cura di A.
Dei, Milano, Mondadori «I Meridiani», 1998, p. 244 (tutte le citazioni sono tratte da
questa edizione).
3 Id., Biglietto lasciato prima di non andar via, Il franco cacciatore [1982], in L’opera
in versi, cit., p. 427.
4 Id., Congedo del viaggiatore cerimonioso, vv. 91-92, cit., p. 245.
5 Id., 2. Versi, IV 2, Il passaggio d’Enea [1956], in L’opera in versi, cit., p. 155.
[ 2 ]
654 giuseppe de marco
penetrata nell’ossa!…
[…]6.
Oppure, il viaggio con la funicolare in una Genova la cui reale topografia
è soggiogata alla trasmutazione allegorica, in modo che il
percorso dell’«arca», della «barca a fune», del «furgone», del «carro»,
della «funivia» si eleva a simbolo, nel trapasso da una notte ad un’altra,
fino ai primi chiarori di un’alba vaga e opalescente, il cammino
della vita, dalla prenatalità alle soglie dell’indefinito del post-mortem,
in quello spazio dei morti cosparso di nebbia:
[…] e la funicolare
già lontana ed insipida, scolora
nella nebbia di latte ove si sfa
l’ultima voglia di chiedere l’ora
fra quel lenzuolo di chiedere l’alt.7
Altra forma di viaggio-volo si coglie all’interno di un ascensore in
cui il poeta immagina di ascendere in Paradiso per poter ritessere il
colloquio con la madre-fidanzata. Il viaggio-esodo di Lasciando Loco,
laddove Loco rappresenta sì un paese montano reale, ma, simultaneamente,
anche il luogo metafisico dell’assenza di Dio: «qui dove perfino
Dio / se n’è andato di chiesa»8. Viaggio-non viaggio simile a quello
espresso nel Biglietto, riaffiora in Ritorno:
Sono tornato là
dove non ero mai stato.
Nulla, da come non fu, è mutato9.
Ancora un’altra declinazione di come il viaggio venga inteso quale
occasione riepilogativa di una generale esperienza inveterata sulla cognizione
del non-essere, si può rilevare in un altro significativo testo,
titolato, non a caso, Esperienza, in cui si legge:
T utti i luoghi che ho visto,
che ho visitato,
ora so – ne son certo:
non ci sono mai stato10.
6 Ivi, I lamenti, III, vv. 1-4, cit., p. 117.
7 2. Versi, XII 12-16, Il passaggio d’Enea, cit., p. 142.
8 Lasciando Loco, vv. 16-17, Il muro della terra [1975], in L’opera in versi, cit., p. 347.
9 Ritorno, vv. 1-3, Il muro della terra, cit., p. 2374.
10 Esperienza, ivi, p. 382.
[ 3 ]
Il viaggio attrav erso i «frammenti di un diario» di Caproni 655
Altrove, sarà la volta del viaggio che si prefigge come mèta i «luoghi
non giurisdizionali» dell’Ultimo borgo11, racconto-parabola di notevolissima
compattezza significativa, il cui testo è strutturato, come è
consuetudine, di frasi brevissime intessute in un narrato ad echi fonico-
ritmici, ammantati da un alone scopertamente metafisico. In altri
luoghi rinveniamo il cammino che, dal rovente «fuoco / della bêtise»12
delle città, conduce a dirupi ghiacciati e glaceali, attenuati però da una
tiepidezza di affetti e di complicità:
Ma basta
a tenerci su, all’osteria,
l’antico mezzolitro
fra gente di buona compagnia13.
Il sollievo degli affetti e della umana solidarietà sono valori confortanti
che si appagano del soddisfacimento di un «poco» («Viviamo di
poco»)14 che si rivela, poi, nondimeno, tutto. Insomma, sono questi di
Caproni tutti viaggi in cui e attraverso cui, infranta la malia della partecipazione
al presente, la ‘categoria’ del viaggio, del passaggio si impone,
riutilizzando, man mano, tutti i suoi mitici e affini significati.
2. Dal viaggio allegorico al viaggio reale (Genova-Polonia-Livorno)
In seguito alla pubblicazione del Muro della terra (1975), che segna
nello svolgimento artistico dell’opera caproniana, una svolta decisiva,
accresce l’interesse per la poesia di Caproni da parte della critica e del
consenso del pubblico; difatti, si creano occasioni di viaggi all’estero,
ospite di alcune prestigiose università statunitensi. Nel giugno 1978,
assieme a Mario Luzi, Delfina Provenzali e Vittorio Sereni, Caproni si
reca in Francia per una lettura dei suoi versi, e viene accompagnato
dalla figlia Silvana, alla quale dedica, l’anno successivo, la raccolta di
poesie Erba francese. Sarà ancora una volta Silvana a scortare il padre
nel 1986 in un altro viaggio alla volta di Colonia. Ma il primo viaggio
compiuto da Caproni all’estero risale all’immediato dopoguerra, allorché
nell’agosto
1948 egli si reca in Polonia – a Wroclaw (Breslavia),
11 L’ultimo borgo, vv. 24-25, Il franco cacciatore, cit., p. 437.
12 La piccola cordigliera, o: i transfughi, vv. 44-45, Il Conte di Kevenhüller [1986], in
G. Caproni, L’opera in versi, cit., p. 667.
13 Ivi, vv. 41-44.
14 Ivi, v. 45.
[ 4 ]
656 giuseppe de marco
dal 25 al 28 agosto, per l’esattezza – in veste di delegato italiano in
occasione del primo Congresso mondiale degli intellettuali per la pace.
Viaggio rischioso non poco, se si pone mente all’episodio verificatosi
appena un mese prima (14 luglio): l’attentato a Palmiro Togliatti.
Nella Polonia comunista, lacerata da una guerra inesorabile, efferata
quanto sterminante, convengono, oltre a Caproni, personalità di spicco
della cultura mondiale, fra le quali è doveroso ricordare: Pablo Picasso,
Paul Elouard, Le Corbousier, Ilja Ehrenburg, Irene Juliot Curie,
Pablo Neruda, Renato Guttuso, Giulio Einaudi, Antonio Banfi, Cesare
Luporini, Giuseppe Petronio, Sibilla Aleremo, Salvatore Quasimodo,
Natalia Ginzburg, Giuseppe Levi. Il trentaseienne Caproni trae pretesto
dal Congresso per stilare un articolo edito il 12 agosto su «La Repubblica
», sottotitolato «Per la pace nel mondo un grande convegno a
Breslavia», in cui pone l’accento sulla eccezionalità del ‘raduno’, consistente
in una voce unanime di «condanna della guerra», l’intelligenza
ha «proclamato subito […] la sua libertà e la sua non convenienza
al mercato dicendo ben rotondo un NO alla guerra. E da ogni lato del
mondo s’è convocata proprio per creare, attraverso la più libera e
aperta delle discussioni, un muro di diamante contro ogni simile tentativo,
di modo che chiunque scavalcherà quel muro dovrà irreparabilmente
cadere nel fango ch’è “dall’altra parte” (dalla parte del
buio)»15. Proprio nel corso di questa esperienza di viaggio, Caproni
mette mano alla stesura di un diario, in cui vengono registrati, giorno
per giorno (tra il 20 e il 29 agosto), frammenti di cronaca intercalati da
racconti. Occorre da subito puntualizzare che trattandosi di pagine di
diario, «sarà conveniente rimuovere […] l’attesa di un reportage» in
cui «l’esercizio della memoria si allei con la mediazione letteraria e
restituisca il visto e il vissuto in disposizione organica e con sorvegliata
attenzione alla qualità della prosa»16. In effetti, la scrittura diaristica
risente della sua naturale quanto spontanea ruvidità, talvolta si presenta
addirittura scarna, asciutta, con frequenti reiterazioni, non sottoposta
ad un processo di revisione rigidamente formale, manca di
labor limae, poiché sorvegliatamente sollecita e legata ad eventi, oggetti,
figure; pertanto, il suo scopo precipuo risiede in quello di sortire
una indeclinabile antinarratività, per far meglio risaltare il mero dato,
15 G. Caproni, Per la pace nel mondo un grande convegno a Breslavia. Uomini di
ogni tendenza risponderanno a queste domande, in «La Repubblica», 12 agosto 1948,
ora in Id., Frammenti di un diario (1948-1949), cit., p. 106.
16 L. Surdich, Caproni, i viaggi, il viaggio, in G. Caproni, Frammenti di un diario
(1948-1949), cit., p. 18.
[ 5 ]
Il viaggio attrav erso i «frammenti di un diario» di Caproni 657
il documento, la testimonianza, la descrizione. Non va, inoltre, tralasciato
l’aspetto privato di cui è costituita la scrittura diaristica, in
quanto annotazione diretta di una personale esperienza dello scrivente,
pertanto destinata ad un uso personale e non pubblico17. È opportuno,
altresì, tenere nel debito conto che questi Frammenti di diario erano
formati da pagine ancora in fieri, concepite e vissute all’orizzonte di
un non-finito; molto probabilmente, l’autore non manifestò neanche
alcuna volontà editoriale, quindi egli non mirava a definire rigorosamente
un testo ultimo. In proposito, quanto mai calzante si rivela la
concezione landolfiana circa il genere diaristico, ritenuto una prova di
doppia sincerità: rivelazione dell’oscuro e, nel contempo, testimonianza
contro l’artificio della scrittura: è la forma di un’«altra» letteratura,
o addirittura una controletteratura. Scrive all’inizio di Rien va (1963):
[…] più di una volta ho voluto cominciare questo diario […] e […] ogni
volta sono stato trattenuto sul bel principio dall’insorgere delle abituali
preoccupazioni oziose: scelta di parole, disposizione degli argomenti,
perspicuità del dettato […]. Camicia di Nesso, una tal letteratura o
scrittura che non sa abbandonare i suoi lenocini, o piuttosto i suoi mezzucci
[…]. E invece io vorrei che questo fosse il libro (il registro) del
mio abbandono, il quale (registro) non riguardasse altri che me18.
Qui il «registrare» è da intendere l’atto di recupero dell’interno
«dittatore», un vedersi senza filtri, in particolare senza quello letterario.
Qualche pagina dopo, difatti, si legge: «Riuscirò, qui almeno, a
non scegliere le parole? Finora sembra di sì»19. Così, anche per le pagine
del diario di Caproni, l’assenza del corrispettivo della letteratura,
se da un canto disimpegna quanto di confortante tale corrispettivo
racchiude in sé, dall’altro salvaguarda, nella modulazione spesso fibrosa
di una scrittura dimessa, l’unione di naturalezza e verità. Difatti,
lo sguardo diretto e ravvicinato «affonda in quanto è sgradevole e
urticante, senza ricorrere […] al filtro mediatore della creatività artisti-
17 Per un approccio alla diaristica, fondamentali si rivelano i contributi di G.
Falaschi, Diari, zibaldoni e taccuini, in Manuale di letteratura italiana. Storia per generi,
Dall’Unità d’Italia alla fine del Novecento, a cura di F. Brioschi e C. DI Girolamo,
Torino, Bollati Boringhieri, 1996, vol. IV, pp. 765-773; M. Guglielminetti, Introduzione
alla diaristica del primo Novecento, in Id., Dalla parte dell’io. Modi e forme della
scrittura autobiografica nel Novecento, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2002,
pp. 231-250.
18 T . Landolfi, 4 giugno 1958, in Id., Rien va [1963], Milano, Adelphi, 1998, pp.
9-10.
19 Ivi, p. 12.
[ 6 ]
658 giuseppe de marco
ca che, con i procedimenti di immunizzazione di fronte alla realtà o, al
contrario, con le spinte di accelerazione e intensificazione dell’esperienza,
modifica realtà ed esperienza, raggiungendo il luogo della
“menzogna” che è il luogo vitalissimo ed affascinante della realizzazione
artistica»20. In ciò risiede la seduzione della scrittura diaristica.
Chiedersi, poi, quanto conti la peculiarità della persona in queste forme
letterarie, appare indubbiamente pleonastico rilevarlo. Poiché, se
si penetrano le pieghe di queste forme, ci si accorge che la defezione
alla scrittura di sé dirige al di là dei sentieri impercettibili della letteratura.
La vigilanza su di sé qui ha da farsi serrata, e incessante, in
quanto è assente qualsivoglia concatenazione narrativa che stimoli e
copra, perché non c’è espansione lirica che permei ed affranchi. Consapevole
di aprire la pagina senza sapere che cosa scriverà, Caproni si
pone come il solo protagonista della sua quotidiana avventura. Dunque,
dalla riservatezza di una scrittura diaristica destinata a restare
inedita, il racconto di sicuro sortisce esiti refrattarî alla narrazione.
L’aridità della migliore scrittura dell’io, la più attica delle scritture, è
di non agevole conseguimento. Intorno agli anni Settanta del secolo
scorso, quasi alle soglie del rinnovato interesse critico per i diarî, è
stato affermato che non solo è «regrettable», ma «tout à fait inadmissible
» l’essere, più di altre scritture dell’io, soggetti ai «remaniements
opérés par l’entourage ou par l’auteur»21. «Or – proseguiva nel 1976
Béatrice Didier –, il n’est pas de texte plus vulnérable que le journal
intime»22. Dopo queste indispensabili premesse, ci si può inoltrare nella
lettura del diario caproniano, dal quale, sin dalle prime battute, trasuda
l’istanza di una penna che scorre con celerità sulla pagina, ove il
poeta, nell’esplorare con angoscia il distacco dal padre e dalla madre,
coglie l’occasione per riconsiderare l’importanza delle radici familiari,
da sempre costituenti un punto fermo, almeno fino agli anni Cinquanta,
allorché moriranno entrambi i genitori:
Sono da venerdì scorso a casa dei miei in Via Bernardo Strozzi […]. Il
pensiero dei miei genitori soli in questa città (soli in un’intima Genova)
con tutti i loro malanni e le loro preoccupazioni, da oltre un anno s’è
tramutato in una vera e propria angoscia che non mi lascia né un sol
giorno né una notte sola. Mamma è stata molto male a Palermo […], e
20 L. Surdich, Caproni, i viaggi, il viaggio, in G. Caproni, Frammenti di un diario
(1948-1949), cit., p. 19.
21 B. Didier, Le journal intime, Paris, Press Universitaires de France, 1976, p.
21.
22 Ibidem.
[ 7 ]
Il viaggio attrav erso i «frammenti di un diario» di Caproni 659
ora per di più soffre d’una nevralgia al braccio destro, la quale oltre che
tormentarla le impedisce del tutto di usare quel braccio. Ha il viso
bianco come un cencio lavato, e gli occhi mi si fanno caldi e umidi al
solo guardarla, mentre, un’altrettale commozione mi coglie considerando
mio padre, solo coi suoi 68 anni sui suoi libri di somma e alle
prese di continuo con lo sfratto e la padrona di casa […]. L’inverno dei
miei genitori! Mamma tutto il giorno a casa (sola con la donna) e la
sera dopo cena la partita a scopa con babbo, o, nella migliore ipotesi, la
visita della signora Lina, la quale stando uscio a uscio è l’unica persona
a Genova che si interessi solo a loro e cui io debba gratitudine […].
Sono due vecchi veramente e irreparabilmente soli, senza casa e senza
parenti, e l’angoscia mi stringe la gola al pensiero ch’io non ho più la
minima speranza di trasferirmi a Genova ora che a Roma m’è data per
certa una casa. A Roma dov’io ho fatto il possibile e l’impossibile per
rimanere!23
Dalla pagina risalta la dolorosa distanza che sembra bloccare nel
rimorso i rapporti con la madre, che, con immagini affini, ritorna nel
sonetto Quante tenui figure aride e vive24 e, con coincidenze forse ancora
maggiori, in alcuni racconti, dove sono evidenti le implicazioni e le
corrispondenze autobiografiche; in particolare, nel Bagno di luce si rileva
una fitta correlazione, al di là della coincidenza temporale, con il
suindicato lacerto di diario:
Vedeva sua madre come una grande pianta che si sfa (come un grande
melo che perde la corteccia e che tuttavia, anche se al tronco non possiamo
appoggiarci più, dà i suoi fiori di neve così freschi e nuovi agli
occhi e al tatto), e ciò che Marcellino provava nel dire «la mia mamma
», lui che ogni volta che lo diceva era più in là col treno e col tempo,
ciò è un sentimento che Marcellino non riuscirà mai ad esprimere. Tuttalpiù
riuscirà a dire in tono di «mea culpa» che, in quella sua scansione
poneva – lui che a Roma cos’andava a fare che valesse la pena
dell’abbandono (soli in un’intera città) dei genitori?
23 G. Caproni, [20 agosto, venerdì], Diario dal 20 al 29 agosto 1948, in Id., Frammenti
di un diario (1948-1949), cit., pp. 43-44 (tutte le citazioni provengono da questa
edizione, indicando a testo i numeri di pagina relativi).
24 Id., Quante tenue figure aride e vive, VI, Il passaggio d’Enea, cit., p. 120: «Quante
tenui figure aride e vive, / o madre, al tuo abbandono al davanzale / degli anni –
al tuo affannarti sul dolore / radicato nel vento! Con eguale / altezza, un giorno in
lacrime d’amore / io t’accesi una fede. E ora a che vale / il cuore – come reggerò al
clamore / d’un perdono completamente eguale / al crollo della sera? … Ah la tristezza
/ umana! È questo solco di passione / nel sangue, cui più vana è la carezza
/ che finisce la vita – è l’occlusione, / nel teatro d’orgasmo, d’una brezza / troncata
sul sospiro del tuo nome».
[ 8 ]
660 giuseppe de marco
Da che sua madre un braccio non lo muoveva più, Marcellino vedeva
i genitori quali creature di vetro, sentendosi molto in colpa per averli
lasciati25.
Altrettanto puntuali, e, forse, ancor più reiterati, i riferimenti che
annodano il pezzo dedicato al padre con molti testi poetici, narrativi e
memoriali. La figura paterna viene così impressa sulle pagine di Caproni
nelle sue lancinanti tappe di distacco:
[…] Tu che hai udito
un tempo il mio tranquillo passo nella
sera degli Archi a Livorno, a che invito
cedi – perché tu o padre mio la terra
abbandoni appoggiando allo sfinito
mio cuore l’occhio bianco? … Ah padre, padre
quale sabbia coperse quelle strade
in cui insieme fidammo!26
L’«abbandonato passo» del padre ricompare anche al centro del
sonetto Ah padre i lastricati ancora scossi27; il ricordo dell’immagine paterna
resta, ancora una volta, indissociabilmente legato a quello degli
«Archi livornesi» in alcuni scritti in prosa; difatti, il racconto Campo
aperto28 si apre proprio con una passeggiata agli Archi del protagonista
in compagnia del padre; identico, il motivo ritorna in una sezione dal
titolo Ai miei genitori29 che chiude la prima parte di Cronistoria, in cui si
legge: «Sai che, se cammino, il mio è ancora il passo da te accompagnato
sulle piane degli Archi livornesi, dove fischiando e senza tristezza
aspettavamo che il giorno si allentasse per ritornare coi cacciatori
di lepri»30.
Le premure nei riguardi dei genitori che versano in una condizione
di struggente solitudine e abbandono, indurranno, in un primo mo-
25 Id., Il bagno di luce, «L’Italia Socialista», 11 dicembre 1948, ora in Racconti
scritti per forza, a cura di A. Dei, con la collaborazione di M. Baldini, Milano, Garzanti,
2008, pp. 295-296, da cui si cita. Il tema del rimorso per la solitudine materna
ricorre anche in Il rospo Rigoletto, apparso per la prima volta sulla «Fiera Letteraria
», 16 ottobre 1960.
26 Id., Io come sono solo sulla terra, III, vv. 4-11, Il passaggio d’Enea, cit., p. 117.
27 Id., Ah padre i lastricati ancora scossi, VIII, Il passaggio d’Enea, cit., p. 122.
28 Id., Campo aperto, «L’Italia Socialista», 29 giugno 1948.
29 I testi ora si possono leggere nell’Apparato critico a Cronistoria, in G. Caproni,
L’opera in versi, cit., p. 1098.
30 Ibidem.
[ 9 ]
Il viaggio attrav erso i «frammenti di un diario» di Caproni 661
mento, Caproni a rinunciare al viaggio in Polonia; tra l’altro, quando
gli perviene la notizia dell’invito a partire egli è a Genova in casa dei
suoi, in Via Bernardo Strozzi, come si apprende dalle righe di apertura
del diario, precedentemente citate. In seguito, saranno proprio i genitori
a fargli mutare decisione, ad incoraggiarlo, in ispecie l’anziano
padre: «Vedo che i miei ci tengono ch’io vada […]. Soprattutto babbo
mi parla molto fiero di questa mia… “missione”, a me in fondo in
fondo sembrando, chissà perché, di turlupinarlo» (p. 45). Comunque,
il primo accenno al viaggio di Caproni in terra di Polonia si individua
in una cronaca del 20 agosto, allorché il poeta, in occasione di un incontro
con Renata Debenedetti (moglie del critico letterario Giacomo)
alla stazione «Principe» di Genova, annota:
Alle 20,50 sono entrato nella stazione Principe ad aspettare la signora
Renata Debenedetti, la quale transitando di qui da Ventimiglia prosegue
alle 22 per Roma […]. La signora Renata è in uno scompartimento
di II classe […] ed è eccitata a causa della sua partenza per la Polonia.
Io, per quanto mi riguarda, non so ancor nulla di tale partenza che non
desidero più (p. 44).
La smentita soccorre il giorno immediatamente successivo «alle ore
8, 45», quando Caproni riceve il telegramma, firmato dal Comitato Organizzativo
Italiano, con il quale gli si comunica di recarsi a Roma «per
la partenza in Polonia» e «fissa l’appuntamento in Via Santo Stefano
del Cacco (Casa della cultura) per lunedì alle ore 18, 30» ([21 agosto,
sabato], p. 45). Durante l’attesa in stazione della signora Renata, Caproni
volge lo sguardo allo scenario che si delinea ai suoi occhi e vede
[…] arrampicare su Genova le case grigie di cemento nella fresca aria
notturna, i loro muri disadorni sembrandomi quanto di più bello possa
esserci sulla terra. Sono case di cemento, a pareti lisce, strette ed alte su
su dai binari, e il loro linguaggio semplice e puro quanto mi è più gradito
della continua eloquenza ciceroniana e barocca delle secentesche
architetture romane! Respiro aria mia, aria di casa mia, senza la minima
sovrastruttura culturale, tra case le quali altro non vogliono essere
che case. E mi pare che soltanto qui, in una città come questa, uno possa
sentirsi quale è e nel suo tempo, non a Roma dove di continuo ci
accompagna un discorso aulico (perfino nel sudiciume), il quale impedendoci
di pensare ai casi propri ci sopraffà con la continua presenza
d’una cultura che in alcun modo può più essere la nostra (ivi, p. 44).
L’immagine di Genova così effigiata in questo brano, costituirà una
costante non solo in altre pagine del diario, ma – come è noto – in tut-
[ 10 ]
662 giuseppe de marco
ta l’opera di Caproni. Nella fase preparatoria al viaggio Caproni è attanagliato
da ansia ed assalito da mille dubbi circa la partenza, tant’è
che perviene ad annotare: «Ho ormai fermissimamente deciso di non
partire […] ancora per una speranza di potermela sgattaiolare all’ultimo
momento, non pago la quota del passaporto» ([22 agosto, domenica],
p. 47). Ma, alla vigilia della partenza, l’angoscia, la malinconia e la
cupezza si tramutano in animazione ed entusiasmo; pertanto, se il 23
agosto, il giorno che precede la partenza, lo stato d’animo dello scrittore
aveva fatto riaffiorare in lui come «la giornata più tetra» trascorsa
«dalla fine della guerra», la sua angoscia «rasenta letteralmente la follia
[…]. Il pomeriggio è orrendo […]. Sono al parossismo della mia
angoscia» ([23 agosto, lunedì], p. 48), ecco che, all’alba del giorno successivo,
la prospettiva muta completamente e il risveglio del poeta è
all’insegna dell’esultanza suscitata dall’imminenza del viaggio: «Vado
dalla lattaia a chiedere dov’è Via Bissolati, dove alle 9 mi devo
trovare per la partenza. Alla lattaia mi piace dire che vado in Polonia,
ormai ciò essendo diventato per me un motivo di gioia» ([24 agosto,
martedì], p. 50). La giovialità impressa sul volto del viaggiatore si
esprime prontamente nella ilare considerazione su Centocelle, l’aeroporto
da dove avverrà il decollo:
Il Fiat 66, rosso ci porta a Centocelle dove siamo non so a che ora. Il
viaggio all’estero così è per me cominciato, io Centocelle non avendola
conosciuta mai. La prima cosa che mi ha colpito nell’aeroporto è stata
la pavimentazione del prato. M’aspettavo che un aeroporto fosse tutto
d’erba, e invece questo è pavimentato con sbarre metalliche un poco
arrugginite messe una accanto all’altra, ciascuna di esse a fori grossi in
modo da formare una specie di rete (ivi, pp. 50-51).
Nell’attesa all’aeroporto, Caproni conosce i suoi compagni di viaggio;
fra tutti un’attenzione particolare viene rivolta a Sibilla Aleramo,
nei riguardi della quale il poeta non mancherà di esprimere, in seguito,
un leale compiacimento:«Un complimento io lo faccio a Sibilla, in
una toeletta che la fa, a 72 anni, veramente carina» ([25 agosto, mercoledì],
p. 62). Forse, queste parole di apprezzamento, avrebbero dovuto
fungere da incoraggiamento, al fine di sollevare l’umore dell’Aleramo,
il cui volto era solcato da segni di costernazione ed umiliazione
scaturiti dall’esito non felice del Premio Viareggio, assegnato quell’anno,
ex aequo, ad Elsa Morante e Aldo Palazzeschi31. Altra personalità di
31 Si legga, in proposito, quanto la scrittrice annota nel suo diario in data 16
agosto: «Amarezza squallida nel povero cuore, dopo che ieri sera alla proclama-
[ 11 ]
Il viaggio attrav erso i «frammenti di un diario» di Caproni 663
spicco incontrata da Caproni è Salvatore Quasimodo, l’uomo precedentemente
amato da Sibilla, vedovo da due anni, ma proprio nello
stesso anno del viaggio in Polonia stava per unirsi in matrimonio con
la danzatrice Maria Cumani, alla quale confessa «Ho trovato qui molti
amici e molti nemici, sono al centro d’una attenzione morbosa per
vari motivi; ma mi difendo con durezza questa volta»32. Indubbiamente,
fra gli amici di cui parla Quasimodo alla Cumani sembra debba
essere incluso anche Giorgio Caproni, col quale, dopo un primo timido
incontro all’aeroporto, legherà rapporti più calorosi. Difatti, in occasione
di un ricevimento al Municipio di Wroclaw, «un palazzo Medievale
originalissimo, indimenticabile. Nell’interno le sale sono a
volta gotica» (ibid., p. 62), «tra tavoli con ogni ben di Dio, soprattutto
dolci e liquori» (ibid.), il poeta siculo invita Caproni a dialogare confidenzialmente
col “tu”: «Quasimodo, dopo un mio complimento, tutto
felice e un po’ bullo dice: Diamoci del tu, ma sì! In seguito però mi
dimostrerà molto affetto» (ibid.). Così con questa allegra brigata avviene
il decollo «alle 11 meno 5», mentre l’occhio scrutatore di Caproni è
intento a focalizzare ogni particolare, per poi essere riversato sulla pagina
del diario:
Guardando dal finestrino l’impressione è di guardare una carta topografica
vastissima. Manca la sensazione del rilievo e perciò dell’altezza,
e neppure la velocità, che per la grande distanza appare lentissima,
riesce in qualche modo ad emozionare. Scorgiamo acque verdissime e
geometrie di campi e di strade e di case mentre l’aria a poco a poco si
fa fredda nell’apparecchio, finché sul mare le isole dalmate sembrano
grandi chiazze arsicce, come di terra e d’erba strinata ([24 agosto, martedì],
p. 53).
Qui come in altri luoghi del diario, la trascrizione dell’osservazione
del viaggiatore viene resa attraverso rivelatorî, per così dire, di ‘cirzione
del premio nel giardino festoso sentii annunciare dallo speaker della radio
che i due vincitori ex aequo erano Elsa Morante e Aldo Palazzeschi, e che per me
s’era creato un premio di poesia della Versilia, assegnandomi la somma di trecento
mila lire. A parte il danno economico (mi si era promesso formalmente da Debenedetti
che la somma raccolta all’uopo avrebbe raggiunta la cifra di mezzo milione,
pari cioè a quella dei due vincitori del premio Viareggio) ho provato un senso indicibile
di umiliazione, quasi mi avessero schernita, schiaffeggiata» (S. Aleramo,
Diario di una donna. Inediti 1945-1960, a cura di A. Morino, Milano, Feltrinelli, 1978,
p. 212).
32 S. Quasimodo, Lettere d’amore a Maria Cumani. 1936-1959, a cura di D. Laiolo,
Milano, Mondadori, 1973, p. 197.
[ 12 ]
664 giuseppe de marco
cospezione’, caratterizzati da locuzioni quali «m’impressiona», «mi
colpiscono», «notiamo» e simili. In tale àmbito vengono colte soprattutto
le dimensioni dello spazio e le configurazioni del paesaggio; in
particolare, quando si tratta di delineare la rappresentazione dell’Aula
Magna in cui si svolge il Convegno, con i cortinaggi riservati
all’ospitalità dei congressisti, si allinea una fitta serie di superlativi:
«un’aula rettangolare vastissima e altissima», «Finestroni amplissimi
da una sola parete […] illuminano il locale», «È un padiglione vastissimo
» ([25 agosto, mercoledì], p. 59). Allorché è la volta di descrizioni
esterne, la trasposizione dell’osservazione, col filtro della penna, fluisce
in un gioco di chiaroscuri, come nel caso dell’ingresso in torpedone
a Wroclaw:
E a un tratto penetriamo nel folto di un’intera città di scheletriche case
di cupi mattoni rossi – sull’erba scura – un folto di case distrutte per
chilometri tutte di quei cupi mattoni, le quali dandoci la prima tremenda
impressione della guerra in Polonia, una profonda angoscia generano
uno per uno nei nostri petti facendosi ormai cupa la sera. Finché
entrati nella vera e propria città, la cui primissima impressione è quella
di un’annerita Milano con poca luce elettrica, il camion davanti alla
stazione si ferma all’Hotel Grand dove discendiamo ([24 agosto, martedì],
p. 56).
«Erba» e «case» si ripresentano, seppure in contrasto, in qualche
pagina successiva, «nella città a pezzi», Wroclaw:
E un’altra cosa che ci ha colpito, nella città a pezzi, è il colore annerito,
cariato (affumicato dagli incendi?), delle case e perfino dei selci (alla
romana), mentre l’aria è di ferro (una meravigliosa aria metallica, nuda),
e quasi minerale il colore dell’erba. Città tipicamente tedesca, con
case tedesche, e, per quanto ho visto nessun accenno al cinquecento
nostro e tanto meno al barocco nostro, piuttosto a quel barocco tedesco
che ancora sa di medioevo. Moltissimi i negozi, e ben forniti. Abbondano
le Kawiarnie e i Chioschi. Ho visto strade nobilissime e ampie,
dove lungo parchi di quel verde attraentissimo che ho detto vanno a
passeggio donne ben vestite con carrozzelle. E ovunque case di mattoni
a pezzi, interi quartieri a pezzi dove la notte nemmeno s’accende la
luce elettrica (ivi, p. 58).
Sono proprio queste le occasioni in cui Caproni, attraverso questi
squarci, questi inopinati guizzi in trasparenza, laddove macerie, rottami,
desolazione convivono con una sopravvivenza indomabile di natura,
«sale di un gradino rispetto al registro di scrittura rasoterra che la
convenzione diaristica impone: gli scenari, dunque, valgono come fon-
[ 13 ]
Il viaggio attrav erso i «frammenti di un diario» di Caproni 665
te di attrazione funzionale a far convergere l’attenzione del lettore verso
un fascio di tensioni emotive»33. Stupisce come dalle pagine del diario,
seppure frammentarie, non sia stata registrata alcuna considerazione
sullo svolgimento del Convegno, né un minimo riferimento alle varie
relazioni che si sono succedute; nel diario Caproni si è limitato solo
alla descrizione dell’edificio, con l’indicazione dei nomi dei partecipanti
più prestigiosi. Forse, secondo la congettura di Surdich, l’impronta
data al Congresso, con il forte piglio propagandistico, dovette aver trovato
in Caproni un uditore non in sintonia con le posizioni egemoni34.
Il diario subisce una brusca interruzione ([29 agosto, domenica]), forse
a causa della costernazione suscitata in Caproni dalla visita al campo
di sterminio di Auschwitz, effettuata insieme a molti altri partecipanti
al Convegno per la pace. Indubbiamente dovette essere un’esperienza
singolare quanto commovente nel visitare i luoghi dell’orrore,
come testimonia una pagina di Renata Debenedetti, dove, tra l’altro, si
legge:
33 L. Surdich, Caproni, i viaggi, il viaggio, cit., p. 27.
34 Cfr. ivi, p. 35. Comunque, per quel che concerne alcune motivazioni profonde
circa le finalità e lo svolgimento del Congresso, occorre affidarsi alla stampa
periodica dell’epoca, attraverso la quale si apprende che esso, preannunciato come
rispondente a un «bisogno di collaborazione e di coordinamento di tutte le forze
della scienza e della cultura, prima che sia troppo tardi» (A. Donini, La responsabilità
degli intellettuali, «L’Unità», 22 agosto 1948) e concluso con il lancio di un appello
in cui si denunciava «il piccolo gruppo di uomini avidi di denaro, eredi del fascismo
che in America e in Europa vogliono nuovamente attentare al patrimonio
spirituale dei popoli» (F. Calamandrei, Da Wroclaw gli intellettuali mandano un
messaggio di pace, «L’Unità», 31 agosto 1948), riceve la sua impronta, pur nella copiosità
delle relazioni e dei dibattiti, in un clima di «larghezza politica» (E. Sereni,
Il Congresso di Wroclaw, «Rinascita», V, 8 agosto 1948, p. 310), dall’intervento di
apertura dello scrittore sovietico Aleksander Fadeev, che accusa aspramente «un
po’ alla rinfusa, […] la stampa americana a larga diffusione […] e […] quella scandalistica,
[…] l’editoria pornografica, […] Hollywood e […] lo swing ballato negli
Stati Uniti», prende di mira «l’invasione delle penne biro sui mercati europei» e
biasima «il culto della violenza diffuso dal cinema americano», si avventa «contro
la bestialità della cultura occidentale, da lui considerata “anticultura”, tacciandola
di delinquenziale reazionaria e fascista» (N. Ajello, Intellettuali e PCI (1944-1958),
Bari, Laterza, 1977, pp. 237-238). Mentre, uno dei compagni di viaggio di Caproni,
Muzio Mazzocchi, così si esprime: «È stato un Congresso di politici nel senso più
povero della parola, di piccoli ambiziosi, di fanatici o di timidi, di provinciali in
viaggio all’estero per cui tutto è “bello”, tutto “buono”, tutto straordinario. È stato
un Congresso in cui esigenze vere, formidabili, responsabilità enormi sono state
confuse con la sorda necessità di una politica ipocrita. Ed è stato soprattutto il
trionfo del conformismo» (M. Mazzocchi, Il congresso “per la pace”, «L’Italia Socialista
», 13 settembre 1948, p. 3).
[ 14 ]
666 giuseppe de marco
Quello che vorrei soprattutto ricordare è la nostra visita ad Auschwitz
[…]. Riprendemmo la strada per l’immenso campo. Ad un certo momento
chiesi ad una guida di fermarsi un istante perché dovevo togliermi
la sabbia dalle scarpe. «Non è sabbia, – mi disse – ma cenere: è
la cenere dei formi». Chiesi a Caproni, alla rilettura del cui diario devo
oggi il risorgere in me di tanti ricordi, di darmi il braccio, perché vacillavo
[…]. La visita ci aveva lasciati sbigottiti e spaesati, incapaci di dire
impressioni nelle quali dovevamo prima mettere ordine35.
L’esperienza del viaggio in Polonia riaffiorerà in alcune prose ed
articoli caproniani, fra i quali è doveroso ricordare: Poeti polacchi36,
Cartoline da un viaggio in Polonia37.
Dopo il viaggio in Polonia, l’anno successivo (1949), Caproni si accinge
ad un altro viaggio in treno (in «vagoni di III da emigranti», p.
93), avente come mèta Livorno, con l’intento precipuo di «cercare e
visitare la tomba dei nonni per desiderio di mamma» (ibidem). Di non
secondaria rilevanza sono le pagine del diario (Livorno, 1949, pp. 93-
99) che riguardano questo viaggetto, soprattutto per una lettura intertestuale
con la stagione poetica caproniana in cui Livorno, unitamente
alla figura della madre, Anna Picchi, riveste una centralità particolare,
basti pensare alla sezione Versi livornesi del Seme del piangere. Sceso dal
treno, il poeta percepisce subito «un’impressione rallegrante» che
emana questa città: «Da quel momento amo la mia città, di cui non mi
dicevo più» (ibidem). Da subito, l’occhio del viaggiatore viene attratto
dall’«aria popolare della città!», per la quale sfilano «camicie bianche,
vesti turchine, rosse, arancione, maniche rimboccate, braccia nude,
ombrelloni» (ibidem). Si incunea in un «dedalo di vecchie viuzze» e
viene colpito enormemente dal «colore rosso spellato dei mattoni delle
fortificazioni sull’acqua dei fossi increspata» e dal «colore e odore»
che si sprigiona dappertutto. È questo viaggio a Livorno anche un
pretesto per ricercare i luoghi, i colori e le impressioni dell’infanzia.
Insomma, vagando per quest’atmosfera livornese, Caproni respira un
gusto intenso del vivere, affidando alla pagina del diario i colori delle
35 R. Debenedetti, Nota, in G. Caproni, Frammenti di un diario (1948-1949), cit.,
pp. 9-11, alle pp. 10-11.
36 G. Caproni, Poeti polacchi, «Mondo Operaio», 15 ottobre 1949, riproposto in
Id., Frammenti di un diario (1948-1949), cit., pp. 121-122.
37 Id., Misterioso messaggio dell’ubriaco notturno, «La Giustizia», 21 giugno 1961;
Id., In visita al mondo della tragedia pura, «La Giustizia», 28 giugno 1961; L’«aspetto
innocente» del campo di Auschwitz, «La Giustizia», 22 luglio 1961, anch’essi riproposti
in Frammenti di un diario (1948-1949), cit., pp. 131-146.
[ 15 ]
Il viaggio attrav erso i «frammenti di un diario» di Caproni 667
vie animate, con una capacità di registrare i più minuti dettagli dei
gesti, del comportamento, i fitti toponimi, usati quasi come intelaiatura
della memoria, fulcri intorno ai quali poter ricostruire una geografia
tutta interna, senza scadere neanche per un attimo nella mera annotazione,
tantomeno nella cronaca:
Che impressione, piazza Cavour! Sono le 17, il sole estivo. Tutti fuori
seduti ai tavolini colorati dei caffè – alcuni seduti sulla spalletta dei
fossi, che hanno il colore del cioccolato e il caratteristico odore sfatto
d’acqua […]. E le barche – i colori profondi cupi ma allegri, delle barche,
e le ombre nere nere dei becolini immobili. Ricordo lo Scalo degli
Isolotti, con la porta del verniciatore di barche, che ha provato tutti i
suoi colori sul muro. Mi viene in mente Trieste e Saba. Qui sarei diventato
poeta, e poeta popolare. Anche le architetture antiche (certi palazzi,
porta San Marco) che moderazione! E le barche cupe (orlate di giallo
cupo, rosso cupo, blu scuro sul nero) tra la popolazione estiva! E le
biciclette, con ragazze e giovanotti, e le allegre edicole e l’incredibile
rosso dei cocomeri! (La sera, sotto la luce elettrica, vedrò poi tutto in
aria allucinata) (pp. 93-94).
Il brano appena citato è una miniera di motivi che puntualmente
ritorneranno nella scrittura in versi successiva, sia nel Seme del piangere
sia nel Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee, a riscontro
della fedeltà e della misurata acribia con cui Caproni custodiva e
riutilizzava temi, immagini e intere frasi a distanza anche di decenni.
Ecco profilarsi, sul filo della memoria, le forme della «lontananza»: la
mirabile Livorno dell’infanzia, cui seguirà la Genova struggente della
giovinezza. Ma ciò che preme sottolineare nel brano citato è la descrizione
di una Livorno tutta gioia e allegria popolare che trova puntuale
riscontro nei versi di Né ombra né sospetto, di Barbaglio prima e in
quelli di Scandalo poi:
[…]
Passava odorando di mare
Nel fresco suo sgonnellare.
[…]
Livorno, tutta invenzione
Nel sussurrare il suo nome.
[…]
Livorno popolare
Correva con lei a lavorare38.
38 Id., Né ombra né sospetto, vv. 5-6, 9-10. 15-16, Il seme del piangere. Versi livornesi,
in L’opera in versi, cit., p. 193.
[ 16 ]
668 giuseppe de marco
In Barbaglio s’individua il rosso dei cocomeri:
La notte, lungo i Fossi,
quanti cocomeri rossi.
Nel fresco fuoco vivo
di voci, a rime baciate
suonano le risate
di tre ragazze, sbracciate39.
Infine, in Scandalo si legge:
Per una bicicletta azzurra,
Livorno come sussurra!
Come s’unisce al brusio
Dei raggi, il mormorio!40
Al riguardo, osserva opportunamente Adele Dei che la Livorno
«rievocata in poesia è sempre in bianco e nero, scolorita e appiattita
come in una vecchia fotografia, dilatata negli spazi»41.
Penetrante lo sguardo del poeta che, all’interno del cimitero di Livorno,
fissa l’iscrizione sulla lapide della nonna materna: «la figlia inconsolabile
/ questa memoria pose / una prece», ossia «la figlia inconsolabile:
mia madre!» (p. 94), laddove il trinomio madre-figlia-madre
riconduce fulmineamente ad altri luoghi della poesia caproniana, in
cui viene ad intersecarsi, per mezzo di un ricambio-scambio, l’associazione
dei ruoli familiarî; in proposito, basti rinviare al testo titolato A
mio figlio Attilio Mauro che ha il nome di mio padre42.
Prima di congedarsi dalla città, Caproni attraversa alcune vie che
39 Id., Barbaglio, vv. 16, ivi, p. 200.
40 Id., Scandalo, vv. 1-4, ivi, p. 202.
41 A. Dei, Lo spazio precipitoso della memoria, in Ead., Le carte incrociate. Sulla
poesia di Giorgio Caproni, Genova, San Marco dei Giustiniani, 2003, p. 83. Il suindicato
rilievo della Dei è convalidato da un’intervista al poeta, in cui egli dichiara:
«Esisterà sempre, finché esisto io, questa città [Livorno], malata di spazio nella mia
mente, col suo sapore di gelati nell’odor di pesce del Mercato Centrale lungo i
Fossi e con l’illimitato asfalto del Voltone (un’ellisse contornata di panchine bianche
e in mezzo due monumenti anch’essi bianchi e altissimi, dedicati a non so che
personaggi) alle cui grate di ferro sul catrame io potevo vedere, sotto il piazzale
immenso schiacciando ad esse il viso fino a sentire il sapore invernale del metallo
l’acqua lucidamente nera transitata dai becolini pieni di semi di lino» (G. Caproni,
Io genovese di Livorno, «L’Italia Socialista», 22 febbraio 1948).
42 G. Caproni, A mio figlio Attilio Mauro che ha il nome di mio padre, Il muro della
terra, cit., p. 317.
[ 17 ]
Il viaggio attrav erso i «frammenti di un diario» di Caproni 669
riecheggiano momenti della sua infanzia: «Via Garibaldi, dove sono
ancora i limoni. Via Palestro. Indicibile la colorazione, il contrasto tra
i negozi moderni, il neon, e la popolarità della Via. Resto a lungo
sull’angolo […]. Mi fermo in Corso Amedeo, che non si chiama più
così» (p. 96). Proprio in queste due strade si snoda il percorso di Annina
nel Seme del piangere: «Tutto Cors’Amedeo, / sentendola, si
destava»43; «Prendeva a passo svelto, / dritta, per la Via Palestro»44:
come è noto ai biografi del poeta, in Corso Amedeo egli nacque nel
1912, mentre in Via Palestro si trasferì la famiglia Caproni negli anni
della guerra. I frammenti di questo diario si erano aperti all’insegna
«di stupori e di incanti nel silenzio e nella cristallina aria di Genova»
([20 agosto, venerdì], p. 43), si chiudono «che è giorno (l’alba)» (p. 97)
con l’arrivo nella stessa città dalla quale il viaggiatore era partito; pertanto,
Livorno costituisce una tappa di un viaggio che, ineluttabilmente,
si direbbe, segna quale mèta Genova. Così, «frammenti e dettagli
vengono a costruire le linee di un viaggio che, nel prendere avvio
da Genova e nel concludersi a Genova in un’ora topica di Caproni, in
un’alba […], passando attraverso quell’evocazione interiettivo-esclamativa
[…], che suggella la seconda delle tre parti in cui si articola il
volumetto (“Ah, Genova, Genova!”), riconnota la concretezza
dell’esperienza e la realtà del vissuto con un sovrasenso simbolicoesistenziale:
com’è, sempre, nel più alto Caproni»45.
Giuseppe De Marco
(Omignano Scalo – Salerno)
43 Id., L’uscita mattutina, vv. 11-12, Il seme del piangere, cit., p. 192.
44 Id., Né ombra né sospetto, vv. 11-12, ivi, p. 193.
45 L. Surdich, Caproni, i viaggi, il viaggio, cit., p. 39.
[ 18 ]
GIUSEPPE Antonio CAMERINO
Manzoni e altre questioni romantiche
(In memoria di Giorgio Petrocchi)*
The close relationship between Manzoni’s theoretical and linguistic
writings and the research studies on language, literature and arts
developed by Romantic authors, which has been examined by Giorgio
Petrocchi well before other scholars, focuses on the rejection of
mere imitation of classics and of the pagan mythology.
Those have been replaced with Christian parables, the introduction
of historical truth in novels and other literary genres, as well as the
condemnation of literature as a mere source of delight.
Petrocchi’s analysis of Manzoni and Dante’s De vulgari eloquentia
also deserves a special mention. The latter is seen as the author of a
poetical language of Florentine origin, which, later on, will be
adopted by poets across the whole Italian peninsula.
Gli studî da Giorgio Petrocchi dedicati al periodo romantico in Italia
risalgono prevalentemente ai primi anni Settanta del secolo scorso
e investono questioni e indicazioni esegetiche ancora oggi poco o
niente focalizzate, affrontate nella prima parte del volume Lezioni di
critica romantica, che raccoglie pure studî concernenti l’Ottocento italiano
inoltrato1.
Anche nell’esaminare cruciali questioni dell’età romantica, Petrocchi
conferma pienamente la sua capacità di intuizioni profonde, anche
in chiave filologica e linguistica, destinate a indirizzare fecondamente
successive ricerche. In questo senso egli è sempre stato un precursore
per il quale la rivelazione di un’intuizione critica inedita su un’opera
letteraria o sul carattere di un fenomeno letterario, sembra prevalere
* Relazione letta al Colloquio internazionale Per Giorgio Petrocchi, omaggio a vent’anni
dalla morte, Roma 25-26 marzo 2010.
1 G. Petrocchi, Lezioni di critica romantica, Milano, Il Saggiatore, 1975. La prima
parte, di cui si fa menzione nel testo, s’intitola Gli anni del “Conciliatore” e copre
le pp. 11-138.
Manzoni e altre questioni romantiche 671
nettamente sulla tentazione di offrire una soluzione definitiva o un
quadro esaustivo delle tematiche trattate. Pure nelle sue pagine sulla
letteratura romantica e manzoniana in Italia emergono intuizioni che
si mostrano evidenti in varie direzioni di indagini. Si spazia dalle distinzioni
e dalle transazioni, non sempre lineari e coerenti, che i protagonisti
del «Conciliatore» nei loro scritti dedicati alla querelle tra classicisti
e romantici son disposti a prendere in considerazione quando
non si tratta propriamente di letteratura, ma di altre arti come la musica,
la pittura, la scultura o l’architettura, alle sorprendenti note linguistiche
di Breme in contrapposizione alla Proposta di alcune correzioni
ed aggiunte al Vocabolario della Crusca di Monti; dalle riflessioni di Manzoni
sulle prime polemiche romantiche in Italia alla lettera Sul romanticismo
dello stesso Manzoni; dalla sua Lettre a Chauvet all’analisi della
corrispondenza col giovane ebreo veneziano Marco Coen (analisi
incentrata prevalentemente sulla missiva manzoniana del 1832); dai
testi narrativi del «Conciliatore» alla breve nota sulle prese di posizioni
di Leopardi sui romantici tra il 1816 e il 1818.
Come si può già notare, è prevalentemente il Manzoni considerato
in rapporto ad alcune specifiche questioni di esegesi romantica che
viene in questa sede richiamato. Nella varietà delle questioni proposte
nei suoi contributi sulla letteratura romantica è evidente l’intento dello
studioso di sottolineare e di predisporre una serie di direzioni di
ricerca determinanti e ineludibili per l’avanzamento degli studî in materia,
dal critico sottolineati con meritorio anticipo rispetto alla pur
sterminata bibliografia in tema.
Erano certamente nuove 40 anni fa e lo sono persino oggi le acute
osservazioni di Petrocchi – non si dimentichi, anche finissimo musicologo
– sul rapporto tra i collaboratori del «Conciliatore» e musica operistica.
Rapporto mai consolidatosi fino in fondo e pur avviato da opere
come Demetrio e Polibio del 1812 e soprattutto dalla memorabile
rappresentazione nel 1813 alla Scala del Prometeo, con musica di Beethoven
e con allestimento coreografico di Salvatore Viganò (ma la versione
originale, più ridotta, mi sia concesso di aggiungere, era stata
rappresentata a Vienna qualche anno prima). Fu questo certamente un
evento che, anche per un tema congeniale alla nuova temperie letteraria
come quello del titanismo, ebbe grande risonanza nella Milano
dell’epoca e lascerà traccia pure negli anni successivi alla Restaurazione.
Se Carlo Porta nel poemetto Olter desgrazzi de Giovann Bongee ricorderà
che «coreva alla Scara tutta Milan» (v. 34), Visconti nel suo Dialogo
sulle unità drammatiche di luogo e di tempo apparso sul «Conciliatore»
del 24 gennaio 1819 (anno in cui pure v’era stata rappresentata la Don-
[ 2 ]
672 GIUSEPPE Antonio CAMERINO
na del lago di Rossini) ricorda Viganò e fa ancora eco al ballo musicale
compreso in quella rappresentazione scaligera.
Questi spunti di critica musicale son interessanti, ma non paragonabili
allo spazio dato dal Visconti teorico alle arti figurative con l’intento
di delimitarne il campo d’azione e l’importanza sul piano estetico
rispetto alle opere letterarie, in quanto esse sarebbero, si legge ancora
nel suddetto Dialogo, limitate all’imitazione delle sole «apparenze
degli oggetti […]». Nelle Idee elementari sulla poesia romantica, poi, riprendendo
una distinzione già operata da Romagnosi e Stendhal, Visconti
sostiene, non senza qualche contraddizione, che l’esclusione
della mitologia pagana varrebbe solo per la poesia, ma non per la pittura
o per la scultura, arti designate a «rappresentare la bellezza visibile
nascente dalle dimensioni, dalle forme, dalle proporzioni, dagli atteggiamenti,
dai colori, dall’espressione degli affetti e delle permanenti
qualità morali delle persone»2.
Oggi noi sappiamo che queste oscillazioni e distinzioni sono la
conferma indiretta dello stretto intreccio tra tendenze classicistiche e
tendenze romantiche nel primo Ottocento, già documentate in anni
andati da Sebastiano Timpanaro3 su un piano generale; e i riscontri di
Petrocchi nei suoi capitoli in materia di romanticismo, pur su piani
particolari, come quelli riguardanti la musica e le belle arti, resta e si
indirizza sempre nel solco di quello stretto intreccio. Non è un caso
che lo stesso Visconti nelle già menzionate Idee mena lode a Canova,
alla cui arte guardano con convinta ammirazione anche altre firme del
«Conciliatore», a cominciare da Borsieri: «[…] il sentimento e l’entusiasmo
della bellezza inventarono lo scalpello, e lo posero tra le mani
di Fidia e di Canova»4.
Petrocchi parla per le arti figurative contemporanee di totale acquiescenza
al gusto neoclassico nei collaboratori del Foglio Azzurro,
che arriva addirittura a elogiare archeologia e storia dell’arte grecoromana
in termini non diversi da quelli manifestati dai fautori neoclassici,
anche se Borsieri non mancherà, con sapida ironia, di rilevare
che in Italia, da lui definita classica terra, «[…] un gotico innesto di
2 E . Visconti, Idee elementari sulla poesia romantica, in Il Conciliatore, 3 voll., a
cura di V. Branca, Firenze, Le Monnier, 1948-1954 (nuova ed. 1965), vol. II, p. 107
e vol. I, p. 436.
3 S. Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, seconda edizione
accresciuta, Pisa, Nistri-Lischi, 1977.
4 P. Borsieri, Sulla noia, in Il Conciliatore. Foglio scientifico-letterario, cit., vol. I, p.
447.
[ 3 ]
Manzoni e altre questioni romantiche 673
vecchio e di nuovo predomina le maniere, i costumi, e diremo anche,
l’intera pianta dell’edificio sociale!»5.
Si tratta di indicazioni critiche ben anticipatrici, che troveranno
qualche eco solo in anni recenti, tanto resistente s’è rivelato lo stereotipo
di un movimento romantico italiano in contrapposizione rigida,
senza sfumature, alla tradizione classicistica. La conseguenza è – mi
sia concessa una minima integrazione all’analisi di Petrocchi – che, per
quanto concerne il periodo dominato in Italia dalle tendenze romantiche,
si stenta ancora a far chiarezza sulla poesia del Foscolo cosiddetto
neoclassico o sul classicismo di Leopardi; e per il romanticismo europeo
si stenta ancora a capire quell’indissolubile nesso di verità e bellezza
con cui un teorico dell’arte come Winckelmann aveva imposto al
classicismo una svolta radicale in senso moderno, come avviene esemplarmente
nel primo Canova di Teseo col Minotauro e, successivamente,
in quello della Venere italica o del gruppo delle Grazie.
D’altra parte, anche in ambito linguistico i romantici del «Conciliatore
» non mancano di misurarsi, ed eventualmente di scontrarsi, con
le posizioni dei neoclassici, come dimostrano le osservazioni teoriche
sulla Proposta montiana, con cui Breme, richiamando direttamente
persino il settecentesco Cesarotti del Saggio sulla filosofia delle lingue,
enuclea i principî in linguistica perseguiti dai romantici. Per lui l’evoluzione
storica della lingua non solo non può esser condizionata da
preconcette graduatorie di valore (da Breme, del resto, già censurate
nel suo precedente discorso Intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari
[1816]) –, ma deve investire e coinvolgere tutti i gradi della società
civile. È un’analisi ampia, svolta in varî numeri del «Conciliatore»6,
che strada facendo dimentica il suo punto di partenza (cioè la discussione
sulla Proposta montiana) e riprende il mito dell’unità genetica
della lingua e della grammatica e – non senza una certa rigidità – tende
a connotare i processi linguistici dall’onomatopea alla semantica.
Un’ottica essenzialmente da filosofo del linguaggio, anziché da filologo,
che veniva sul piano teorico a vanificare l’opportunità di emendamenti
o revisioni al Vocabolario della Crusca in senso conservativo. Per
un’Italia politicamente smembrata e divisa, «in tanti piccoli centri di
urbanità ora principeschi, ora vescovili, ora popolari»7, Breme, riflettendo
opinioni vivissime e circolanti tra i varî esponenti del Foglio
Azzurro, auspicava, non a caso, un processo di educazione nazionale,
5 Ivi, vol. III, p. 267.
6 Ivi, vol. II, pp. 537-546 e pp. 680-690; vol. III, pp. 146-159 e pp. 320-335.
7 Ivi, vol. II, p. 543.
[ 4 ]
674 GIUSEPPE Antonio CAMERINO
che, superando angusti schemi locali, potesse mirare, secondo indicazioni
derivanti dalle più avanzate e autorevoli ipotesi al riguardo (come
quelle del già menzionato Cesarotti), alla costituzione di un canone
in cui le scelte linguistiche delle singole nazioni operassero in funzione
delle idee, di tutte le idee, storicamente maturate e accolte nel
consorzio civile e sociale.
La penetrante analisi di Petrocchi sulla linguistica di Breme e del
«Conciliatore» resta ancora oggi, a distanza di tanti anni, fondamentale
e rende avvertiti della profondità con cui i nostri romantici furono
interessati alle questioni della lingua; e rende avvertiti altresì di quali
e quanti stretti collegamenti vi siano tra le valutazioni di Breme e la
travagliata esperienza dei Promessi Sposi nelle sue varie fasi e, più in
generale, le idee-guida della linguistica del Manzoni, a cominciare dal
forte rilievo dato alla correlazione tra unità linguistica e unità e identità
di valori e di memorie in una società civile solidale e indivisa (e qui
sono nell’aria i memorabili versi manzoniani dell’ode Marzo 18218).
Non a caso a Breme e Manzoni Petrocchi torna in un altro contesto,
quello delle polemiche romantiche nel 1816, in cui lo studioso osserva
tra l’altro: «Le idee bremiane saranno […] destinate a fruttificare nel
tempo, all’interno dello spirito di Manzoni, e oltre la stagione terrena
di Ludovico, quando nella Lettre à M. Chauvet coglierà le contraddizioni
insite in una precettistica dell’arte che impone norme nella rappresentazione
della natura, “conditions qui ne sont pas dans la nature
que l’on veut imiter”, con ragionamento analogo a quello che Breme
aveva svolto, con arguta acutezza, nel Discorso […]9». Quelle condizioni
che non sono nella natura che si vuol imitare, quelle regole astratte
e artificiali sono il trionfo del langage rhetorique, che Manzoni, in una
lettera dello stesso anno a Fauriel definiva un «êtude pour ne faire
parler les hommes ni comme ils parlent ordinairement, ni comme il
pourraient parler […]»10.
Le forti affinità di sentimenti e di vedute tra Manzoni e Breme e i
8 Alludo ai vv. 31-32 di Marzo 1821: «Una d’arme, di lingua, d’altare, / Di memorie,
di sangue e di cor».
9 Petrocchi allude al discorso bremiano Intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi
letterari italiani, che è appunto del 1816.
10 Carteggio Alessandro-Manzoni-Claude Fauriel, Premessa di E. Raimondi, a cura
di I. Botta, Milano, Centro Nazionale Studi Manzoniani, vol. 27, p. 199. Imprescindibile
per il rapporto Manzoni-Fauriel il contributo di I. Botta, Manzoni a Fauriel:
L”Indication des articles littéraires du Conciliateur”, «Studi di filologia italiana»,
vol. XLIX (1991), pp. 203-249. Alle pp. 243-249 vi è riportata la citata lettera manzoniana,
nuovamente collazionata sull’autografo ambrosiano.
[ 5 ]
Manzoni e altre questioni romantiche 675
romantici del «Conciliatore», ricorda Petrocchi, vengono pure implicitamente
confermate da una orgogliosa puntualizzazione dello stesso
Manzoni in una lettera del 1824 a Paride Zajotti: «[…] i romantici, generalmente
parlando, ponevano a cercare la quistione, a coglierla, a
svolgerla, ad attenervisi, a studiare la forza delle opinioni contrarie».
Senza queste affinità con i romantici non sarebbe certamente mai nata
la lettera Sul romanticismo, la cui prima versione, quella del 1823, sarebbe
stata approntata a Brusuglio il 22 settembre, solo sei giorni dopo
aver posto fine al Fermo e Lucia. Una vicinanza di date significative,
anzi, di estrema importanza, ove si pensi alle categorie dell’interessante,
dell’utile e del vero che sono esplicitamente formulate nel testo del
’23 della lettera in modo esplicito, mentre in quello del 1870, pur senza
alterare le fondamentali indicazioni di poetica del testo precedente, il
richiamo esplicito è limitato solo alla categoria del vero.
Anche per il contributo di Petrocchi sulla lettera a Cesare Taparelli
d’Azeglio, dopo averne evidenziato le intuizioni critiche ancora valide
e feconde, mi sia concesso fornire qualche notizia e integrazione esplicativa
messe fuoco solo negli studî più recenti, seguiti di molto ai sondaggi
di Petrocchi. Va anzitutto osservato che Manzoni considerava
questa sua lettera un testo riservato e invano negli anni a seguire
d’Azeglio cercò di ottenerne un’autorizzazione alla stampa. Tuttavia
qualcuno tra i più intimi amici dello scrittore, forse il Grossi o monsignor
Tosi, ne fece circolare copie, ovviamente non autografe, una delle
quali pervenne nel 1846 a Marino Falconi, direttore della «Gazzetta
italiana», che si pubblicava a Parigi, e amico della marchesa Cristina
Trivulzio di Belgioioso, la quale, fondando sempre nella capitale francese
la rivista mensile l’«Ausonio», volle inserire la Lettera manzoniana
nel fascicolo inaugurale, del marzo 1846, malgrado la ferma opposizione
dell’autore11, omettendo il nome del destinatario. A questa pubblicazione
negli anni successivi ne seguirono altre, mai autorizzate12.
Come s’è già detto, anche riprendendo giudizî di Petrocchi, la lettera
del ’23 era stata elaborata in una fase di ricerca letteraria molto
connotata da riflessioni anche originali nel vivo del dibattito sulle poetiche
romantiche, che per Manzoni era un dibattito di livello europeo;
e a questo riguardo io citerei anche l’importante sua lettera del 17
ottobre 1820 a Claude Fauriel, il quale progettava sul romanticismo
11 M. Castoldi, Introduzione a A. Manzoni, Sul romanticismo. Lettera al marchese
Cesare d’Azeglio, Premessa di P. Gibellini, a cura di M. Castoldi, Milano, Centro
Nazionale Studi Manzoniani, 2008, p. LVII, nota 3.
12 Ivi, pp. LIX e ss.
[ 6 ]
676 GIUSEPPE Antonio CAMERINO
italiano e sulla relativa querelle con i classicisti un lavoro: progetto giudicato
da Manzoni «important pour tout le monde, et pour nous autres
italiens surtout; […]». La lettera a d’Azeglio ribadisce e rafforza
tutti gli argomenti a favore della concezione romantica della letteratura:
dalla confutazione della mitologia antica ancora adottata dai classicisti,
ai quali nella tarda versione della stessa Lettera lo scrittore oppone
il maraviglioso soprannaturale dei grandi autori della letteratura
italiana, alla presa di distanza dai moduli della letteratura arcadica e
pastorale (contro cui anche Breme aveva lanciato i suoi strali); dal rifiuto
dell’imitazione servile degli antichi classici, la cui morale naturale
sarebbe stata fondata su falsi presupposti, alla rivendicazione della
letteratura romantica come apportatrice di moderni e nuovi e veri fermenti
morali; dalla polemica contro le regole arbitrarie, e specialmente
quella delle due unità drammatiche, che nella tarda versione della lettera
suddetta sarà di poco attenuata, all’appassionata difesa delle poetiche
romantiche, molto forte e decisa nella versione del ’23.
In particolare per Manzoni resta indiscutibile che le verità della
ragione sono strettamente correlate ai valori morali e alle verità del
Vangelo: un punto ineludibile che nella lettera Sul romanticismo resta
fermo fino alla stesura definitiva, come aveva del resto visto in anticipo
lo stesso Petrocchi. Il romanticismo manzoniano è inconcepibile
senza le verità e l’esperienza del cristianesimo (a prescindere dalle venature
gianseniste presenti nella fase immediatamente successiva alla
conversione dello scrittore). È al cristianesimo che va ricondotto per
Manzoni il sentimento tutto moderno dell’infinito o quello della speranza
della vita eterna che riscatta i dolori più atroci e le più atroci
ingiustizie della natura e della storia. Non a caso, vorrei anche sommessamente
aggiungere, già Visconti nel saggio Riflessioni sul bello,
aveva osservato che per i pagani «l’ideale verità del Messia, dipinto
da Leonardo, nell’Ultima Cena sarebbe stata […] un enimma»13.
Petrocchi suggerisce un collegamento tra le linee guida della lettera
manzoniana a d’Azeglio, compresi i presupposti morali ed evangelici
che sono alla base del vero romantico, e il contenuto della seconda
delle quattro lettere al giovane ebreo veneziano Marco Coen, alla quale
lo studioso dedica un apposito esame sempre ricco di feconde e
acute annotazioni, rivalutando un documento trascurato dai manzonisti,
che, tra l’altro, introduce sorprendenti varianti esplicative delle
categorie dell’utile e dell’interessante, di cui si propongono rispettiva-
13 Ivi, p. 358.
[ 7 ]
Manzoni e altre questioni romantiche 677
mente come lezioni alternative quelle dell’efficace e dell’aggradevole.
Soprattutto Manzoni motiva ulteriormente la presa di distanza dello
scrittore dalle cosiddette opere d’invenzione, che conterrebbero – egli
scrive al giovane Marco – una fisica e una morale «tutta loro con certe
idee intorno al merito e al valor delle cose, intorno al bello, all’utile, al
grande, idee che non hanno in sé più verità, che le immagini dei centauri
e degli ippogrifi». La lettera in esame è del 1832, un anno in cui
si erano già manifestati a sufficienza sviluppi degeneri delle poetiche
romantiche maturate nella gloriosa stagione 1816-’19 e si avvertiva
nell’aria una sorta di riflusso rispetto a un’idea di letteratura impregnata
di valori civili e morali e religiosi, seria nei contenuti e strumento
di comunicazione tra gli uomini. Di fronte all’impaziente e irrequieto
giovane veneziano, il quale inseguiva sogni di gloria letteraria
rifiutando il lavoro paterno di mercante, Manzoni, respingendo l’idea
di una letteratura intesa come vuoto diletto, assume il ruolo del maestro
di verità e di saggezza, trasformando la lettera in esame, sottolinea
Petrocchi, in un documento di grande significato, in quanto travalica
la destinazione personalizzata (cioè la persona di Marco Coen)
per divenire una ulteriore, preziosa testimonianza dell’idea manzoniana
di vita e di letteratura. E questo al di là del fatto che i colloqui
tra i due ebbero un seguito a Milano, tra il ’45 e il ’46 e ancora fino al
1848, ai cui eventi il Coen partecipa entusiasticamente a Venezia a
fianco di Manin. Come osserva acutamente Petrocchi, nella corrispondenza
col nobile veneziano «il personaggio ideale con cui lo scrittore
colloquia, ha cessato di essere Marco Coen, è proiezione d’un se stesso
che dinanzi allo spettro d’inquietudini affatto private rifiuta la gloria,
o l’allontana da sé come paventata apportatrice di sofferenze […]».
S’è detto delle forti convergenze tra la lettera Sul Romanticismo e
l’impostazione culturale alla base della missiva esaminata al Coen:
l’una sostiene l’altra, secondo la proposta critica di Petrocchi, nel caratterizzare
le scelte manzoniane in senso romantico, scelte che si contrappongono
a quelle del Leopardi della Lettera ai compilatori della Biblioteca
Italiana in risposta a quella di Mad. La Baronessa di Staël Holstein
ai medesimi (18 luglio 1816), e del Discorso di un italiano intorno alla poesia
romantica (1818), che del primo documento rappresenta notevole
integrazione e compimento. Nel passare dalla Lettera al Discorso, il
giovane Leopardi ribadisce l’autorevolezza e la validità dell’insegnamento
dei latini e dei greci di fronte a una moderna poetica delle passioni
e accusa i romantici di sviare il legame del cuore e del sentimento
con la natura, legame tradito a vantaggio delle astratte idee e della
nuda ragione.
[ 8 ]
678 GIUSEPPE Antonio CAMERINO
Ancora oggi, a distanza di più di 40 anni, sembra estremamente
problematico trovare qualche affinità caratterizzante tra Leopardi e i
romantici e Manzoni, ma nessuno finora ha ricordato che di lì a qualche
anno di distanza dal Discorso leopardiano, nella già menzionata
lettera del ’23 a d’Azeglio, dopo aver polemizzato contro le regole arbitrarie,
e specialmente quella delle due unità drammatiche e dopo aver fatto
esplicita menzione dell’utile per iscopo e dell’interessante per mezzo e del
vero per soggetto, Manzoni osserverà testualmente: «il falso può bensì
dilettare, ma questo diletto, questo interesse è distrutto dalla cognizione
del vero; è quindi temporario e accidentale. […] Quando un nuovo
e vivo lume ci fa scoprire in quella idea il falso, […] il diletto e l’interesse
spariscono»14. È un’affermazione che, almeno sul piano del metodo,
affianca Manzoni a Leopardi, il quale, sia pur in un’ottica molto
diversa, l’avrebbe sottoscritta in pieno. Il Recanatese in effetti aveva
preceduto il romantico Alessandro in questa tormentata distinzione
tra falso e vero, tra dilettosi errori e ameni inganni dell’immaginazione
e duro e gelido vero della ragione: con la grande differenza però
che Leopardi non potrà mai rinunciare definitivamente alla funzione
per lui vitale del falso in poesia, cioè alle illusioni e agli ameni inganni
della sua prima età e, almeno limitatamente ai Canti, solo una volta si
illuse «[…] che conosciuto, ancor che tristo, / ha i suoi diletti il vero.
[…]» (Al conte Pepoli, vv. 151-152)15. Manzoni, invece, del tutto negato
agli errori e agli inganni leopardiani, ai quali sostituisce romanticamente
il vero storico e il vero morale, nel passo della lettera appena
citato, si affretta ad aggiungere: «Ma il vero storico e il vero morale
generano pure un diletto; e questo diletto è tanto più vivo e tanto più
stabile, quanto più la mente che lo gusta è avanzata nella cognizione
14 Ivi, p. 114. Nell’edizione del 1870, invece, non si farà più esplicita menzione
dell’utile per iscopo e dell’interessante per mezzo e ci si limiterà soltanto al primato del
vero «l’unica sorgente d’un diletto nobile e durevole; giacché il falso può bensì
trastullar la mente, ma non arricchirla, né elevarla; e questo trastullo medesimo è,
di sua natura, instabile e temporario, potendo essere, come è desiderabile che sia,
distrutto, anzi cambiato in fastidio, o da una cognizione sopravvegnente del vero,
o da un amore cresciuto del vero medesimo» (ivi, p. 44).
15 Mi sia concesso, su questo confronto Manzoni-Leopardi riguardo al concetto
di vero, rinviare a G.A. Camerino, Profilo critico del romanticismo italiano, Novara,
Interlinea (“Biblioteca letteraria dell’Italia unita”), 2009; si veda almeno alle pp. 45
e 78. Sulla momentanea illusione leopardiana – legata alla composizione della canzone
Al conte Pepoli – di poter generare poesia con l’arido vero, mi sia concesso invece
rinviare al mio saggio, L’invenzione poetica in Leopardi. Percorsi e forme, Napoli,
Liguori (“Critica e letteratura”), 1998, pp. 62 ss.
[ 9 ]
Manzoni e altre questioni romantiche 679
del vero: questo diletto dunque debbe la poesia e la letteratura proporsi
di far nascere»16.
Di fronte a questa possibile convergenza tra Leopardi e Manzoni,
sia pur limitata a una analogia di metodo, sono convinto che Petrocchi,
se per caso l’avesse tenuta presente, ne avrebbe dedotto conferma
di quanto egli stesso proprio in quel suo scritto leopardiano aveva già
acutamente intuito; cioè l’esistenza di qualche significativo elemento
comune tra il Recanatese e le poetiche romantiche. Del resto, un altro
di questi elementi comuni Petrocchi l’aveva individuato proprio in
quel suo medesimo scritto quando afferma che Leopardi «sopravvaluta
l’elemento intellettuale della poetica romantica e non percepisce
appieno la realtà passionale d’essa, se dice nel Discorso che “una delle
principalissime differenze tra i poeti romantici e i nostri […] consiste
in questo: che i nostri cantano in genere più che possono la natura, e i
romantici più che possono l’incivilimento, quelli le cose e le forme e le
bellezze eterne e immutabili, e questi […] le opere degli uomini”»17.
L’idea di una letteratura testimone di verità era di Manzoni così
come dei collaboratori del «Conciliatore», i quali si sentivano anche
per questo autorizzati alla ricerca di una prosa moderna, anche narrativa,
non tanto dedita a dilettare, ma soprattutto intessuta di riferimenti
allusivi, viatico di messaggi morali e civili che potessero scavalcare
la censura governativa. L’aneddoto, tra l’amaro e l’ironico,
del sultano e del muftì, il racconto Breve soggiorno a Milano di Battistino
Barometro di Pellico, la favola esopica di Pecchio, quelle di Federico
Confalonieri, tra cui Viaggio d’un abitante della luna, due narrazioni
di Breme, Leggenda profetica del settimo secolo, marcata satira dell’erudizione
pedantesca, e Novella letteraria, in cui si riconoscono personaggi
reali, l’ironica e patetica Storia di Lauretta di Borsieri sono alcuni
degli esempî già significativi di una narrativa di alto livello nel
Foglio Azzurro; nel quale pure spesso compaiono testi con sigle al
posto delle firme d’autore. Petrocchi, con perizia anche linguistica,
ritiene di poter attribuire a Confalonieri alcuni testi siglati, come era
accaduto al Branca editore del Foglio Azzurro (riguardante però, in
quel caso, un’ulteriore puntata di uno scritto già attribuibile a Confalonieri);
e con questo intento fornisce una finissima analisi di qualche
racconto di dubbia attribuzione, come la Lettera di un viaggiatore scrit-
16 A. Manzoni, Sul romanticismo, cit., p. 114.
17 G. Leopardi, Discorso sul Romanticismo, in Id., Tutte le opere, introduzione di
W. Binni, a cura di E Ghidetti, Firenze, Sansoni, vol. I, p. 922. Nel testo di Petrocchi
questa citazione leopardiana si presenta in verità un po’ lacunosa.
[ 10 ]
680 GIUSEPPE Antonio CAMERINO
ta dal Sempione ad un suo amico milanese intessuto di magistrale ironia
e di sapida pittura di costume, e Novella orientale, breve e simbolico
apologo con allusioni di carattere politico e sociale difficilmente decifrabili.
Ho di proposito lasciato per ultimo il capitolo nel volume delle
Lezioni dedicato a Manzoni e Dante, in cui il legame con le poetiche
romantiche viene dal romanziere del tutto eluso, ma proprio per questo,
illumina – come in controluce – un’analisi molto interessante sui
rapporti che la letteratura del primo Ottocento, romantici e classicisti
inclusi, instaura col poeta della Commedia, oltre che sui rapporti tra
Manzoni e gli stessi romantici. Infatti, se per il giovanissimo autore di
acerbi componimenti quali Il trionfo della libertà e Urania il modello
dantesco trascorre da quello del Monti della Bassvilliana e della Bellezza
dell’Universo a quello dei sonetti e dei Sepolcri foscoliani, successivamente,
con la conoscenza del Fauriel, interviene anche una nuova, più
consapevole lettura di Dante; soprattutto del Dante poeta dell’esilio,
come mostra il sonetto manzoniano A Francesco Lomonaco. Petrocchi
rileva pure alcuni inconfondibili stilemi e lessemi danteschi che emergono
nel Carme in morte di Carlo Imbonati e i tratti stilnovistici e quelli
cromatici che riprendono quelli tipici del Purgatorio nell’ode A Partenide
del danese Baggesen, che proprio Fauriel aveva tradotto e pubblicato
(tra il 1809 e il 1810); e sempre Petrocchi dedica pure alcuni significativi
cenni al fatto che Manzoni, ammiratore in modo convenzionale
del maraviglioso soprannaturale dantesco, in omaggio alle posizioni
dei romantici al riguardo (si veda nella Lettera sul Romanticismo, testo
del 1870), abbia evitato di farsi coinvolgere nelle polemiche di tradizione
protestante contro la corruzione papale alimentate non poco
dalle apostrofi contro i pontefici corrotti nella Commedia, osservando
infatti che «posto dinanzi alla necessità di utilizzare tutti gli elementi
necessari per negare le proposizioni del Sismondi, in quella fitta casistica
che quando trascende il fatto teologale e penetra nel mondo storico
non ha tutto il quadro obbiettivo dei rapporti tra la Chiesa di Roma
e la situazione politica dell’Italia, trova più agevole “glissare” sulle
immagini e le ragioni del risentimento di Dante, anziché imbarcarsi
in una diatriba che avrebbe cambiato avversario: non più il Sismondi,
ma nientedimeno Dante, e proprio quel Dante d’ardente passione politica
che i contemporanei di Manzoni più amavano, mitizzavano,
sentivano coevo ai propri ideali di patria». Non è un caso, mi sia lecito
aggiungere, che al Sismondi della Histoire des républiques italiennes lo
scrittore lombardo risponderà con lo scritto Sulla morale cattolica, in
cui, tra l’altro, il problema della corruzione del papato nel Medio Evo
[ 11 ]
Manzoni e altre questioni romantiche 681
verrà avvertito solo all’interno di un fenomeno assai più vasto, esteso
al potere politico in senso più generale18.
Petrocchi non entra dunque nella intricata vicenda del presunto
guelfismo manzoniano, ma si sofferma sull’interesse notevole che,
dopo la sua conversione, lo scrittore lombardo mostra per il De vulgari
eloquentia, opera pur lontanissima dalle sue tesi di ordine linguistico.
Ciò non toglie che Manzoni, nell’Appendice alla relazione intorno
all’unità della lingua e ai mezzi di diffonderla (è questo il titolo esatto
dello scritto che Petrocchi chiama semplicemente Relazione), facendo
leva sull’esempio di alcuni dannati che nell’Inferno riconoscono
nell’accento dell’Alighieri un loro concittadino, apprezzerà e riconoscerà
come fiorentina la lingua del poema, «con un equivoco di fondo
che non verrà così presto dissipato,» – chiosa Petrocchi – «ma, ai
fini che il Manzoni si proponeva, l’esempio non poteva certo valere
l’opposto, e cioè che il poema, come aveva affermato il Perticari, fosse
stato scritto “con parole illustri tolte a tutti i dialetti d’Italia”».
È ripresa in questa chiosa un’ennesima variante dell’opposizione
tra romantici e classicisti, qui rappresentati dal genero di Monti (contro
cui – mi sia concesso di ricordare – in termini affini a quelli manzoniani,
reagirà Francesco Torti). Opera ancor sempre in Manzoni il mito
romantico della genuina parlata di un popolo inteso come nazione; un
mito storicamente fecondo, si direbbe, se permette all’autore dei Promessi
Sposi da una parte di respingere le nostalgie trecentiste dei puristi
e del padre Cesari e dall’altra di postulare un’idea di lingua dell’uso
capace di assimilare, sia pure entro forti limiti di compatibilità, anche
quella dei trecentisti minori e del geniale poeta della Commedia. Petrocchi
non avrebbe certamente dato grande rilievo a questa presa di
posizione manzoniana in fatto di lingua se non vi avesse riconosciuto
un autorevolissimo apporto al dibattito storico in materia19.
Giuseppe Antonio Camerino
(Università degli studi del Salento)
18 Molto importante su questo argomento quanto si legge in A. Di Benedetto
Il discorso sulla dominazione longobarda, in Id., Dante e Manzoni, Salerno, Pietro Laveglia
editore, 1987 (nuova edizione 2009), pp. 89-113 (ma già apparso come Introduzione
a A. Manzoni, I longobardi in Italia, Torino, Fògola, 1984, pp. 7-38).
19 Non è un caso – mi sia concesso di aggiungere a integrazione dell’analisi
condotta dallo studioso e solo per fare un esempio – che l’invocazione della cosiddetta
lingua dell’uso e contestazioni quasi identiche a quelle manzoniane a Perticari
erano state già avanzate da Francesco Torti in uno scritto inviato in forma di
lettera a Monti: si veda ora Dante rivendicato: lettera al sig. cav. Monti, a cura e con
prefazione di C. Trabalza, Città di Castello, Lapi, 1901.
[ 12 ]
LUIGI REINA
Pompeo Giannantonio
tra storiografia e critica del ’900*
Throughout his career as a critic, Pompeo Giannantonio never yielded
to over-specializatin or to militant attitudes of any kind. There
is no doubt, however, that his studies in the field of contemporary
literature were noteworthy both for their originality and their
gnoseological quality. His activity as a scholar was based on an express
wish to connect the theoretical interpretative tradition of the
critical idealism as it developed in the south of Italy (Vico-De Sanctis-
Croce) with the more recent Neapolitan and non-Neapolitan
models (Toffanin and Battaglia together with Petrocchi e Auerbach),
which gives a clear account both of the authors he chose and of his
textual interpretations. In his view criticism must be seen as wary
and judicious form of cooperation that places the expectations of his
ideal readers before any partisanship.
Non episodico, e nemmeno occasionale l’interesse di Pompeo
Giannantonio
per la letteratura contemporanea; e tuttavia non si può
dire che esso sia mai veramente approdato allo specialismo accademico
o all’impegno critico di carattere militante, per una serie di ragioni,
persino tra loro contrastive, che, semplificando al massimo, cercherò
di enucleare.
La prima ragione, elettivamente sapienziale ed extra-istituzionale,
aveva connotazioni d’eccellenza che travalicavano ruoli e funzioni e
sollecitavano scommesse critiche e confronti capaci di distinguere tra
rischi di esaltazioni reverenziali e arditezze di confronti, con rivisitazioni
opportune e sistematiche riprove metodologiche o testuali,
avendo segnato, quanto a rilevanza specifica, i percorsi della secolare
riflessione sulla cultura estetica e storico letteraria lungo la linea tutta
meridionale Vico-De Sanctis-Croce, da sempre coltivata e discussa in
città, anche se, magari più fuori che dentro l’Università.
* Relazione letta nel colloquio Ricordo di un Maestro: Pompeo Giannantonio. A
dieci anni dalla scomparsa (Napoli, Università Federico II, 29 marzo 2011).
Pompeo Giannantonio tra storiografia e critica del ’900 683
La seconda ragione, di precisa marca di accademica qualificazione,
era determinata da contingenze strutturali e da condizionamenti ambientali,
e imponeva precise scelte di campo che produssero, nella
scuola napoletana, prima un lungo radicamento in territori «umanistici
» ispirato dal magistero investigativo e storiografico di Giuseppe
Toffanin, e poi una sorta di conversione filologico-interpretativa conseguente
alle differenti sollecitazioni dettate dal magistero «romanzo»
di Salvatore Battaglia, di cui Giannantonio rivendicò sempre una sorta
di figliolanza fiduciaria, testimoniata, tra l’altro, dal ruolo di prestigio
da lui svolto nella rivista del Maestro, «Filologia e Letteratura»,
legittima erede della già gloriosa «Filologia romanza».
La terza ragione, di carattere più personale e privato, si connetteva
a un impegno parallelo di collaborazione a progetti che rispondevano
contemporaneamente a istanze provenienti dal mondo scolastico e ad
esigenze di offerte conseguenti da parte dell’industria editoriale cui
anche l’accademia cominciava a fornire risposte di servizio.
La quarta – e per ora ultima – ragione chiamava in causa la responsabilità
del ruolo dell’intellettuale di formazione accademica cui si
chiedeva, con sempre maggiore forza, una più assidua e dialogica presenza
nel dibattito culturale che si cominciava a consumare anche, parallelamente,
su organi di stampa di precipua caratterizzazione militante
e su riviste culturali (di varia umanità, come si usava definirle)
più sensibili alle ragioni della scienza, se si volevano evitare i rischi di
consegnare la definizione del presente al gusto o agli interessi organizzati
di giornalisti, didatti, o operatori culturali, fossero pure lettori
di professione, affidatari di interessi non sempre coltivati in terreno
letterariamente fecondo.
Giannantonio, più di tutti a Napoli, forse grazie a una sua particolarissima
disponibilità ricettiva e relazionale, si sentiva vocato a cercare,
in qualche modo, la possibilità di coniugazione delle varie esperienze
per trarne frutti anche diversamente fruibili, quasi inseguisse
una sorta di sincretismo critico nel tentativo di conciliazione di distinzioni
troppo marcate, come la molteplicità della sua produzione bibliografica
ben testimonia.
E se ciò valeva per gli studi dedicati ai consolidati testi della secolarità
letteraria (Dante, Umanesimo, Arcadia, Manzoni, Verga, De
Sanctis…),
non meno aspirava a valere per la contemporaneità.
C’era, naturalmente, da affrontare, prioritariamente, un problema
di metodo e da chiarire certi presupposti coinvolgenti le precipue ragioni
della scienza e quelle della sua possibilità di espansione applicativa
su basi che imponevano precise scelte di campo ma che prelude-
[ 2 ]
684 LUIGI REINA
vano contemporaneamente ad operazioni di carattere divulgativo e
anche funzionalmente didattico.
Lo studioso se ne pose da subito il problema e ne colse le motivazioni
individuando, nel tempo, modalità di intervento che chiamavano
in causa le nuove responsabilità dell’intellettuale, nei confronti
della società oltre che della scienza, in epoca di espansione democratica
della cultura (anche a rischio di omologazione mediale, e di scolarizzazione
diffusa), cercando di mettere a frutto il mai dimenticato
insegnamento del De Sanctis cui richiamava, ad esempio, mentre si
prodigava nell’allestimento di un convegno internazionale dedicato
al critico irpino, dalle pagine di «Critica Letteraria» discutendo di Letteratura
e società (1976)1 relativamente all’«indipendenza dell’arte» che
– parole del De Sanctis – «è il primo canone di tutte le estetiche e il
primo in assoluto del Credo, né un’estetica è possibile che non abbia
questo fondamento».
Naturalmente Giannantonio utilizza la citazione per rimarcare la
sua distanza da certa critica contemporanea che, mostrando di voler
assimilare la lezione del De Sanctis, di fatto si allontanava dalla concezione
del maestro circa la «forma» quale attività autonoma dello spirito,
per sposare tesi di differente ascendenza estetica, troppo legate a
particolari contenuti per eccesso di sociologismo o per sovraccarico di
ideologia, come puntualmente sottolineato nell’intervista sulla critica
contemporanea concessa a Claudio Toscani per «Otto/Novecento»,
1979.
Proprio dal presupposto dell’indipendenza, o autonomia che dir si
voglia, scaturisce la prima esemplificazione antologica di un quadro
autorale della civiltà letteraria italiana del Novecento progettato e firmato
congiuntamente con Giorgio Petrocchi ma verosimilmente allestito
da Pompeo Giannantonio: Letteratura, critica e società del Novecento
(1971). In una succinta Prefazione gli autori precisavano, quasi per
dichiarazione di intenti:
«S’imponeva da tempo l’esigenza di avvicinare sempre più la nostra
Scuola alla Letteratura contemporanea, che accoglie e riassume in sé i
temi più vivi e le voci più pressanti della nostra epoca. Infatti tanti nostri
scrittori vivono nelle loro pagine il travaglio della nostra età innalzandolo
a forma di arte e ad espressione poetica. Questo dialogo, appunto,
tra letteratura e società doveva essere portato a conoscenza di
quanti recepiscono in modo razionale i fermenti e le istanze del nostro
1 Poi in P. Giannantonio, Contemporanea, Napoli, Loffredo, 1993, pp. 55.
[ 3 ]
Pompeo Giannantonio tra storiografia e critica del ’900 685
tempo… si è inteso dare una risposta agli interrogativi del momento e
nello stesso tempo si è proposta un’interpretazione della realtà».
Naturalmente la traccia desanctisiana è già in quell’implicito richiamo
al vivente, come è evidente lo spirito di servizio che suggerisce
l’allestimento dell’opera (altrove Giannantonio preciserà: «Quando
mi accingo a scrivere un libro o un saggio critico cerco di non dimenticare
mai i possibili miei venticinque lettori e la loro specifica preparazione,
per questo motivo mi adopero ad essere compreso senza sforzo
sia su piano linguistico che su quello espositivo. A maggior ragione
i libri scolastici risentono di questa disciplina»2.
Due esigenze ugualmente coltivate, dunque: quella scientifica della
definizione dell’oggetto trattato come strumento utile a delineare,
ad opera dello studioso, un tracciato di «civiltà letteraria», vale a dire
di una mappa nella quale desanctisianamente «confluiscono i molteplici
motivi dell’attività razionale dell’uomo»3, e quella pedagogica
sottesa all’offerta di fruizione formativa della stessa che chiama in
causa, quasi come istituendo imperativo categorico, per dirla con le
parole di Giannantonio, il magistero del docente. «Noi operatori accademici
– scriveva – dobbiamo portare nella scuola i frutti e le conquiste
delle ricerche universitarie proprio con quello spirito di servizio
che ci distingue»4.
Se l’assunto è dichiaratamente desanctisiano, però, la realizzazione
dovette coerentemente misurarsi con la cultura e la capacità d’ascolto
dei destinatari per i quali le complesse compilazioni, le articolate sistemazioni
storiografiche, gli spesso contrastanti assunti critici, non
contribuivano a sanare, anche per effetto delle metodologie vecchie e
nuove, già in fase di aperta conflittualità (come Giannantonio non
mancava di sottolineare in interventi a congressi o su organi vari:
«Quarto Potere», «Otto/Novecento», «Critica letteraria», «Nuova Secondaria
», «Osservatore Romano, «Il Mattino», …), il deficit d’informazione
che si faceva sempre più evidente in un sistema educativo
sulla via del tramonto.
La soluzione la forniva ancora la tradizione culturale della città
attraverso il recupero parziale di un suggerimento del Croce (peraltro
presente come tale anche nella ricordata scuola napoletana di Toffanin)
che, mentre sembrava richiamare all’organicità con la proposta
2 Ivi, p. 22.
3 Ivi, p. 57.
4 Ivi, p. 23.
[ 4 ]
686 LUIGI REINA
dello studio (e quindi di un’offerta) di tipo monografico, di fatto non
escludeva la possibilità di utilizzo di campioni significativi per eccellenza,
che diventavano anche supporti effettivi dell’interpretazione,
con tutto quanto dipendente ancora dal gusto o dalla programmazione
anticipata dell’emittenza.
Di qui il progetto: 100 autori presentati in successione cronologica
e numerazione progressiva, desanctisianamente rappresentativi della
civiltà letteraria del Novecento, ma crocianamennte selezionati secondo
criteri d’eccellenza estetica, e con attenzione alla loro potenzialità
di rappresentazione di un percorso intimamente quanto storicamente
probante (ancora De Sanctis e, forse anche un po’ Auerbach) e scelta di
campioni testuali definiti, nell’introduzione al volume, «pagine esemplari
o comunque stimolanti». Vi si ritroveranno: 67 narratori; 29 poeti;
tre autori dialettali, e in più – unico scotto evidentemente pagato
alle condizioni della letteratura del momento – Antonio Gramsci recuperato
per l’ipotesi di nuovo umanesimo riscontrabile nella sua opera
e per le sue consonanze desanctisiane, attestate criticamente dalla pagina
analitica esibita a firma di Mario Alicata che s’affiancava (a complemento
della sezione in cui venivano proposte quattro brevi prose
gramsciane) alle pagine illustrative di Pietro Pancrazi e di Carlo Muscetta.
Perché la struttura del volume prevede, appunto, per ciascun
autore, tre sezioni: 1. Profilo bio-bibliografico; 2. Testi; 3. Critica.
Puntualmente gli autori informavano:
«[…] per ogni scrittore si è tracciato un profilo bio-bibliografico, ponendo
in risalto motivi validi e indicazioni utili per un più proficuo
dibattito culturale e per un ulteriore approfondimento critico. Le pagine,
poi, degli autori sono state scelte fra quelle più emblematiche, e nel
contempo più incisive, tanto da offrire al lettore la possibilità di farsi
un’idea precisa dell’opera e della personalità dello scrittore, senza che
egli, ovviamente, dimentichi la realtà quotidiana. Agli stessi criteri ci si
è ispirati per le pagine critiche».
Naturalmente si potrebbe discettare sulle modalità di attuazione
del progetto, sia in merito alle scelte effettuate (autori, testi e brani
critici) e sia in ordine alla sistemazione o successione dei singoli profili.
Ma preferiamo limitarci a sottolineare la coerenza complessiva
dell’offerta: la dichiarata esigenza didascalica rimane sempre sottesa
al discorso critico strutturandosi come scarna biografia, proprio per
dovere precipuo di informazione essenziale, propedeutica alla lettura
dei testi poi parsimoniosamente esibiti, i quali, privi come sono di
glosse o commenti, sollecitano alla necessaria verifica integrativa at-
[ 5 ]
Pompeo Giannantonio tra storiografia e critica del ’900 687
traverso la lettura dei brani critici da assumere quali strumenti utili
alla comprensione e alla personale riflessione, così come la nuova didattica
della scuola attiva aveva incoraggiato a fare. Il tutto apparentemente
fuori da quei condizionamenti che una crestomazia letteraria di
tipo autorale può produrre.
Apparentemente, si diceva, perché poi, in realtà, anche la scelta dei
critici cui affidare la sintesi interpretativa o la proposta di analisi subiva,
naturalmente, gli effetti di una selezione rispondente all’idea di un
progetto editoriale che non vuole rimanere asettico ma aspira a contribuire
alla formazione di un gusto per il quale la crociana «intuizione
lirica» abbia possibilità di esercitare il suo magistero e ricevere una
verifica di fatto attraverso il «contributo emozionale» e la «carica di
umanità» liberata dai testi finalizzati a rivelare sempre il «vivente e il
concreto» su cui le scolaresche devono essere invitate a cimentarsi.
«L’arte nella sua genesi – scriveva Giannantonio rispondendo all’inchiesta
sulla critica contemporanea già richiamata, e in aperta polemica
con un certo scientismo tecnicistico che cominciava ad affacciarsi
nella teorie critiche e nelle metodologie di analisi – non segue norme
scientifiche o applica teoremi matematici, ma si affida alla libera attività
creativa dello spirito che inventa di attimo in attimo la sua condotta
e sceglie autonomamente il proprio cammino»5.
E poi ancora, dettagliando con esemplificazione:
«Ogni sistema può avere un suo specifico campo d’azione in consonanza
con la peculiarità dell’opera da esaminare. Infatti per Gadda è
molto appropriata una ricerca stilistica, per Jovine un’indagine storicosociale,
per Pavese un’analisi simbolica. La critica psicanalitica va molto
bene per un autore come Berto o Mastronardi, ma non può essere il
grimaldello che riesce a forzare tutti gli scrigni»6.
Naturalmente Gadda, Jovine, Pavese, Berto, Mastronardi sono ben
rappresentati nell’antologia.
Qualche notazione forse è da aggiungere circa la scelta degli autori
in relazione anche a una ipotesi di periodizzazione che, tuttavia, nel
caso di questo Novecento non appare debba considerarsi prioritaria. Il
secolo viene fatto iniziare da Svevo, introdotto da una scarna biografia
e accreditato con brani critici di Arcangelo Leone de Castris, Bruno
5 Ivi, p 16.
6 Ivi, p. 17.
[ 6 ]
688 LUIGI REINA
Majer, Giorgio Luti e, naturalmente, Salvatore Battaglia. A seguire,
poi, sono presentati, fuori da ogni schematizzazione per gruppi, correnti,
scuole: Panzini, Pirandello, Bontempelli, Soffici, Barilli, Pea, Papini,
Borgese, Tozzi, e così a seguire.
A chiudere la serie dei cento notabili è Alberto Bevilacqua scelto
per la testimonianza civile offerta da personaggi che, attestando l’assunto
di definizione estetica prima richiamato, lottano per la libertà,
tra amori, e odi, violenze e passioni «in una visione distaccata – è scritto
– di grande intensità lirica e di rara efficacia rievocativa» (p. 1070).
Si può notare immediatamente, dall’avvio di elenco e dai pochi riferimenti
alla trattazione per singoli campioni, il peso esercitato, anche
nella disposizione della materia, dall’impianto monografico e il
limitato interesse per cronologia e periodizzazione. Assenza presso
che totale dei campioni del decadentismo (non solo Pascoli e D’Annunzio,
ma anche Deledda e Fogazzaro – che ci si sarebbe aspettato
almeno per motivi religiosi – oltre il nuovo astro impostosi dopo le
tanto sbandierate gite a Chiasso, Lucini – con quello che comporta
nella definizione di una linea che ridiscute tutto il secolo); assenza poi
di campioni rappresentativi delle avanguardie (futurismo, novecentismo,
Gruppo ’63), e recupero quasi reattivo di autori ormai del tutto
fuori – per ragioni differenti – dalle sintesi storiografiche (Benedetti,
Pea, Incoronato, Malaparte, Panzini, Petroni, Rosso di San Secondo,
Marotta, Santucci, Troisi…).
Tutto legittimo, naturalmente; ma tutto teso ad offrire, anche nella
campionatura degli scrittori, un prodotto autorale, come abbiamo anticipato,
con forte valorizzazione delle esperienze di autori meridionali
presenti per ben 27 unità (ma vi mancano i calabresi Seminara, La
Cava, Strati, che non saranno recuperati neanche in seguito). Del resto,
l’attenzione di Giannantonio alla letteratura meridionale del Novecento
sarà adeguatamente testimoniata dai dibattiti e dagli studi
ospitati, negli anni, su «Critica Letteraria», oltre che da due precipue
monografie (Scotellaro e Prisco) e dalla «passione» variamente testimoniata
per Jovine.
Per la poesia le cose non vanno diversamente, anche se si fa più
evidente la scelta di campo. La crestomazia sembra calibrata sulla stagione
ermetica, oltre che sull’esperienza vociana (cui è però sottratto
Jahier) che induce a ridimensionare il crepuscolarismo e a ignorare del
tutto Marinetti e il futurismo. Di rilievo appare, con l’inclusione dei
dialettali Pierro, Noventa e Giotti, l’esclusione almeno di Andrea Zanzotto
e di Franco Loi e il privilegio invece garantito all’esperienza ermetica
che, con il Novecento firmato da Edoardo Sanguineti (che sele-
[ 7 ]
Pompeo Giannantonio tra storiografia e critica del ’900 689
ziona, ad esempio – tra i 45 eletti – ben otto poeti futuristi per un totale
di 52 testi), aveva di recente subito un forte condizionamento (non
ancora del tutto superato, se solo consideriamo il parziale dispregio
con il quale da qualche parte si continua a guardare, per citare solo un
caso, all’esperienza di Quasimodo).
L’insegnamento di Toffanin (l’intellettuale cattolico cui Giannantonio
tributa il proprio omaggio commemorandolo nel centenario della
nascita, 1991) apparirà chiaro nella sollecitazione non nascosta dallo
studioso a considerare ogni prodotto letterario sub speciae humanitatis,
vale a dire per quello che testimonia e per quello che rappresenta in
ordine non solo alla testualità organizzata ma altresì per l’intrinseca
valenza «morale» che si sostanzia spesso di valenze religiose motivando
anche il rifiuto del post-moderno e del minimalismo. L’incontro
con L’«Osservatore Romano» e gli interventi che ne derivarono (in
parte confluiti del volume di Testimonianze cristiane, 1994), ne doveva
essere il naturale coronamento. Esso spiega ulteriormente anche l’insistenza
dello studioso sulla definizione dell’arte come libera attività
creativa dello spirito, e della docenza come attività da svolgere come
servizio e con senso etico da ritrovare. Scriveva nell’introduzione al
volume appena ricordato:
«Si va sempre più consolidando il concetto che la spiritualità sia parte
integrante e fermentante del pensiero moderno, onde non si può ignorarne
l’esistenza e né svilirne il contributo nell’edificazione della nostra
civiltà».
Di qui ad esempio, già gli interessi per certa Arcadia e per Alfonso
Maria de’ Liguori, come per Dante. Ma di qui anche gli interessi per
quanto di cristiano si nasconde o alimenta la cultura occidentale, con
l’ansia di ascesi nella ricerca del divino, verificata in una serie di contributi
militanti per anni offerti, da laico, a un quotidiano chierico,
l’«Osservatore Romano», apparentemente a carattere recensorio, ma
in realtà riconducibili sempre a un discorso sulla persona e sul destino
dell’umanità, sulla sorte del pensiero libero e sulla tenuta dei valori.
Vi si conferma la forte tensione umanistica portata in studi che presuppongono
impianti anche differenti, ma che riattestano l’interesse
per l’uomo alimentando una disposizione di ordine pedagogico che
motiva ugualmente il ricercatore, l’erudito e il divulgatore aprendo
l’intellettuale ad una più organica operatività.
Le circostanze traghettavano presto verso avamposti che rivelavano
esigenze più articolate imponendo strumentali soluzioni a doman-
[ 8 ]
690 LUIGI REINA
de crescenti di testi. Operatore e promotore culturale incapace di rimanere
ancorato ai sistemi rigidi imposti dall’accademia, Giannantonio,
tra gli anni ’70 e ’90 guardava al Novecento proprio come al secolo
maggiormente disponibile a favorire un incontro tra generazioni,
incoraggiato dall’industria culturale e dalla nuova società letteraria
che sollecitava a nuove scommesse, ma era ancora in qualche modo
impedito dall’accademia che continuava a graduare qualitativamente
l’esercizio quotidiano della militanza critica, in genere giornalistica e
svolta – come suol dirsi – «a caldo», non certo in posizione di privilegio
rispetto, per esempio, alla filologia, o alla storiografia che richiedevano,
invece, tempi lunghi di maturazione capaci di garantire tutti i
necessari approfondimenti, anche extratestuali, confronti e verifiche
scientificamente perseguite.
Giannantonio intensificò l’impegno come critico militante (collaborazione
a quotidiani e riviste, partecipazione attiva a seminari e
convegni, animatore di riviste. direttore di collane editoriali) e diede
vita a una scuola di cui oggi si possono valutare proficuamente i frutti,
e non solo tra i presenti.
Quasi a segnalare la diversa caratura degli scritti cosiddetti servili
degli accademici da quelli più di routine del giornalismo culturale, gli
interventi militanti di Giannantonio si ritrovano, poi, sistematicamente
raccolti in una serie di volumi (Contemporanea – due edizioni –, Testimonianze
cristiane, La scuola del Manzoni, Prisco, Scotellaro, cui sono
da aggiungere saggi di metodologia, storiografia, teoria e critica), che
sottraggono l’evento all’occasione recensoria e lo espongono a un giudizio
di durata senza comprometterne la tenuta.
Nel tempo è giunta a definizione l’idea di un necessario collegamento
di differenti concezioni della letteratura: quella desanctisiana
che chiama in causa la sua funzione sociale, quella spiritualistica che
esalta il suo valore etico, quella formale o contenutistica, quella estetica,
quella di indirizzo o partitico. Tutte richiamano a una sorta di revisionismo
storiografico che induce a formulare nuove proposte di definizioni.
Ancora una volta sollecitato da richieste che l’editoria veniva verificando
nel mondo giovanile a seguito della scolarizzazione diffusa,
Giannantonio si prodiga in una nuova offerta, questa volta con aperture
storiografiche destinate a fungere da guida lungo i percorsi letterari
del Novecento organicamente definiti. Nacque il volume Il Novecento
letterario. Idee e fatti, 1994. Si trattava di un testo descrittivo che,
della vecchia crestomazia sopra presentata e discussa, conservava tutti
i profili biografici degli autori (che da 100 diventavano 132 – più 30
[ 9 ]
Pompeo Giannantonio tra storiografia e critica del ’900 691
stranieri –, senza del tutto sanare certi deficit di presenze soprattutto
di autori legati a gruppi d’avanguardia) in parte rivisti e accresciuti
ma purgati della bibliografia critica, con eliminazione, però, dei testi e
delle testimonianze critiche che venivano sostituite dal nuovo, sintetico,
profilo storico-critico.
Fondamentalmente le motivazioni di fondo e il complessivo impianto
teorico di riferimento venivano conservati almeno come intenti
primari. Perché poi vi si facevano strada due nuove acquisizioni che
postulavano una scelta di periodizzazione con conseguente sistemazione
storiografica: per cronologia, per gruppi o correnti, con un’attenzione
marcata ai contemporanei percorsi della letteratura straniera.
Ne scaturiva un panorama sintetico che calibrava idee e fatti ma
arretrando di molto i confini secolari per l’evidente esigenza di offrire
uno strumento che evidenziasse il collegamento del secolo con quanto
elaborato dal recente passato sul presupposto che i fatti della letteratura,
pur riflettendo le mutazioni del sociale, crescono e si sviluppano
su presupposti di naturale autonomia, maturati, cioè, al proprio interno
e su grammatiche di genere che si costituiscono solo in parziale
dipendenza anche da quelle elaborate da culture viciniori.
Il volume appare, perciò, più una sintesi repertoriale di storiografia
letteraria dell’Italia unita, sollecitata dal bisogno di accredito anche
in prospettiva europea, che non un vero e proprio manuale storicoletterario
del novecento italiano. A determinarlo concorrevano ancora
il metodo desanctisiano (che continuava a dettare interpretazioni in
ordine ad una definizione di civiltà secondo quanto testimoniato dal
vivente e concreto riflesso nell’opera letteraria) assunto con la vigilanza
delle sollecitazioni crociane volte a difendere dai rischi contaminanti
dell’allotria che appariva in agguato in certe contemporanee discussioni
o proposte editoriali funzionali all’uso politico dello strumento
della letteratura, approdato alle celebrazioni di premi che concorrevano
ad alimentare le grandi tirature e le trasposizioni cinematografiche
(utilizzo allotrio).
Ed ecco spiegate le ragioni dell’arretramento cronologico circa
l’avvio del secolo: non rispondevano ad esigenze autorali ma si riconducevano
alla necessità di ritrovare all’interno della tradizione letteraria
nazionale quelle Premesse del rinnovamento che occupano tutto il
primo dei quatto capitoli in cui il libro, nella sua prima parte, si articola.
Esse occupano uno spazio temporale abbastanza ampio, tra (cito i
titoli dei paragrafi) Eredità del Risorgimento e Naturalismo e Verismo, includendo
Letteratura Rusticale, Scapigliatura, Decadentismo, Classicismo
e Carducci, De Sanctis e il Realismo. Naturalmente il tutto contestualiz-
[ 10 ]
692 LUIGI REINA
zato con riferimenti ai movimenti culturali e alle testimonianze straniere.
Allo stesso modo si articolano i tre capitoli successivi che saldano i
conti con la necessità di una sistemazione organica della materia (La
crisi del primo Novecento; Tradizione e rinnovamento; Verso il Duemila), sul
presupposto di continuità della tradizione del realismo sociale, per la
narrativa, e del simbolismo in versione soprattutto ermetica per la
poesia.
A dimostrarlo è la sistemazione della materia nella terza parte del
volume (la seconda, già ricordata, contiene i profili biografici degli
autori). Intitolata I Temi, propone una serie di profili critici per temi e
autori raggruppati in sei sezioni le cui titolazioni fanno capire già le
motivazioni sottese, mentre rimandano al presupposto monografico
ancora dominante nella concezione di pedagogia letteraria di Giannantonio:
1. Il mondo contadino nella narrativa italiana ed europea;
2. Incunaboli del simbolismo e del decadentismo;
3. Francesco de Sanctis scopre il realismo;
4. Prezzolini e La Voce,
5. Trieste mittleuropea;
6. La tardiva scoperta di Pirandello.
Se l’antologia del 1971 faceva iniziare il Novecento letterario con
Svevo e lo chiudeva con Bevilacqua, questo profilo del ’94 presenta in
prima battuta Carlo Cattaneo e si conclude dubbiosamente con il postmoderno,
dopo un excursus di tipo repertoriale su autori e testi entrati
nelle cronache della quotidianità letteraria cui Giannantonio aveva
preso ad apportare da ultimo il proprio contributo in maniera veramente
militante, soprattutto dalle colonne dell’«Osservatore romano»
e della «Nuova Secondaria».
Ma questo è un altro discorso.
Luigi Reina
(Università degli Studi di Salerno)
[ 11 ]
ROSSANO PESTARINO
Lirica “narrativa”: i Sonetti per la presa d’Africa
di Luigi Tansillo
The essay focuses on the collection of ‘Sonetti per la presa d’Africa,’
published by Tansillo in 1551 in order to celebrate the victorious
siege of Africa, a little town in modern Tunisia, led among others by
don García de Toledo: the structural coherence of the small book as
a whole is shown in terms of ‘narrative lyric poetry,’ as well as in
those of linguistic options, focusing in particular on the borrowings
from the narratives of chivalric epic but also from Petrarch’s ‘Triumphi’.
In un panorama come quello della tradizione dell’opera tansilliana,
sostanzialmente privo di sicuri approdi editoriali che si presentino
come portatori di una “volontà d’autore” che si possa in qualche misura
fregiare di un’intenzione ne varietur, o che si lasci almeno ricondurre
ad una fase cronologicamente certa dell’evoluzione dell’opera
stessa, i Sonetti per la presa d’Africa (Napoli, Mattia Cancer, 1551) occupano
un posto del tutto speciale: costituiscono infatti l’unica silloge
lirica allestita e pubblicata direttamente dall’autore e sotto la sua sorveglianza,
come provano tra l’altro la calibrata struttura e la quasi impeccabile
correttezza della stampa, firmata, secondo quanto ha dimostrato
Tobia Raffaele Toscano, dallo stesso tipografo che in quello stesso
anno stampò anche il Capitolo per la liberazione di Venosa, ossia l’unico
altro testo la cui divulgazione per le stampe si possa attribuire direttamente
all’iniziativa dell’autore1. Per di più, in entrambi i casi, ciò
1 Cfr. T.R. Toscano, Contributo alla storia della tipografia a Napoli nella prima metà
del Cinquecento (1503-1553), Napoli, Ente Regionale per il Diritto allo Studio Universitario
“Napoli 1”, 1992, pp. 64-65 e p. 137. Questa l’argomentazione relativa ai
Sonetti: «Pur in assenza di note tipografiche, non dovrebbero sussistere dubbi
sull’anno, avendo come termine post quem la data della dedica (15 giugno 1551) e
considerando che tale tipo di pubblicazioni si realizzava in tempi brevissimi, e sul
fatto che la stampa sia stata realizzata a Napoli. Per quanto concerne lo stampato-
Meridionalia
694 ROSSANO PESTARINO
che già di per sé non è privo di significato, si tratta di pubblicazioni
“funzionali”, per così dire, ossia finalizzate a un obiettivo concreto: la
lode di don García de Toledo (ma non solo) per i Sonetti, e la richiesta
di alleggerire le guarnigioni imperiali che infestavano la cittadina natale
del poeta per il Capitolo2. Inoltre, a segnalare l’eccezionalità della
stampa dei Sonetti concorre anche il fatto che, come si vedrà, eccettuati
solo pochissimi numeri che ricompaiono sul codice Casella delle rime,
il corpus dei sonetti “africani” rimane circoscritto, non meno per
quanto riguarda i singoli pezzi che nella sua fisionomia complessiva,
a quella precisa esperienza editoriale databile con certezza all’anno di
stampa.
Ciò che interessa soprattutto noi oggi, proprio nel momento in cui,
nell’ambito dell’edizione critica, la raccoltina tansilliana sarà recuperata,
com’è ovvio, nella sua fisionomia originale, smembrata a suo
tempo da Erasmo Pèrcopo al fine di raggruppare i componimenti in
ragione dei diversi destinatari3, è il senso di tale pubblicazione anche
dal punto di vista dei temi, dei motivi, delle forme della poesia del
venosino: e da questo punto di vista la raccolta appare tutt’altro che
estemporanea e improvvisata.
La stampa dei Sonetti, di cui attualmente si conosce un solo esemplare
conservato presso la Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele
III» di Napoli con segnatura Rari XXV I 16, si presenta come sostanzialmente
corretta: quasi impeccabile, si diceva più sopra, perché in
effetti alcuni refusi ci sono, e sono proprio quelli che risultano parzialmente
corretti, come ha dimostrato lo stesso Toscano, dal poeta medesimo,
che apporta anche qualche variante (ma per la verità di poco
re, sarei indotto a pensare a una produzione della tipografia di Mattia Cancer,
perché non solo il corsivo impiegato, ma soprattutto le iniziali silografiche sono
identici a quelli impiegati dal tipografo bresciano nella stampa della Silva de la vita
humana di Camillo Fera (1551) e successivamente nella Collectio miraculorum omnium
di Antonio Berardesca (1553)».
2 Il capitolo si legge ora in edizione critica e commentata in L. Tansillo, Capitoli
giocosi e satirici, a cura di C. Boccia e T. R. Toscano, Roma, Bulzoni Editore,
2010, pp. 340-353.
3 Cfr. L. Tansillo, Il Canzoniere edito ed inedito: secondo una copia dell’autografo ed
altri manoscritti e stampe, con introduzione e note di E. Pèrcopo, Napoli, Consorzio
editoriale Fridericiana/ Liguori, 1996, vol. II, Edizione dalle carte autografe di E.
Pèrcopo a cura di Tobia R. Toscano, parte VI, pp. 3-144, Poesie eroiche ed encomiastiche,
I. Ai sovrani spagnuoli (Carlo V e Filippo II) e ai loro ministri in Napoli e II. Ad altri uomini
illustri spagnuoli e italiani e alle dame nobili napoletane (senza menzionare il fatto
che il sonetto finale della stampa, in quanto amoroso, è collocato da Pèrcopo all’interno
del “canzoniere” amoroso da lui ricostruito nella parte I del primo volume).
[ 2 ]
i Sonetti per la presa d’Africa di Luigi Tansillo 695
momento), sull’esemplare napoletano, che si configura quindi a tutti
gli effetti come postillato autografo di un’edizione d’autore4.
I Sonetti celebrano la conquista di Africa (Aphrodisium per i Romani,
Mahdia oggi, in Tunisia, nel golfo di Hammamet), strappata nel
1550 dalle truppe imperiali, capitanate dall’ammiraglio Andrea Doria,
dal viceré di Sicilia Juan de Vega e da García de Toledo, al fiero Dragut,
insieme ad altre cittadine nordafricane; in particolare, i Sonetti
magnificano, amplificando cortigianescamente il vero storico, il contributo
all’impresa del figlio del viceré di Napoli don Pedro de Toledo,
don García. Va rilevato però come, nonostante l’evidente autorevolezza
dell’edizione, la fisionomia ben nota di un Tansillo irriducibilmente
restio a mettere in stampa le proprie cose non è alterata da una pubblicazione
come questa, vincolata al suo ruolo istituzionale di “poeta di
corte”: poeta e soldato, come ben noto, ed è il poeta che fa il proprio
mestiere, in questo caso, dove il soldato non l’aveva fatto, in quanto,
come Tansillo stesso scrive in una delle prose che corredano la stampa,
non aveva potuto partecipare in prima persona all’impresa, tanto
che la celebrazione dei versi pare quasi presentata come una sorta di
risarcimento di questa assenza. Ma nonostante ciò, anzi forse proprio
per questo, si tratta di una silloge, come si diceva, tutt’altro che estemporanea
o improvvisata, un fatto che è evidente già nella scelta articolata
e funzionale del prosimetro, da intendersi non secondo l’esempio
“dantesco”, per così dire, nel quale prosa e poesia interagiscono dal
punto di vista narrativo, ma secondo la modalità di un vero e proprio
commento, e dunque più propriamente, lato sensu, autocommento. E
un altro prosimetro sarà in un certo senso anche il futuro ms. del 1555
per Rui Gómez de Silva, nel quale ogni gruppo di poesie è introdotto
da una didascalia, mediamente piuttosto estesa, che fornisce alcune
coordinate sulla genesi e sul significato delle poesie che seguono: tanto
che si può forse affermare che la tendenza a questa forma, insomma
la necessità di accompagnare le rime con informazioni e puntualizzazioni
che non possono essere date che in prosa, sia caratteristica di
Tansillo ben oltre le forme, consuete in generale nel Cinquecento,
dell’epistola dedicatoria che di norma assolve a tale funzione in ma-
4 La presenza di correzioni manoscritte non era ovviamente sfuggita al Pèrcopo,
che però non arrivò a proporne la riconducibilità alla mano dell’autore, come
fa ora persuasivamente Toscano sulla scorta del confronto con i pochi autografi
tansilliani certi: cfr. T. R. Toscano, Luigi Tansillo, in Autografi dei letterati italiani. Il
Cinquecento, t. I, a cura di M. Motolese, P. Procaccioli, E. Russo, Roma, Salerno
Editrice, 2009, pp. 319-325: l’expertise alle pp. 319-320.
[ 3 ]
696 ROSSANO PESTARINO
noscritti di dedica e stampe. L’interazione tra i due momenti, prosa e
poesia, è dichiarata con evidenza già fin dal titolo, che a norma di
frontespizio recita: «SONETTI DEL | S. LVIGI TANSILLO | PER LA
PRESA | D’AFRICA. | E ’L DISEGNO D’VNA COL= | lana d’oro, che
Napoli dona al S. | Don Garzia di Toledo. | ALL’ILLVSTRISS. S. |
DVCA DI SESSA»5.
Come si è già accennato, la stampa si lascia leggere secondo un
progetto strutturante ben chiaro e senza dubbio organizzato puntualmente
dall’autore: l’epistola dedicatoria al duca di Sessa (cc. A2r-A3v)
è seguita da 28 sonetti celebrativi dell’impresa e dei condottieri coinvolti,
oltre che del Sessa medesimo e di altri illustri personaggi (cc.
A4r-Ev). A c. E2r trova luogo una letterina indirizzata ancora al Sessa
con l’invio autonomo «Signor mio.», pensata per introdurre, sul
verso della carta, il celebre sonetto Né mar ch’irato gli alti scogli fera,
l’ultimo, e unico amoroso, di tutta la raccolta, già spedito al duca ma
smarritosi, secondo quanto la breve letterina dichiara: forse un espediente
per pubblicare qui uno dei più grandi esempi della tecnica tansilliana
nella lirica amorosa. A partire dalla c. E3r e fino a c. G3v segue,
in prosa, con un nuovo frontispizio centrato, il «DISCORSO DI LVIGI
TAN | sillo sopra la Collana d’oro che la nobilissima | Città di Napoli
dona allo Illus. S. Don | Garzia di Toledo per la vittoria di | Africa
et il disegno a M. Marco | Andrea D’ancora, a M. Han- | nibal D’ancora,
et a M. | Lorenzo de Lorenzi | Orefici eccellentiss.». Si tratta di
una vera e propria ekphrasis che contiene appunto anche il disegno, ossia
il dettagliato progetto di un Tansillo art designer, suddiviso in Historie
e Inventioni, per i quindici pezzi dei quali sarà costituita la collana
da donare al figlio del Viceré: sette raffigureranno a sbalzo i momenti
salienti dell’impresa, altri sette conterranno le «inventioni convenienti
et adattate alle verità del fatto et alla gloria del detto signore»,
ossia i disegni allegorici con motto. Il legame coi sonetti che precedono
è garantito dal fatto che molte delle “historie” erano già state rievocate
in versi, tanto che la raccolta si configura in ultima analisi anche
come un confronto, per così dire, tra arti diverse: poesia (i Sonetti),
prosa storica (le Historie), prosa di “imprese” (le Inventioni) e oreficeria
(la collana vera e propria). E anzi, più che un confronto, una sorta di
vera e propria gara tra le diverse arti, come si vedrà subito, soprattutto
per quanto riguarda la loro capacità di raggiungere celermente con
5 Si avverte che qui e nel seguito, nelle trascrizioni dalla stampa “africana”
(siglata SA), ci si attiene ad un criterio sostanzialmente conservativo.
[ 4 ]
i Sonetti per la presa d’Africa di Luigi Tansillo 697
il loro messaggio le più lontane regioni (capacità nella quale ovviamente
la poesia eccelle sulle altre arti6). La conclusione del Discorso è
segnalata dall’indicazione «IL FINE» a centro pagina, ma in realtà, dopo
un’intera carta bianca, a partire da c. H1r e fino a c. H3r si legge
ancora un breve discorso, firmato dal medesimo Tansillo, e indirizzato,
secondo il nuovo titolo centrato, «A GLI ECCELL. SIGNORI | GLI
DEPVTATI DALLA7 CITTÀ | DI NAP. PER LA COLLA= | NA D’ORO
DESTINA | TA AL S. DON | GARZIA». Last ma certamente not least,
il discorso, datato 18 giugno 1551, è un testo sensibile, che ribadisce da
una parte la fedeltà della città ai Toledo, rievocando anche in maniera
esplicita i «rumori» di qualche anno prima (1547); dall’altra, esso riflette,
come si è già accennato, sulle potenzialità della poesia in confronto
alle altre arti implicate nella celebrazione dell’impresa e del suo
principale artefice. Si legge alle cc. H2r-v:
Desideroso io che la magnificenza di Napoli in questo lodatissimo atto
venga tosto a notitia delle persone et prossime et lontane, ho voluto
con la facilità et la prestezza delle carte et delle penne, vincere et precorrere
il tedio et la | gravità de’ metalli. Disideroso ancora, che si
sappia per tutto, quanto Napoli ami et honori et il padre et il figlio: et
che se qualche tempo parve il contrario, fu più tosto forza o inclinattion
di cieli, la quale in molti luoghi di Italia et del mondo alhora causò
i medesimi rumori, che no volontà et elettion d’animi.
Come è evidente da tutto ciò, si tratta di tutt’altro che di una raccoltina
estemporanea, come Tansillo stesso, con figura retorica di ampia
tradizione, vorrebbe far credere nell’epistola di dedica di cui si
dirà; in più, i Sonetti si inseriscono in pieno nella fase mediana della
produzione lirica tansilliana e forniscono forse anche all’autore, come
si cercherà di dimostrare, alcune interessanti occasioni di riflessione
metapoetica.
Proprio la ragione addotta dal poeta per la decisione di pubblicare
6 Il concetto è certamente topico, e si trova espresso in coordinate simili ad es.
nell’epigramma di Marziale dedicato al ritratto del poeta che avrebbe raggiunto
l’amico lontano cui era indirizzato molto più tardi dei suoi versi, che peraltro sarebbero
stati di quello ben più duraturi (VII 84: «Dum mea Caecilio formatur imago
Secundo | Spirat et arguta picta tabella manu, | I, liber, ad Geticam Peucen
Histrumque iacentem: | Haec loca perdomitis gentibus ille tenet. | Parva dabis
caro, sed dulcia dona, sodali: | Certior in nostro carmine vultus erit; | Casibus hic
nullis, nullis delebilis annis | Vivet, Apelleum cum morietur opus»).
7 Così la stampa, forse da emendare in «DELLA», a meno che non prevalga il
senso passivo di “deputati”, cioè “eletti, designati” dalla città di Napoli.
[ 5 ]
698 ROSSANO PESTARINO
questi sonetti e tutto il “paratesto” che li accompagna (ma il corredo
prosastico è solo impropriamente definibile come tale), suona come
una sorta di excusatio non petita, e va letta appunto, come si è anticipato,
alla luce di un topos piuttosto diffuso, nel quale però Tansillo pare
infondere molto di suo, e di intimamente sentito. Nella dedica al duca
di Sessa (cc. A2r-v) il poeta racconta di essere stato ingannato da Angelo
Di Costanzo, che lo indusse a promettere di «adempire una sua
richiesta» senza sapere preventivamente quale essa fosse:
Saputo quel ch’egli volea si era ch’io non dovessi dar mai più d’allhora
innanzi in altrui mano composition mia, anchor che fusse un | verso
solo, se non in stampa. Dicendome il buon cavalliere, che non gli sofferiva
il core di veder le mie rime andar per le mani del mondo hor depravate,
et hor depredate.
Troviamo qui un riferimento esplicito, se non alla circolazione a
stampa non controllata dall’autore, a quell’altezza tutto sommato ancora
esigua, alle molte rime che dovevano ghiottamente circolare manoscritte,
ma sfigurate dall’imperizia dei copisti («depravate») o saccheggiate
da altri autori («depredate»).
A questo punto entra in scena il dedicatario dell’opera, che richiede
a Tansillo, manoscritti, «tutti i Sonetti da lui composti dopo la presa
d’Africa in lode del Signor Don Garzia di Toledo, et tutte le inventioni
da lui date a i maestri per la Collana d’oro». Preso tra due fuochi, Tansillo
esita a lungo e poi sceglie il male minore, ossia quello di esporsi
potenzialmente alle critiche di coloro che biasimeranno l’esiguità numerica
e la qualità della raccolta di rime che sta per vedere la luce:
Sono stato gran pezza in dubio di ciò ch’io mi facessi. Non ubidire a V.
S. io non posso; mancar altrui della mia parola io non debbo; dare a
stampa le mie cose sempre mi parve duro, quando haveva da farlo et
tempo et agio: tanto più hora mi parrà durissimo che non mi si dà
spatio di sei giorni perché giungano a tempo a Genova, prima ch’el
Principe nostro signore si metta in alto et ch’io sono occupato più in far
polire arme, che non in tinger carte. Al fine io mi sono risoluto, di duo
mali schivare il maggiore: il quale sarebbe stato il mancar a V. S. o a
quel gentilhuomo, et contentarmi del minore; che sarà, che molti mi
biasmeranno, che mandi in stampa sì fatte cose, et sì poche. Mando
dunque tutti quei Sonetti, ch’ella mi domanda: et alcun altro di più8. Se
8 Può alludere al sonetto amoroso che chiude la raccolta, Né mar ch’irato, oppure
più probabilmente ai diversi sonetti che non sono esplicitamente dedicati alla
lode di don García ma che comunque si lasciano ridurre all’orbita della corte vice-
[ 6 ]
i Sonetti per la presa d’Africa di Luigi Tansillo 699
vorrà ch’io segua tutta via lo stile di tanti anni, ch’è darli delle mie rime,
quali elle si sieno, bisognerà, che scriva al detto signor Angiolo di
Constanza: il quale et del valore et del nome di V. S. è divotissimo partigiano
quant’altri che sia, et lo astringa, ch’egli m’assolva da questo
legame, et se non con tutte le persone del mondo, almeno con V. S. solo,
ch’è del cielo.
È tra l’altro significativo come si risentano qui molto chiaramente
le parole che Tansillo aveva indirizzato al duca di Sessa solo l’anno
prima, dedicandogli uno dei due mss. madrileni (J1) studiati da Tobia
Toscano nell’ottica di un discorso sulla “forma-canzoniere” in Tansillo9;
parole che configurano in tutto e per tutto un vero e proprio, e
sempre costante, atteggiamento del poeta nei confronti delle proprie
rime, fondato sì su un understatement anche questo topico e retorico
ma con in più le prove di una coerenza di fondo che è confermata
proprio dalle poche iniziative di raccolta riconducibili a Tansillo stesso,
che tutte nascono nel nome di un mecenate illustre (il Sessa appunto
o il Silva più tardi; Sessa e Toledo congiunti nei Sonetti), quasi che
Tansillo avesse per così dire bisogno di pensare una raccolta delle proprie
rime come indirizzata ad una sola persona, e si sentisse, se vogliamo
ancora molto “umanisticamente”, a disagio nei confronti della
promiscuità del mezzo stampa, di per sé incapace in un certo senso di
scegliersi i propri lettori secundum cor auctoris:
Vorrei, che sì come io ho sodisfatto a V. S. pagando hora a Napoli più
di quello, onde a Sessa me le feci debitore; così Ella, dovunque sarà,
non mi attenesse meno di quel che ivi me promise. Il che fu di non
dare alcuna di queste mie rime a persona che fusse; et di romper ogni
legame di cortesia con gli altri, più tosto che mancar con meco. Desidero
io questo, non perché le tenga in tanta stima, che mi sdegni di darle
altrui: ché non sono sì di me stesso vago, che non conosca et me et le
cose mie. Ma per basse che elle siano, mi grava fieramente vederle andar
maltrattate, sì come aviene quando da più elle sono scritte.
Prima di tutto, dunque, ai Sonetti presiede un’altissima operazione
diplomatica che vede implicati i rapporti del poeta con don García da
reale e dell’impresa d’Africa; oppure ancora, ai tre sonetti al Garigliano, inviati al
Sessa medesimo, che forse con sopresa li avrebbe ritrovati qui a stampa.
9 Cfr. T. R. Toscano, Un “libro” di rime di Luigi Tansillo per don Gonzalo Fernández
de Córdoba, III duca di Sessa, in Id., Letterati Corti Accademie. La letteratura a Napoli
nella prima metà del Cinquecento, Napoli, Loffredo, 2000, pp. 145-182; la lettera è
trascritta alla p. 147.
[ 7 ]
700 ROSSANO PESTARINO
un lato e col duca di Sessa dall’altro, e nella quale la mediazione del Di
Costanzo (definito «devotissimo partigiano» del duca) è invocata, come
si vede, affinché liberi Tansillo dal giuramento pronunciato (ma il
sospetto è legittimo che la mediazione del Di Costanzo possa essere
tacitamente invocata anche per altre ragioni, di carattere, come si diceva,
diplomatico). Inoltre, la stampa può costituire l’occasione per una
forte affermazione di consapevolezza poetica, da parte di un poeta
non più giovanissimo, praticamente inedito, che mandava in stampa,
affrontando il possibile biasimo del pubblico cortigiano, «sì fatte cose,
et sì poche».
L’esiguità numerica della raccolta non è caso unico, se si pensi ad
esempio ai di poco successivi (1560) e di non molto più numerosi
(trentasei+quindici [sedici]) sonetti del Rota in morte di Porzia Capece
con l’esposizione di Scipione Ammirato. Ma se i sonetti del Rota diventeranno
parte del canonico canzoniere alla fine bipartito la cui storia
è stata esemplarmente ricostruita da Luca Milite10, Tansillo invece
lascerà cadere quasi del tutto i sonetti africani, anche Né mar ch’irato,
di tematica amorosa e quindi scisso dall’occasione che in qualche modo
vincolava gli altri Sonetti. Né mar ch’irato manca anche al codice
Casella, o meglio vi compare soltanto aggiunto in fine, e fa parte dunque
dei testi, evidentemente mancanti all’autografo da cui il copista
afferma di stare esemplando le rime, recuperati per sua iniziativa dalle
stampe, onde “completare” il più possibile il manoscritto medesimo.
Ma forse non c’è da stupirsi troppo del fatto che Tansillo abbia
lasciato cadere questo sonetto in particolare, per quanto esso sia uno
dei più riusciti manifesti della sua tecnica: un tale estremo esercizio di
perfezione formale (ma anche, non si può negare, di rigidità metricosintattica)
poteva anche non interessare più a Tansillo nel momento in
cui (quando che fosse, ma certo dopo il 1551) andava scegliendo e ordinando,
non senza difficoltà, le proprie rime, tra cui le molte di ben
altra “fluidità” strutturale: basti confrontare questo sonetto con i molti
amorosi attestati soltanto dal Casella, quelli la cui maturità nel ripensare
e riplasmare in rapporto al discorso poetico le strutture metrico-
sintattiche (di Bembo e soprattutto di Sannazaro, oltre che di Petrarca)
è più che evidente.
A questo proposito, va notato che soltanto quattro dei sonetti “africani”
ricompariranno sul Casella: una selettività che può intanto dirci
10 Cfr. B. Rota, Rime, a cura di L. Milite, Milano-Parma, Fondazione Pietro
Bembo/Ugo Guanda Editore, 2000.
[ 8 ]
i Sonetti per la presa d’Africa di Luigi Tansillo 701
qualcosa sullo statuto del codice, pur tra i dubbi che esso continua ad
alimentare. Si tratta dei sonetti seguenti: il 7 [104, Chi negherà che di
furor divino]11, indirizzato a don García, ripreso però con un decontestualizzante
passaggio, al v. 10, da «Lodando voi, Garzia» a «Lodando
il bel Garzia», di per sé significativo in quanto cancella dal sonetto
stesso le tracce della sua primitiva funzione all’interno della stampa e
lo acquisisce al collettore maggiore semplicemente come un sonetto
di lode del signore; e inoltre il gruppo 26-28 [87-89, dagli incipit Ninfe
a cui dan riposto e bel soggiorno, Deh Gariglian, se pago del tuo regno e
Fiume che ricco, se ben tal non parti], con argomento «al Garigliano
quando il Duca di Sessa il varcò»: ma per i tre sonetti in questione va
ricordato che essi avevano già avuto, a monte, sul citato ms. J1 (cc.
124-125), una storia propria, del tutto indipendente dall’occasione
“africana” per la quale vengono recuperati (ed è questo caso unico,
posto che tutti gli altri sonetti, con forse la sola eccezione di Né mar
ch’irato, però non certificabile alla luce della tradizione manoscritta e
desumibile soltanto da quanto l’autore stesso afferma nella letterina
al Sessa che lo introduce, risultano scritti per l’occasione celebrativa).
Un fatto questo che ci porta a credere che la ripresa dei sonetti al Garigliano
sul Casella avvenga recta via dal ms. di dedica piuttosto che
non tramite il loro recupero sulla stampa africana12. Il che in ultima
analisi finirebbe per implicare che propriamente dai Sonetti passi al
Casella solo il citato sonetto a don García (fatto che, come vedremo, si
può in effetti spiegare). Diverso, e allo stato attuale delle conoscenze
inspiegabile, è il caso dei cinque sonetti 3, 4, 9, 10 e 29 [100-101, 106-
107, 123, rispettivamente Che giaccia la superba Africa doma, Ben è fatal,
Garzia, l’Africa a voi, Può esser, gran Toledo, che si vegga, Spargi d’eterni
11 Anche nel seguito, tra quadre e in neretto si darà il numero d’ordine dei
componimenti citati secondo la nuova edizione critica e commentata diretta da
Tobia Raffaele Toscano.
12 Si noti tra l’altro che l’argomento cambia: sul ms. spagnolo esso legge «Nella
venuta del Duca di Sessa in Regno»; sulla stampa, con intento distanziante simile
a quello rilevato per le varianti del sonetto a don Garzía, «Al Garigliano quando
il Duca di Sessa il varcò». Inoltre, su C i tre sonetti, privi di argomento, sono immediatamente
seguiti dai due che li precedono su J1, nell’ordine Aura che fresca e
S’avien che ’l troppo duol, mentre poche carte più avanti si leggono altri sonetti provenienti
da J1, ossia quelli dedicati al tema della Gelosia (ma anche quello «contra
le mosche»): a riprova del fatto che almeno questa sezione del Casella, cioè dell’autografo
che esso riflette, è organizzata come una sorta di ampliamento e ristrutturazione
di altra già presente sul ms. per il duca.
[ 9 ]
702 ROSSANO PESTARINO
fior, ben nato Ispano e appunto Né mar ch’irato], attestati anche dal molto
problematico ms. M13.
Ma lasciando ora da parte il discorso sulla esigua tradizione dei
singoli sonetti, i Sonetti in quanto silloge unitaria ci interessano a questo
punto almeno su due livelli: quello della struttura poematica e
quello della letterarietà della raccolta, che si cercherà di illustrare di
seguito.
Il sonetto proemiale [98], come recita l’argomento, Invita gli scrittori
latini e toscani a celebrar don Garzia e gli altri spagnuoli vincitori d’Africa.
L’incipit, Cantor di Tebro e d’Arno, a cui secondo, con accoppiata nominale
frequente in tradizione e anche in Tansillo per indicare metonimicamente
i rispettivi ambiti linguistici latino e volgare, ribadisce la duplicità
dell’invito agli scrittori in volgare e a quelli in latino, e funge da
proemio in due sensi: per l’invito al canto rivolto non alla musa ma
appunto agli altri poeti e scrittori, e per la riflessione sull’unità del
popolo cristiano, contenuta nell’artificiosissima prima terzina:
Uno è il regno di Christo; una è la Chiesa:
Tutti sem noi d’un Re; tutti sem noi
Purgati al fiume del suo lato santo.
Oltre all’epanalessi, arricchita dall’inarcatura, è qui notevole l’uso
della forma sem, legata a tutti ad es. in Pd. VIII 32, analogamente enjambée:
«Tutti sem presti | al tuo piacer»: un contesto, quello delle prime
battute di Carlo Martello, nel quale l’anadiplosi di noi, e poi l’anafora
di un/una e dello stesso sem, giocano una parte retoricamente importante,
tanto da scoprire forse qui un luogo della prodigiosa memoria
tansilliana oltre che delle sue letture14. Lo stesso concetto, e in parte
anche con identica formulazione, si ritrova in un passo delle Stanze
composte nella vittoria Africana nuovamente havuta dal Sacratis. Imperatore
Carlo Quinto di Lodovico Dolce, stampate a Roma nel 1535 (di altra
13 Per i problemi che presenta il codice appartenuto a Camillo Minieri Riccio,
ma più in generale per la descrizione e valutazione di tutti i testimoni manoscritti,
si rimanda naturalmente alla Nota al testo dell’edizione critica in corso di stampa,
a cura di T. R. Toscano.
14 «Indi si fece l’un più presso a noi | e solo incominciò: “Tutti sem presti | al
tuo piacer, perché di noi ti gioi. || Noi ci volgiam coi principi celesti | d’un giro e
d’un girare e d’una sete, | ai quali tu del mondo già dicesti: || ‘Voi che ’ntendendo
il terzo ciel movete’; | e sem sì pien d’amor, che, per piacerti, | non fia men dolce un
poco di quïete». Forma e figura ugualmente congiunte ma in un verso di tutt’altro
registro tornano in Tansillo in Capitoli giocosi e satirici II 31: «Or semo a Bari, or semo
a la Calibia».
[ 10 ]
i Sonetti per la presa d’Africa di Luigi Tansillo 703
vittoria africana si tratta qui, quella di Tunisi, il che però non diminuisce
l’interesse del possibile riscontro), in particolare si legga l’ottava
13, 1-5:
Né men devemo vendicar l’offese
(Se sem di Cristo e seguitem la Croce)
Ch’ogn’or dimostra in tante genti prese
E morte, quel ch’a tutto il mondo nuoce,
Barbarossa ladron […]15
È presente qui tra l’altro anche il tema della “vendetta” che non
manca a Tansillo (cfr. il sonetto 20 [117, Tre larghi, illustri e valorosi ladri],
vv. 7-8: «vendican gli sdegni, | Ond’arser tanto tempo i nostri
padri»). A questo proposito, va osservato che diversi sono i contatti tra
i sonetti tansilliani e la letteratura di genere delle varie raccolte “africane”
uscite nel Cinquecento: oltre che con le citate Stanze del Dolce,
si rinvengono riscontri anche con la Felicisima vitoria auta dal S. Principe
d’Oria a la presa dela città d’Affrica et della città de Monesterio ecc. di
Paris Mantovano Fortunato, e ancora con la Gloriosa vittoria et presa
d’Affrica fatta dal illustrissimo et eccelentissimo principe Doria et dal Signor
Don Grazia di Arcangelo da Lonigo, entrambe contemporanee ai Sonetti
e riferentisi allo stesso fatto d’armi16. Questa convergenza permette
tra l’altro di inquadrare la raccolta tansilliana nel corretto genere
letterario, quello cioè di una lirica (si tratta in effetti di sonetti, e non
di ottave), di stampo marcatamente “narrativo”; e inoltre, di definire
anche meglio il problema delle “voci nuove” nel lessico di base petrarchesca:
ciò per ribadire insomma
che l’estensione del concetto stesso
di “voci nuove”, come applicato da Scipione Ammirato ai citati sonetti
del Rota, è solo parzialmente adottabile per i sonetti africani del
Tansillo, che per il lessico si rifanno piuttosto alla tradizione cavalleresca
e all’allargamento della base petrarchesca da essa operato (soprattutto,
come ovvio, l’Ariosto, e in particolare quello del 1532). Un esempio
per tutti: nel son. 6 [103, Mentre con pochi intorno cinge et serra] la
terzina conclusiva raffigura un po’ in caricatura Draut, il fero mostro,
«che d’ira et di duol scoppia»: ora, scoppiare è hapax petrarchesco in
RVF 137, ma riferito all’avara Babilonia, e perciò nel contesto retorica-
15 Si cita da Guerre contro i Turchi (1453-1570), in Guerre in ottava rima, vol. IV, a
cura di M. Beer e C. Ivaldi, Modena, Edizioni Panini, 1988, p. 467.
16 E ntrambe le stampe sono ugualmente riprodotte in edizione anastatica nel
già citato vol. IV delle Guerre in ottava rima, rispettivamente alle pp. 727-732 e 733-
742.
[ 11 ]
704 ROSSANO PESTARINO
mente “aspro” ben noto17; non solo “aspro” ma anche, per così dire,
“guerresco”: «Gl’idoli suoi sarranno a terra sparsi, | et le torre superbe,
al ciel nemiche, | e i suoi torrer’ di for come dentro arsi»: versi che
Tansillo doveva avere in mente, anche in assenza di riscontri puntuali,
nell’elaborare il “petrarchismo allargato” dei sonetti africani. Nell’accezione
tansilliana, però, la parola è ben presente nella tradizione cavalleresca:
cfr. ad es. Pulci, Morgante, I 16, 8: «e scoppia e ’mpazza di
sdegno e di duolo» o XXI 130, 3: «Orlando scoppia di duolo e di pena»
o ancora XXVII 85, 7-8: «e perché Orlando per grande ira scoppia, |
sempre la furia e la forza raddoppia», dove si trova anche la stessa
progressione rimica con raddoppia, e l’identica clausola. Entro la tradizione
di quel genere, perciò, teoricamente allotrio ma qui rifunzionalizzato
da Tansillo alla lirica celebrativa, si inquadrano queste e altre
tendenze dei Sonetti, nonché alcune “cadute”, per così dire, di tono e
stile, verso un dettato prosastico, che si giustificano però entro quella
tradizione (insieme ad altre spie che ci portano più propriamente verso
lessico e sintassi della prosa narrativa, soprattutto degli storici): cfr.
ad es. 10 [107], vv. 9-10: «Era del sangue, onde s’impara come | Huom
vinca o pèra», nel quale l’esordio, Era del sangue, si può confrontare ad
es., anche se il costrutto è leggermente diverso, con Morgante, I 20, 2:
«Era del sangue disceso d’Angrante». Similmente, i sette fanciulli africani
condotti in trionfo sono definiti «Fanciulli a pena del gran danno
accorti», con recupero di sintagma che ricorre in Morgante, XXVII 161,
6: «subito parve del suo danno accorto», la cui piana prosasticità risulta
evidente se se ne esamina invece la resa lirica ad es. di Ariosto, Rime,
canz. 4, 91: «del danno suo Roma infelice accorta» (il verso tansilliano
pare mediare tra i due diversi registri, come conferma anche il
prezioso iperbato Fanciulli… accorti).
Ma per tornare al sonetto proemiale, che proprio in quanto tale è
tradizionalmente luogo di particolari attenzioni stilistiche, anche l’ultimo
verso della terzina già esaminata, «Purgati al fiume del suo lato
santo», è interessante per più ragioni: purgati è verbo tecnico anche
17 Nei RVF ricorre poi “scoppio” sostantivo, ma nel contesto quasi comico del
sonetto di corrispondenza 40 (S’amore o morte non dà qualche stroppio), v. 8: «infin a
Roma n’udirai lo scoppio»: Tansillo usa scoppio nel son. 15 [112, Fera macchina e
grande oltra misura], v. 2, ma passandolo all’accezione, per così dire, “moderna”,
riferita al cannone. Stroppio, inoltre, che rima nel sonetto petrarchesco, è ripreso
da Tansillo, al plurale e fuori rima, nell’incipit del sonetto 17 [114, Potea sul grave et
reo di stroppi et morti], dove serve, espressionisticamente, a denunciare le stragi e
gli sconci perpetrati sui soldati imperiali dal cannone portato in trionfo da don
García.
[ 12 ]
i Sonetti per la presa d’Africa di Luigi Tansillo 705
della predicazione (sconosciuto, in questa accezione, al Petrarca18) ma
per la posizione enfatica in cui è qui a inizio verso può ricordare ad
es., e appunto, Ariosto, Furioso, XV 99, 1: «Purgati de lor colpe a un
monasterio», mentre lato santo, alludente al costato di Cristo, da cui è
spicciato il sangue (fiume) che ha redento (purgati) l’umanità, è figura
che ricorre anche in 53, 57 (si tratta della canzone Poi che ’l dolor che
notte e dì tormenta, scritta per la malattia della donna amata, già attestata
sul ms. madrileno J):
per quanto duol, Signor, fu mai sofferto
dal nobil corpo Tuo sul duro legno;
e per quel santo lato, che fu aperto
per aprirne del cielo il chiuso regno
e siamo in quell’area “seria” della lirica tansilliana, secondo l’etichetta
del Pèrcopo, delle rime «personali, famigliari e religiose».
Quanto all’incipit, «Cantor di Tebro e d’Arno, a cui secondo | Favor
dà il ciel contr’al nemico oblio», esso, con la forte inarcatura, dichiara
l’opzione, ad apertura di silloge, per un dettato aspro e sostenuto:
e d’altronde, enjambement e iperbato saranno poi frequentissimi nei
Sonetti, così come una certa tendenza a strutturare ampie partiture sintattiche
giocando sull’opposizione strofica in maniera tale che le quartine
contengano una o più proposizioni subordinate il cui senso rimane
sospeso fino alla comparsa, spesso nelle terzine, della principale19.
Identica inarcatura si trova nel petrarchesco Triumphus Pudicitie, vv.
91-92, dove di Laura trionfante si legge: «Tal venìa contr’Amore e ’n sì
secondo | favor del cielo ecc.»: gli elementi comuni sono tali da auto-
18 Cfr. le due sole occorrenze di forme del verbo, la prima con valore quasi si
direbbe “fisiologico”, la seconda decisamente retorico: RVF 58, 9-10: «bevete un
suco d’erba | che purghe ogni pensier che ’l core afflige» e 366, 126-28: «Vergine, i’
sacro et purgo | al tuo nome et penseri e ’ngegno et stile, | la lingua e ’l cor, le lagrime
e i sospiri». Tansillo utilizza lo stesso verbo, in senso penitenziale, in Capitoli
giocosi XIV 85-86: «al peccato mortal, non dico a quello | del qual si purga l’alma
leggiermente».
19 Ciò è evidente nel son. 3 [100, Che giaccia la superba Africa doma] e soprattutto
nel son. 11 [108, Che l’una Africa vinta e l’altra scossa], nel quale addirittura anche la
prima terzina è strutturata anaforicamente, come le quartine, nella sequenza di
proposizioni dichiarative (organizzate per distici nei primi otto versi), rispetto alle
quali la principale si legge nella terzina conclusiva: si tratta di una delle tipiche
“macchine” sintattiche epigrammatiche: cfr. ad es. Marziale I 104, nel quale pure
un catalogo di eventi eccezionali tutti introdotti dalla dichiarativa quod conduce in
seguito all’enunciazione di un ulteriore evento meraviglioso che supera tutti i precedenti.
[ 13 ]
706 ROSSANO PESTARINO
rizzarci a credere che si tratti qui di un preciso affioramento del contesto
petrarchesco alla memoria di Tansillo, e forse anche di più, di una
precisa volontà allusiva da parte sua; e tra l’altro, il fatto che nella terzina
successiva Petrarca celebri il trionfo di Laura su Amore ci porta
ad un tema che sarà ampiamente spiegato da Tansillo nei successivi
sonetti. Ma c’è di più, ad indicare quanto la coesione macrotestuale sia
da Tansillo perseguita a più livelli, oltre quello tematico, che è il più
elementare (anche se il più evidente, va ricordato, per il lettore cinquecentesco,
che era meno sensibile, o non sensibile affatto, ad altri generi
di connettori). Nel son. 4 [101, Ben è fatal, Garzia, l’Africa a voi], dedicato
alla celebrazione della “fatalità” di don García e della sua impresa,
ai vv. 9-10 si legge: «Se dal valor si vede et col secondo | Vostro auspicio
giacer presa et destrutta | Hor Africa ecc.»: l’inarcatura rubata a
Petrarca, ripresa per la seconda volta con cambio di sostantivo da favor
(del cielo, riferito ai poeti) all’auspicio di don García, sembra assumere
un ricercato valore “narrativo” e metapoetico, legando i poeti che celebrano
le imprese agli eroi che le compiono20.
I successivi sonetti 2-4 [99-101, rispettivamente O degno successor
del gran Consalvo, e i due già citati Che giaccia la superba Africa doma e
Ben è fatal, Garzia, l’Africa a voi] sono dedicati al Sessa il primo, che attraverso
i tipici artifici dei deittici propri tra l’altro della poesia narrativa
(«Ecco il Turcho fugato, Africa presa; | Ecco dal fin de l’alta et
dura impresa | Vero il dir vostro ecc.»), introduce in medias res e celebra
l’avvenuta vittoria (rispetto alla quale la diegesi dei sonetti successivi
sarà impostata come un flashback); al “fatale” don García gli altri
due, con tangenze tematiche, in altro registro, nel capitolo cosiddetto
“del cavallo” (Capitoli giocosi e satirici XXIII): e sarebbe già interessante
esaminare in termini retorici il dettato poetico di questi sonetti, e dei
corrispondenti passi del Discorso, a confronto con quello del capitolo,
sempre nell’ottica della competenza del poeta anche in ordine alla differenziazione
dei registri espressivi da adibire nei diversi generi letterari.
I sonetti 5-6 [102-103, Madre felice la cui nobil alma e Mentre con pochi
intorno cinge et serra], il primo indirizzato alla contessa di Nola, il se-
20 Al di là del suo valore strutturale nei Sonetti (nei quali ricorre anche a 21
[118, Non sarà ver ch’el vostro honor si taccia], vv. 3-4, dove però ha il significato numerale:
«Et forse Italia tutta la seconda | Speme di figlio»), pare questa una figura
alla quale Tansillo ricorre anche altrove, sempre in incipit, come nel caso del sonetto
133, indirizzato al marchese di Pescara e compreso nel ms. per il Silva, dall’incipit
«Non corre il sol più chiaro e più secondo | camin di voi».
[ 14 ]
i Sonetti per la presa d’Africa di Luigi Tansillo 707
condo al duca di Sessa, sono accomunati dall’argomento, che recita
«Per li giudicij che si faceano nella Corte Cesarea dell’assedio d’Africa
», e sono dedicati al tema delle invidie e conseguenti critiche suscitate
in ambito imperiale da don García durante la campagna (la terzina
finale del primo recita, con uno dei parallelismi che sono si può
dire la cifra stilistica più caratteristica dei Sonetti, «Ché mentre al mezzo
giorno Africa assalta, | Guerreggia a Tramontana con l’invidia, | Et
vinta anch’ella hor sopra il ciel l’essalta»); contro tali critiche è invocato,
nel secondo sonetto, l’intervento del Sessa, che si fregia forse di
una ben collocata memoria ovidiana dalla poesia dell’esilio21:
Buon Sessa, il cui splendor lume radoppia
A quel de gli avi, col reo secol nostro
Pugnate voi: sia la vittoria doppia.
Tolse Africa di bocca al fero mostro
Il suo valor, che d’ira et di duol scoppia;
Tolga il suo honor di man d’invidia il vostro.
Ancora una volta, con un intervento di altissima diplomazia destinato
però a fallimento certo, i due “patroni” sono per così dire invitati
a collaborare, o meglio il secondo dei due, il duca, invocato con un
pregnante riferimento al glorioso lignaggio della sua famiglia, deve
farsi carico di riscattare il nome di don García dall’invidia. E ancora
una volta, è la figura del parallelismo che si incarica di sigillare il sonetto
sancendo in pratica l’equivalenza tra l’impresa eroica di García
e quella alla quale è invitato il duca. A meno di dover credere di trovarsi
qui di fronte ad un Tansillo supremo gaffeur che tenta di avvicinare
due personaggi che storicamente furono sostanzialmente nemici,
come egli stesso non poteva non sapere (e l’ipotesi è perciò stesso ovviamente
destituita di senso), il significato della proposta andrà ricondotto,
come ha osservato Tobia Toscano, a quel clima di generale armonia
ed esaltazione gioiosa che fu immediatamente successivo al
compimento della grande impresa di Africa, nel quale anche le piccole
o grandi divisioni interne alla corte, imperiale prima e vicereale poi,
21 L’importanza per la poesia tansilliana in particolare di Tristia ed Epistulae ex
Ponto (ma anche, ad esempio nella canzone a papa Paolo IV, 406, Eletto in ciel, possente
e sommo Padre, della protasi dell’Ibis), è dimostrata dal commento; per quanto
riguarda il sonetto al Sessa si confronti l’esordio dell’invocazione con Epistulae ex
Ponto I 2, 1-2: «Maxime, qui tanti mensuram nominis inples, | et geminas animi
nobilitate genus».
[ 15 ]
708 ROSSANO PESTARINO
furono messe a tacere nel nome del trionfo sull’infedele. Non a caso, si
tratta dello stesso clima nel quale nascono, e soprattutto approdano
alle stampe, i Sonetti.
Il già citato sonetto 7 [104], indirizzato a don García e dedicato al
tema del «furor divino» che permette ai poeti di prevedere il futuro,
proprio come ha fatto Tansillo cantando, tre lustri prima, le sue lodi, è
uno dei momenti fondamentali della struttura poematica dei Sonetti,
soprattutto in virtù delle solenni quartine:
Chi negherà che di furor divino
Ebbre l’anime sacre de’ Poeti
Scopran del ciel nascosi alti secreti
Et vite et morti et buono et reo destino?
Ond’elli hebber dal Greco et dal Latino
Honor di Sacerdoti et di Propheti,
Bench’io non sappia se consenta o vieti
Phebo, ch’io sia di Delpho cittadino22.
Come si è già ricordato, si tratta (se si prescinde, per la ragione di
cui sopra, dai sonetti al Garigliano) dell’unico componimento “africano”
che Tansillo aveva ripreso sull’autografo da cui fu tratto il codice
Casella: l’intento metapoetico sarà stato forse quello che intervenne a
salvarlo nel brogliaccio che testimonia un difficile tentativo di dare
una sistemazione organica alle rime. Esso si trova, su C, all’interno di
una sequenza amorosa, ma a guardar bene ricorre appena pochi numeri
dopo i tre sonetti, ugualmente dominati dal tema metapoetico, a
Garcilaso de la Vega, risalenti al 1532 (passiamo, rispetto alla seriazione
del Casella, dai numeri 84-86, che sono i tre a Garcilaso, al 91, che è
appunto il sonetto “africano” in questione [39, 40, 181 e 104, rispettivamente:
Spirto gentil che con la cetra al collo, Se lieti ognor sen van Mincio
et Aufido, Più volte e più, Lasso, m’avea già detto, e infine il Chi negherà, di
cui si tratta]). Il topos modestiae dei vv. 7-8: «Bench’io non sappia se
consenta o vieti | Phebo, ch’io sia di Delpho cittadino», che all’interno
dei Sonetti costituiva un legame con l’esordio della lettera al Sessa,
nella quale Angelo Di Costanzo è detto invece sicuramente appartenente
alla «corte di Phebo», in qualche modo si lega, quasi connettore
22 Questa la scansione sintattica che i primi otto versi presentano su SA; per
interessanti considerazioni strutturali sul sonetto, anche alla luce della successiva
lezione testimoniata da C, si rimanda alle osservazioni di Toscano nella Nota al testo
dell’edizione, pp. 117-19.
[ 16 ]
i Sonetti per la presa d’Africa di Luigi Tansillo 709
intertestuale nella “struttura” (sia detto tra virgolette) del Casella,
all’esordio del terzo dei sonetti a Garcilaso, dove invece Apollo aveva
parlato direttamente al poeta: «Più volte e più, Lasso, m’avea già detto
| Febo, de’ fati e buoni e rei presago»; un incipit che sviluppa, persino
con identica inarcatura sul nome della divinità, lo stesso tema della
poesia “profetica” che sa prevedere, come recita il sonetto “africano”
con parole assai simili, «Et vite et morti et buono et reo destino». Una
ripresa come questa, tanto più se unica, non può essere casuale, e non
può non dirci qualcosa in merito al corpus rappresentato dal codice
Casella e alle intenzioni dell’autore nel costituirlo23. Nella stessa direzione
metapoetica va la parodia petrarchesca del v. 6, da «Honor d’imperadori
et di poeti» di RVF 263, 2, nel quale è riferita al lauro vittorioso
e trionfale (si tratta come noto dell’ultimo sonetto “in vita”) a «Honor
di Sacerdoti et di Propheti», che ancora riprende, ricontestualizzandolo,
il parallelo tra poesia e profezia.
Il gruppo dei tre sonetti 8-10 [105-107, rispettivamente: Mentre ogni
età caliginosa tenne, Può esser, gran Toledo, che si vegga e Spargi d’eterni
fior, ben nato Hispano] è articolato in una coppia indirizzata al viceré
don Pedro come consolatio per la morte di Ferrante di Toledo, ucciso
durante l’impresa, più un terzo, epigrammaticamente dedicato al sepolcro
di quest’ultimo, che obbedisce in pieno alle regole del genere,
come basterebbe a provare l’articolazione tipica del v. 12: «Hispagna il
parturì, nudrillo Italia» che riassume brevemente le coordinate di nascita
e morte dell’illustre estinto. Dalla classicità pagana del sonetto 7
(brevemente rievocata col cenno alla pratica del sacrificio cruento anche
nella prima quartina del sonetto 8: «Mentre ogni età caliginosa
tenne | Del primo padre il grave error commesso, | Offrir vedeansi a
i templi et cader spesso | Hor animai di pelo, et hor di penne», si passa
ai tempi cristiani, «poi ch’el vero lume dal ciel venne | A scacciar
l’ombre ond’era il mondo oppresso», e il sacrificio di Ferrante acquisisce
un sapore quasi cristologico. Petrarca, ovviamente, è presente, anche
se mascherato, nella prima terzina del sonetto 9:
Andiam col popol di timor già smorto
C’hor lieto a’ piè del sacro altar s’atterra,
A lodar Dio, ch’a sì bel fin l’ha scorto.
23 Come si è già ricordato, il sonetto viene sostanzialmente decontestualizzato
tramite il passaggio dall’invocazione diretta a don García alla terza persona, ai vv.
10 (già citato) e 13 (da «Gli honor vostri presenti» a «Le glorie sue presenti»).
[ 17 ]
710 ROSSANO PESTARINO
Il rapporto di dipendenza è rivelato dalla spia della voce verbale in
rima, s’atterra, riferita al popol di timor già smorto, che rimanda, con
parziale variatio, a RVF 26, 3-4: «quando la gente di pietà depinta | su
per la riva a ringratiar s’atterra», identico essendo in entrambi i contesti
lo stato d’animo dello scampato pericolo e la descrizione del popolo
che si affolla (sulla riva del mare o in chiesa) a ringraziare Dio. Un
esempio come questo si lascia leggere solo alla luce della poetica, già
teorizzata dal Petrarca stesso, dell’abstinendum verbis24, che tra parentesi
è esattamente il contrario di quanto, forse con comprensibile scrupolo
tardoromantico, ebbe occasione di affermare Scipione Volpicella
a proposito di una delle “citazioni” dell’Orazio epodico nei Capitoli
giocosi, quando scrisse:
Qui piace osservare che solo in questo capitolo il Tansillo, tirato dall’argomento
tolto ad Orazio, imitò alcuni concetti di quel famoso poeta: e
che ne’ suoi versi, come è bene nelle occorrenze avvertire, usò talvolta
le frasi, e schivò presso che sempre i sensi de’ sommi scrittori; onde si
mostra come in lui non fu studium sine divite vena, e come egli aiutando
la natura con l’arte diventò autore di lodevoli carmi25.
La versatilità di Tansillo è tale che si ritrovano adottate in lui tecniche
e artifici diversi, magari anche contrari tra loro, ma è un dato di
fatto che assai frequentemente egli si attenga appunto a quella poetica
petrarchesca che permette all’imitante di salvaguardare, e anzi ricercare,
o meglio “ricreare”, la propria originalità, senza ridursi all’umiliante
e grottesco ruolo di simia, ciò che avverrebbe se dell’imitato si
ripetessero pedissequamente anche le parole: nell’esempio citato, basterebbe
il passaggio dalla petrarchesca gente di pietà depinta, al tansilliano
popol di timor già smorto, con il prezioso e ricercato ritorno sillabico
interno al verso (-mor… -mor-). Il sonetto 10, che chiude il trittico,
come si diceva, è un epigramma classico dettato per il sepolcro di don
Ferrante di Toledo, ma ciò che interessa particolarmente, sempre
nell’ottica dell’esame strutturale dei Sonetti, è come esso riprenda il
tema del passaggio dalla cultura pagana a quella cristiana, che si in-
24 Il riferimento è all’epistola al Boccaccio (Fam. XXIII 19) e naturalmente alle
pagine teoriche di A. Quondam, Dall’«abstinendum verbis» alla “locuzione artificiosa”.
Il petrarchismo come sistema della ripetizione, in G. Ferroni-A. Quondam, La locuzione
artificiosa. Teoria ed esperienza della lirica a Napoli nell’età del manierismo, Roma,
Bulzoni Editore, 1973, pp. 211-233.
25 Cfr. Capitoli giocosi e satirici di Luigi Tansillo editi ed inediti, con note di S. Volpicella,
Napoli, Libreria Di Dura, 1870, pp. 237-238.
[ 18 ]
i Sonetti per la presa d’Africa di Luigi Tansillo 711
carna anche nel già citato parallelo cristologico che interessa la figura
dell’estinto, quasi martire (cfr. v. 4, ancora bipartito: «Et visse Cavallier,
visse Cristiano»).
Il sonetto 11 [108, Che l’una Africa vinta et l’altra scossa], apparentemente
isolato (ma, come già si diceva, sintatticamente solidale con
100, al quale si richiama), è in realtà dedicato al tema dell’umiltà di
don García: il che basta a dirci che Tansillo sta qui svolgendo e dettagliando,
spostandosi sul protagonista principale dei Sonetti, il discorso
inaugurato dai precedenti, che è fondato su un costante confronto
tra l’eroismo pagano, sostanzialmente egoistico ed autocelebrativo, e
quello cristiano, del tutto rivolto all’esaltazione di Dio e al ridimensionamento
dell’iniziativa umana, per quanto eroica; in più, il sonetto è
occasione per la menzione dello zio di García junior, fratello di don
Pedro, già eroicamente e santamente morto come martire degli infedeli
a Los Gelves nel 1510.
L’unico componimento religioso della raccolta è il successivo sonetto
12 [109, Del mondo, de gli eserciti, de i cieli], rivolto a Dio, come
esplicitamente afferma l’argomento: quest’unicum, anch’esso apparentemente
isolato, è in realtà un anello fondamentale, e quasi un sonetto
bifronte che serve da una parte a ribadire il tema del precedente
(così la prima terzina: «Grato Garzia de l’alta sua vittoria, | Qui pon
le spoglie del nemico altero; | Tanto humil più, quanto esaltar più
s’ode»); dall’altra, il sonetto si incarica di introdurre ritualmente (ab
Jove principium), il successivo nucleo di componimenti dedicati alla
descrizione del trionfo celebrato da don García a Napoli: un trionfo
che, con un altro spunto di forte solidarietà tematica, non assume per
nulla i connotati delle celebrazioni antiche, e non impedisce a don
García di mantenere intatta la propria umiltà.
I cinque sonetti 13-17 [110-114, dagli incipit rispettivamente: Quai
rote sì famose al tempo antico, Seder Duce sul carro et cinger chioma, Fera
macchina et grande oltra misura, Questa de i negri fabri, che sotterra e Potea
sul grave et reo di stroppi et morti] sono appunto dedicati al dono offerto
a Napoli da don García vittorioso: la fera macchina, ossia il cannone,
con sette ragazzi africani seduti sopra, consacrato alla chiesa di San
Lorenzo (cfr. 16, 7: «Manda Garzia de l’arso Hispano al tempio»). A
livello di intertestualità, diversi sono gli spunti recepiti qui da Tansillo
dai testi letterari, antichi e moderni (a partire da Orazio e Properzio),
che celebrano il trionfo degli imperatores: fondamentali, ancora, i
Triumphi petrarcheschi, in particolare Triumphus Fame I 26-31, dal quale
viene a Tansillo la clausola del primo verso del primo sonetto, quasi
la prima nota della serie, al tempo antico, che trascina con sé, per la ben
[ 19 ]
712 ROSSANO PESTARINO
nota “vischiosità” nel rapporto mnemonico con la “fonte”, il riferimento
contestualizzante alla Via Sacra. Ma ancora una volta è la prospettiva
che cambia, dal mondo pagano a quello cristiano, come è epigrammaticamente
sancito dalla clausola del sonetto inaugurale della
sezione:
Tanto il triompho ch’ei destina a noi,
Tolto al rustico Schita il nobil regno,
Avanza ogni altro, che diè Roma a’ suoi,
Quanto è d’huom generoso maggior segno,
E quanto è tra virtù d’incliti Heroi,
Il dar più ch’el ricever d’honor degno.
Non può sfuggire nella chiusa, ancora una volta gestita in termini
di verso bipartito per opposizione, la parafrasi del detto attribuito a
Cristo in Act 20, 35: «Beatius est magis dare quam accipere», ricondotto
però dai termini della beatitudine all’onore guerriero degli incliti
Heroi.
Nel son. 15 [112] in particolare, è interessante l’utilizzo di un certo
lessico “moderno” con ogni evidenza mediato, non senza preziosa variatio,
dall’Ariosto (il che ci riporta ovviamente al tema delle “voci
nuove” e alla fondamentale mediazione del Furioso). In particolare è
da leggersi la quartina esordiale, occupata dalla descrizione del cannone
strappato agli infedeli e portato in trionfo:
Fera macchina et grande oltra misura,
Il cui scoppio ombra il ciel la terra scuote,
Et la cui palla ardente, ove percuote
In cener solve ogni alta mole et dura […].
Le filigrane dal Furioso che si intravvedono in quest’incipit possono
essere diverse, da XIV 133, 5-8:
Sopra si volve oscura nebbia e bruna,
che ’l sole adombra, e spegne ogni sereno.
Sentesi un scoppio in un perpetuo suono,
simile a un grande e spaventoso tuono,
rispetto al quale Tansillo in un certo senso fonde sinesteticamente le
due sensazioni, acustica e visiva; a IX 29, 5-8:
onde vien con tal suon la palla esclusa,
che si può dir che tuona e che balena;
[ 20 ]
i Sonetti per la presa d’Africa di Luigi Tansillo 713
né men che soglia il fulmine ove passa,
ciò che tocca arde, abatte, apre e fracassa.
Ma, in particolare rispetto all’ultimo luogo, va notato come, nonostante
gli evidenti parallelismi (l’ove percuote di Tansillo, variazione
perfettamente omotetica dell’ove passa di Ariosto), al gusto giustappositivo,
eventualmente in climax, dell’Ariosto, si sostituisca in Tansillo
un verso per “contraposti” la cui enargia, asseverata dall’epifrasi, ha
già un sapore tassiano: «In cener solve ogni alta mole et dura», con
passaggio tra l’altro dall’espressionismo ariostesco di un apre e fracassa
ai latinismi solve e mole. Così nel sonetto successivo [113, Questa de i
negri fabri, che sotterra], riprendendo la celebre recriminatoria contro le
armi da fuoco del canto undicesimo del Furioso, che qui Tansillo in un
certo senso volge all’antifrasi deprecando (con ulteriore cambio di
prospettiva “ideologica” che investe la ripresa letteraria) non le armi
da fuoco in generale, ma la fera macchina che ha difeso, fin che ha potuto,
gli assediati infedeli, Tansillo lavora sulla piana linearità ariostesca
nella descrizione del fulmine come correlativo del cannone: se
Ariosto scrive che il fulmine «apre le nubi e in terra vien dal cielo»,
Tansillo impreziosisce parlando «del folgore ch’el ciel vibra et disserra
», dove non è difficile scorgere, nella prima delle due forme verbali
(per altro di semantica non del tutto sicura nel contesto: il dubbio è
relativo soprattutto al soggetto del verbo, il folgore stesso o il cielo, con
folgore oggetto?), uno spunto che riconduce ancora al latino, come basterebbe
a provare Aen. VIII 524-26, dove soggetto logico del verbo è
aether, il che farebbe forse propendere per un cielo soggetto nel passo
tansilliano: «Namque inproviso vibratus ab aethere fulgor | cum sonitu
venit et ruere omnia visa repente | Tyrrhenusque tubae mugire
per aethera clangor», dal quale forse viene a Tansillo anche la concentrazione
di vibranti che tenta di raffigurare lo strepito del folgore, come
è ulteriormente confermato anche dalla clausola, disserra, che sarebbe
dunque da intendere “scatena”, sempre con soggetto il cielo (se
invece la si riferisce al soggetto folgore dovrebbe valere “apre, spacca”,
con riferimento alla saetta che visivamente taglia il cielo).
Il sonetto 18 [115, Tra i duon, Garzia, sì ricchi et d’oro e d’arte]26, indirizzato
a don García, è ancora una volta un testo che, pur apparendo
alla prima lettura piuttosto isolato, è in realtà fortemente legato ai pre-
26 La discrepanza nella resa della copulativa riflette fedelmente la stampa, che
però molto spesso, ma non in questo caso, usa il compendio per et. In sede di edizione
si interverrà ovviamente per normalizzare.
[ 21 ]
714 ROSSANO PESTARINO
cedenti del trionfo, e costituisce anzi forse il cuore della raccolta: Tansillo
chiede a don García di accettare tra i vari doni anche le sue «povere
carte» che, orazianamente, dureranno aere perennius. Così recitano
le terzine:
Benché Napoli il collo d’or vi cinga,
E intagli in pietra i vostri pregi et l’armi,
Sostenete ch’in27 carta anch’io vi pinga.
Che i lucidi metalli e i bianchi marmi
Esser potrà ch’el tempo oscuri et tinga
E i vostri honor risplendan ne i miei carmi.
Non c’è bisogno di insistere sulla pregnanza letteraria di questo
tema, che Tansillo declina com’è naturale anche altrove nella propria
lirica encomiastica28: in più, va osservato che se nel Discorso ai Deputati
Tansillo avrà occasione di affermare che la scelta di stampare i
Sonetti e il disegno della collana prima che essa venga effettivamente
realizzata dagli orefici, è semplicemente dovuta alla volontà di far sì
che si possa, «con la facilità et la prestezza delle carte et delle penne,
vincere et precorrere il tedio et la gravità de’ metalli», in realtà è evidente
che la letteratura, nella gara con le arti sorelle, non è soltanto la
più rapida e quella che è in grado di raggiungere tempestivamente il
maggior numero di persone, ma è anche la più duratura. Di nuovo,
anche per il sonetto 18, il legame strutturale tra i pezzi è asseverato da
un connettore intertestuale che lega l’ultimo dei sonetti sul trionfo a
quello qui in esame. Parlando infatti del dono, consacrato al tempio,
dei sette fanciulli africani, Tansillo scrive (17 [114], vv. 9-14):
Ma il numero et l’età scielse egli ad arte:
Diè sette il buon signor, segno et speranza,
Ch’el duon fusse più fausto et più beato,
Fanciulli, acciò molti anni oltra le carte
Possan viva tener la rimembranza,
Che Napoli fu larga, et Garzia grato.
27 SA ha il refuso ch’n, che si potrebbe anche emendare ch’en, conformemente
all’uso, quasi costante sulla stampa, della forma ch’el per che ’l.
28 Cfr. ad es. 349, Se non può Nola ergervi altari e templi, indirizzato a don Pedro,
vv. 12-14: «Io ch’eternar con marmi e con metalli | non vi posso, vi onoro con le
carte, | e se non l’opra, il buon voler mi vaglia» (versi nei quali ricorre il tema del
buon voler, presente anche nel sonetto “africano”), ugualmente strutturato come
una sorta di “gara” tra le diverse arti.
[ 22 ]
i Sonetti per la presa d’Africa di Luigi Tansillo 715
Il ricordo dell’impresa, oltre che ai giovani prigionieri che la racconteranno,
o che saranno memoria vivente della stessa, è legato già
qui alle carte che la celebreranno, tra le quali il sonetto 18 si incarica di
comprendere appunto anche le «povere carte» del Tansillo medesimo:
proprio le stesse carte che saranno riprese, senza aggettivazione di sorta,
nell’incipit del successivo sonetto 19 [116], del quale costituiscono la
prima parola-rima, in un contesto tutt’altro che umile o dimesso:
Non perché, quai si sien, ne le mie carte
Splenda de l’un guerrier la bella historia,
Io offosco de i duo la chiara gloria,
Che van d’honor come d’affanni a parte.
Il trittico 19-21 [116-118; il secondo e terzo sonetto dall’incipit rispettivamente
Tre larghi, illustri et valorosi ladri e Non sarà ver ch’el vostro
honor si taccia], nel quale ci siamo già introdotti con il tema delle “carte”,
è dedicato alla lode dei “comprimari” dell’impresa, Andrea Doria
(e il minore Antonio) e Juan de Vega. L’ammiraglio genovese e il viceré
di Sicilia sono però in qualche modo subordinati al Toledo, soprattutto
attraverso una tipica movenza epigrammatica (e la linea epigrammatica
è, come non c’è bisogno di ribadire, un’altra delle linee di
poetica principali della raccolta), che ricorre, tra l’altro acuita anche
dal chiasmo e dalla asimmetria, ai vv. 7-8 del primo dei tre:
Di tre Duci il valor la spada et l’arte
Furon ministri a l’inclita vittoria:
Giove il Vega sembrò, Nettuno il Doria
A l’alta impresa, e ’l buon Toledo Marte29.
La collaborazione dei due condottieri serve in pratica a preparare
l’azione fulminea di don García, efficacemente rappresentata, con ricorso
ai tempi presenti e all’insistita progressione coordinativa, nella
chiusa del sonetto, che tra l’altro introduce un tema, quello della mano
di don García, che come vedremo tornerà in seguito:
Et l’altro in tanto con l’ardita mano
La città cinge et l’alte mura atterra
Et fuga il Turco et lega l’Africano.
29 Per la chiusa ad effetto cfr. anche 318, Così potessi coi color de’ carmi, vv. 12-14:
«ché s’il mio Duca a gli occhi de’ guerrieri | sembra Marte, all’orecchie de’ poeti |
il suo Tansillo sembrerebbe Apollo» (attestato solo da C).
[ 23 ]
716 ROSSANO PESTARINO
Il secondo sonetto ribadisce questa dinamica collaborativa, e si
chiude con l’immagine di don García che conclude l’impresa mentre il
Doria e il Vega impediscono l’accesso agli aiuti per terra e per mare:
Congiurati il Toledo il Doria e ’l Vega,
Perché manchi il favor là onde s’attende,
Chiude la terra l’un, l’altro il mar lega:
E ’l terzo, qual Falcon che d’alto scende,
Del sommo suo valor le penne spiega,
Dà sul nemico et Africa si prende.
Tansillo combina in questo finale suggestioni diverse, di lingua e di
genere: la comparazione ha sapore cavalleresco e ricorre ad esempio
in Boiardo, Innamorato, II, XVII 19, 3-4, per Ruggiero: «Come da l’aria
giù scende il falcone, | E dà nel mezzo a un groppo di cornacchie» o
anche, sempre come espressione della velocità dell’azione, in Ariosto,
Furioso, XLVI 63, 1-4: «Mentre Rinaldo così parla, fende | con tanta
fretta il suttil legno l’onde, | che con maggiore a logoro non scende |
falcon, ch’al grido del padron risponde»30; ma Tansillo doveva qui
avere in mente anche, in una delle grandi liriche celebrative del suo
Orazio, Ottaviano che insegue Cleopatra fuggitiva accipiter velut
(Carm. I 37, 16-17).
Quest’ultima immagine viene ripresa, ma secondo coordinate del
tutto diverse, a riprova del fatto che l’accostamento di componimenti
può anche avvenire in forma per così dire “obliqua”, nei successivi
sonetti 22-25 [119-122, dagli incipit rispettivamente Dopo mille alte et
perigliose prede, Desio di libertà, che ’n gentil core, Superbo augel, dunque
fuggir credesti e Non quel, che quasi al par del viver s’ama], dedicati al
falcone di don García, prima scappato e poi volontariamente tornato
alla stanga durante il ritorno dall’impresa (come si vede, anche la
scansione sostanzialmente cronologica delle varie fasi dell’assedio come
riflessa nelle liriche è rispettata fino alla fine). Particolarmente interessante
in questi quattro sonetti è la ripresa di moduli della lirica
amorosa, come persuasivamente indicato da Erika Milburn, che ha
anche opportunamente sottolineato per questi testi la funzionalità di
una chiave cifrata, nei termini di una lettura “politica”, con riferimen-
30 Diverso il contesto dantesco di If. XXII 130-32: «non altrimenti l’anitra di
botto, | quando ’l falcon s’appressa, giù s’attuffa, | ed ei ritorna su crucciato e
rotto», dove però è presente una sorta di umanizzazione del rapace che forse Tansillo
avrà in mente nei successivi sonetti del falcone.
[ 24 ]
i Sonetti per la presa d’Africa di Luigi Tansillo 717
to ai già citati «rumori» del ’4731, che si sovrappone a quella letterale.
È proprio la filigrana politica che spiega al meglio i sonetti in sé e ovviamente
anche il loro inserimento nella silloge “africana”, e in questa
particolare posizione, cioè sostanzialmente in chiusa, subito prima dei
tre sonetti al Garigliano e di quello amoroso, che è quasi (ma non del
tutto) un hors d’oeuvre; una spiegazione certamente molto più persuasiva
che non quella fondata sulla lettura “privata”, per così dire, di
Francesco Fiorentino, che legava questi sonetti al tredicesimo dei Capitoli
giocosi e satirici, nel quale Tansillo, scrivendo al Viceré, aveva narrato
lo sdegno di García nei suoi confronti e il proprio ravvedimento32.
A proposito della lettura politica di questi sonetti, riprendo qui uno
spunto di intertestualità segnalato ma non sviluppato dalla Milburn,
che ha proposto un accostamento di questi quattro sonetti a «one of
Marullus’ Latin love lyrics», ossia l’epigramma quarto del Libro primo
degli Epigrammata, intitolato Ad falconem33. Non pare trattarsi di
una lirica di carattere amoroso, per la verità, e questo è proprio il punto;
inoltre, l’accostamento più produttivo dell’epigramma del Tarcaniota
è in particolare, più che con tutto il gruppo, con il terzo sonetto
tansilliano [121], dall’incipit Superbo augel, dunque fuggir credesti, che
riecheggia quello del Marullo, Ingrate falco et crimen alitum omnium, e
che è l’unico dei quattro nel quale l’autore si rivolga direttamente al
falcone fuggitivo, come fa anche Marullo. Ma soprattutto, è interessante
leggere in filigrana al sonetto tansilliano la conclusione dell’epigramma:
dopo aver domandato al falcone: «An nesciebas regias longas
manus?» (“Non sapevi forse che lunghe sono le mani dei re?”),
che può forse risentirsi nel verso tansilliano «Vedi come lontan ti giun-
31 Cfr. E. Milburn, Luigi Tansillo and Lyric Poetry in Sixteenth-Century Naples,
Leeds, Maney Publishing for the Modern Humanities Research Association, 2003,
pp. 73-84, dedicate alla attenta e circostanziata analisi di SA; per la lettura politica
della silloge cfr. in particolare pp. 81-82.
32 Cfr. Poesie liriche edite ed inedite di Luigi Tansillo, con prefazione e note di F.
Fiorentino, Napoli, Domenico Morano, 1882, p. 305: a Fiorentino va però in ogni
caso riconosciuto il merito di essere andato oltre la lettera del testo.
33 Cfr. Michaelis Marulli Carmina edidit Alessandro Perosa, Zurigo, Thesaurus
Mundi, 1951, p. 4. Questo l’epigramma, in senari: «Ingrate falco et crimen alitum
omnium, | Quascumque mollis aura sublevat solo, | Coelumque pennis nubila et
tranant suis | Ac regna solae coelitum et vident domos: | Quis te repente tantus
invasit furor, | Tam mite regis perpeti ut nolles iugum, | Qui te tam amabat virgo
quam puppas solet, | Nondum mariti virgo quae sedit sinu, | Nec ad iugales deiicit
lumen faces? | An nesciebas regias longas manus? | Insulse, inepte, perfide,
ignave, impie, | Cuius opera huc rex toto et huc vagus die, | Vix nocte multa lassulus
redit domum».
[ 25 ]
718 ROSSANO PESTARINO
ge et prende» (ma il tema della mano di don García che riprende il
falcone è frequente nei quattro sonetti, a cominciare dall’argomento
del gruppo, «Per un falcone fuggito di mano a Don Garzia in quel
ch’egli tornò d’Africa et ripigliato», e costituisce, come si è già anticipato,
un’altro forte connettore intertestuale con i precedenti sonetti),
la conclusione dell’epigramma marulliano recita:
Insulse, inepte, perfide, ignave, impie,
Cuius opera huc rex toto et huc vagus die,
Vix nocte multa lassulus redit domum.
Per colpa del falcone fuggitivo, dunque, il rex, dopo aver vagato
toto die per cercarlo, vix nocte multa lassulus redit domum. Ben diverso il
nostro don García, raffigurato nel gesto di riprendere il fuggitivo non
importa quanto già lontano (è il verso già citato), senza traccia di umana
debolezza (24, 12-14):
Mal chi s’asconde34 et mal chi si difende,
Poi ch’al suo gran valor dieder le stelle
Prender chi fugge, et vincer chi contende.
In questo contesto è certamente significativa anche la ripresa con
variazione, arretrata al v. 12, del verso finale di un sonetto petrarchesco
tutto di fughe e catture (amorose), capace di generare la tansilliana
chiusa bipartita35; ma è proprio nella plausibile “riscrittura” all’antifrasi
dell’epigramma latino, che poteva bene essere presente al Tansillo,
che si avrebbe ulteriore conferma della chiave “politica” dei sonetti.
Chiudono le rime i citati sonetti 26-28 [87-89], nei quali ancora fortissimi
sono i riferimenti classici, e 29 [123], Né mar ch’irato gli alti scogli
fera36. Quali possono essere le ragioni del recupero qui dei tre sonetti al
34 SA ha il refuso asconda, che Tansillo non corregge.
35 Si tratta di RVF 69 (son. Ben sapeva io che natural consiglio), vv. 5-14: «Ma novamente,
ond’io mi meraviglio […] | i’ fuggia le tue mani, et per camino, | agitandom’i
venti e ’l ciel et l’onde, | m’andava sconosciuto et pellegrino: | quando ecco
i tuoi ministri, i’ non so donde, | per darmi a diveder ch’al suo destino | mal chi
contrasta, et mal chi si nasconde».
36 Quanto a quest’ultimo, sul quale non mi soffermerò qui, mi sia permesso
rimandare a R. Pestarino, Poesia epigrammatica e sincretismo delle fonti in Luigi Tansillo:
il sonetto «Né mar ch’irato gli alti scogli fera», «Critica letteraria», XXXII (2004),
n. 122, pp. 3-47; poi in Id., Tansillo e Tasso, o della “sodezza” e altri saggi cinquecenteschi,
Ospedaletto, Pacini, 2007, pp. 53-84, in particolare pp. 66-84, anche per i legami
connettivi che esso mostra, pur essendo tematicamente allotrio in quanto amoroso,
con i restanti Sonetti.
[ 26 ]
i Sonetti per la presa d’Africa di Luigi Tansillo 719
duca di Sessa, già attestati sul ms. J1 a lui dedicato, nel quale occupano
tra l’altro rispettivamente i numeri 7-9, dunque sostanzialmente ad
apertura di silloge37? Forse la volontà di chiudere nel suo nome la
stampa che in un certo senso era stata da lui sollecitata con la richiesta
dei versi, e che a lui era dedicata, più che non a don García, oggetto
della celebrazione. In ogni caso, la ricomparsa qui di queste tre rime ci
dice intanto con quanta cura e intelligenza strutturale Tansillo procedesse
nell’organizzare i diversi “tasselli” delle sue liriche, senza arrestarsi
di fronte alla possibilità di accoglierne alcune in momenti e organismi
diversi, e in questo caso anche sensibilmente diversi: da una
parte il manoscritto privatissimo per il duca, dall’altra la stampa, che
in ogni caso si dovrà ritenere tirata in un certo numero di esemplari,
sebbene presumibilmente non moltissimi, come la quasi totale scomparsa
dei medesimi può comprovare38. È però d’altro canto significativo
come in questi sonetti al duca di Sessa i riferimenti guerreschi, presenti
ovviamente nel curriculum del destinatario qui rievocato, siano
per così dire allontanati in prospettiva, per lasciare il primo piano ad
37 Per la precisione, dopo le 61 stanze del Pianto di San Pietro, le tre canzoni
pastorali, e due sonetti amorosi. Si osservi tra l’altro che anche in questo caso, come
nel caso del sonetto 7, la ripresa su C avverrà con la necessaria decontestualizzazione,
come provato dal passaggio, al v. 9 del primo sonetto, dalla lezione «Ecco
il minor Consalvo hoggi sen riede», comune a J1 e alla stampa, a quella «a voi sen
riede» testimoniata dal Casella.
38 Pèrcopo cita la copia catalogata nella Bibliotheca Manzoniana. Catalogue de la
Bibliothèque de feu M. le Comte Jacques Manzoni, Première partie, contenant les oeuvres
cités d’après l’Academie de la Crusca et le curiosités littéraires et bibliographiques, Città di
Castello, Lapi, 1892, p. 443, n. 3272 (la biblioteca del nobile lughese, tra l’altro Ministro
delle Finanze della Repubblica Romana, fu venduta all’asta a Roma a partire
dal 1892). Per la copia citata nell’inventario della biblioteca personale di don
Pedro de Toledo alla sua morte, avvenuta a Firenze nel gennaio 1553, cfr. E. Milburn,
Luigi Tansillo and Lyric Poetry in Sixteenth-Century Naples, cit., p. 31, nota 39,
con rimando agli studi di C. J. Hernando Sánchez, Poder y cultura en el Renacimiento
napolitano: la biblioteca del virrey Pedro de Toledo, «Cuadernos de Historia Moderna
», Universidad Complutense de Madrid, 1983, pp. 13-33 e F. Nicolini, La
biblioteca de don Pedro de Toledo, «Revista Geográfica Española», 1956, pp. 86-96. La
quasi totale scomparsa degli esemplari non deve stupire: tutto sommato la stampa
dei Sonetti può aver condiviso la sorte di tanta letteratura di consumo, in particolare
quella dei poemetti in ottava rima (anche di quelli dedicati alla celebrazione
della medesima impresa). La stessa Milburn, nella pagina citata del suo volume,
ha osservato come molto verosimilmente «this raccolta was intended for a relatively
restricted audience composed of the Toledo clan itself, its Neapolitan supporters,
the Duke of Sessa, and Spanish imperial court circles and their Italian adherents
».
[ 27 ]
720 ROSSANO PESTARINO
un tono, soprattutto nel primo, quasi “arcadico”, anche in virtù dei
riecheggiamenti del Liri oraziano, il taciturnus amnis che se ne va al
mare con la sua quieta aqua (e Tansillo parla del suo «tranquillo corso
»). Se l’ultimo sonetto, il 29, viene offerto al Sessa perché, come afferma
la letterina, «egli è bisogno in fine che ’l condimento di tutti
questi Sonetti bravi sia uno amoroso», forse anche i tre precedenti rispondono
ad un obiettivo simile: interrompere la sequela di tanti «sonetti
bravi», che doveva pesare al nostro Tansillo (soldato, come sappiamo,
suo malgrado), per lasciare spazio a una prospettiva diversa e
a toni sempre encomiastici ma più distesi. Il che forse può essere comprovato
anche da una delle poche varianti di sostanza che si riscontrano
tra il testo del ms. spagnolo e la successiva redazione della stampa
(e del Casella): ai vv. 9-10 dell’ultimo sonetto il ms. J1 legge: «Quanti
intelletti eccelsi et pellegrini | vider quest’onde», che si legava genericamente
al v. 4, «Quanti Hercoli vedesti et quanti Marti», poi immutato
nelle due successive redazioni. Ora, il v. 9 diventa sulla stampa (e
rimane poi tale sul Casella), «Quanti Flacci et Maroni et quanti Arpini
»: ad Ercole e Marte sono ora esplicitamente affiancati i tre più grandi
scrittori della latinità, i due poeti, lirico ed epico, e il retore prosatore;
alle opere di Marte, quelle dell’ingegno e della pace: «Petti più
forti e ingegni più felici», come proclama, ancora una volta ricorrendo
alla solennità del verso bipartito, l’explicit del terzo sonetto. La sapiente
struttura dei Sonetti sembra chiudersi perciò non nel nome di don
García trionfatore ma in quello del Sessa restauratore, nel varcare il
suo piccolo Rubicone, dei fasti militari e civili di Roma, secondo un
tratto non sconosciuto alle fonti biografiche sul duca39. Se tale prospettiva
fosse vera, avremmo da una parte una prova ulteriore della sapiente
struttura che Tansillo sa organizzare per la sua unica uscita editoriale,
e dall’altra, un motivo di più per spiegare come mai questi tre
sonetti non siano stati lasciati cadere da Tansillo, e compaiano anche,
come si è già ricordato, sul Casella: essi rappresentano per più ragioni
una solenne celebrazione dell’umanesimo civile e letterario, e dunque
in ultima analisi della pace, in contrapposizione alle cruente opere di
Marte.
Quanto al Discorso (e disegno) sulla collana, al di là dell’interesse
intrinseco, in termini di letteratura ispirata a, o meglio “ispirante” le
39 Per la biografia del Sessa si legga ora la “voce” relativa, a cura di Carlos José
Hernando Sánchez, nel Diccionario biográfico de los Españoles, in corso di stampa:
ringrazio l’Autore per avermi permesso di leggere la voce, tramite l’interessamento
dell’amico comune Tobia Toscano.
[ 28 ]
i Sonetti per la presa d’Africa di Luigi Tansillo 721
arti figurative, e ricca di prevedibili rimandi alla classicità, esso contiene
forse anche, dal punto di vista più strettamente letterario e inerente
la riflessione teorica tansilliana, una indiretta affermazione di poetica
estensibile a buona parte della lirica, non solo encomiastica, del poeta,
sebbene sia formulata qui, nell’ambito del genere delle “imprese”, a
proposito dei motti da lui selezionati per ciascuna delle immagini, e
ricavati da autori latini quali Virgilio, Ovidio, Gellio, Plinio; in un caso
la Bibbia con la storia di Gedeone e dell’angelo (Idc 640).
Innanzitutto, Tansillo ribadisce, se qualche dubbio fosse rimasto, la
tensione “strutturale” che anima il tutto: le “invenzioni”, infatti, «continuatamente
s’appigliaranno l’una all’altra non meno de intendimento,
che di loco» (l’estensione di questa caratteristica ai Sonetti non è
forse indebita). Inoltre, gli orefici sono invitati ad avere per obiettivo,
come l’autore dichiara di aver fatto nei disegni, l’appagamento non
solo dell’intelletto ma anche degli occhi, di modo che le «nude historie
» siano “vestite e aiutate” di «adornamenti et di fregi». Scrive Tansillo
(cc. E4r-v):
Non lasserò di ricordarvi, che sì come io mi sono ingegnato di fare che
le inventioni non solamente sodisfacciano allo intelletto, ma che dilettino
a gli occhi, trovando cose da sculpirsi c’habbian41 bella apparenza,
sì come si pò vedere nella invention del carro triomphale, et in quella
di Sicilia, et in tutte l’altre, così anchora vi debbiate ingegnar voi di
fare che le nude historie et le inventioni si vestano et si aiutino di adornamenti
et di fregi, ponendogli et spargendogli dove a voi parrà che
meglio si convengano.
E infine, l’avvertimento conclusivo mette finalmente sullo stesso
piano, in termini di poetica, l’attività scrittoria e quella artistica:
[…] sì come io nelle nove inventioni m’ho servito d’antichi versi hor di
Virgilio hor d’altri (il che in sì fatte cose tene gratia) che così voi nelle
40 Va però osservato che, ancora una volta in regime di “sincretismo”, Tansillo
introduce l’episodio biblico, che tratta dei segni chiesti da Gedeone a Dio, con un
verso di Virgilio, per la precisione Georg. I 439: «[solem] certissima signa sequuntur
», nel quale contesto si parla però dei segni premonitori ricavabili dai fenomeni
atmosferici e preannuncianti, nella fattispecie del passo celeberrimo, l’assassinio
di Cesare.
41 SA legge habbia, che l’Autore non corregge, sebbene sulla stessa pagina intervenga,
poche righe dopo, per eliminare una ripetizione che si trova a conclusione
dello stralcio citato (in trascrizione diplomatica: «doue à uoi meglio parra che
meglio si conuengano»).
[ 29 ]
722 ROSSANO PESTARINO
moderne historie vi debbiate servire d’antichi trophei et d’arme et
d’insegne.
Una poetica della grazia, dunque, quella formulata qui, estesa ad
arti diverse e perseguita anche attraverso quella modalità di acquisizione
di antichi versi nei versi nuovi che interpreta in maniera originale
la codificata imitatio ed è punto forte della scrittura tansilliana su
tutti i livelli e per tutti i generi letterari.
L’impegno dei Sonetti, nella consapevolezza retorica micro e macrostrutturale
che mostrano, pare dunque totale. Se, come ha scritto
Erika Milburn nel saggio più volte citato, si può parlare per questa
raccolta di una «absence of introspection», soprattutto a confronto
delle liriche amorose o di quelle, con Pèrcopo, «personali, famigliari e
religiose» (ma il genere stesso richiedeva questa caratteristica per i
Sonetti), meno persuasivo mi sembra il rilievo della stessa studiosa a
proposito di una «marked lack of interest in literature and its production
», che farebbe di questa la «least literary» delle raccolte tansilliane
in paragone a quelle testimoniate dai mss. confezionati per il duca di
Sessa. Se ciò fosse vero, ancora più singolare risulterebbe il fatto che
Tansillo si fosse lasciato indurre a pubblicare una raccolta di liriche
che non rappresentasse, almeno per il genere qui praticato, ossia l’encomiastico,
il meglio di sé: i Sonetti per la presa d’Africa, insomma, sarebbero
da leggere come un mero atto di obbedienza del poeta cortigiano
alle necessità del proprio ruolo (senza contare il suo incauto
esporsi, di cui si è già detto, nel dedicare al duca di Sessa una raccolta
celebrativa di don García). Ad onor del vero, l’intreccio di voci diverse
si ritrova anche nei Sonetti, come anche la tendenza di Tansillo a fare
intensamente proprie le suggestioni altrui, secondo un procedimento
(si pensi ai prelievi funzionalizzati dal Petrarca, soprattutto da quello
dei Triumphi), etichettabile tutt’altro che come un «sporadic, rather
than systematic phenomenon»: è invece proprio la sistematicità delle
riprese che accentua la letterarietà della silloge nel suo continuo dialogo
con gli autori antichi e moderni42. Inoltre, gli spunti metapoetici
42 U n altro caso interessante è quello relativo al sonetto 5 [102], al v. 3, dove di
don García si dice esser egli «nato a por giogo al Mauro, al Turco, al Partho», con
parziale ricalco e variazione di Triumphus Pudicitie, v. 177: «sol per triumphi et per
imperii nacque»: ora, il verso del Petrarca è riferito a Scipione Africano, che è figura
di paragone costante, nei Sonetti, per don García (cfr. fin dal sonetto proemiale,
vv. 3-4: «Cantate questo novo African mio | Di tempo ai primi et non d’honor secondo
»): il riecheggiamento è quindi non solo funzionale e sistematizzato, ma altamente
allusivo.
[ 30 ]
i Sonetti per la presa d’Africa di Luigi Tansillo 723
(localizzati tra l’altro in punti strategici, come si è cercato di dimostrare,
ossia i sonetti 1, 7, 18), così come la tendenza evidente ai modi e
alle forme della poesia epigrammatica, frequente in generale nella lirica
tansilliana ma qui, ancora una volta, sapientemente e consapevolmente
funzionalizzata al genere eroico-celebrativo, fanno di questa
raccolta anche un momento di riflessione teorica, e dunque un’occasione
pressoché unica, per Tansillo, di dimostrare quanto persino «sì
fatte cose et sì poche» (diminutio retorica se altre ve ne furono mai)
potessero significare, quando venivano da un poeta che conosceva bene,
non meno del primo, il proprio “secondo” mestiere: e proprio per
questo poteva talvolta divertirsi, orazianamente (e i meravigliosi Capitoli
giocosi e satirici appena editi sono lì a ricordarcelo), a scherzare su
entrambi.
Rossano Pestarino
(Università degli studi di Pavia)
[ 31 ]
NICOLA DE BLASI
Contiguità tra versi e prosa nella lingua letteraria
di Rocco Scotellaro
The new edition (2004) of Rocco Scotellaro’s Poems allows a comparison
with his prose writings (Contadini del Sud and L’uva puttanella).
An analysis in parallel of the two texts points out similarities
between his poetical and prose works (quotations from other
writers, a syntax which in most cases does not follow a linear or
hierarchical structure, the use of everyday language, and so forth).
These connections derive from a traditional communicative context
which, intentionally echoed, determines the structure of both his
poetical and prose speech.
«Tra le viti e gli alberi, sono attento ai piccoli rumori:
le foglie delle canne, lo sventolio sui rami, un sasso che
rotola, uno scarabeo che si arrampica, le lucertole.
So che questo posto ti piaceva, padre, più che ogni altro
[…]. Questo tra tutti è il posto dove sei rimasto».
(Rocco Scotellaro, L’uva puttanella, p. 6).
Premessa1
Un tentativo di leggere in continuità le poesie e le prose di Scotellaro,
fatte salve le ovvie differenze tra i generi, consente di individuare
elementi costanti che meritano di essere messi in risalto. Ciò vale in
primo luogo per la sintassi, già individuata come «l’aspetto più notevole
della sua poesia»2, che tra versi e prosa presenta tratti in comune,
1 U na versione più breve di questo lavoro è stata proposta, con il titolo La lingua
di Scotellaro, al convegno «Scotellaro scrittore. Storicità e attualità di un’esperienza
», che si è svolto a Tricarico nei giorni 7-8 maggio 2004.
2 W. Siti, Il neorealismo nella poesia italiana 1941-1956, Torino, Einaudi, 1980, p.
44.
Linguistica
Contiguità tra versi e prosa nella lingua di Scotellaro 725
a una prima lettura riconducibili a «un semplice esercizio imitativo»
del parlato3. Sembra però probabile che, nelle prose come nei versi,
una sintassi tendenzialmente marcata4, modellata in modo imprevisto,
e non soltanto «priva di gerarchie»5, dipenda direttamente dalla
particolare formazione culturale dell’autore: il comune andamento
parlato (e apparentemente casuale) della sintassi delle prose e dei versi
si spiega infatti come l’affioramento, filtrato attraverso l’esercizio
letterario, di modalità narrative assimilate da Scotellaro al tempo della
sua prima formazione, all’interno di un mondo immerso nell’oralità e
ricco di storie narrate e ascoltate. In questo universo comunicativo, la
scrittura, per esempio quella esercitata dalla madre che scriveva lettere
per gli altri, nasceva anche in stretto contatto con l’oralità, come
costante prolungamento o riformulazione dei discorsi parlati. La sintassi
della poesia, pur leggibile come risultato di una progressiva sottrazione6,
nascerebbe perciò non come ricerca mimetica di un rivestimento
esteriore, ma come frutto di una formazione avvenuta in un
contesto di oralità che in modi analoghi guida la strutturazione del
discorso sia in poesia, sia in prosa.
1. Le parole degli altri nelle poesie
Le diverse forme della scrittura appaiono piuttosto diversificate e
funzionali a differenti intenzioni tematiche e comunicative7:
i dubbi e le incertezze, che si esprimevano in tutte le manifestazioni del
pensiero, dell’opera e dell’azione dello Scotellaro, si notano anche nei
suoi scritti, che da una parte in prosa mirano a riprodurre la parlata,
incolta e sconnessa dei pastori o dei braccianti, mentre dall’altra in
poesia attingono dai modelli colti con innesti popolari. Questa dicotomia
stilistica non tanto denunzia l’incoerenza caratteriale dello scrittore,
quanto rivela una scelta, certo ancora acerba e non razionale, di riservare
alla quotidianità la narrativa e alla fantasia la lirica, perché gli
umili e casalinghi eventi non possono entrare nell’area poetica dei sentimenti
e delle riflessioni.
3 Ibidem.
4 N. De Blasi, «Infilo le parole come insetti»: aspetti sintattici delle poesie di Rocco
Scotellaro, in Studi sulla letteratura italiana della modernità in onore di Angelo R. Pupino,
a cura di E. Candela, Napoli, Liguori, 2008, pp. 343-357.
5 W. Siti, Il neorealismo nella poesia italiana 1941-1956, cit., p. 45.
6 Ivi, p. 46.
7 P. Giannantonio, Rocco Scotellaro, Milano, Mursia, 1986, p. 205.
[ 2 ]
726 NICOLA DE BLASI
D’altra parte è anche vero che la divaricazione diventa superabile
se si considera che alcuni tratti costanti si riconducono a un comune
atteggiamento di fondo di immersione in contesti comunicativi di oralità;
perciò è anche utile sottolineare, al di là delle manifestazioni strettamente
sintattiche, gli elementi di affinità tra prosa e poesia, proprio
per definire meglio la genesi di tali affinità. A questo proposito va approfondito
uno spunto che si coglie nelle pagine di Walter Siti, il quale
nota che nei testi poetici riconducibili a una linea neorealista «il caso
più comune di contatto con la parola altrui è quello dell’inserto di
parlato»8, spesso in forma di discorso diretto. Nei testi di Scotellato
(non solo in quelli poetici) l’inserimento di frasi altrui corrisponde in
sostanza al dare voce agli altri, anche a coloro che normalmente non
fanno sentire la propria voce, di modo che una scelta apparentemente
solo sintattica si carica di valenza sociale, in particolare quando è riportata
la parola di una collettività in cui l’autore si colloca per dare
voce a un ‘noi’ storicamente determinato9. Per la prosa l’innesto del
discorso dei personaggi all’interno della narrazione è sottolineato
adeguatamente da Pompeo Giannantonio10:
La prosa dello Scotellaro è caratterizzata dalla disposizione della materia
narrata su piani diversi con l’alternarsi di discorsi diretti, indiretti,
indiretti liberi in una prospettiva di promiscuità linguistica, in cui,
accanto all’immisione nel racconto di termini gergali o dialettali, atti a
ricostruire l’atmosfera, l’ambiente e il carattere del paesaggio, si adopera
anche la tecnica dell’innesto del discorso del personaggio direttamente
sul tronco narrativo.
Tale innesto ha luogo, d’altra parte, anche nelle poesie, che in alcuni
casi sono interamente strutturate come discorso riportato; è quel
che accade in Ti rubarono a noi come una spiga. Per un giovane amico assassinato.
Qui le parole che vengono dopo disse sono tutte presentate
come discorso del personaggio11:
Vide la morte con gli occhi e disse:
Non mi lasciate morire
8 W. Siti, Il neorealismo nella poesia italiana 1941-1956, cit., p. 23.
9 Ivi, p. 28: «la collettività per essere vasta non rinuncia alla qualificazione sociale:
il ‘noi’ equivale a ‘noi poveri’».
10 P. Giannantonio, Rocco Scotellaro, cit., p. 214.
11 R. Scotellaro, Tutte le poesie 1940-1953, a cura di F. Vitelli, Milano, Mondadori,
2004, pp. 49-50. Tutte le citazioni di versi di Scotellaro provengono da questa
edizione.
[ 3 ]
Contiguità tra versi e prosa nella lingua di Scotellaro 727
con la testa sull’argine
della rotabile bianca.
Non passano che corriere
veloci e traini lenti
ed autocarri pieni di carbone.
Non mi lasciate con la testa
sull’argine recisa da una falce.
Non lasciatemi la notte
con una coperta sugli occhi
tra due carabinieri
che montano di guardia.
Non so chi m’ha ucciso
portatemi a casa,
i contadini come me
si ritirano in fila nelle squadre
portatemi sul letto
dov’è morta mia madre.
O mettetevi qui attorno a ballare
e succhiate una goccia del mio sangue
di me vi farà dimenticare.
Lungo è aspettare l’aurora e la legge
domani anche il gregge
fuggirà questo pascolo bagnato.
E la mia testa la vedrete, un sasso
rotolare nelle notti
per la cinta delle macchie.
Così la morte ci fa nemici!
Così una falce taglia netto!
(Che male vi ho fatto?)
Ci faremo scambievole paura.
Nel tempo che il grano matura
al ronzare di questi rami
avremmo cantato, amici, insieme.
E il vecchio mio padre
non si taglierà le vene
a mietere da solo
i campi di avena?
Al grado opposto di invadenza nei testi va annoverata la breve
frase inserita nella descrizione, come il «Sia sempre lodato» detto dal
padre stanco al monsignore di passaggio12:
mio padre ciabattino
12 Ivi, p. 37.
[ 4 ]
728 NICOLA DE BLASI
con riso fragile e senza rossore
rispondeva da un gradino
‘Sia sempre lodato’ a un monsignore.
In altri casi l’organizzazione sintattica scivola verso l’indiretto libero;
in questi versi, per esempio, l’inciso vi disse permette di riconoscere
nelle parole successive l’eco di frasi effettivamente pronunciate dal
personaggio in partenza13:
dal babbo che vi disse si partiva
alla fiera di Madonna del Monte
nella convalle tra Gròttole e Salandra.
La stessa cosa vale per la poesia Mio padre, dove il discorso indiretto
liberto affiora nell’ultimo verso della citazione che segue14:
Aveva nelle maniche pronto
sempre un trincetto tagliente
era per la pancia dell’Agente.
Qui la frase «era per la pancia dell’agente» ripropone, con l’adeguamento
del tempo verbale, le parole effettivamente pronunciate («è
per la pancia dell’agente») al tempo dell’episodio rievocato.
La citazione diventa ancora più notevole quando si presenta come
ripresa di voci espressamente collettive, come il grido «Giustizia nera
» che chiude la ripresa di un canto popolare15:
Non voglia mai far notte, mai far giorno,
è venuto di piombo il pane al forno.
Cicala canta la canzone spasa,
il tizzone si è spento nella casa.
S’alzano i gridi ringhiera ringhiera:
Giustizia nera, Giustizia nera16.
Un altro canto popolare, intonato sulla nave, è probabilmente rie-
13 Ivi, p. 50.
14 Ivi, p. 37.
15 Ivi, p. 114.
16 F. Vitelli, Introd., in R. Scotellaro, è fatto giorno, ed. riveduta e integrata a
cura di F. Vitelli, Milano, Mondadori, 1982, p. 7, osserva: «i primi versi della poesia
Il morto sono la chiara ripresa di una nenia del folclore lucano da Scotellaro
raccolta e trascritta ’Na cantata ri mammaranna: “Non vole fa cchiò notte e jurne /
s’è ’nchiummate lu pane ’nta lu furne!”»; mammaranna significa ‘nonna’.
[ 5 ]
Contiguità tra versi e prosa nella lingua di Scotellaro 729
cheggiato anche nei versi «piroscafo che dici sì e no»17 che riportano
all’esprienza della migrazione per mare18:
Così parlavano piano:
Piroscafo che dici sì e no
sull’onda che ti tiene in mano,
voglio vedere che sorte avrò.
Tra i discorsi riportati risalta la narrazione orale di eventi entrati
nella memoria storica comune. La morte di un trainiere che portava il
sale è rievocata nel racconto di un vecchio, strutturato in una sequenza
di brevi proposizioni, quasi tutte della misura di un verso. Nell’unica
frase che occupa due versi, il sintagma verbale (Non rasparono più la
terra) precede quello nominale (i cavalli atterriti nel valico), con l’ordine
marcato Verbo-Soggetto19:
il più vecchio si muove dalla seggiola
a spalare la cenere bianca:
– Non uscite, lo so io cosa accadde!
Non rasparono più la terra
i cavalli atterriti nel valico,
il polvischio radeva sibilando,
il trainiere portava il nostro sale,
lo trovammo con la mano di pietra
spingeva ancora le ruote affogate.
Il racconto del vecchio, che allude analiticamente alle insidie della
neve e del gelo, ricostruisce, in rigorosa addizione paratattica e asindetica,
uno specifico episodio traendolo dal bagaglio di esperienze
trasmesse oralmente. La narrazione accanto al fuoco, com’è noto, ha
del resto un ruolo cruciale in una cultura fondata sulla tradizione20 e
17 In questo contesto, con sì e no si indica l’oscillazione della nave provocata
dalle onde, che ricorda il movimento della testa che oscillando fa il segno affermativo
(verso il basso) e quello di diniego (verso l’alto).
18 R. Scotellaro, Tutte le poesie 1940-1953, cit., pp. 111-112.
19 Ivi, p. 35.
20 G.R. Cardona, Culture dell’oralità e culture della scrittura, in Letteratura Italiana,
a cura di A. Asor Rosa, vol. II Produzione e consumo, Torino, Einaudi, 1983, pp.
25-101, osserva:«Per riprodursi i contenuti di memoria richiedono dei meccanismi
sociali che ne permettano la circolazione, la fruizione. Ed infatti la vita comunitaria
tradizionale offre un fitto tessuto di occasioni ordinate, feste a data fissa, feste familiari,
momenti del ciclo del lavoro, in cui può essere previsto l’enactment di una
parte del repertorio orale, nelle sue varie forme, attraverso vari esecutori» (p. 37).
[ 6 ]
730 NICOLA DE BLASI
sulla trasmissione di notizie ed eventi da una generazione all’altra.
All’oralità che lega, all’interno dell’ambiente familiare, una generazione
all’altra nella diacronia della storia, si affiancano le voci dall’esterno,
che scandiscono gli eventi quotidiani, come le parole del banditore
riportate in Sentite il bando21:
È venuto il forestiero gran signore
che ha ogni roba da maritare.
E piangete, piangete bambini
fatevi comprare i giocattoli.
Sentite le donne che bella seta,
il setaiolo stanco
fatelo scaricare.
O peperone forte,
O peperone rosso
pestato di Senise.
Andate a comprare patate in piazza
a venticinque lire il chilo:
c’è il forestiero,
fa pure a cambio-roba,
piatti fini e ordinari,
bottiglioni e damigiane,
anfore, orciuoli, cùccume.
Vuole crusca caniglia,
un chilo patate un chilo caniglia.
Sentite che si tiene l’assemblea
dei reduci per bloccare le case.
Andate all’acqua alla vecchia fontana
l’acquedotto non funziona.
La capra di Francesca non si è ritirata,
per chi la trova c’è un mese di latte,
venite da me che vi regalo.
Sentite l’ordine del podestà,
lavate le strade se no c’è la multa.
Andate a pagare le terre al signore,
mettetevi in mente, se uno mi insulta
mi paga forte da banditore.
Si sbloccano terre e case,
o peperone forte di Senise,
che bella seta, che bella seta!
21 R. Scotellaro, Tutte le poesie 1940-1953, cit., p. 62.
[ 7 ]
Contiguità tra versi e prosa nella lingua di Scotellaro 731
In questa poesia, che Carlo Levi non ha inclusa nell’edizione del
1954 (quindi non è stata considerata da Siti), si ritrova ad ogni verso la
voce del banditore, nella sua sintassi accumulativa, che scivola da un
argomento all’altro, enumerando oggetti ed eventi di rilievo: risalta
l’andamento segmentato, con forte pausa centrale, in cui due elementi
sono aggiunti uno all’altro senza il legame di una preposizione: si
pensi alla frase un chilo patate un chilo caniglia, che in una sintassi eleborata
e completa potrebbe equivalere a «offre un chilo di patate in
cambio di un chilo di crusca». Nella costruzione ellittica e apparentemente
priva di senso (se giudicata alla luce dei suoi “vuoti”), è fissata
in modo netto, con la semplice giustapposizione, l’equivalenza dei
prodotti su cui si fonda lo scambio («un chilo patate / un chilo caniglia
»), come avviene per esempio nel modo di dire «qua la pezza, qua
il sapone», con cui si identifica uno scambio estemporaneo di merci.
Questo aspetto della sintassi segue quindi davvero l’andamento del
parlato, in cui il senso della frase si costruisce anche attraverso le pause
e attraverso quelli che nella sintassi scritta apparirebbero come
«vuoti»; la sequenza sintattica quindi non va letta solo in negativo
come sottrazione di elementi o perdita di gerarchia, ma come una costruzione
che segue un altro principio costitutivo, quello del discorso
parlato.
Nel mondo in cui l’autore si è formato (si pensi sempre alla madre
alfabetizzata e scrivana) era d’altra parte possibile e costante lo stabilirsi
di nessi e di conttati tra comunicazione parlata e comunicazione
scritta (si ricordino ancora i testi nati come dettatura). Tra le parole
degli altri, ricordate quasi come reperti di una comunicazione reale e
concreta, si inseriscano nei testi, anche parole scritte. Un biglietto è
riferito nella poesia Mio padre22:
Mise lui la pulce nell’orecchio
al suo compagno che fu arrestato
perché un giorno disperato
mandò all’ufficio il suo banchetto23
e sopra c’era un biglietto:
“Occhi di buoi
fatigate voi”.
22 Ivi, p. 37.
23 Si tratta del banchetto da calzolaio.
[ 8 ]
732 NICOLA DE BLASI
In America scordarola si riconoscono gli echi di una tipica lettera di
una moglie al marito emigrato in Argentina24:
Per te che te ne vai
senza nemmeno dirci addio
dove ti piangi la morte vicina
(perché ti stanca tapparti in cantina
qui nei giorni grigi di pioggia)
noi vedremo giocare il tuo bambino
alla lippa attorno alle caldaie
che accolgono l’acqua piovana.
Ma tu la mano non gli tenderai,
se gl’infiggono i chiodi i piedi scalzi,
con una busta di pesos!
Torna nuovo qui da noi:
ti laverai la faccia nel mattino,
tu ti ricredi vivo, ma smarrisci
a noi piano nell’ombra del passante
che svolta al grappolo di case,
gli autobus sono seri e fatali.
Torna, è tempo che assaggi
molliche di focaccia,
e l’odore dei forni
come te lo manderemo?
Scrivici, oscilla una corda
tra noi sopra il mare,
e tu la vuoi spezzare?
Ancora noi giuochiamo all’altalena,
ritorna alla tua pena di qui,
il bambino si fa grande
e i suoi occhi si cercano attorno.
In quanti ti daremo il benvenuto,
ti ritrovi in tuo figlio cresciuto:
devi placare le sue ali goffe
come di una cetonia catturata
che vola legata al filo.
Egli porta già la testa
scontrosa nel mantello
e che sguardi ti comunica
sul ponte del fiume
illuso di atterrirti fin laggiù.
Ma Papà l’americano non scrive più.
24 Ivi, p. 77.
[ 9 ]
Contiguità tra versi e prosa nella lingua di Scotellaro 733
Questa lettera trascritta in una poesia si propone come la citazione
di una delle tante lettere redatte dalla madre di Scotellaro come scrivana
per conto terzi25.
Un inserto testuale molto particolare si legge nella poesia Il fazzoletto,
che in fondo si presenta come l’edizione di un testo popolare
(alla maniera dei testi editi in Contadini del Sud). Si tratta di una frase
ricamata su un fazzoletto, secondo l’usanza di scambiarsi tra innamorati
doni del genere. In questo caso il fazzoletto è quello donato alla
madre da un giovane, che aveva evidentemente commissionato il ricamo
a «un’altra signorina». La citazione del testo ricamato è preceduta
(tra parentesi!) da una precisazione che sembra una nota preliminare
di commento. La trascrizione e i modi della presentazione qualificano
questi versi come la registrazione a futura memoria di un doppio
reperto, da un lato museale (il fazzoletto), dall’altro linguistico (il
testo)26:
Il fazzoletto
(Le signorine al tempo di mia madre
rispondevano agli innamorati
con frasi ricamate al fazzoletto.
Eccone uno che ella ebbe in ricambio
dal giovane che fu suo primo amore,
a fattura di un’altra signorina.)
«Il fazzoletto che mi hai donato
l’ho perduto sulla piazza,
l’ha trovato un’altra ragazza
che mi piace più di te».
25 Si noti, per inciso, che molte delle poesie in cui sono inserite queste riprese
di testi altrui, orali o scritti, nell’edizione del 1954 sono state espunte da Levi, il
quale eliminò ben ventisette testi, di cui qui si ricordano i titoli: Saluto; Il giardino
dei poveri; Dell’amante immacolata; Le girandole occhieggiavano a noi; Domanda d’impiego;
Una fucsia; Passeggiate; Il vilucchio; Ce ne dovevamo andare; L’acqua piovana; Invettiva
alla solitudine; Sentite il bando; Liberate, uomini, il carcerato; Pace con i miei morti;
Olimpiadi; Sentite anche l’anima mia; America scordarola; Balcone; La città mi uccide; Di
gioventù cresciuta a suon di jazz; Anche una pietra; Da vetri opachi; I lucani cantano
monotoni; Estiva; L’uomo si sente chiamato; Dopo la vendemmia; Il fazzoletto (cfr R. Scotellaro,
è fatto giorno cit.). La scelta di Levi, dettata da predilezione estetica,
avrebbe dunque sacrificato alcune poesie di Scotellaro segnate da un’impostazione
scopertamente antropologico-documentario, che se da un lato “appesantisce” il
tono lirico, dall’altro produce esiti senz’altro originali e inconsueti, soprattutto per
l’epoca in cui sono stati scritti.
26 R. Scotellaro, Tutte le poesie 1940-1953, cit., p. 119.
[ 10 ]
734 NICOLA DE BLASI
2. I discorsi degli altri nelle prose
I testi riportati (parlati o scritti) fanno sì che le poesie di Scotellaro
si presentino anche come occasione per dare spazio alle parole degli
altri, inserite in contesti che rinviano a usi e abitudini di una realtà ben
individuata. Essi quindi contribuiscono a dare alle poesie una connotazione
di realismo descrittivo. Ancor più delle poesie, le prose di Scotellaro
si presentano come insieme di discorsi degli altri, visto che le
prose sono espressamente costruite o come raccolta di documentazione
scritta e orale (Contadini del Sud), o come testo autobiografico (L’uva
puttanella). In Contadini del Sud, per esempio, c’è un episodio minore
raccontato in un inciso nelle pagine dedicate a Mulieri27:
La mania esibizionistica della protesta isolata e personale accomuna il
nostro Mulieri alla donna di Roma, strillona di giornali, che si aggirava
gridando le sue frasi e non i fatti del giorno: – Noi siamo anarchici,
evoluti e coscienti! –; lo accomuna ai “posteggiatori” (cantanti) di Napoli,
ai poveri notturni di tutta Italia, che nell’ubriachezza inventano la
loro teoria del mondo; al prete di Avellino Giuseppe Longo che lanciò
il cartello – Il peccato chi lo fa lo paga prima qua e poi là –.
Questo piccolo episodio favorisce la sottolineatura di un aspetto
non secondario: l’autore, anche attraverso i discorsi riportati, descrive
la realtà che vede, di cui fa esperienza diretta; tra l’altro è la stessa realtà
vista e sperimentata da altri anche nei decenni successivi. Per
esempio il personaggio di Avellino «che lanciò il cartello» non solo è
realmente esistito (e per questo sarebbe in verità sufficiente la testimonianza
di Scotellaro), ma ha continuato a lungo nella sua protesta solitaria,
inalberando cartelli colorati in varie località della Campania,
dalla natìa Avellino a Napoli: il suo nome non era Giuseppe Longo,
ma Giovanni Luongo28, già insegnante di scuola (non prete), protagonista
di una protesta urlata attraverso cartelloni di diversi colori su cui
erano affissi come collages frasi improntate a una sorta di polemica
morale. A parte quello citato di Scotellaro, era solito inalberare (fino
agli anni Ottanta del Novecento, talvolta anche a Napoli) anche
27 R. Scotellaro, L’uva puttanella Contadini del Sud, nuova ed. a cura di F. Vitelli,
Roma-Bari, Laterza, 1986, p. 134. Da questa edizione provengono le citazioni
delle opere di Scotellaro.
28 Queste informazioni derivano dalla testimonianza di mio padre Luigi; sulla
copia di Contadini del Sud da lui letta, sul margine di p. 135, si legge:«Non è prete,
ma professore. Si chiama Giovanni Luongo».
[ 11 ]
Contiguità tra versi e prosa nella lingua di Scotellaro 735
quest’altro cartello: «è colpa tua. I tuoi figli non ti obbediscono perché
hanno troppi soldi in tasca».
In modo più articolato anche L’uva puttanella si presenta come un
“contenitore” di testi riportati, riconducibili peraltro a diversi generi.
Un testo autobiografico che rinvia a un episodio remoto è quello
raccolto dal racconto di Giovanni, «che fu educato all’amore con quelle
due lire, come lo furono altri giovani che oggi sono padri di figli»29:
Si andava a giocare ai soldi, al merco (è una pietra che fa da pallino,
deve avvicinarsi il più possibile la due soldi30), allo spaccamattoni, vicino
la caserma dei carabinieri. Era una domenica, tenevo una mezza
lira, vinsi due lire.
– Be, stasera, vuoi venire da zia Filomena?
– Dove? Che si fa?
– Andiamo là e ci divertiamo (…)
La seconda sera la porta non era tutta chiusa, entrai, le detti due lire. Adesso
fa a cambio merci, chi le porta ceci e fave, chi grano, formaggio, olio.
Ne ha fatto battaglie! Sa guarire le malattie, è pulitissima.
Zia Filomena, ci dovessi far prendere qualche malanno? è sicuro?
– Sì
Adesso è una schiumarola vecchia.
Un’intera autobiografia (che origina sin dalla nascita per giungere
al presente) è raccontata all’autore da Brancaccio, durante la detenzione.
Il racconto non è riportato in prima persona31, poiché a dire io è la
voce dell’autore, ma dal tono della narrazione, che in fondo è una storia
di vita, assimilabile a quella di Contadini del Sud, sembra che, a
parte l’inciso iniziale di presentazione, l’autore-intervistatore si sia limitato
solo a modificare le forme pronominali e le persone verbali32:
29 R. Scotellaro, L’uva puttanella Contadini del Sud, cit., p. 34.
30 Da intendere «la moneta da due soldi» (cioè da dieci centesimi, poiché la
lira era composta da venti soldi).
31 Sul modo di riportare questo racconto è possibile che l’autore abbia avuto
dei ripensamenti o abbia rielaborato appunti precedenti. Franco Vitelli (ivi, p. 306),
infatti, segnala che tra le carte di Scotellaro si legge una «variante non solo formale,
del matrimonio di Brancaccio a Pisticci, scritto in prima persona. Può tornare utile
sapere che i fatti si riferiscono ad un episodio realmente accaduto epperò accortamente
rielaborato; una cronistoria puntuale c’è nella “Biografia della morte della
defunta /Vedova Saponaro)” che Chiellino, richiesto, aveva inviato a Scotellaro il
“1-6-1951”». Anche questo episodio variantisco conferma quindi la tendenza a
concepire i suoi lavori con una vocazione documentaria che comportasse tra l’altro
la ripresa e la rielaborazione di una costellazione di testi altrui.
32 R. Scotellaro, L’uva puttanella Contadini del Sud, cit., pp. 93-94.
[ 12 ]
736 NICOLA DE BLASI
Era morto – già quando nacque – diceva di lui Brancaccio, il giovane
napoletano sifilitico che era l’odio della guardia infermiere: lo avevano
messo nella cassa, lo stavano portando, la madre dette gli orecchini a
San Nicola e allora lui urlò. Lo chiamarono il morto vivo. A 11 anni lo
mandarono al riformatorio perché da camion e carretti si trovavano
rubati carboni e arancie. Ne uscì, dopo quattro anni passati nei riformatori
di Firenze di Avigliano, col mestiere di intagliatore, il giorno di
San Pietro e Paolo del ’42. Nel riformatorio con gli scugnizzi aveva
progettato che fare quando si usciva. Brancaccio dimenticò gl’impegni
perché si mise a giocare al mazzetto e alla baracca con i soldi rubati: il
padre vendeva, lui gli rubava, già a quell’età “figlio ’e stuppolo co’
dente d’oro”.
A una tipologia di impianto burocratico, con trascrizione, come in
un verbale, di domande e risposte, accompagnate da valutazioni, riporta
invece il Memoriale di Vasco, scritto sotto dettatura («Bartolomeo
mi aveva dettato, io scritto»)33:
Nel momento dell’arresto di Coccia Vincenzo – cominciava il memoriale
di Vasco – lui dichiarò che questi biglietti falsi l’aveva ricevuti da
un certo Bartolomeo capraio, che io 4 o 5 mesi fa gli vendetti una capra
e precisamente abito alla Massaria Ficocchia vicino al Sanatorio, è
presso la strada litoranea, e dice queste testuali parole: ‘io il giorno 10
Agosto vendevo fichidinie e verdure’. Prima di tutto domando al Coccia
Innocenzo se tiene il patentino e la licenza e il posto assegnato e poi
gli domando, al Coccia: Che verdure vendevi? Se questo risulta tutto
giusto, allora possiamo credere che è avvenuto l’incontro con il Bartolomeo
caprario. Ma la verità risulta che lui è un commerciante ambulante
di formaggio, cacioricotta, uova e latticini; non ha mai venduto
fichi d’india e verdura.
Un altro testo strutturato secondo canoni codificati è la memoria di
Coccia, che finiva con queste parole34:
Io voglio sperare che la signoria vostra vuole riconoscere bene la mia
innocenza e di pensare che ci ho moglie e figli e i miei genitori tutti
invalidi al lavoro e mi dovete perdonare se io non ho subito dichiarato
la verità. è stato che io avevo paura, essendo recidivo.
Questi due episodi confermano che per Scotellaro l’esercizio della
letteratura è anche (se non soprattutto) occasione per dare voce agli
33 Ivi, p. 84
34 Ivi, p. 89
[ 13 ]
Contiguità tra versi e prosa nella lingua di Scotellaro 737
altri attraverso il suo scrivere per conto terzi. In qualche caso la spinta
alla scrittura nasce da una committenza diretta (le memorie difensive);
talvolta si tratta, come si è visto, di trascrizioni di un racconto di
vita; mentre in altri casi ha luogo la registrazione per iscritto di testi
spontanei intercettati nella conversazione quotidiana. Ciò capita in
particolare per quei testi che rimandano alla comunicazione tra compagni
di cella. Ecco, per esempio, l’uxoricida Pasciucco che canticchiava
una specie di filastrocca, classificabile come una variazione sul tema
dei blasoni popolari35: «Aliano e Alianello – Sant’Arcangelo e Missanello
– Gorgoglione e Cirigliano – Chi vuole puttane – Va a Stigliano
– Chi vuole quelle più fine va a Pisticci e a Ferrandina».
Come discorso diretto, preceduto dai due punti, è riportato il sogno
di Chiellino, che nella frammentazione della sintassi da un lato
propone la segmentazione del parlato, dall’altro allude alla successione
di immagini oniriche36:
Chiellino mi toccò: Ho sognato. Trebbia, giornali e treni. Significa che
va alla lunga, è malamente: controllo di uomini, per la propaganda. Da
quando ero militare studiavo i sogni e se dicevo che non andavo in licenza,
così era. Ero uscito dal carcere e andavo all’acqua sotto il gran
crivello della trebbia, pare che i rubinetti gettino acqua. Da un lato
all’altro senza riuscire a prendere acqua. Allora abbiamo ragionato:
Quanti chilometri è da qua a tale paese? Eh, dice, sono circa sedici,
però devi far subito, se no viene rinforzo, altro che te ne sei scappato
dal carcere. Sentendo così, mi sono riparato in un vigneto di tanti colori,
dai muraglioni alti. Su un muraglione mi sono fermato per sapere la
strada, me l’hanno fatto vedere: O Gesù, quanto devo camminare!
Allora se tu riesci a saltare da un muraglione, fra un’ora deve passare
un treno merci e subito dopo il merci, il diretto. Fai così, passa un carro,
tu salti nell’incassata e ti dicono la scorciatoia della stazione. Così ho
fatto. Il carrettiere disse lo stesso: non ti far veder, cammina a piedi. Dai
e dai, arrivava il merci, vicino ho visto un giovanotto con un fucile a
canna: non aver paura, bello mio, ho sbagliato la strada. No e non ti
faccio nulla.
Mentre trapassavo per andare in galleria, là mi sono spaventato. La
paura è buona, e mi sono svegliato.
In discorso diretto sono riportate anche le parole del Cavalier Carritelli,
che rimandano a un’altra drammatica storia di vita37:
35 Ivi, p. 80.
36 Ivi, p. 65.
37 Ivi, p. 67; Franco Vitelli (ivi, p. 305) segnala:«Il racconto del Cavalier Carri-
[ 14 ]
738 NICOLA DE BLASI
Mi chiamano inservibile, ditelo voi se sono inservibile, inservibile il
cavalier Carritelli! Io so tutte le sette battute. Il tenente a Roma da militare
mi voleva bene, i galantuomini al paese se la facevano con me,
dottori e avvocati, e professoroni. Ungila, ungila con la tintura. Il tenente
mi faceva massaggiare la figlia, una stozza con la tintura.
Una vera e propria trascrizione (come in Contadini del Sud) si realizza
invece nel caso delle Memorie della mia vita di Giappone, un poeta
popolare che solitamente recita i suoi versi ma, se necessario, li trasmette
direttamente nella loro stesura scritta38:
Giappone, non avendo più modo di recitarmi le sue poesie, me ne passava
in belle copie per mio diletto e per il lavoro di critica. Non capisco
come gli capitò di scrivere questa per esprimere, la prima volta, dal
suo cuore ribelle e incredulo, un atto di fede nei “màrtiri”, nella “sincerità”,
nel “primo maggio”, che veniva tra qualche mese, nel carcere,
pieno di 30 occupatori di terre.
Il testo poetico di Giappone, di circa quaranta versi, si conclude
con una parte in prosa rimata39: «Caro Scotellaro, quante cose avrei da
raccontare, ma per spazio di misera carta non si può continuare».
3. Ripresa e adattamento di un testo: i versi nella prosa
La citazione di testi altrui non esclude però un intervento mirato da
parte dell’autore. Ciò è evidente nel caso di un’iscrizione sul battente
della casetta della vigna del padre di Scotellaro, dove tra l’altro si dispongono
altre tracce di scrittura pratica e quotidiana, quelle che si riferiscono
al conteggio dei barili di vino prodotti in ogni vendemmia40:
Andai subito a leggere lo scritto, c’era ancora, indelebile, fu un vignaiuolo
a farlo su un battente della porta, accanto alle aste contorte di mio
padre che significavano i barili di vino man mano che si trasportavano
e per ogni gruppo di aste, nere come formiche, era indicato l’anno:
1927, 1928 e così fino al ’41. “Chiunque abita in questa casetta che si
ricordi che è fortunato perché io ho trovato due soldi affumicati dentro
la cenere del focolare”. Il vignaiuolo, che era praticamente aiuto di mio
telli è un condensato del singolare idioletto scotellariano; nessun dubbio peraltro
può prendere giacché è trascritto in pulito con chiara e bella grafia».
38 Ivi, pp. 113-114.
39 Ivi, p. 115.
40 Ivi, p. 5.
[ 15 ]
Contiguità tra versi e prosa nella lingua di Scotellaro 739
padre, ottimo potatore, fu poco fortunato, ebbe in pochi anni una serie
di figli, poi ci fu la tempesta che si vendemmiò la vigna, un anno di
disgrazia e preferì ritornare al lavoro giornaliero di bracciante e decadde
sempre più. Fece un figlio barbiere, un altro muratore, gli altri sono
piccoli, ora è sulla piazza alto, sdegnoso delle lotte sindacali, un contadino
fallito, alla mercè dell’assistenza. Io ricordo lui e ricordo mio padre,
ricordo il cammino che ho fatto, che non era segnato in quelle parole
di augurio per due soldi affumicati.
Il testo qui riferito non è stato rinvenuto per caso, né è ripreso da
un racconto ascoltato da altri; l’iscrizione sulla porta era invece già
nota da tempo all’autore, che la ricerca e la ritrova così come la ricordava
(«c’era ancora indelebile»), per poi ricollocarla nel suo contesto.
Come per le frasi ricamate, riferite nella poesia Il fazzoletto, la ripresa
del testo è occasione per ricostuire circostanze e persone. La traccia di
questo breve testo, fissato nel battente della porta, diventa a suo modo
conferma del valore della scrittura, che anche a questo livello svolge la
funzione di ravvivare i ricordi e favorirne la trasmissione. La frase
augurale offre infatti lo spunto per inserire, insieme con il testo, la
breve biografia del vignaiuolo, rievocato nelle sue qualità («ottimo
potatore») e nel dramma del suo declino («decadde sempre più») che
lo conduce a una condizione di inoperosità (con «è sulla piazza» si
allude di fatto all’emarginazione di chi non è impegnato nel lavoro).
Nella prosa de L’uva puttanella, quindi, la vita del potatore scaturisce
dal ritrovamento dell’iscrizione, che diventa occasione di un racconto.
A questo proposito è rilevante constatare che il testo dell’iscrizione è
stato forse trascritto con alcuni ritocchi rispetto alla sua forma originaria,
che invece corrisponderebbe a un appunto rinvenuto da Franco
Vitelli tra le carte dell’autore. Secondo questo appunto l’iscrizione sulla
porta si presentava così41:«Chiunque Abita in questa casetta Si ricordassero
che è buono augurio perché Io nella fornnella ò Trovato Centesimi
5 mi firmo Petrosino Michele».
Come poi farà in Contadini del Sud, Scotellaro ha insomma regolarizzato
l’uso delle maiuscole e le forme scorrette (si ricordassero è così
modificato in si ricordi per salvare la concordanza con chiunque); inoltre
è espunta (forse per motivi di riservatezza) la firma del vignaiuolo,
che si chiamava Michele Petrosino. Le altre varianti rispondono però
a criteri che diventano comprensibili solo se si riconducono a un’esigenza
di stile o forse di prosodia. Si direbbe infatti che, rispetto alla
41 Ivi, p. 304.
[ 16 ]
740 NICOLA DE BLASI
stesura appuntata sul foglio volante, l’iscrizione inserita nel testo del
L’uva puttanella consegua una riconoscibile articolazione ritmica: nella
sua prima metà si delineano due frasi della misura di undici sillabe
(Chiunque abita in questa casetta / che si ricordi che è fortunato), che è anche
la misura dell’ultimo segmento (dentro la cenere del focolare); l’unica
sequenza che eccede le undici sillabe (perché io ho trovato due soldi affumicati)
offre del resto un contributo decisivo alla musicalità del testo,
visto che trovato rima con fortunato e (quasi perfettamente) con affumicati.
Se si accetta che nella riformulazione Scotellaro cercasse una disposizione
ritmica è anche possibile che i centesimi 5 siano diventati
due soldi per esigenze metriche42.
Da questo piccolo testo, che è il primo tra quelli inseriti nell’Uva
puttanella, si vede come Scotellaro presti particolare attenzione a tutte
le forme marginali di scrittura e di narrazione, senza tuttavia perdere
di vista la strutturazione letteraria della sua prosa. Proprio le varianti
che qui si sono notate mettono in evidenza la cura con cui l’autore ricerca
un ritmo interno che risalta anche in altri casi. Come ulteriore
conferma di una tendenza che sembra orientare tutta la scrittura di
Scotellaro (sia in poesia che in prosa) valga la descrizione di un amico,
articolata in brevi e regolari segmenti sintattici (qui da me evidenziati
con le barrette oblique), scanditi da una fitta punteggiatura43:
La sua faccia era bella, / le sue mani, i suoi occhi. / Lui, i carpini, le
pietre lisce dei tratturi, / le mammelle delle pecore, / e l’odore che ne
andava: / non è la fanciullezza che mi rimanda perfetti e armoniosi
quelle cose e quegli odori.
è un pastore oggi quel mio amico, / ha fatto la guerra, adulto, cadente
e sgangherato, / ma egli è sempre senza macchia; / se lo guarda la
donna più bella del mondo / non si copre la bocca vuota dei denti con
le mani, / ma l’apre e ride, più bello di tutti lui, / cresciuto nel sole e
nella pioggia.
Proprio le virgole e i punti ricorrenti suggerirebbero perfino una
riscrittura di questo brano come una sequenza di versi, esperimento
che qui si prova per la seconda parte:
è un pastore oggi quel mio amico,
42 Tuttavia occorre anche fare l’ipotesi che le varianti del testo messo a stampa
derivino da un errore di memoria di Scotellaro, il quale, pur avendolo trascritto
fedelmente in un suo appunto, potrebbe averlo inserito nel testo con il solo ausilio
della memoria.
43 Ivi, p. 17.
[ 17 ]
Contiguità tra versi e prosa nella lingua di Scotellaro 741
ha fatto la guerra,
adulto, cadente e sgangherato,
ma egli è sempre senza macchia;
se lo guarda la donna più bella del mondo
non si copre la bocca vuota dei denti con le mani,
ma l’apre e ride, più bello di tutti lui,
cresciuto nel sole e nella pioggia.
Accanto a una cadenza genericamente ritmica, non di rado si riconoscono
misure sillabiche ben precise. Ecco per esempio un periodo in
cui, come dimostra la trascrizione che qui propone, risaltano tre endecasillabi
e due settenari44:
Un prete commemorava il morto
parlando dal pulpito,
per la città la gente ci guardava,
io e il mio amico andavamo sempre
per la diversa altezza.
Se è vero che ogni segmentazione sintattica può dar luogo nella
prosa a sequenze che consentano misurazioni sillabiche, è anche vero
che proprio l’esempio dell’iscrizione del vignaiuolo dimostra che per
Scotellaro il passaggio dal dato della realtà alla scrittura letteraria comportava,
tra l’altro, il filtro di una disposizione ritmica e di una narrazione
cadenzata, che caratterizza sia la sua prosa sia la sua poesia.
In una formulazione schematica si può quindi affermare che per
Scotellaro la scrittura letteraria comporta un adeguamento a modi sintattici
e i ritmi della narrazione orale, ma acquista anche come punto
di riferimento (e di partenza per eventuali rielaborazioni) le scritture
popolari spontanee, verso cui è attratta. Ne conseguono le caratteristiche
della prosa che sono state ben descritte da Giannantonio45:
I calchi caratteristici della parlata popolare, come la giustapposizione
paratattica delle frasi, la brachilogia, l’andatura ansimante a scatti del
racconto con improvvise divagazioni o detti proverbiali, l’irregolarità
dell’uso delle proposizioni dipendenti, le iterazioni delle frasi in uno
stesso periodo, le sconnessioni della sintassi governata da un’organizzazione
mentale più che da una logica formale, l’elencazione esasperata
dei particolari, l’anarchia delle preposizioni, il gusto del colore anche
nel fraseggio, la scelta lessicale secondo suggerimenti dialettali, oltre lo
44 Ivi, p. 26.
45 P. Giannantonio, Rocco Scotellaro, cit., p. 218.
[ 18 ]
742 NICOLA DE BLASI
scambio di ruoli tra l’io narrante e l’io narrato si ritrovano nella prosa
scotellariana e ne sottolineano l’inconfondibile radice contadina.
Insieme con l’eventuale radice contadina, la prosa di Scotellaro, al
pari della sua poesia, mette tuttavia in luce un forte radicamento
nell’universo della narrazione tradizionale.
4. Sintassi marcata
Il collegamento con il mondo dell’oralità si riconosce nella ripresa
di toni e procedimenti tipici del discorso parlato, sia nella sintassi della
frase46, sia nel collegamento tra i periodi. Nella misura della frase
rimanda all’andamento del parlato il frequente ricorso alla dislocazione,
che qui si esemplifica (il pronome di collegamento è evidenziato in
grassetto):
Il primo figlio l’ho voluto fare maestro (p. 12)
Tutto il corredo mia madre l’aveva apparecchiato secondo la nota (p.
28)
Le faccie dei miei mi pareva di non ricordarle (p. 28)
Angelina non l’hai scordata (p. 29)
ogni uomo, con la sua faccia e il suo peccato, o con la sua bellezza, io
dovevo rispettarlo come fratello (p. 29)
La piazza la fece il Sindaco che stette trent’anni sopra il municipio (p.
36)
l’arco lo fece fare Federico secondo di Svevia (p. 37)
tutti i quattordici materassi li menò giù (p. 39)
“questi dobbiamo scannarli” (p. 38).
Talvolta la dislocazione di un elemento e la ripresa pronominale
comporta una soluzione più vistosamente pleonastica:
46 Per alcuni aspetti della sintassi dei versi rinvio a N. DE BLASI, «Infilo le parole
come insetti»: aspetti sintattici delle poesie di Rocco Scotellaro, cit.
[ 19 ]
Contiguità tra versi e prosa nella lingua di Scotellaro 743
è l’entrata della rotabile, che la chiamano viale per qualche albero
d’acacia (p. 36).
La dislocazione coincide, com’è noto, con la sottolineatura enfatica
dell’elemento più informativo all’interno della frase47, secondo una
modalità frequente nella comunicazione parlata. Alla stesa esigenza
di sottolineatura corrisponde la posposizione del soggetto all’interno
della frase, in cui, in genere, «l’elemento meno informativo coincide
con quello iniziale, l’elemento più informativo con quello finale»48. La
predilezione per l’ordine marcato Verbo-Soggetto si riconosce in diversi
passaggi in prosa:
Adesso sana, adesso non sana la mano di Innocenzo, si avvilupparono
le dita49 (p. 8).
Nelle prose è piuttosto frequente l’ordine Verbo Soggetto, con inversione
rispetto alla sequenza non marcata:
avevano tutti paura di lui (p. 9)
Pensò lei a tutto (p. 10)
stavano stesi quattordici materassi di lana al sole (p. 39).
Nelle poesie, d’altra parte, la sequenza Verbo Soggetto, privilegiata
sin dal titolo di è fatto giorno50, ritorna molto spesso:
si svegliarono in me le feste (p. 23)
è rimasto l’odore (p. 24)
47 Al riguardo cfr F. Sabatini, L’“Italiano dell’uso medio”: una realtà tra le varietà
linguistiche italiane, in Gesprochenes Italienisch in Geschichte und Gegenwart, a cura di
G. Holtus e E. Radtke, Tübingen, Narr, 1985, pp. 154-184.
48 R. Sornicola, Pragmalinguistica, in Lexicon der Romanistischen Linguistik
(LRL), a cura di G. Holtus – M. Metzeltin – C. Schmitt, Tübingen, Niemeyer, vol.
IV, 1988, pp. 169-188 (p. 175).
49 Adesso sana adesso non sana è, tra l’altro, l’evidente ripresa di una frase di
dialogato.
50 Come ormai è noto grazie all’edizione curata da Franco Vitelli, il titolo dipende
direttamente dai versi di un canto popolare che Scotellaro poneva in esergo
a tutta la raccolta: «Svegliati bella mia che giorno è fatto, / sono volati gli uccelli
dai nidi». Solo leggendo i versi rimessi al loro posto, siamo ora in grado di notare
che Scotellaro riprende quasi le stesse parole del canto, ma compie un’inversione
del loro ordine.
[ 20 ]
744 NICOLA DE BLASI
è calda così la malva (p. 24)
Ora ritorna la zecca ai cavalli
ventila la mosca nelle stalle (p. 11)
Perché si chiudono tra noi i cancelli
volano ciechi ancora i pipistrelli (p. 24)
Ricrescerà il vilucchio sui balconi (p. 25)
venne l’altro figlio di papà (p. 34)
si sono spalancati i burroni (p. 54)
Suonano sempre le antiche zampogne (p. 12)
Non rasparono più la terra
i cavalli atterriti nel valico (p. 35).
La stessa predilezione per una costruzione marcata risalta anche
nella sintassi del periodo, in cui talvolta la narrazione si apre ad incisi
che contengono un’integrazione dell’informazione. Si determina in
questo modo una sorta di pausa nel discorso, con una successiva ripresa
segnata da un allora che si riallaccia a ciò che precede l’inciso.
Questo movimento sintattico, con interruzione, inciso e ripresa, è evidente
in sequenze in cui tra i due elementi coesivi quando e allora si
inserisce un inciso. Ecco un esempio tratto da L’uva puttanella51 (con l’a
capo è qui evidenziato l’inciso):
quando mi caricavano troppo,
[io ero solo di fronte ai loro malanni, alle loro grida, ai loro problemi
recenti e remoti, taluni irresolubili e disperati,]
allora prendevo il biroccio o la corriera o mi mettevo la via sotto i piedi,
dovevano lasciarmi stare, si dispiacevano per avermi irritato, tornavano
calmi ad aspettare il mio ritorno e le risposte che potevo alle loro
domande.
Qui la natura di inciso della proposizione io ero solo di fronte ai loro
malanni etc. è svelata proprio dall’allora che segue come ripresa: se non
ci fosse allora, la frase io ero potrebbe essere anche interpretata come la
principale. D’altro canto la presenza di allora rende evidente che la
sintassi non è fondata su criteri di gerarchia ipotattica ma sulla giustapposizione.
A proposito di affinità tra poesia e prosa, è notevole che
51 R. Scotellaro, L’uva puttanella Contadini del Sud, cit., p. 1.
[ 21 ]
Contiguità tra versi e prosa nella lingua di Scotellaro 745
tale sequenza quando – [inciso] – allora si incontri anche nei versi. In un
primo caso l’inciso è sotto forma di vocativo seguito da una relativa52:
Quando passo, per la passeggiata,
avanti il tuo cancello,
[papà mio bello]
[[che stai di casa oltre la murata,]]
allora c’è la pica, [se è sera], che ride,
sono scostumato ché non ti saluto:
mi rimandavi indietro sulla porta,
[avevi ospiti e forestieri,]
perché imparassi a dirti buona sera.
In questi versi la serie di giustapposizioni e incisi si inserisce nella
sovrapposizione tra il presente e il passato, per cui il mancato saluto al
cimitero è associato al ricordo di quando il padre costringeva il figlio
a salutare in presenza di visitatori non familiari.
In un secondo caso, invece, a essere inserite come inciso sono due
proposizioni, integrate a loro volta da una relativa, che sospendono
l’andamento del discorso principale, con un movimento simile a quello
che si è notato prima nella prosa:
Una per sempre io ti ho benvoluta
quando venne l’altro figlio di papà:
[nacque da un amore in fuga,]
[fu venduto a due sposi sterili
che facevano i contadini
in un paese vicino.]
Allora alzasti per noi lo stesso letto
e ci chiamavi Rocco tutt’e due.
C’è qualcosa in comune tra le caratteristiche fin qui brevemente
esemplificate: i discorsi degli altri (parlati e scritti) riferiti all’interno
dei testi, l’ordine marcato delle parole nelle frasi, la sintassi spesso fondata
sull’accostamento tra proposizioni, le informazioni inserite in incisi
che interrompono il fluire del periodo possono infatti essere altrettante
manifestazioni di uno stile che interiorizza cadenze del racconto
di trasmissione orale. Le soluzioni stilistiche che danno ai testi di Scotellaro
una connotazione di realismo sono in un certo senso paragonabili
a quelle messe in atto da Verga, che dichiarava di aver trovato un
efficace modello per i Malavoglia in un testo di fattura non letteraria:
52 R. Scotellaro, Tutte le poesie 1940-1953, cit., p. 33
[ 22 ]
746 NICOLA DE BLASI
Un giorno, non so come, mi capita fra mano una specie di Giornale di
bordo, un manoscritto discretamente sgrammaticato e asintattico, in cui
un capitano racconta succintamente di certe peripezie superate dal suo
veliero. Da marinaio, senza una frase più del necessario, breve. Mi colpiì,
lo rilessi: era ciò che cercavo senza darmene conto distintamente53.
Diversamente da quanto accade a Verga, Scotellaro non ha avuto
bisogno di svolgere indagini per rintracciare modelli esterni a cui riferirsi:
gli argomenti, il tono, i movimenti ritmici della sua scrittura li
trovava già nella sua diretta esperienza e nella sua memoria, visto che
egli ha percepito in famiglia per la prima volta la letteratura come racconto
orale, interiorizzando le cadenze della narrazione e della scrittura
di matrice popolare: basti pensare che il nonno materno è ricordato
come un compositore di versi estemporanei («Il fabbro stese una mano
e si mise alla chitarra in grembo»54. In questi contesti comunicativi familiari
e tradizionali, la poesia estemporanea e il racconto possono
presentare caratteristiche comuni, perché costruiti entrambi in una dimensione
di oralità. A un comune contesto di origine, in una cultura
fondata sulla comunicazione orale e sulla memoria tradizionale, risalgono
quindi la prosa e la poesia di Scotellaro, al cui interno è possibile
riconoscere elementi di convergenza e di contiguità, tenuti insieme da
una costante ricerca di rappresentazione di una realtà filtrata attraverso
ritmi e cadenze di un unico racconto (in versi o in prosa).
5. Lessico tradizionale e lessico della modernità nelle poesie
Se la sintassi poetica di Scotellaro propone modalità discorsive che
risentono di forme compositive orali o, meglio, della cultura dell’oralità
tradizionale, il lessico conduce il lettore in medias res, nel pieno
della realtà quotidiana, che l’autore pone al centro del suo lavorìo poetico;
tale realtà è descritta dall’interno e presentata senza l’atteggiamento
intellettuale dello scopritore di mondi arcaici, ma in un modo
asciutto che non risente di connotazioni nostalgiche.
Un indice di asciuttezza descrittiva si coglie nell’insistito ricorrere
della parola faccia, che appare subito volutamente e smaccatamente
come cruda (quasi dispettosa) scelta anti-poetica e anti-aulica:
53 Citazione tratta da E. Ghidetti, Verga. Guida storico-critica, Roma, Editori
Riuniti, 1979, pp. 114-115.
54 R. Scotellaro, L’uva puttanella Contadini del Sud, cit., 11-12.
[ 23 ]
Contiguità tra versi e prosa nella lingua di Scotellaro 747
Con questi venti nei nostri tuguri / svegliate la faccia dei morti violenti
(p. 51)
La mia faccia lentigginosa ha il segno / delle tue voglie di gravida / e
me la tengo in pegno (p. 34)
Con la faccia alla sconfitta (p. 52)
e non sapevano piangere / con quelle faccie dure (p. 100).
La connotazione realistica risalta in particolare attraverso i nomi di
piante e di fiori, che rinviano a un rapporto confidenziale con la natura,
mentre una terminologia precisa che rinvia a usi, tradizioni, giochi,
oggetti, dà l’idea di un intero mondo che viene chiamato all’appello
con una piena consapevolezza documentaria55. Ecco una lista di elementi
lessicali botanici:
maggiolata, ginestre, acerbo fiorone, malva (p. 9)
faveti (p. 9)
Reseda, odore ritrovato e perso (p. 22)
Tu sei, réseda selvaggia, che mi nutri (p. 22)
una fucsia in mano avevi (p. 23)
il pastore solitario nei lentischi (p. 23)
è calda così la malva (p. 24)
ricrescerà il vilucchio sui balconi (p. 25)
ristoppie (p. 47)
scansàti alle tamerici (p. 54)
nella lunga mulattiera / cordonata da agavi sempreverdi (p. 55)
l’ombra delle acacie (p. 64)
dai rosmarini bianchi di polvere (p. 65)
Erano le foglie ritte alle robinie (p. 5).
nel cammino che ti mena lungi / dalla quercia d’oro / cinta da carpini
molli (p. 76)
il bacio metallico / della corriera con le acacie (p. 88)
Le mulattiere svolgono coi sorbi (p. 94)
tu attaccata come la parietaria (p. 117)
e io sto a casa mia / come un pirastro fiorito (p. 118).
Lo stesso esito di elencazione realistica si raggiunge attraverso il
nomi degli uccelli che, anche per la netta prevalenza sui nomi di altri
55 A questo proposito è perfettamente centrata questa osservazione di F. Fortini,
La poesia di Scotellaro, Matera, Basilicata editrice, 1974: «I motivi di Rocco si
riconducono tutti ai rapporti infanzia-maturità, figlio-genitori, partenza-ritorno,
sottomissione-rivolta, paese-nazione, piccolo mondo contadino – grande mondo
moderno. Queste coppie antitetiche non sono soltanto la contraddizione sentimentale
dell’autore. Sono la contraddizione reale della sua società» (p. 55).
[ 24 ]
748 NICOLA DE BLASI
animali, rinviano in un certo senso agli avvistamenti di rapaci (gheppi,
falchi) e altri volatili nei cieli tersi delle valli intorno a Tricarico:
e i gheppi son cacciati nella mischia (p. 21)
c’è la pica se è sera che ride (p. 33)
Passere, passere scese ai gradini (p. 38)
cuculo disperato (p. 47)
capostorno (p. 47)
il lamento dell’assiolo (p. 61)
L’ora dei falchi solitari (p. 64)
dai fischi delle rondini ai nidi (p. 65)
i falchetti fischiano nei nidi di roccia (p. 94)
trasvolano le rondini / i mari e i deserti (p. 79)
le fila di gru (p. 79).
Non mancano, però, insetti e altri animali:
devi placare le sue ali goffe / come di una cetonia catturata / che vola
legata al filo (p. 77)
Il sole ha toccato il ventre alle cicale (p. 94)
al ventilare di orridi mosconi (p. 94)
simile alle lepri / prese nel laccio delle mute (p. 9).
Un’intera poesia, Verde nasce, riunisce un inventario di giochi infantili
e di passatempo tradizionali (p. 75):
Hai rivisto i fanciulli dei tempi
spingere i cerchi di acciaio
nella corsa tra i cardi e il polverone.
Hai giocato con le còccole leggere:
tu eri a sbattere i cagnoli sulle pietre!
Hai rovistato l’uova calde dei nidi,
hai stretto nel pugno il ventre alle passere;
spezzasti i nervi alle foglie del verbasco56
per sfilare l’iniziale di Gesù.
56 Il verbasco è usato in tradizioni di diverse zone d’Italia: in alcuni centri della
Calabria è usato, unto d’olio, per accompagnare Gesù Bambino nella processione
di Capodanno; in Sardegna il fiore del verbasco può essere utilizzato per trarre
auspici nella notte di San Giovanni. I versi di Scotellaro alludono certamente a un
gioco o a una tradizione; forse si riferiscono alla possibilità di sfilare una delle
nervature della foglia in cui verrebbe riconosciuta l’iniziale di Gesù. Su questo
accenno occorrerebbe però una ricerca specifica intorno agli usi tradizionali del
verbasco in area lucana.
[ 25 ]
Contiguità tra versi e prosa nella lingua di Scotellaro 749
Nella stessa direzione di rievocazione antropologica e lessicale riportano
le parole che rimandano a usi e attività tradizionali. In qualche
caso si tratta di forme di immediata comprensione, come torchiari
(p. 61) o frantoiani (p. 250) o vaccaro (p. 242). Come si è detto, però, i
riferimenti al mondo tradizionale non sembrano mai venati da nostalgia
o rimpianto, come poi accadrà spesso nella poesia dei neo-dialettali,
anche perché, nella prospettiva dell’autore, il mondo ritratto dal
vero è ancora vivo, presente e intensamente vissuto nell’esperienza
d’ogni giorno (nonostante la tendenza alla fuga e al distacco già più
volta messa in luce dalla critica scotellariana57). Nella nostra prospettiva
di lettori, anche quando sia consistente la familiarità con una realtà
affine a quella descritta da Scotellaro, risalta invece la necessità,
forse non più rinviabile, di dotare questi versi di un puntuale commento
esplicativo che chiarisca compiutamente il lessico ma anche i
tanti riferimenti a feste tradizionali o ad altri aspetti della vita quotidiana,
che ormai possono risultare di comprensione non immediata.
In qualche caso (raro) è lo stesso autore a soccorrere con una glossa.
Per esempio i versi Accendiamo per le nostre zitelle / le foglie delle palme
d’ulivo (p. 28) rimandano a questa nota di chiarimento: «è tradizione
popolare, il giorno delle Palme, sentire dalle foglie d’ulivo, date alla
brace, il proprio destino e la sorte degli amori». Si deve però aggiungere
che naturalmente i rametti di ulivo che finiscono nel fuoco sono
quelli distribuiti nella Domenica delle Palme dell’anno precedente.
Ma sono molti i versi che rinviano a usi che richiederebbero una spiegazione;
per esempio, a proposito del salariato che si dimena tra le foglie
di granturco (p. 51), andrebbe precisato che i materassi un tempo erano
riempiti appunto con le foglie di granturco; inoltre i versi hanno lasciato
la tavola intatta / per il bambino della mezzanotte (p. 36) rinviano all’uso
di lasciare la tavola imbandita, come per un ospite in arrivo, nella notte
di Natale (o, altrove, dell’Epifania o di Ognissanti) per accogliere
degnamente il Bambino Gesù (o, altrove, la Befana o le anime dei
Defunti)58.
57 Si legga la riflessione di G. Russo, Ritorno a Tricarico. Testimonianza per Scotellaro,
in Scotellaro trent’anni dopo, Atti del Convegno di studio (Tricarico-Matera,
27-29 maggio 1984), Matera, Basilicata editrice, 1991, p. 394-397: «Mentre per Levi
il mondo della civiltà contadina, pur parte di una posizione politica e sociale, era
immerso nel mito della memoria, per Scotellaro era una realtà di cui dal di dentro
interpretava il dramma presente, le aspirazioni, le contraddizioni, come momento
di speranza e destino fatale di inarrestabile dissoluzione» (p. 396).
58 Spunti e informazioni indispensabili per un puntuale commento ai testi di
Scotellaro si leggono nell’ampio lavoro di G.B. Bronzini, L’universo contadino e
[ 26 ]
750 NICOLA DE BLASI
Con le cose e le parole che le designano, si fanno strada nei versi di
Scotellaro elementi lessicali che non rinviano a oggetti o usanze precise,
ma mostrano ugualmente una riconoscibile connotazione locale.
Non sono poche infatti le forme di provenienza dialettale, stabili tuttora
nell’italiano locale di area lucana (o di una più ampia area meridionale).
Ecco una selezione tratta dalle prose: cacciava il discorso ‘tirava
fuori il discorso’ p. 24), dove ti vai a scrivere ‘dove ti iscrivi’ (p. 24),
arrecare i mattoni sulle spalle ‘portare in spalla mattoni’ (p. 25; cfr il verbo
dialettale arracà), persone all’ignudo ‘persone nude’ (p. 26), una pastella
‘biscottino, dolcetto’(p. 29), chiatto ‘grasso’ (p. 33). Anche per
questo aspetto si notano punti di contatto con le scelte stilistiche dei
versi, dove si incontrano, tra gli altri, questi regionalismi: stai di casa
‘abiti’ (p. 33), in faccia al sole ‘di fronte al sole’ (p. 54), in faccia al mar
Jonio ‘di fronte al mar Jonio’ (p. 74), non si è ritirata ‘non è rientrata’ (p.
62), vi regalo ‘vi offro una mancia’ (p. 63), alzasti […] il letto ‘preparasti
il letto’ (p. 34), figliare ‘partorire’ (p. 35), fatigate ‘lavorate’ (p. 37), abbruciare
‘bruciare’ (p. 92), morì sparato ‘morì colpito da una pallottola’ (p.
111), bufola ‘bufala’ (p. 119), scarparo ‘calzolaio’ (p. 135). Alcuni elementi
regionali sono già stati notati dalla Salina Borello59: scostumato ‘ineducato’
(p. 33), la toppa dei capelli neri sulla nuca ‘capelli raccolti sulla
nuca’ (p. 25), cerogeno ‘candela’ (p. 25), trazzere ‘tratturi’ (p. 47), abbiamo
scasato ‘abbiamo traslocato’ (p. 82).
Ci sono però anche tratti lessicali locali che restano mimetizzati
sotto il velo di un’apparente somiglianza con parole italiane. Per
esempio nell’edizione Levi del 1954 leggiamo questi due versi:
non entra la farfalla
a prendere il giro attorno al lume.
In realtà, come si vede dall’edizione critica curata da Franco Vitelli,
qui c’era anche un altro verso in cui si leggeva un’apposizione a
farfalla:
non entra la farfalla
la colomba della sera
a prendere il giro attorno al lume (p. 39).
l’immaginario poetico di Rocco Scotellaro, Bari, Dedalo, 1987, che, proprio per la sua
ricchezza, fa avvertire la mancanza di un indice analitico sistematico.
59 R. Salina Borello, A giorno fatto. Linguaggio e ideologia in Rocco Scotellaro,
Matera, Basilicata editrice, 1977, p. 66.
[ 27 ]
Contiguità tra versi e prosa nella lingua di Scotellaro 751
A girare intorno al lume, quindi, non è una farfalla in senso stretto,
ma una farfalla notturna o falena qui denominata colomba della sera,
con un calco dalla forma dialettale (si pensi alla palomma ’e notte dei
versi celebri di Salvatore Di Giacomo): forse Levi ha cancellato il verso
la colomba della sera (e ha tolto chiarezza al contesto) proprio perché
non vi ha riconosciuto la trasposizione del tipo dialettale.
Rischiano inoltre di passare del tutto inosservati dialettalismi sintattici
o morfosintattici. Ecco alcuni esempi: il legame di parentela
espresso con a (noi monelli più figli alle pietre p. 12), la somma di negazioni
(e nemmeno non ti alzare p. 13), l’aggettivo con valore di avverbio
(oh il pastore non avrebbe suonato così lungo p. 24), regalare nel senso di
‘fare un reagalo’ (venite da me che vi regalo p. 63), la costruzione (con
funzione passiva) del tipo hanno bisogno di+infinito che esprime una
necessità ([le giumente] Hanno bisogno d’essere cantate p. 59), la sequenza
dare a mangiare (Datemi pure a mangiare il pane della questua p. 79), il
passivo sparare riferito a persona (L’amico morì sparato a quella terra p.
111), e in quest’ultimo verso si noti anche l’uso di a come preposizione
locativa di stato60. Non sono tipicamente locali, ma contribuiscono a
un generale andamento discorsivo altri fenomeni come il costante impiego
del che con valore temporale (e puoi dimenticarti dell’inverno / che
curvo sotto le salme di legna, p. 11; nel tempo che il grano matura, p. 50; è
una notte che fugge la faina, p. 66), l’uso pleonastico di forme pronominali
(e che strazio nell’aria le campagne / che ci pungono d’aghi il nostro
cuore, p. 51; sopra un ciuffo di canti di gallo, / che lo taglia la ruota del carretto,
p. 141) o, infine, qualche mancata concordanza (c’è verghe di fichi
seccati, p. 47).
Scotellaro, com’è noto, evita il dialetto, perché sceglie di fatto di
scrivere versi in italiano (tranne due o tre rarissime eccezioni); tuttavia
nel suo italiano la traccia del dialetto resta molto ben riconoscibile ed
è conservata con piena consapevolezza.
Anche nell’accostamento tra italiano e dialetto, in fondo, Scotellaro
persegue una rappresentazione realistica, che dalla sintassi dell’effet-
60 Casi da valutare a parte sono gli usi preposizionali di attorno e davanti: stanno
seduti attorno la vecchia morta 43; Anima di lupo antico / assassinato davanti
le porte 68; Avevi tutti gli odori dei giardini / seppelliti nei fossi attorno le case 48;
avanti il tuo cancello 55. Sembra probabile che qui sia stato evitato l’uso della a
(davanti, attorno, e non davanti a, attorno a) per una forma di ipercorrettismo. Questo
sospetto sorge perché si incontra nei versi la sequenza sicuramente ipercorretta
senza guardare indietro nessuno 61, dove la a sembra evitata prorpio per non dare
luogo a un presunto complemento oggetto preceduto da a (ma qui invece anche in
italiano si direbbe usualmente guardare a).
[ 28 ]
752 NICOLA DE BLASI
tivo discorso orale riferito (la ricerca di musicalità e di ritmo, assonanze,
consonanze, rime, metro, esiti di inversione e di dispositio inattesa)
giunge a coinvolgere anche l’interferenza tra lessico italiano e lessico
di origine dialettale. Del resto la stretta continguità tra italiano e dialetto,
fino alla sovrapposizione reciproca, si riscontra nella realtà e
nell’effettiva competenza di un parlante che abbini cultura tradizionale
vissuta naturaliter (e appresa sin dall’infanzia) e cultura letteraria
appresa attraverso lo studio e le letture.
Questa lingua poetica che non è dialetto, ma che del dialetto conserva
non poco, è quella di cui l’autore dispone nella sua vita quotidiana:
in un certo senso, come il poeta entra in gioco «con questi panni
e con queste facce che avevamo», così entra in gioco anche la lingua
presente nella realtà che viene veicolata nelle poesie. Anche da questo
lato, in conclusione, nella dialettalità che affiora attraverso l’italiano,
la poesia si rivela affine alla prosa e improntata agli stessi punti di riferimento
culturali e linguistici.
L’esperienza di Scotellaro e della sua generazione non è però fatta
solo di parole dialettali arcaiche o di lessico sbrigativamente etichettabile
come “contadino” (laddove invece è solo tradizionale); essa, proprio
in rapporto a quel che avveniva negli anni del secondo dopoguerra,
che segnano per molti versi una fase storica di passaggio,
comprende aspetti, simboli e parole della modernità che gradualmente
entrano nell’orizzonte familiare insieme con corrispondenti parole
che vanno ad arricchire il lessico locale. Eccco quindi, dal camion (p.
22) al jazz (p. 88), gli indizi dell’avvento della modernità che si innesta
su un mondo tradizionale61:
i camion scappano come alla deriva (p. 22); queste rauche / carcasse
dei tram (p. 14); la ruota violenta della Singer (p. 33); i reclami delle
tasse (p. 37); l’Agente [delle tasse] (p. 37); la motocarrozzetta (p. 50); il
ferro piccolo da stiro (p. 50); le corriere/ turbano il silenzio (p. 55), il
bacio metallico / della corriera con le acacie (p. 88); le Camere del Lavoro
(p. 55); i quotisti (p. 55); compagno della Camera di Bernalda (p.
55); la presa diretta del Fiat / è musica nel piano degli ulivi (p. 88);
Gioventù cresciuta al lamento del jazz (p. 88); un rumore di serpente /
il treno nella valle? (p. 88); Quando il treno allontana il suo frastuono /
e la nube col broncio se ne va (p. 91); nel vento delle Fiat (p. 100) (…);
l’azzurro delle tute (p. 100); il motore della trebbia (p. 120); devo contare
il mio tempo / con le corse dei tram (p. 113).
61 La poesia Gioventù cresciuta a suon del jazz, che sin dal titolo svela un’insospettata
componente di modernità in un poeta ritenuto legato solo al mondo tradizionale,
fu espunta da Levi nell’edizione del 1954.
[ 29 ]
Contiguità tra versi e prosa nella lingua di Scotellaro 753
Anche i camion, la Singer, la motocarrozzetta, la corriera e il treno rimandano
alla realtà, in cui si accostano e si mescolano elementi tradizionali
e innovativi, che non di rado, peraltro, sono stati espunti nella
selezione operata da Carlo Levi (davvero emblematica è la poesia Subito
il jazz come anima ci attenne di p. 88), con la conseguenza che nel
lessico della prima edizione delle poesie, quella del 1954, prevalgono
gli elementi che rinviano al solo mondo della tradizione.
6. Conclusioni
Lo stretto intreccio tra italiano e dialetto, fino alla sovrapposizione
reciproca, nella realtà è meno raro di quanto si pensi. Scotellaro, da
parte sua, proprio come è accaduto, nella sua generazione, a molte
persone colte nate con una madrelingua dialettale, mai rifiutata e mai
rinnegata, rende illustre e letteraria la propria lingua materna innestandola
sull’italiano ed evitando il dialetto in senso stretto. Il contatto
tra dialetto di partenza e lingua letteraria conosciuta attraverso i libri
era del resto inevitabile nel destino di quanti, come Scotellaro, si allontanavano
a dieci anni dal proprio luogo natale per conoscere un mondo
più ampio e, anche attraverso lo studio e la letteratura, lingue nuove
(e antiche)62. Questo momento di distacco, cruciale nella biografia
dell’autore, segna una svolta anche in prospettiva sociolinguistica, visto
che ogni partenza e ogni distacco, determinando nuove situazioni
comunicative, possono accompagnarsi a fasi di crisi e di innovazione
sul piano linguistico anche nella storia individuale dei parlanti.
Come conferma conclusiva della contiguità e della continuità proposte
all’inizio è dunque possibile cogliere, nella comune trattazione
di certi temi, un ulteriore elemento di contatto tra le poesie e le prose
di Scotellaro. Sia nei versi che nell’Uva puttanella l’autore ricorda la
62 La partenza dal paese natìo era esperienza inevitabile perché per tutta la
prima metà del Novecento, fino agli anni che seguirono la caduta del regime fascista,
non era possibile nei piccoli centri proseguire gli studi oltre le classi delle elementari.
Questo dato storico concreto, di cui si è un po’ persa memoria, è talvolta
sottolineato in scritti autobiografici che si riferiscono al primo Novecento:«Al mio
paese di nascita le classi delle scuole elementari si concludevano con la quarta. Chi
intendeva continuare gli studi doveva trasferirsi in città piccole o grandi, dove
erano attive le classi quinte e quelle di ginnasio liceo o scuole tecniche o magistrali
» (L. De Blasi, Ricordi di vita scolastica, militare e degli anni di guerra, Bracigliano,
D&P editori, 2008, p. 107).
[ 30 ]
754 NICOLA DE BLASI
partenza da casa per la scuola. Proprio questo è infatti il tema della
poesia Già si sentono le mele odorare (p. 39):
Già si sentono le mele odorare
e puoi dormire i tuoi sonni tranquilli,
non entra la farfalla,
la colomba della sera,
a prendere il giro attorno al lume.
Ma non ho mai sentito tante voci
insolite salirmi dalla strada
i giorni ultimi di ottobre,
il padre m’inchiodava la cassa,
la sorella mi cuciva le giubbe
ed io dovevo andarmene a studiare
nella città sconosciuta!
E mi sentivo l’anima di latte
alle dolci parole dei compagni
rimasti soli e pudichi alle porte […].
Il riferimento alla partenza e al lungo addio al paese si incontrano
nell’Uva puttanella nel capitolo V che riunisce i ricordi scolastici:
Te ne devi andare – dissero Michele e Ninuccio e gli altri – a farti monaco.
Facciamo l’ultimo giro.
Non mi ritiravo più la sera, prima di partire. Eravamo una squadra di
ragazzi, girammo per tutte le strade, alla torre tirammo i colombi con
la fionda, alla cabina elettrica gli uccelli, tutti i giuochi, tutte le dodici
stazioni del paese. Uno si curvava a fare il cavalletto, appresso l’altro
lo saltava e si curvava anche lui a distanza, si andava avanti così picchettando
le strade. Lo stesso gioco si ripeté nel vicinato ma con un
solo cavalletto, destinato a sorte, e gli altri che gli saltavano ponendo
sul suo torso un fazzoletto, che non doveva cadere. Il primo saltava e
diceva cantando – Adesso passa la barca a foglie. E il secondo: Mia
madre ha le doglie. Il terzo: Ha le doglie che deve figliare».
– Ha fatto un bel figliuolo.
– Quanto il capo del mio cetriolo…
In fondo un certo entusiasmo l’avevo prima di partire. Ogni mese mio
padre andava a Napoli, gli andavo dietro fino alla corriera sperando,
ma mi lasciava a terra piangente nella polvere63.
La poesia e la pagina di prosa si riferiscono entrambe alla sera prima
della partenza per la scuola (dovevo andarmene a studiare), allo stesso
giorno visto in due ambientazioni diverse, una domestica, l’altra
63 R. Scotellaro, L’uva puttanella Contadini del Sud, cit., pp. 19-20.
[ 31 ]
Contiguità tra versi e prosa nella lingua di Scotellaro 755
tutta esterna con il ricordo e la descrizione analitica dei giochi, che
comprende, secondo la tendenza già notata, le parole di un testo (per
di più in rima). Si tratta della filastrocca infantile che accompagna il
gioco del cavalletto:
Adesso passa la barca a foglie
Mia madre ha le doglie.
Ha le doglie che deve figliare.
Ha fatto un bel figliuolo.
Quanto il capo del mio cetriolo…
Nelle parole che rievocano il giorno della partenza per gli studi,
verifichiamo ancora come poesia e prosa vivano in Scotellaro di una
linfa comune, che in qualche modo risale a quell’esperienza di distacco
infantile che in effetti ha permesso un incontro produttivo e fecondo
tra un patrimonio di cultura tradizionale, che comprendeva anche
la vocazione al racconto, e la cultura letteraria. Dalla pagina che ora
abbiamo letto apprendiamo infine che questo incontro e il viaggio verso
una cultura che avrebbe schiuso nuove strade e nuove prospettive
rientravano nella coerente e coraggiosa capacità progettuale del padre
ciabattino, che trasmetteva al figlio la forza del suo progetto attraverso
il ripetuto invito a resistere: «Arrivi al quinto ginnasio, almeno, resisti
fino a tanto» (p. 19); «Hai capito? – mi disse nella foresteria all’orecchio
mentre mi baciava – Qualche anno resisti» (p. 21). In questo senso,
insomma, l’esperienza biografica e letteraria di Scotellaro si inscrive
in una fase storica vissuta come consapevole ricerca di un miglioramento,
in cui progresso sociale e progresso dell’istruzione erano ritenuti
inscindibili. In quell’orizzonte culturale si riteneva che la crescita
individuale e collettiva si potesse raggiungere non tanto attraverso il
benessere materiale ed economico, ma in primo luogo attraverso lo
studio e la cultura (che, in quanto perseguiti come scelte volute e sofferte,
riscuotevano forse un più largo prestigio, in forza anche del diverso
impegno profuso non solo dai singoli, ma anche da un intero
gruppo familiare; ma questo è un altro discorso).
Nicola De Blasi
(Università degli studi di Napoli “Federico II”)
[ 32 ]
MARIA LUCE ALOISIO
Un autore ritrovato: Niccolò Ciàngulo
Though still unknown, Niccolò Ciàngulo is an Italian writer of the
eighteenth century who had the merit of promoting the knowledge
of Dante’s Divine Comedy in Germany. He left many traces of his
presence in several European countries, but very few in his native
country. A research in some European libraries and archives has
now brought to light a part of his output, while emphasizing his
activity as a “reader” of Italian authors in foreign countries.
Niccolò Ciàngulo potrebbe rivestire ottimamente il ruolo del Carneade
manzoniano. Vale a dire che esso è del tutto sconosciuto alle
storie letterarie italiane, alle molteplici enciclopedie ed alle monumentali
storie della critica letteraria mondiale. Ma la sua esistenza, come
quella di ogni altro autore, maggiore o minore, è attestata in rari cataloghi
delle biblioteche italiane1. Le poche schede lo tramandano come
curatore della Divina Commedia2 di Dante Alighieri e dall’Aminta3 di
Torquato Tasso. Questa già ristretta presenza può giustificare l’altrettanto
scarna citazione della sua vicenda biografica. Nel tentativo di
controllare la veridicità dei pochi dati, spesso contrastanti, si è giunti
1 Proprio partendo da una scheda bibliografica, presente tra i volumi della
Biblioteca di Nicola Esposito, insigne cultore di Vittorio Imbriani, ed ora acquisita
al patrimonio bibliotecario del Comune di Pomigliano d’Arco, il Professore Raffaele
Giglio, incuriosito, mi affidò come titolo della tesi di laurea magistrale una ricerca
su Niccolò Ciàngulo, discussa nel mese di febbraio 2011, presso la Federico II
di Napoli, dalla quale ho ricavato questo abstract che offro in lettura.
2 N. Ciangulo, La Divina Commedia di Dante Alighieri. Dell’Inferno, poemetto
morale e filosofico; colle annotazioni distinte, ch’esplicano chiaramente il testo. Da Niccolò
Ciangulo poeta Cesareo, e lettor pubblico italiano, Lipsia, Giovanni Samuel Heinsio
Heredi, 1755.
3 N. Ciangulo, Aminta: favola boscareccia di Torquato Tasso, colla maniera d’imparar
l’italiano/ da Nicolo Ciangulo, Lipsia, Giovanni Samuele Heinsio ed Heredi,
1753.
Contributi
Un autore ritrova to: Niccolò Ciàngulo 757
alla ricostruzione di un autore, indubbiamente minore, che ha lasciato
traccia di sé in varie parti dell’Europa, ma poche in Italia, sua terra di
nascita, dove pochissimi lo hanno citato, falsando la sua biografia ed
ignorando la produzione letteraria.
Invece una ricerca condotta in varie parti dell’Europa, dalla Francia
alla Germania, dall’Olanda all’Inghilterra, ci ha restituito la figura
di Niccolò Ciàngulo e la sua particolare attività di “lettore” di autori
italiani all’estero e di poeta sacro. Così le significative tessere bibliografiche
ritrovate, che si riportano alla fine del presente lavoro, alle
quali, forse, si potranno aggiungere ben altre nei prossimi anni.
1. L’autobiografia
La prima voce bibliografica europea che ha aperto la caccia a Ciàngulo
è stata rinvenuta alla Bibliothèque Nationale de France; qui, infatti,
è stata reperita l’unica copia, a quanto pare, dell’autobiografia
del Ciàngulo: Aventures singulieres de M. C. contenant le recit abbregé des
desordres qui se commettent dans les convents, et de ce qu’il a éprouvé de la
Cruauté de l’Inquisition. Enfin comment par la particuliere Bonté de Dieu, il
s’est retiré dans un Pais de liberté où il embrassé la religion reformee, stampata
nel 1724 ad Utrecht, presso l’editore Pierre Muntendam4.
Nonostante l’autobiografia mostri senza ombra di dubbio uno
spiccato colore romanzesco, grazie alla sua lettura, si viene a conoscenza
di alcuni dati biografici fondamentali, che non hanno più
motivo di essere messi in discussione: Ciàngulo nasce nel 1685 a
Meldola, vicino Bologna, e già all’età di un anno il destino lo priva
del padre.
Niccolò vede nel secondo matrimonio della madre l’inizio della
sua sfortuna: «[…] essendo dunque nelle mani di un nuovo padre, io
subii delle sventure incredibili dopo la culla»5. In particolar modo
Ciàngulo ritiene che sia la nascita della sorella Anna ad aggravare le
sue sventure poiché la crudele madre, da quel momento in poi, rivolge
a lei tutte le sue cure ed attenzioni.
Tutta la sua esistenza, dunque, è segnata dal difficile rapporto con
la madre e la sorella ed è proprio per allontanarsi dalla loro cattiveria,
che decide di abbracciare la vita religiosa. Niccolò, all’età di sedici an-
4 coll.: FRBNF39320138. D’ora in poi quest’opera sarà citata Aventures singulieres.
5 Aventures singulieres, p. 25.
[ 2 ]
758 MARIA LUCE ALOISIO
ni, si dirige a Siracusa per studiare sotto la guida dello zio materno,
direttore del convento dei Gesuiti, ma non arriverà mai a prendere i
voti presso quest’ordine.
Lo stesso Ciàngulo ricorda di aver cambiato idea dopo un soggiorno
occasionale presso il Convento dei Regolari a Caltagirone: dopo un
anno di noviziato, infatti, assumendo il nome di «Luigi di Melilli»,
entra ufficialmente – all’età di ventiquattro anni – nell’ordine dei Regolari.
Il giovane Niccolò più volte nella sua autobiografia, però, non
fa mistero della sua vocazione ben poco spirituale e perlopiù frutto di
una mera necessità:
«[…] io acconsentii più per necessità che per convinzione. […] Alla fine
della cerimonia tutti vennero ad abbracciarmi, ma io non provai nessun
piacere, perché una grande malinconia si impadronì di me ed essa
non mi ha mai lasciato per tutto il tempo in cui sono stato in convento
»6.
Con la lettura quotidiana delle Sacre Scritture Ciàngulo entra in
uno stato di profondo turbamento, poiché è come se il religioso scoprisse
che
«[…] Gesù Cristo non aveva mai detto di voler forzare le persone a
dire ciò di cui non si sentivano colpevoli, che le persone del Tribunale
dell’Inquisizione non erano ispirate dallo Spirito Santo, ma piuttosto
da quello del diavolo che non vuole altro che tormentare e fare ingiustizie
alle creature»7.
Quasi inevitabilmente il giovane romagnolo, giunto a Malta nelle
vesti di Professore di Filosofia, attira su di sé il giudizio del «furioso
Tribunale dell’Inquisizione».
Ciàngulo, sotto la guida spirituale del teologo riformato Pictet, abbandona
l’Italia e abiura definitivamente il cattolicesimo a Ginevra (e
non, come appare scritto in alcuni testi, a Genova) nel 1717 e passa
alla religione protestante.
Da quel momento in poi l’ex religioso comincia una serie di peregrinazioni
per l’Europa: nelle diverse città in cui si stabilisce (Amsterdam,
l’Aia, Londra, Oxford, Leida, Utrecht, Gottinga, Lipsia) cerca di
guadagnarsi da vivere proponendosi come lettore e/o insegnante di
italiano privato o a servizio delle Università.
6 Ivi, pp. 111-112.
7 Ivi, pp. 210-211.
[ 3 ]
Un autore ritrova to: Niccolò Ciàngulo 759
2. Altre notizie biografiche
Se queste sono – a grandi linee – le notizie estrapolate direttamente
dall’autobiografia (che si conclude con il matrimonio di Ciàngulo con
una giovane donna in Inghilterra ed il successivo trasferimento ad
Utrecht), è stato possibile tuttavia ritrovarne delle altre: così, ad esempio,
si è scoperto che la città di Gottinga, il 20 settembre 1737, «in riconoscimento
delle sue squisite doti poetiche»8 fregia Ciàngulo del titolo
di «poeta cesareo». In ricordo di questo avvenimento l’ex religioso di
Meldola scrive in latino Acta coronationis cum Nicolaus Ciangulo linguae
Italicae lector Gottingae, die XX. Sept. An. 1737, poetica laurea consuetis
ceremoniis ornaretur. Accesserunt nonnulla carmina varii argumenti.
Dall’archivio della Niedersächsische Staats- und Universitätsbibliothek/
Universität Göttingen si apprende l’esistenza di un “foglio volante”
a nome di Ciàngulo, che probabilmente è servito per essere fissato
a un tabellone interno dell’Università di Gottinga; egli si offre come
insegnante d’italiano agli studenti che lo avessero desiderato (naturalmente
a pagamento):
«Ego Nicolavs Ciangvlo, in inclita hac Academia notum, fieri cupio me docere
Linguam Italicam, nova facilique methodo…».
Molto probabilmente il Nostro muore a Lipsia nel gennaio del
1762.
Il personaggio di Ciàngulo, con la sua imprevedibilità ed inquietudine,
ha affascinato sicuramente le generazioni successive.
Così, ad esempio, quasi con sorpresa si scopre che Goethe è stato in
possesso di una lettera firmata da Niccolò Ciàngulo, senza data e senza
indicazione della località, nella quale l’italiano chiede un aiuto finanziario
per poter continuare il suo viaggio.
La lettera ovviamente non è indirizzata a Goethe, che era ancora
bambino o non era ancora nato quando sarebbe stata scritta, e non si
capisce come sia capitata nelle mani del poeta tedesco. Ciò che appare
assolutamente singolare è che Goethe crede che Ciàngulo sia un «attore
tedesco di Lipsia»9.
La ricerca ha mostrato come Ciàngulo sia stato colpito non solo da
8 P. Chiminelli, La fortuna di Dante nella cristianità riformata, Roma, Bilychnis,
1921, p. 78.
9 Cfr. su tale argomento Briefe an Goethe, Gesamtausgabe in Regestform 1764-1817,
pubblicate dalla Klassik Stiftung Weimar, Goethe- und Schiller- Archiv, in collaborazione
con Verlag Hermann Böhlaus Nachfolger.
[ 4 ]
760 MARIA LUCE ALOISIO
una sorta di damnatio memoriae per quel che riguarda la sua vita, ma
anche – e soprattutto – per quanto concerne la sua produzione letteraria,
così come viene attestato dagli esigui giudizi critici, che ignorano
del tutto la pur modesta produzione critica e poetica dell’ex religioso
di Meldola.
Nonostante queste difficoltà tangibili, è stato possibile ricostruire
una bibliografia (senza dimenticare che potrebbe essere ancora in fieri)
di Ciàngulo: essa comprende, per l’arco di tempo che va dal 1724
al 1757, trenta titoli di sue opere, pubblicate tra Utrecht, Gottinga e
Lipsia.
Fin dall’analisi dei titoli rinvenuti si nota che – essenzialmente –
l’autore romagnolo si dedica a tre tipologie di opere: quelle a carattere
celebrativo, quelle che mirano ad insegnare l’italiano ad un pubblico
straniero e quelle che nascono dal desiderio di diffondere la prestigiosa
cultura italiana all’estero.
La prima di queste – in ordine di tempo – dovrebbe essere De flagello
foeminarum: lavoro perso o introvabile, pubblicato a Utrecht intorno
al 1724 e di cui abbiamo notizia solo grazie al letterato tedesco J.
G. Meusel10.
Dai titoli ritrovati si può notare che la maggior parte di queste opere
sono a carattere celebrativo e sono volte ad esaltare, di volta in volta,
i più disparati membri della nobiltà; Niccolò forse le scrive per assicurarsi
la loro protezione o, più semplicemente, per ottenere in cambio
del denaro per proseguire i suoi viaggi per l’Europa. Basti a tal
proposito ricordare solo alcuni titoli: Nel felice e fortunato giorno per noi
ove si celebra l’anniversario in cui nacque … Maria Antonia, Lettera nel felice
principio dell’anno 1740 che loda le rare virtù del … signore Giovanni
Giacomo Mascovio, fino ad arrivare poi all’ultima sua opera di cui si ha
notizia e cioè Pianto per la morte di Maria Gioseppa, regina di Polonia e
duchessa di Sassonia.
3. Il lettore di Dante
Con certezza si può sostenere che il merito principale, che rende
degna di nota la personalità artistica di Ciàngulo, sia quello di aver
esportato il poema di Dante in Germania: nel 1755, infatti, l’ex religio-
10 J. G. Meusel, Lexikon der vom Jahr 1750 bis 1800 verstorbenen teutschen
schriftsteller, Lipsia, Gerhard Fleischer, 1802, vol. 2, p. 127.
[ 5 ]
Un autore ritrova to: Niccolò Ciàngulo 761
so di Meldola pubblica a Lipsia La Divina Commedia di Dante Alighieri.
Dell’Inferno, poemetto morale e filosofico; colle annotazioni distinte, ch’esplicano
chiaramente il testo. Da Niccolò Ciangulo poeta Cesareo, e lettor pubblico
italiano.
Si può supporre verosimilmente che Ciàngulo inizi a conoscere ed
amare Dante in occasione della sua nomina a segretario del vescovo di
Cervia presso Ravenna (nomina che lo stesso autore – nella seconda
parte dell’Aventures singulieres – dichiara di aver accettato per evitare
l’Inquisizione) e che, poi, porti con sé nel tempo questo amore per il
poeta fiorentino. Questa ipotesi sembra già essere stata sostenuta da
Paolo Chiminelli, secondo il quale Ciàngulo con il suo «Temperamento
sensitivo e tutto trasportato alla poesia, in terra non italiana portò
tre amori che furono come le tre fiamme della sua vita spirituale:
l’amore alla poesia, l’amore all’Italia e alla sua letteratura e l’amore a
Dante»11.
Se è vero che – da un punto di vista critico e letterario – il commento
del Ciàngulo non brilla certo per originalità poiché «[…] non è altro
che un estratto di quello del Venturi»12, non si può più – d’altro
canto – non riconoscerne la sua importanza: è proprio l’autore romagnolo,
infatti, ad inaugurare in Germania un fecondo periodo di studi
danteschi.
Il lettore del raro Commento subito sarà colpito da una raccomandazione,
dal sapore quasi di monito, presente nel tergo del frontespizio:
«[…] nessuno può fare senza un Dante, se vuole studiare l’Italiano
più che superficialmente»13.
Dalla prefazione scritta dal Ciàngulo (pp. 3-6) si apprende che egli
aveva dapprima in mente di stampare i soli primi quattro canti dell’Inferno:
«Ho scelto quattro canti della Divina Comedia del dottissimo
Dante, utilissimi ai studiosi d’ogni sorte di scienze […]»14.
Dopo aver riassunto brevemente «La vita di Dante Alighieri» (pp.
7-10), vi sono appunto i quattro canti (pp. 11-33) seguiti dalle «Annotazioni
dei quattro canti» (pp. 35-48), alla fine delle quali è stampata la
11 P. Chiminelli, La fortuna di Dante nella cristianità riformata, cit., p. 78.
12 G.A. Scartazzini, Scritti danteschi, a cura di M. Picone e J. Bartuschat,
Locarno, Armando Dadò editore, 1997, p. 185.
13 Cfr. su tale argomento G.A. Scartazzini, Dante in Germania, Milano, Hoepli,
1881, p. 16.
14 N. Ciangulo, La Divina Commedia di Dante Alighieri. Dell’Inferno, poemetto
morale e filosofico; colle annotazioni distinte, ch’esplicano chiaramente il testo. Da Niccolò
Ciangulo poeta Cesareo, e lettor pubblico italiano, cit., p. 3.
[ 6 ]
762 MARIA LUCE ALOISIO
parola «fine». Il testo però prosegue, con numerazione continuativa di
pagine e con annotazioni ad ogni canto, fino alla fine della cantica
dell’Inferno.
Sono state proprio le parole di Scartazzini a rendere necessaria una
lettura dell’opera scritta dal letterato senese Pompeo Venturi.
La collazione tra il commento del Ciàngulo e quello del Venturi ha
evidenziato che La vita di Dante Alighieri posta nelle pagine iniziali e
l’Argomento che il Nostro premette ad ogni canto dantesco, non sono
un lavoro originale dello scrittore di Meldola, ma una copia fedele di
quelle che il commentatore senese inserisce nel suo Commento del 1749
(l’edizione di Verona del 1749 è quella più vicina a quella del Ciàngulo
ed è la prima a contenere per intero il testo del Venturi).
Si legga questo esempio:
Venturi
Canto I [p. 1]:
Racconta il divin Poeta, siccome ritrovossi
smarrito in una orrida selva, e
sul mattino giunse ad un colle, a cui
volendo salire, fu da alcune fiere impedito;
e che mentre fuggiva da una
di quelle, vide Virgilio, il quale gli disse,
che lo avrebbe guidato all’Inferno
ed al Purgatorio, e di poi sarebbe condotto
al Paradiso: ed egli con la scorta
di lui intraprende il gran viaggio.
Riguardo, poi, le note vere e proprie, si può sostenere che l’autore
di Meldola non offra nel suo Commento uno spiccato contributo personale
di originalità: il lavoro di Ciàngulo si limita spesso ad una semplificazione
di quanto in precedenza scritto dal gesuita Venturi.
A sostegno di questa tesi si legga ancora questa esemplificazione:
Venturi
[canto XV, nota 17]:
E sporgendo la mano verso il viso di
Ser Brunetto, il quale essendo nell’arenajo
stava più basso dell’argine, dove
era io: o, dissi, siete voi qui tra’ Sodomiti?
quasi dica, io vi faceva tra’ falsarj;
perché di questo delitto foste in
terra convinto nell’esercizio di Nota-
[ 7 ]
Ciàngulo
Canto I [p. 11]:
Racconta il divin Poeta, siccome ritrovossi
smarrito in una orrida selva, e
sul mattino giunse ad un colle, a cui
volendo salire, fu da alcune fiere impedito;
e che mentre fuggiva da una
di quelle, vide Virgilio, il quale gli disse,
che lo avrebbe guidato all’Inferno
ed al Purgatorio, e di poi sarebbe condotto
al Paradiso: ed egli con la scorta
di lui intraprende il gran viaggio.
Ciàngulo
[canto XV, nota f]:
Brunetto, questi di gran scienza, eccellente
fisico, e buon Matematico, fu
maestro di Dante, compose molti libri,
viene posto fra i sodomiti, ma più
fra falsarii, per aver esercitato l’ufficio
di Notajo; a cui colui dimandò chi
sono li suoi compagni, e gli fu rispoUn
autore ritrova to: Niccolò Ciàngulo 763
jo. Fu questi di grande scienza, eccellente
Fisico, e buon Matematico:
scrisse un libro intitolato Tesoretto in
lingua Fiorentina: sdegnato poi di esser
condannato per falsario andò a
Parigi, e in lingua Francese compose
il Tesoro: fu ancora per qualche tempo
maestro di Dante.
Canto XV, nota 63:
Libro così intitolato, e nel quale io vivo
per fama. Il Tesoretto fu in lingua
Fiorentina, e in versi da lui scritto; il
Tesoro lo scrisse in prosa, e in lingua
Francese. Nel primo tratta dei costumi
degl’Uomini e delle vicende della
variabil fortuna; nel secondo, che divide
in tre libri, vi ripose molte confuse
notizie intorno alla cronica dei
tempi, alla traslazione dell’Impero
Romano, intorno agli elementi, e agli
animali, alla Filosofia Morale, e alla
Politica, ed intorno alla Retorica diffusamente.
È altrettanto vero, però, seppure si tratti di eccezioni, che Ciàngulo
non si limita a copiare pedissequamente le note scritte dal letterato
senese: si può notare, ad esempio, che egli aggiunge delle note anche
laddove non sono presenti nel lavoro di Pompeo Venturi.
E così, infatti, a proposito di «E non tocchin la pianta» (If XV, v. 74)
Niccolò Ciàngulo – presumibilmente di suo pugno – glossa:
«li Fiesolani faceano strame, cioè paglia di se stessi, s’avilirono, senza
toccar la pianta nobil dei Romani di cui derivavano»15.
Nonostante la critica ufficiale sia stata avara di giudizi positivi nei
confronti del lavoro del Ciàngulo, occorre sottolineare che il suo Commento
nasce da esigenze precise: non è da escludere che egli abbia
scritto volutamente un commento all’Inferno più semplificato rispetto
a quello a cura del Venturi, perché spinto principalmente dall’esigenza
di insegnare la lingua italiana ad un pubblico tedesco (e ricavarne
15 Ivi, p. 123.
[ 8 ]
sto, che sono chierici e Letterati sodomiti.
Canto XV, nota h:
Libro così intitolato in prosa, e in lingua
francese, l’altro Tesoretto in lingua
Fiorentina composti da lui.
764 MARIA LUCE ALOISIO
di conseguenza un guadagno immediato) e dalla volontà di diffondere
la letteratura italiana in tutto il mondo.
Infatti, aldilà del reale valore letterario attribuibile al commento
alla prima cantica de La Divina Commedia, è necessario ancora una volta
ricordare quello che può essere considerato il più grande merito di
Niccolò Ciàngulo e, cioè, quello di aver dato un apporto fondamentale
per la diffusione del culto dantesco nella Germania del Settecento.
4. Il poeta
L’autore romagnolo, disdegnato o ignorato dai critici, almeno ai
suoi tempi doveva essere molto noto per le sue doti poetiche se il 20
settembre 1737 la città di Gottinga lo eleva a poeta cesareo.
Di tutta la sua produzione in versi è stato possibile risalire solo alle
sue Poesie Sacre, stampate a Lipsia, presso Arcsten et Mercus, nel 1745
ed attualmente presenti solo nella Biblioteca universitaria della stessa
città tedesca16.
La loro lettura – o addirittura il solo titolo – può disorientare il
lettore che ha ben presente il rapporto tormentato di Ciàngulo con la
religione cattolica.
Il filo logico da seguire è che l’autore, dopo circa trenta anni di lavori
occasionali per garantirsi la sopravvivenza e di peregrinazioni
per l’Europa per fuggire la «[…] maledetta e infernale Inquisizione»17,
sia ormai stanco e provato. Ed è forse proprio con la composizione a
Lipsia di queste poesie sacre che Niccolò Ciàngulo spera di tornare
nelle fila del cattolicesimo.
È nei sei sonetti che compongono il Motivo dell’Autore che Niccolò
non lascia dubbi a riguardo: il poeta di Meldola ricorda di aver dissipato
il dono del Signore nella migliore età (a trentadue anni, infatti,
abiura la religione cattolica) ma ora «[…] condotto il nono/ Lustro con
dieci otto anni […]»18, cioè a sessantatre anni, Ciàngulo chiede di trovare
«umil perdono» e al Crocifisso «libertade implora».
Sarà proprio Gesù crocifisso il segno ed il vanto del suo «[…] pensier,
de la penna e de la voce»19.
16 coll.: Pred. 728-ir.
17 Ivi, p. 234.
18 N. Ciangulo, Poesie Sacre, Lipsia, Arcsten et Mercus, 1745, p. XII.
19 Ivi, p. VII.
[ 9 ]
Un autore ritrova to: Niccolò Ciàngulo 765
E con questi versi Niccolò conclude il sonetto V del Motivo dell’Autore:
Jo, prostrato sul suol, che Dio ti credo,
Del grave peso de’ miei falli oppresso,
Che salvi me, per tua bontà, ti chiedo.
È forse nel sonetto LXXI che compare uno dei versi più importanti:
«Jo, che lo conosco, e l’ho tradito»20.
Qui, infatti, il poeta afferma – senza mezzi termini – di conoscere
Cristo e questo non può non far pensare al suo passato nelle fila della
Chiesa di Roma; il tradimento, poi, sembra essere una chiara allusione
all’abiura del Cattolicesimo nel luglio del 1717.
5. Il lettore di classici italiani
Per avere un’idea complessiva della portata culturale di Niccolò
Ciàngulo è importante, infine, soffermarsi su un’altra opera; essa testimonia
i suoi due grandi interessi: quello per la produzione poetica e
letteraria italiana e quello per l’insegnamento dell’italiano all’estero.
Si tratta dell’Aminta: favola boscareccia di Torquato Tasso, colla maniera
d’imparar l’italiano: l’edizione consultata è quella pubblicata a Lipsia
nel 1753 presso Giovanni Samuele Heinsio ed Heredi21.
Dalla lettura dell’opera emerge innanzitutto che Ciàngulo si limita
a riportare fedelmente il testo dell’Aminta e ad aggiungere – di suo
pugno – solo note squisitamente grammaticali, evitando qualsiasi
commento letterario. È chiaro, quindi, che con questa opera Ciàngulo
si mostri esclusivamente nelle vesti di insegnante di italiano all’estero
piuttosto che in quelle di poeta e scrittore. Del resto non si deve sottovalutare,
ancora una volta, l’ipotesi che egli pubblichi quest’opera
spinto non solo dall’amore per la lingua italiana, ma anche dal bisogno
di un guadagno immediato (e vista la pubblicazione di due edizioni
a distanza di pochi anni, si può anche supporre che l’opera godette
di una discreta fortuna).
20 Ivi, p. 71.
21 E semplare presente presso la Biblioteca civica e archivi storici “Angelo Mai”
di Bergamo (coll.: Tassiana E-4-19.1).
[ 10 ]
766 MARIA LUCE ALOISIO
L’intento di insegnare la lingua italiana ad un pubblico straniero si
evince con chiarezza nelle annotazioni al testo; da queste si può notare
in primis l’importanza che Niccolò Ciàngulo accorda al latino, poiché
«[…] chi sa latino, facilmente imparerà l’Italiana lingua, figlia primogenita
della latina»22.
Così, volendo fare solo qualche esemplificazione, Ciàngulo glossa:
Chi crederia. Chi significa quello che, lat. ille qui.
E celarmi. E, quando significa Et lat. diciamo e, senza accento.
Né coll’accento lat. nec.
a Lui dativo lat. ipsi.
Pietà, li nomi che in latino finiscono in -tas, italiano tà
coll’accento, ut lat. puritas, italiano purità.
Ciò che, quel che lat. id quod […].
Là dove, lat. ibi ubi, là coll“accento significa luogo.
Questa prassi accompagna il Ciangulo anche negli altri commenti
delle opere italiane; segno, forse, che il metodo era stato felicemente
sperimentato per l’insegnamento della lingua italiana e, contemporaneamente,
per la diffusione della letteratura italiana in terra tedesca.
Che è poi il merito che si deve riconoscere a questo ritrovato autore,
di cui ora fornisco tutte le voci bibliografiche reperite fino ad ora:
• De flagello foeminarum (lavoro introvabile o perso; Utrecht, [s. e.], forse
intorno al 1724).
• Aventures singulieres de M. C. contenant le recit abbregé des desordres qui se
commettent dans les convents, et de ce qu’il a éprouvé de la Cruauté de l’Inquisition.
Enfin comment par la particuliere Bonté de Dieu, il s’est retiré dans un
Pais de liberté où il embrassé la religion reformee, Utrecht, Muntendam,
1724.
• Novum tyrocinium linguae italicae constans praeceptis brevissimis, ac in ordinem
meliorem redactis. Quibus accedunt indiculus dictionum, atque phrasium
&c. /,Trajecti ad Rhenum, Muntendam, 1724.
• Massime politiche del principe per il governo dello Stato, e per il maneggio
della guerra. Ove si parla della politica dell’Inquisizione. Astratto dai migliori
autori classici per Nicolò Ciàngulo, Utrecht, Muntendam, 1728.
• Lettere miste; Nelle quali si contengono curiose, utili, e diverse cose, Lipsia, [s.
e.], 1732-4.
• Nel felice e fortunato giorno per noi ove si celebra l’anniversario in cui nacque
… Maria Antonia, Lipsia, [s. e.], 1734.
22 N. Ciangulo, Aminta: favola boscareccia di Torquato Tasso, colla maniera d’imparar
l’italiano/ da Nicolo Ciangulo, Lipsia, Giovanni Samuele Heinsio ed Heredi, 1753,
p. 7.
[ 11 ]
Un autore ritrova to: Niccolò Ciàngulo 767
• Genealogia di Giorgio secondo e sua real casa di Bronsvico, e Luneburgo epilogata,
e mesa in Rime, Gottinga, [s. e.], 1735.
• Novum tirocinium linguae Italicae, Gottinga, Vandenhock, 1735.
Genealogia di S. A. S. Carlo Guglielmo Federico, Marggravio deBrandenburgo-
Anspaca, Gottinga, [s. e.], 1736.
• I trionfi della scienza sopra l’ignoranza, Gottinga, [s. e.], 1737.
• Canto per le prospere, felicissime nozze, che con sua real … majesta Don Carlos
d’Ispagna, re di Napoli, e Sicilia, celebra … Maria Amelia, principessa reale
di Pologna, Gottinga, [s. e.], intorno al 1738.
• Lectiones Italicas per semestre hiemale habendas indicit, et ad eas … invitat
Nicolaus Ciangulo,poeta laureatus …: [praefatus de praestantia linguae Ital.],
[s. l.], Teubnerus, intorno al 1738.
• Acta coronationis cum Nicolaus Ciangulo linguae Italicae lector Gottingae,
die XX. Sept. An. 1737, poetica laurea consuetis ceremoniis ornaretur. Accesserunt
nonnulla carmina varii argumenti, Lipsiae, Weidmann, 1739.
• Lettera nel felice principio dell’anno 1740 che loda le rare virtù del … signore
Giovanni Giacomo Mascovio …Lipsia, [s. e.] 1740.
• Novum tyrocinium linguae Italicae: constans praeceptis brevissimis atque in
ordinem meliorem redactis, Lipsia, Fritsch, 1740.
• La Gerusalemme liberata di Torquato Tasso: colle osservazioni di Nicolo Ciangulo,
Lipsia, Fritsch, 1740.
Aminta: Favola boscareccia di Torquato Tasso; colla maniera d’imparar l’italiano
da Nicolo Ciangulo, Lipsia, Fritsch, 1740.
• Canto panegirico nella venuta felice che fa in questa città la real altezza seren.
del Federico Christiano Leopoldo principe reale di Polonia …, [s. l.], [s. e.],
1741.
• Scielta di canzoni musicali; coll’aggiunta dell’Aminta, favola boscareccia di
Torquato Tasso, Lipsia, [s. e. ], 1741.
• L’amor celeste: epitalamio …: [Hochzeitsgluckwunsch auf Johann August
Schwabe und Johanna Christina Tripto, 6. Apr. 1741], Lipsia, [s. e. ], 1741.
• Componimento dramatico per il primo dell’anno 1742 fatto in augurio felice
… alla R. maestà … Maria Gioseffa d’Austria, regina di Polonia …, [s. l.], [s.
e.], 1742.
• Panegirico in lòde dell’illustrissimo signore …Conte Augusto Enrico de Frisa:
cordialmente scritto per augurio felice del novello anno 1742 …, Lipsia,[s. e.],
1742.
• Poesie sacre, Lipsia, Arcsten et Mercus, 1745.
• Il pastor fido del signore cavaliere Battista Guarini, colle rime, ed altre opere del
medesimo autore; arricchito di molte figure in ogni scena; aggiontovi una prefazione
di Nicolo Ciangolo, spiegando i luoghi difficili, Lipsia, Loewe, 1750.
• Al eccellentissimo Signor Dottore Di Medicina Peritissimo Paolo Gottlieb
Werlhofio, Membro Della Reggia Societa Delle Scienze Meritissimo, Da Fresco
in Inghilterra costituito…: In Segno Di Devota Congratulazione, [s. l.], [s. e.],
1750.
Della Divina Comedia di Dante Alighieri: 4 Canti colle annotazioni di Niccolo
Ciangulo, Lipsia, Brockhaus, 1753.
[ 12 ]
768 MARIA LUCE ALOISIO
• Aminta: favola boscareccia di Torquato Tasso, colla maniera d’imparar l’italiano/
da Nicolo Ciangulo, Lipsia, Giovanni Samuele Heinsio ed Heredi,
1753.
• La Divina Commedia di Dante Alighieri. Dell’Inferno, poemetto morale e filosofico;
colle annotazioni distinte, ch’esplicano chiaramente il testo. Da Niccolò
Ciangulo poeta Cesareo, e lettor pubblico italiano, Lipsia, Giovanni Samuel
Heinsio Heredi, 1755.
• Italienische und deutsche Gesprache, wie man ietzt gewohnlich in Italien redet,
Lipsia, Jacobi, 1757.
• Pianto per la morte di Maria Gioseppa, regina di Polonia e duchessa di Sassonia,
Lipsia, Langenheim, 1757.
Marialuce Aloisio
(Napoli)
[ 13 ]
GIORGIO CAVALLINI
Su una scelta stilistica ricorrente
ne Le Avventure di Pinocchio
This article examines a stylistic feature recurring in Carlo Collodi’s
masterpiece: a tendency to repeat words or phrases that, far from
making the text and the dialogues dull, gives them a greater effectiveness.
The examples given in this essay show how the playwright’s
style is strengthened by his directness, energy and mimetic
force.
1. Premessa con alcuni esempi
Nel primo capitolo del capolavoro1 di Carlo Collodi – capitolo intitolato
“Come andò che maestro Ciliegia, falegname, trovò un pezzo di
legno che piangeva e rideva come un bimbo” – il falegname, mentre
con la sua ascia arrotata si appresta a servirsi di un pezzo di legno per
farne una gamba di tavolino, “rimase col braccio sospeso in aria, perché
sentì una vocina sottile sottile che disse raccomandandosi: – Non
mi picchiar tanto forte!”. Rimasto come di sasso, maestro Ciliegia girò
“gli occhi smarriti intorno alla stanza per vedere di dove mai poteva
essere uscita quella vocina, e non vide nessuno; guardò sotto il banco,
e nessuno; guardò dentro un armadio che stava sempre chiuso, e nessuno;
guardò nel corbello dei trucioli e della segatura, e nessuno; aprì
l’uscio di bottega per dare un’occhiata anche su la strada, e nessuno.”
2
Già da questo esempio iniziale si può notare il ricorso dell’autore
alla ripetizione espressiva di alcune parole, come l’aggettivo “sottile
sottile”, detto della “vocina”, o, con riferimento al reiterarsi dell’azio-
1 Non a caso, esso è, “il libro più letto e venduto nel mondo dopo la Bibbia e il
Corano” (cfr. D. Marcheschi, Introduzione a C. Collodi, Opere, a cura della stessa,
Milano, Mondadori – Collana “I Meridiani” -, 1995, p. XI).
2 C. Collodi, Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, Introduzione di S.
Bartezzaghi, Prefazione di G. Jervis, con un saggio di I. Calvino, Torino, Einaudi,
2002, pp. 3 e 4.
Note
770 GIORGIO CAVALLINI
ne compiuta dal personaggio, il triplice “guardò”, o infine, riguardo al
suo esito purtroppo ogni volta vano, il quintuplice “nessuno”3, complemento
oggetto di “vide”. Tale effetto viene ancor più avvalorato da
quello che dopo poco fa maestro Ciliegia quando, ripreso finalmente
l’uso della parola e sempre alla ricerca di dove fosse uscita quella “vocina”,
si mette a sbatacchiare il pezzo di legno contro le pareti della
stanza: “Poi si messe in ascolto, per sentire se c’era qualche vocina che
si lamentasse. Aspettò due minuti, e nulla; cinque minuti, e nulla; dieci
minuti, e nulla.”4 Periodo in cui alla progressione crescente dei “minuti”
corrispondono altrettanti “nulla”, senza che ciò ne scalfisca la
concisione e tanto meno l’esatta misura.
Nel secondo capitolo maestro Ciliegia regala il pezzo di legno al
suo amico Geppetto, il quale lo prende per fabbricarsi un burattino
meraviglioso che sappia ballare, tirar di scherma e fare i salti mortali.
Nel terzo Geppetto, tornato a casa, si mette subito a fabbricarsi il burattino
e gli dà il nome di Pinocchio. Una notazione particolare è dedicata
al naso di questi: “Allora, dopo gli occhi gli fece il naso; ma il
naso, appena fatto, cominciò a crescere e, cresci cresci cresci, diventò
in pochi minuti un nasone che non finiva mai.”5. Intanto Pinocchio, un
vero birichino, comincia a compiere le sue prime monellerie, mettendosi
a correre a salti come una lepre, prima per la stanza e poi per la
strada. Al povero Geppetto non resta altro che corrergli dietro senza
però poterlo mai raggiungere: “ – Piglialo! Piglialo! – urlava Geppetto;
ma la gente che era per la via, vedendo questo burattino di legno che
correva come un barbero, si fermava incantata a guardarlo e rideva
rideva e rideva da non poterselo figurare.”6 Anche qui, dopo il “cresci
cresci cresci” detto del naso del burattino, si rileva il triplice “rideva”,
riferito alla reazione divertita della gente che assiste alla scena: ne risulta
intensificata la reazione stessa senza che l’autore debba insistere
sull’argomento con altre parole aggiuntive, a parte la sfumatura tanto
sobria quanto puntuale “da non poterselo figurare”.
3 Qui, “a spasso ripetuto e supremo del pubblico”, “la ripetizione, il raddoppiarsi
seriale delle mosse e dei gesti formano lo schema tipico del gioco clownesco”,
di cui sarebbe protagonista maestro Ciliegia, “colto a girare per tutta la stanza,
che guarda sotto il banco, dentro l’armadio, proprio come un clown del circo
[…]” (cfr. R. Bertacchini, Collodi narratore, Pisa, Nistri-Lischi, 1961, pp. 422-423
passim).
4 Ivi, pp. 4-5.
5 Ivi, p, 10.
6 Ivi, p. 11.
[ 2 ]
Su una scelta stilistica ricorrente ne Le Avventure di Pinocchio 771
2. Esempi tratti dal “parlato”
Gli esempi sopra proposti sono, come il lettore avrà potuto constatare,
tutti narrativi. Ancora più efficaci, per semplicità e nettezza, sono
quelli facenti parte, invece, del cosiddetto “parlato” ovverosia dei dialoghi
o dei monologhi pronunciati da Pinocchio oppure dagli altri
personaggi della vicenda che lo vede protagonista assoluto.
Per esempio, nel capitolo XVII, Pinocchio si trova a letto con un
gran febbrone mentre la Fata dai capelli turchini gli presta cura e assistenza,
ma il burattino fa i capricci e non vuol prendere la medicina se
prima non gli viene data una pallina di zucchero. La scena si ripete
più volte, perché ogni volta che la Fata gli porge il bicchiere da bere,
egli chiede un’altra pallina e poi ancora un’altra, fino a mettersi a gridare,
dando in uno scoppio di pianto: “– Insomma […] quest’acquaccia
amara non la voglio bere, no, no, no!”. Alla scena tien dietro il seguente
dialogo con la Fata: “– Ragazzo mio, te ne pentirai.” – “Non me
n’importa.” – “La tua malattia è grave.” – “Non me n’importa.” – “La
febbre ti porterà in poche ore all’altro mondo.” – “Non me n’importa.”
– “Non hai paura della morte?” – “Punto paura!… piuttosto morire
che bevere quella medicina cattiva.”7. A questo punto si spalanca la
porta della camera ed entrano dentro quattro conigli neri che hanno
sulle spalle una piccola bara da morto per prendere il povero Pinocchio
e portarselo via con loro. Al che il burattino comincia subito a
strillare dicendo: – “O Fata mia, o Fata mia, [
] datemi subito quel bicchiere.
Spicciatevi, per carità, perché non voglio morire, no, non voglio
morire!”8. Preso dunque il bicchiere e vuotatolo d’un fiato, egli
torna vispo e allegro come un galletto e, alla domanda della Fata, le
racconta le sue ultime disavventure alle prese con gli assassini che,
dopo averlo derubato delle monete regalategli dal burattinaio Mangiafoco,
lo avevano persino impiccato ad un albero del bosco, dove lo
avrebbero poi raggiunto il giorno dopo se non fosse intervenuta in
tempo la sua salvatrice. Durante il racconto Pinocchio dice: “E gli assassini
a corrermi dietro, e io corro che ti corro, finché mi raggiunsero
e mi legarono per il collo a un albero di questo bosco [
]”9. In grande
evidenza la foga e l’affanno con cui il protagonista si esprime di volta
in volta e quasi in sequenza. Dapprima i tre “no” (rifiuto di bere l’amara
medicina), poi i tre “non me n’importa” (riferiti al pericolo di mori-
7 Ivi, pp. 59-60.
8 Ivi, p. 60.
9 Ivi, p. 61.
[ 3 ]
772 GIORGIO CAVALLINI
re), quindi l’invocazione ripetuta “o Fata mia” e l’esclamazione, anch’essa
duplice, “non voglio morire”, accompagnata al centro da un
ennesimo “no” ed infine arricchita con quella che, in relazione al “corrermi
dietro” degli assassini, si potrebbe definire una sorta di varietas:
“e io corro che ti corro”. Non per niente, come è stato osservato, “la
prima cosa che Pinocchio fa è parlare, e la prima cosa che fa è un’implorazione”
10.
Per fare un altro esempio, si veda la conclusione del capitolo XXIV
dove Pinocchio, arrivato all’isola delle api industriose, vi ritrova viva
la sua Fata dai capelli turchini che egli invece credeva morta. Soccorso
e nutrito dalla donna, che lo incontra mentr’egli sta chiedendo l’elemosina,
a un certo punto la fissa e rimane come incantato, “con gli
occhi spalancati, con la forchetta per aria e con la bocca piena di pane
e di cavolfiore”. Lei gli chiede il perché di tanta meraviglia; ed ecco il
‘parlato’ che ne segue: “Egli è
, – rispose balbettando Pinocchio, – egli
è
egli è
che voi mi somigliate,
voi mi rammentate
sì sì sì, la stessa
voce,
gli stessi occhi,
gli stessi capelli,
sì sì sì,
anche voi avete i capelli
turchini
come lei!
O Fatina mia, o Fatina mia!
ditemi che siete voi,
proprio voi! Non mi fate più piangere! Se sapeste!
Ho pianto tanto, ho
patito tanto!
”11. Il capitolo poi si conclude brevemente12, ma quanto
sopra citato mostra con evidenza come l’autore si avvalga efficacemente
dei modi tipici della lingua parlata per far esprimere al suo
personaggio, dotato di grandissima vitalità, la sua emozione improvvisa
e concitata, qui espressa per mezzo di una serie di frasi ripetute e
spesso quasi interrotte proprio a causa del suo balbettare. Non si contano
i “gli”, i “mi”, i “sì” e i “voi”, ma oltre a queste riprese di suoni e
di parole si possono cogliere nel suo discorso anche sincronismi di
movenze e di costruzioni, come “voi mi somigliate” e “voi mi rammentate”
o come “gli stessi occhi” e “gli stessi capelli”, per non dire
della rima finale, preceduta da interna assonanza, tra “Ho pianto tanto”
e “ho patito tanto”.
Come ultimo esempio valga la conclusione del capitolo XXX in cui
10 S. Bartezzaghi, Il paese senza balocchi, Introduzione a C. Collodi, Le avventure
di Pinocchio, cit., p. VII. Le prime parole, infatti, pronunciate dal burattino e
rivolte a maestro Ciliegia sono “Non mi picchiar tanto forte!”. Ad esse, come osserva
lo studioso, seguono il lamento, la risata e il dispetto.
11 Ivi, p. 93.
12 E cco il periodo finale: “E nel dir così, Pinocchio piangeva dirottamente e,
gettatosi ginocchioni per terra, abbracciava i ginocchi di quella donnina misteriosa.”
(ibidem).
[ 4 ]
Su una scelta stilistica ricorrente ne Le Avventure di Pinocchio 773
Pinocchio si appresta a partire con il suo amico Lucignolo per il paese
dei balocchi. Il burattino domanda all’altro se sia proprio vero che in
quel paese i ragazzi non abbiano mai l’obbligo di studiare. Lucignolo
gli risponde: “Mai, mai, mai!”; e Pinocchio, a sua volta, commenta:
“Che bel paese, che bel paese, che bel paese!”13. Dove alla triplice battuta
del primo segue quella del secondo con perfetta corrispondenza
sincronica, sia numerica sia esclamativa.
In effetti gli esempi da citare sarebbero molti, ma molti di più, tanto
che il loro elenco richiederebbe pagine e pagine coll’implicito rischio
di poter annoiare l’attento lettore. Si veda, infatti, cosa è stato
scritto a proposito delle onomatopee di origine popolare, ricorrenti
nel testo, le quali, “per il prevalere in esse del tono parlato” e “sotto la
spinta dell’elemento fonosimbolico ed evocatore che le contrassegna,
tendono piuttosto all’immagine, costruiscono anch’esse sequenze di
movimento, accelerano scorsi cinematici colti dal vero.” Cosicché –
tale il giudizio che ne scaturisce – “in questo esercizio di imitation
phonétique Collodi si rivela un ottimo e sicuro virtuoso”:
Dal cri-cri-cri del Grillo parlante, che echeggia improvvisamente nella
stanza deserta e impaurisce il ragazzo-burattino, alla musica ritmata e
plateale dei pifferi e della grancassa, pì-pì-pì, pì-pì-pì, pì-pì-pì, zum, zum,
zum, zum, zum, dagli Etcì, Etcì, Etcì, gli starnuti “sonorissimi” di Mangiafuoco
intenerito, alla musichetta, allo zin-zin-zin sottile e allusivo
che rimandano gli zecchini d’oro nel sogno-miraggio di Pinocchio,
Collodi provvede ad adeguare mimeticamente al comico d’azione anche
i suoi ricorsi onomatopeici, per sottolineare meglio ed esprimere
atti gesti movenze, sempre intuiti sul piano di una specifica intuizione
dinamica. Si ricordi il patapunfete sordo e clamoroso degli assassini, che
non riescono a prender bene la misura e piombano a capofitto nel bel
mezzo del fosso melmoso; lo zaff-zaff, la doppietta sibilante e sinistra di
colpi che coi loro coltellacci, lunghi e affilati, gli stessi affibbiano sulle
reni a Pinocchio; il tic-tac, tic-tac meccanico del cuore del ragazzo-burattino,
che cammina ansioso verso il Campo dei miracoli (un battito
fondo, scandito, risonante proprio “come un orologio da sala, quando
corre davvero”); il crac improvviso e rovinoso che segna il suo intrappolamento
nella tagliola (“… appena giunto sotto la vite, crac
sentì
stringersi le gambe da due ferri taglienti
”), e per finire la serie dei ragli,
ih ah, ih ah, ih ah, lunghi e dolorosi, che annunciano la sua completa
metamorfosi asinina”14.
13 Ivi, p. 125.
14 R. Bertacchini, Collodi narratore, cit., pp. 531-532.
[ 5 ]
774 GIORGIO CAVALLINI
3. Esempi misti di “narrato” e di “parlato”
Come si sarà potuto notare, il passo critico sopra citato non fa distinzione
tra l’origine e la natura degli esempi, offrendone una ricca
scelta attinta sia dalle parti narrative sia da quelle dialogiche.
In effetti i due piani, lungi dall’escludersi reciprocamente, spesso nello
sviluppo del racconto s’intrecciano a vicenda, amalgamandosi in maniera
efficace. Si prendano, ad esempio, il secondo e il terzo periodo iniziali
del capitolo XIX, in cui Pinocchio viene derubato delle monete d’oro
che è stato indotto dal Gatto e dalla Volpe a seminare nel Campo dei
miracoli. Eccolo, dunque, in azione mentre si dirige verso la sua meta:
E mentre camminava con passo frettoloso, il cuore gli batteva forte e
gli faceva tic-tac, tic-tac, come un orologio da sala quando corre davvero.
E intanto pensava dentro di sé:
“E se invece di mille monete ne trovassi su i rami dell’albero duemila15?
e se invece di duemila ne trovassi cinquemila? e se invece di cinquemila
ne trovassi centomila? Oh, che bel signore allora che diventerei!
Vorrei avere un bel palazzo, mille cavallini di legno e mille scuderie
per potermi baloccare, una cantina di rosoli e di alchermes e una libreria
tutta piena di canditi, di torte, di panettoni, di mandorlati e di cialdoni
con la panna”16.
Ai due “tic-tac” della parte narrativa subentrano i tre “se… ne trovassi”
della parte parlata, che il protagonista rivolge a se stesso fantasticando.
E questi ultimi sono seguiti, a loro volta, da due “mille”,
detto dei cavallini di legno e delle scuderie, e da una serie reiterata e
concitata di “di”, riferiti alle varie leccornie da lui desiderate.
Altro esempio è fornito dal quarto e dal quinto periodo del capitolo
XXXV e precisamente dall’episodio in cui Pinocchio, mentre sta
brancolando dentro il corpo del pescecane, vi ritrova il suo caro babbo
Geppetto, “un vecchiettino tutto bianco come se fosse di neve o di
panna montata, il quale se ne stava lì biascicando alcuni pesciolini
vivi, ma tanto vivi, che alle volte, mentre li mangiava, gli scappavano
perfino di bocca”. Si vedano, pertanto, i periodi sopra indicati:
A quella vista il povero Pinocchio ebbe un’allegrezza così grande e
così inaspettata, che ci mancò un ette non cadesse in delirio. Voleva
15 Appunto “mille” e “duemila” è il numero che il Gatto, aiutato dalla Volpe,
augura di trovare al burattino, incitandolo a seminare nel Campo le sue quattro
monete d’oro.
16 C. Collodi, Le avventure di Pinocchio, cit., p. 68.
[ 6 ]
Su una scelta stilistica ricorrente ne Le Avventure di Pinocchio 775
ridere, voleva piangere, voleva dire un monte di cose; e invece mugolava
confusamente e balbettava delle parole tronche e sconclusionate.
Finalmente gli riuscì di cacciar fuori un grido di gioia e, spalancando
le braccia e gettandosi al collo del vecchietto, cominciò a urlare:
– Oh, babbino mio! Finalmente vi ho ritrovato! Ora non vi lascio più,
mai più, mai più!17
Qui si registra la prevalenza del ritmo ternario, che informa sia il
“narrato” sia il “parlato”, anche se con una variazione finale: difatti ai
tre “voleva” (con infinito) della sua reazione istintiva corrisponde la sua
intenzione, espressa con parole, di non lasciare “più, mai più, mai più!”
il babbino finalmente ritrovato. Alla domanda di questi, che stropicciandosi
gli occhi per l’incredulità gli chiede se lui è proprio il suo caro
Pinocchio, il burattino risponde: “Sì, sì, sono proprio io, proprio io!” e
poi si mette a raccontargli tutto quanto gli è successo. Con trapasso,
quindi, al ritmo binario, ma sempre in una sorta di crescendo dell’effusione
verbale, fondata su ripetizioni e parallelismi18, consoni anche qui
alla situazione e allo stato d’animo del personaggio. Da notare, altresì, il
pari dinamismo che connota quasi sempre le sue parole e le sue azioni.
Se, invece degli esempi – come quelli fin qui presentati – relativi a
singoli e per di più isolati spezzoni del testo, si prova a seguirne la
successione e lo sviluppo prendendo in considerazione un intero capitolo
delle Avventure di Pinocchio, si può constatare non solo la felice
immediatezza di questa scelta espressiva e stilistica, che caratterizza il
tutto, ma ancor più il ritmo che lo percorre e lo anima da cima a fondo:
ed appunto “nella necessità interna del suo ritmo” sta, come ha indicato
Italo Calvino, “il segreto di questo libro”19.
Come modello esemplare si sceglie il capitolo XXXI in cui il burattino
arriva nel Paese dei balocchi e vi trascorre cinque mesi di cuccagna,
ritrovandosi però alla fine trasformato in un ciuchino con le orecchie
asinine e la coda e tutto. Il carro che lo trasporta è tirato da dodici
pariglie di ciuchini: alcuni bigi, “altri bianchi, altri brizzolati a uso pepe
e sale, e altri rigati a grandi strisce gialle e turchine”. Carro già
pieno di ragazzetti fra gli otto e i dodici anni, “ammonticchiati gli uni
su gli altri come tante acciughe nella salamoia”:
17 Ivi, pp. 154-155.
18 A questo proposito, si è parlato in sede critica della creazione, per fini ludici,
di “un vero e proprio effetto di avvitamento della scrittura su se stessa” (cfr. D.
Marcheschi, Introduzione a C. Collodi, Opere, cit., p. XXXV).
19 Cfr. I. Calvino, Ma Collodi non esiste, in C. Collodi, Le avventure di Pinocchio,
cit., p. 175.
[ 7 ]
776 GIORGIO CAVALLINI
“Stavano male, stavano pigiati, non potevano quasi respirare; ma nessuno
diceva ohi, nessuno si lamentava. La consolazione di sapere che
fra poche ore sarebbero giunti in un paese, dove non c’erano né libri, né
scuole, né maestri, li rendeva così contenti e rassegnati, che non sentivano
né i disagi, né gli strapazzi, né la fame, né la sete, né il sonno20.
Fin qui il “narrato”, che presenta prima una sequenza di “altri” (tre
uniti ed un quarto distanziato), poi adotta due volte il ritmo binario
(“stavano… stavano”, “nessuno… nessuno”) per finire con ben otto
“né”, distribuiti in due serie, composte l’una di tre l’altra di cinque
elementi, precedute ciascuna da un “non” e tanto perentorie quanto
martellanti. Se si passa al “parlato”, ecco subito le battute del dialogo
che si svolge tra l’Omino, conduttore del carro, il burattino e Lucignolo
più altre voci che si uniscono alle loro. L’Omino, rivolto al primo, gli
chiede cosa intenda fare, se venire con tutti loro o rimanere; Pinocchio
è dapprima indeciso e non vorrebbe accettare, ma poi decide di andare
anche lui:
– Io rimango. – rispose Pinocchio. – Io voglio tornarmene a casa mia:
voglio studiare e voglio farmi onore alla scuola, come fanno tutti i ragazzi
perbene.
– Buon pro ti faccia!
– Pinocchio! – disse allora Lucignolo. – Dài retta a me: vieni via con noi
e staremo allegri.
– No, no, no!
– Vieni via con noi e staremo allegri, – gridarono altre quattro voci di
dentro al carro.
– Vieni con noi e staremo allegri, – urlarono tutte insieme un centinaio
di voci di dentro al carro.
Così alla fine Pinocchio, dopo una breve esitazione (“[…] non rispose,
ma fece un sospiro; poi fece un altro sospiro; poi un terzo sospiro”),
decide di unirsi a tutti gli altri e chiede all’Omino di fargli un po’
di posto sul carro. Nel “parlato” spiccano i tre “voglio”, che testimoniano
le sue precedenti buone intenzioni (ne fanno eco i tre “no” indirizzati
a Lucignolo), ma infine l’invito “vieni via con noi”, detto e poi
gridato all’unisono da tutte quante le voci, vince ogni sua residua resistenza:
invito per di più accompagnato ogni volta dalla promessa,
ricorrente come un Leitmotiv: “e staremo allegri”.
Nella parte conclusiva del capitolo c’è una pagina dedicata alla de-
20 C. Collodi, Le avventure di Pinocchio, cit., pp. 126-127 passim.
[ 8 ]
Su una scelta stilistica ricorrente ne Le Avventure di Pinocchio 777
scrizione del Paese dei balocchi, in cui il carro, al termine della nottata,
arriva felicemente la mattina sul far dell’alba. Ed ecco cosa si presenta,
dopo il lungo viaggio percorso, agli occhi di Pinocchio, di Lucignolo e
di tutti gli altri ragazzi:
Questo paese non somigliava a nessun altro paese del mondo. La sua
popolazione era tutta composta di ragazzi. I più vecchi avevano quattordici
anni, i più giovani ne avevano otto appena. Nelle strade un’allegria,
un chiasso, uno strillìo da levar di cervello! Branchi di monelli
da per tutto: chi giocava alle noci, chi alle piastrelle, chi alla palla, chi
andava in velocipede, chi sopra un cavallino di legno; questi facevano
a mosca cieca, quegli altri si rincorrevano, altri, vestiti da pagliacci,
mangiavano la stoppa accesa; chi recitava, chi cantava, chi faceva i salti
mortali, chi si divertiva a camminare con le mani in terra e con le
gambe in aria; chi mandava il cerchio, chi passeggiava vestito da generale
con l’elmo di foglio e lo squadrone di cartapesta; chi rideva, chi
urlava, chi chiamava, chi batteva le mani, chi fischiava, chi rifaceva il
verso alla gallina quando ha fatto l’uovo: insomma un tal pandemonio,
un tal passeraio, un tal baccano indiavolato, da doversi mettere il
cotone negli orecchi per non rimanere assorditi. Su tutte le piazze si
vedevano teatrini di tela, affollati di ragazzi dalla mattina alla sera, e
su tutti i muri delle case si leggevano scritte col carbone delle bellissime
cose come queste: “viva i balocci!” (invece di “balocchi”), “non vogliamo
più schole” (invece di “non vogliamo più scuole”), “abbasso
Larin Metica” (invece di “l’aritmetica”) e altri fiori consimili.
Pinocchio, Lucignolo e tutti gli altri ragazzi che avevano fatto il viaggio
con l’Omino, appena ebbero messo il piede dentro la città si ficcarono
subito in mezzo alla gran baraonda e in pochi minuti, come è facile
immaginarselo, diventarono gli amici di tutti. Chi più felice, chi
più contento di loro?21
Non si contano i “chi” riferiti alle varie attività dei monelli sparsi
dappertutto e impegnati nei più svariati giochi o divertimenti; ai “chi”
succedono poi i due “su”, relativi alle piazze e ai muri delle case, e i tre
“invece”, usati per correggere le frasi scrittevi erroneamente sopra. La
conclusione, binaria, esprime la generale contentezza di tutti: “Chi più
felice, chi più contento di loro?”. Ne risulta articolata e ancor più scandita
una sorta di continuum, basato sulla ripresa ravvicinata di singole
espressioni, associate liberamente assieme in un gioco del linguaggio,
ricco di reinvenzioni e di implicito dinamismo, volto a rappresentare
in maniera icastica con immediatezza e, soprattutto, con grande evidenza
mimetica quanto avviene nella scena descritta.
21 C. Collodi, Le avventure di Pinocchio, cit., pp. 130-131.
[ 9 ]
778 GIORGIO CAVALLINI
4. Precisazione a titolo personale
Prima di concludere questa breve nota, occorre dire che la scelta
stilistica qui considerata è solo uno dei tanti e molteplici aspetti di un
libro come Le avventure di Pinocchio, il quale, pubblicato oltre un secolo
fa (sul “Giornale dei bambini” nel 1881 e in volume nel 1883), si lascia
leggere ancora oggi con vivo diletto e consenso da tanti ragazzi del
nostro tempo.
Perciò si prega il gentile lettore di considerare quanto scritto soltanto
come una serie di appunti o, se si preferisce, di spunti per ulteriori
letture e riflessioni. Tra l’altro la storia di Pinocchio, ricca anche di notevole
carica umana, trascende i limiti della letteratura rivolta all’infanzia
ed offre un quadro della situazione sociale di un’Italia povera e contadina,
ben diversa per tanti suoi aspetti da quella dei nostri giorni.
Mi scuso per questo intervento personale, ma mi sembra doveroso
da parte mia dichiarare ciò al gentile lettore, confidando nella sua indulgenza
(e, con l’occasione, chiedo venia anche per il ricorso fatto qui
da me alla prima persona).
5. Conclusione
Quanto si è cercato di mostrare o dimostrare nelle pagine precedenti,
vertenti su una scelta espressiva e stilistica ricorrente nelle Avventure
di Pinocchio, potrebbe far pensare che tale scelta sia stata adottata
dall’autore per calcolo o per una specie di voluta programmazione.
Niente di più errato, specie se si pensi che, come scrive Italo Calvino,
“il Pinocchio è uno dei pochi libri di prosa che anche per le qualità
della sua scrittura invita a esser mandato a memoria parola per parola”:
in esso, soprattutto nei dialoghi da cui è scandito, “più che risultato
d’orificeria stilistica questo pare un dono di felicità naturale, istinto
di non lasciar mai cadere una frase che sia grigia o senza concretezza
o senza guizzo”22. Giudizio che vale tant’oro quanto pesa (direbbe
Collodi): lo si sottoscrive tutto e lo si vorrebbe adottare, perciò, anche
come conclusione.
Si è detto “lo si vorrebbe”, perché la vera conclusione, com’è giusto
che sia, è quella, sobria e semplice al contempo, che si legge nelle Av-
22 I. Calvino, Ma Collodi non esiste, in C. Collodi, Le avventure di Pinocchio, cit.
p. 175.
[ 10 ]
Su una scelta stilistica ricorrente ne Le Avventure di Pinocchio 779
venture di Pinocchio e che qui si cita. Si ricorderà che alla fine della vicenda
il protagonista cessa di essere un burattino e ritorna ragazzo. Di
qui il suo scambio di battute con Geppetto e, alla vista della trasformazione23
ormai compiuta, la sua duplice esclamazione finale:
– E il vecchio Pinocchio di legno dove si sarà nascosto?
– Eccolo là, – rispose Geppetto; e gli accennò un grosso burattino appoggiato
a una seggiola, col capo girato sur una parte, con le braccia
ciondoloni e con le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo, da parere
un miracolo se stava ritto.
Pinocchio si voltò a guardarlo; e dopo che l’ebbe guardato un poco,
disse dentro di sé con grandissima compiacenza:
“Com’ero buffo, quand’ero burattino! E come ora son contento di essere
diventato un ragazzino perbene!”24.
Giorgio Cavallini
(Università degli studi di Genova)
23 A questo proposito, molti ritengono il libro più adatto a dei ragazzi che a dei
bambini, i quali, quando ascoltano un racconto, hanno in genere il bisogno di identificarsi
in un personaggio di esso. La motivazione di ciò è così spiegata da Giovanni
Jervis: “I ragazzi di oggi, proprio perché più smaliziati, riescono a distanziarsi
da Pinocchio, a non perdersi in lui senza per altro dover rifiutarlo; essi colgono
facilmente la dialettica fra il rischio antisociale e la sua promessa di libertà, fra il
richiamo alla moralità degli adulti e l’accettazione di un universo di compromessi.
Il loro frequente rigetto della trasformazione finale di Pinocchio in un bambino
indica che l’identificazione non si è tutta risolta nella ribellione vissuta, punita e
superata, che il rischio psicopatico non è stato intieramente digerito e riassorbito
nella fantasia di una favola lontana, e che Pinocchio è riuscito a trasmettere la sua
contraddittorietà al lettore, lasciandogli un unico margine non risolto, lo stimolo
alla libertà.” (G. Jervis, Prefazione, in C. Collodi, Le avventure di Pinocchio, cit., pp.
XXXVII-XXXVIII):
24 C. Collodi, Le avventure di Pinocchio, cit., p. 170.
[ 11 ]
ROBERTO SALSANO
Pirandello: romanzi, novelle, teatro raccolti
in un volume
This essay takes into critical account Sergio Campailla’s introduction
to Pirandello: i racconti, le novelle e il teatro (Roma, Newton
Compton, 2009) and Pirandello’s works in general. Issues about the
unity of Pirandello’s production are also discussed, with a focus on
poetical features, cultural perspectives and moments of the writer’s
literary career.
Presso la casa editrice Newton Compton, a cura di Sergio Campailla1,
troviamo, in un imponente volume, raccolta tutta l’opera di
Pirandello, e sia pure ad esclusione di tre serie di scritture: i testi poetici
che hanno certo non indifferente valore di testimonianza ideologica
culturale ed umana intorno a un’esperienza letteraria in formazione
ma raggiungono scarsi livelli di risultato estetico; l’epistolario
che
costituisce un anello intermedio tra il personaggio intimo e il personaggio
pubblico ma proprio per questo può attingere, a parte un eventuale
valore autonomo, più specificamente un ruolo di complementarità
nella delineazione di una poetica realizzata; discorsi e saggi, recentemente
ripubblicati in un volume dei Meridiani a cura di Ferdinando
Taviani e relegabili, non senza, tuttavia, dei distinguo, a quella
che il curatore definisce come opera esterna contrapposta all’opera interna,
cioè creativa2.
Tutto Pirandello nella produzione di romanzi, novelle, drammi,
non è solo il frutto di un’operazione di grande utilità per il lettore che
trova spianato dentro un solo tomo così grande dispiegamento di testi.
Questa operazione editoriale, intendo dire, corroborata dalla esau-
1 L. Pirandello, I romanzi, le novelle e il teatro, a cura di S. Campailla, Roma
Newton Compton, 2009.
2 F. Taviani, La minaccia di una fama divaricata, Saggio introduttivo a L. Pirandello,
Saggi e interventi, a c. di F. Taviani, Milano, Mondadori (I meridiani),
2006.
pirandello: romanzi, novelle, teatro raccolti in un volume 781
stiva cornice di introduzioni e presentazioni (una introduzione generale
e presentazioni più circoscritte da parte di Campailla, una Premessa
di Giuseppe Leonelli ai Sei personaggi in cerca d’autore nonché Premesse
di Italo Borzi e Maria Agenziano a novelle e teatro) rivolte all’insieme
e alle parti, nitidamente informative ma anche di livello critico
e di esperienza saggistica, comporta un’offerta letteraria che può stimolare
nuove riflessioni su ciò che tiene insieme il tutto, ovverosia
sulla natura sistematica o aperta di Pirandello scrittore nel suo complesso.
Si ha facilitata l’opportunità, ad esempio, di verificare con ampiezza
di riscontri quel che diceva Giovanni Macchia del comporre
pirandelliano, di un’attività cioè la quale, razionalmente, con circospezione,
costruirebbe un vasto edificio nel fluire di una continuità di
scrittura, passando cioè al vaglio del riciclaggio
esperienze già compiute.
Comunque è lecito ipotizzare che, al di là dei moduli strettamente
compositivi, l’unitarietà di questo corpus può ritrovarsi nella
corrispondenza di gran parte dell’opera con parole d’ordine alludenti
a dualismi, a manifestazioni del doppio, magari all’ambiguità dell’ossimoro,
non certo alla dialettica triadica che comporterebbe un superamento
degli opposti, la dualità dei termini contrari, nel quadro di
un’eterna oscillazione, apparendo il segno della percezione d’un decostruirsi
dell’esperienza soggettiva sul piano della prassi e d’una irredimibile
precarietà identitaria
dell’essere sul piano ontologico o psicologico
quando entra in gioco una “differenza originaria”. A quest’ultimo
riguardo, il fenomeno del doppio dal Gardair così scrupolosamente
verificato in tutta l’opera pirandelliana, nel quale si attuerebbe
una più generale tendenza alla ripetizione come risvolto di una coazione
a ripetere, è in grado di assicurare un’organicità totale dell’opera
pirandelliana su base psicanalitica3.
Un altro, particolare indizio di totalità, potrebbe ritrovarsi nella
formula di «figlio del caos» adottata da Campailla iniziando la sua
introduzione al corpus pirandelliano. C’è un qualcosa che tiene tutto
Pirandello, ne deduciamo, proprio sotto questo riguardo. Campailla
rimarca una circolarità: si parte da una stazione e vi si ritorna alla fine
dal momento che lo scrittore nasce nel caos, come egli stesso afferma
in un frammento autobiografico, e si ricongiunge poi con il caos, come
in definitiva attestano talune sue disposizioni testamentarie. Il caos,
notiamo, è abilitato ad alludere allo spazio psichico nel quale germi-
3 J. Michel Gardair, Pirandello e il suo doppio, Roma, Abete, 1977. Per una problematica
del rapporto tra psicanalisi e “doppio” vedi il saggio introduttivo a questo
studio di Giulio Ferroni.
[ 2 ]
782 roberto salsano
nano quei contenuti inconsci che, junghianamente, identificano gli archetipi
e la cui pulsione si placa nella copertura offerta dai miti e dai
simboli. Archetipi certamente informano un cospicuo background dell’immaginario
pirandelliano, virtualmente esposti a una tensione drammatica
quando si crei una frizione tra quelle rappresentazioni collettive
che costituiscono, in quanto immagini simboliche, come un contrappeso
al profondo psichico, e i casi variabili emergenti nello svolgersi
di una realtà contraddittoria e mutevole resa precaria da una
minaccia di stravolgimento, imprevedibile, della coscienza allorché
tutto un mondo ideale saldamente strutturato è in pericolo di sfaldarsi.
Né si tralasci che altra immagine ben collocabile
in un orizzonte
archetipico, affine a quella del caos, sia pur distinta, è il labirinto, spiccatamente
filtrata da una tradizione mitica di larga portata. Anch’essa
si ritrova evocata nella pagina di Campailla,
all’incipit introduttivo dei
Romanzi: «L’opera di Pirandello è quanto mai vasta, pervasiva, labirintica4
»
Abbiamo voluto accennare al rapporto tra Pirandello e gli archetipi.
Dobbiamo ora aggiungere che limitarsi alla rilevanza d’un gioco
di archetipi può sintetizzare correttamente, in uno schema, pur approssimativamente,
unificante, il complesso dell’opera di Pirandello,
ma ciò a rischio di una semplificazione arbitraria se non si conduce la
ricerca sia sul piano della complessità testuale che presenta sue specifiche
connotazioni sia sul piano di un rapporto degli stessi simboli del
profondo psichico con la dimensione contestuale, sociale e culturale
dell’opera in esame, esigenze alle quali lo studio di Campailla in vario
modo corrisponde. In realtà, attribuire a Pirandello lo status di figlio
del caos, o evocare il topos del labirinto, ci sembrano operazioni significativamente
atte a valorizzare una qualifica di modernità, anzi contemporaneità,
della sua produzione nella misura in cui caos o labirinto
siano figura psichica dell’agitazione convulsa ed eslege nella quale
appare il mondo del tempo, vedi ad esempio la metropoli primonovecentesca,
spazio emblematico di una civiltà nuova e traumatizzante
(una cornice ambientale che già in Baudelaire suscitava quella condizione
di choc che riformulava lo statuto dell’immaginario poetico), ma
soprattutto ci appaiono operazioni atte a stimolare la ricerca di un
nesso portante della totalità pirandelliana entro lo specifico suo livello
di ideologia letteraria e di poetica se è vero che essere figlio del caos
può indicare che gran parte dell’esperienza pirandelliana si rapporta
4 L. Pirandello, I romanzi, le novelle, il teatro, cit., p. 16.
[ 3 ]
pirandello: romanzi, novelle, teatro raccolti in un volume 783
a un distacco, concretamente verificabile, dal naturalismo, un distacco
che non può essere meglio rappresentato che dall’inversione dei legami
deterministici e scientistici regolanti secondo un ordine evenemenziale
razionale e coerente la struttura romanzesca e secondo un paradigma
mimetico realistico la struttura drammaturgica. Non si tralasci
poi che le immagini del caos e del labirinto applicate all’esperienza
di Pirandello hanno certi loro ben evidenti punti di riferimento nell’immaginario
che domina una percezione della società contemporanea
quale si riflette nell’articolo Arte e coscienza d’oggi del 18935, importante
snodo evolutivo della cultura pirandelliana in formazione, dove è
propriamente la figura di un mondo caotico e irrequieto che si impone
visionariamente. Né dimenticherei alcune lettere dell’Agrigentino ai
familiari, coeve a quel tempo di formazione che è documentato da
Arte e coscienza d’oggi come dalla prima redazione di L’esclusa, in particolare
la lettera al padre del 5 novembre 1893 recante l’immagine del
labirinto interposta tra una condizione di spirito personale («Sono
uno smarrito nel labirinto della vita6») e lo spettacolo di una gente
dispersa in tragitti che non conducono a nulla, a riprova di una intuita
défaillance dell’ordine esistenziale, culturale e sociale.
Un punto di raccordo focale ove si incentra gran parte dell’opera
dell’Agrigentino risulta il rapporto con la modernità, interiorizzato
drammaticamente già nella percezione sensibile di quel particolare milieu
che vede l’emergere di una società industriale presso le zolfare della
Sicilia agrigentina, presa di coscienza espressa fra l’altro dalla novella
Il fumo, o nella reazione intellettuale ed emotiva verso la società tecnologica
simboleggiata dall’industria cinematografica quale appare
nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore. Campailla, pur prestando attenzione
ad una caratterizzazione di più impalpabili forme, dei modi,
cioè, e perfino delle nuances dell’immaginario poetico e dell’atmosfera
in cui esso si alimenta, non trascura nel suo diagramma di una storia di
Pirandello il fattore culturale, antropologico, sociologico (giustamente
valorizzata, ad esempio, la questione del rapporto uomo-donna nel
determinato contesto ambientale). Quanto all’Esclusa, il personaggio è
un prototipo sociale, ed è all’interno d’una prospettiva non esclusivamente
intimistica e privata dalla quale è traguardato che si evidenzia
la suspense emotiva e sentimentale in cui l’eroina si dibatte.
5 Grande importanza viene attribuita a questo articolo da Elio Providenti. Cfr.
E. Providenti, Introduzione a L. Pirandello, Lettere della formazione 1889-1898, a
cura di E. Providenti, Roma, Bulzoni, 1996, pp. 16-17.
6 Ivi, p. 156.
[ 4 ]
784 roberto salsano
Funzionali chiavi di entrata in aspetti non marginali di una configurazione
totale dell’opera pirandelliana possono evidenziarsi, nelle
pagine introduttive di Campailla, alla luce di uno scandaglio di modalità
diacroniche e tematiche della invenzione letteraria che rilevino,
dentro l’esperienza letteraria in progress, momenti capitali di transizione
o di svolta o momenti di riesumazione di un passato opportunamente
adattato, o trasfigurato per nuove esigenze. I romanzi appaiono
in buona misura disposti, come il teatro, in una linea evolutiva ma non
si esclude il reiterarsi di certe impostazioni: ad esempio il punto di
vista dell’escluso interessa non solo l’esclusione caratterizzante diremmo
per antonomasia la protagonista del romanzo L’esclusa, ma modi
di essere nella condizione di esclusi anche di successivi protagonisti
quali Mattia Pascal e Serafino Gubbio. Una certa sensibilità culturale
che favorisce l’evidenziazione di siffatto centro di prospettiva (relazionabile,
forse, in qualche modo, all’interesse, coltivato negli anni, dallo
studioso, per certe manifestazioni dell’ebraicità della diaspora), agisce
in Campailla al punto che egli definisce Mattia Pascal come, esemplarmente,
«L’escluso7», identificandolo quasi, dunque, con Marta Ajala
(legato ad essa da un «filo rosso»), con la conseguente deduzione critico-
interpreattiva che noi possiamo sviluppare, data la netta proiezione
dello scrittore nell’un personaggio e nell’altro, circa un rapporto di
contiguità tra autore e creazione artistica. La stessa evoluzione autoriale
pirandelliana
è controbilanciata però da variazioni tutt’altro che
marginali. Il fatto è che l’analisi della narrativa romanzesca non risulta
inquadrata in diagrammi semplicisticamente schematizzati. C’è un
animus della scrittura critico-espositiva di Campailla privilegiante l’affondo
in una temporalità interna della operosità pirandelliana a suo
modo travolgente, lanciata come in corsa verso un obiettivo che non
dà requie. Del resto questo svolgimento appare al critico attuarsi in
parte sotto l’influsso di un destino, destino, voglio dire, d’artista, ciò
che implicitamente contribuisce a conferire una direzione non casuale
ma, come che sia, orientata, alla produzione dell’autore, un titolo ci
sembra, in definitiva, anche questo, di unitarietà. Potremmo osservare,
allora, facendo perno sulla intravista prospettiva destinale, che
l’esposizione critica finisce per avvicinarsi, piuttosto, non ad una descrittiva
o ad una distaccata diagnostica di giudizio, ma ad un racconto
ove Pirandello sia protagonista di un’esperienza letteraria in termini
di avventura. Se rievocassimo la fenomenologia narrativa da Giaco-
7 L. Pirandello, I romanzi, le novelle e il teatro cit., p. 181.
[ 5 ]
pirandello: romanzi, novelle, teatro raccolti in un volume 785
mo Debenedetti messa in luce a proposito di un’epica contrassegnata
dal destino inteso come rapporto tra personaggio e vicenda8 ecco che
un’angolatura della storia di Pirandello all’insegna, oltre che di una
«leggenda dell’artista» pur da Campailla evocata, di un destino da lui
via via realizzato, fornirebbe elementi per un profilo strutturato sul
rapporto tra scrittore come personaggio e vicende le quali, fondamentalmente,
sono vicende ed eventi della sua scrittura.
Convergente proprio con un cliché di destino può risultare l’attenzione
ad alcune mete tracciabili sul percorso pirandelliano e definite
come «soglie», punti di arrivo attraverso i quali possiamo individualizzare
sulla base di un pregresso di formazione valori poetici di novità.
E ci sono delle soglie nel quadro fornito da Campailla
dopo le quali,
come afferma il critico, non si torna indietro (in particolare Sei personaggi
in cerca d’autore, Uno nessuno e centomila, Il Fu Mattia Pascal).
Il momento più significativo, forse, dopo il quale Pirandello non
può tornare indietro, è Il fu Mattia Pascal. Campailla coglie in questo
romanzo un quoziente di senso che potremmo collegare all’idea di un
destino nel senso debedenettiano di destino che si manifesta attraverso
una nekuia, una discesa all’inferno. Senonché questa nekuia, se di
nekuia si tratta, non porta a riveder le stelle. Il protagonista torna a
casa «vittorioso e sconfitto9» da intendersi, evidentemente, vittorioso
che diventa sconfitto allorché può bilanciare il senso della propria avventura
tra l’occasione, ben sfruttata, di fuga liberatoria e di vendetta
verso la famiglia, da una parte, ciò che di assolutamente deficitario,
alla fine, gli rimane in attivo, dall’altra parte. Giusta l’osservazione, a
questo proposito, di un crisma dualistico che connoterebbe dall’interno
Il fu Mattia Pascal, tra prima e dopo o fra tradizione e futuro:
uno spartiacque nella produzione dell’autore, un’autentica visualizzazione
dualistica del rapporto tra passato e futuro, tra un prima e un
dopo, tra naturalismo e avanguardia10.
Ed è un dualismo, quello pirandelliano, interessante altresì lo stereotipo
stesso dello humour nell’oscillazione tra comicità e sentimento
del contrario e di cui un’impronta possiamo individuare nella fittizia
giocosità di Il turno. Bene nota Campailla: «Il turno sembra “gajo, se
8 G. Debenedetti, Personaggi e destino, in Saggi critici, terza serie, Milano, Il
saggiatore, 1959, pp. 139-158.
9 L. Pirandello, I romanzi, le novelle e il teatro cit., p. 184.
10 Ivi, p. 20.
[ 6 ]
786 roberto salsano
non lieto”, a detta dell’autore. Ma è una gaiezza alquanto dubbia11».
Questa gaiezza che può smentire sé stessa mi ricorda la duplicità ispirativa
e tematica della novellistica di Roberto Bracco che divide le sue
scritture nei settori delle smorfie gaie e delle smorfie tristi12. Naturalmente
l’umorismo di Pirandello ben più che quello di Bracco affonda
nella profondità critica di una drammatica e scompositiva
visione di
un certo uomo e di una certa società e la prospettiva dualistica che attraversa
tutta la sua opera trascende ogni tendenza di esteriore letterarietà.
Il “sentimento del contrario” dell’Agrigentino è in grado di realizzare,
si è affermato recentemente, autentiche espressioni di possibilità
del tragico nell’epoca moderna13. Un dualismo drammatico come
nucleo genetico e ritmo fantastico-
rappresentativo coinvolge, è bene
ricordare, il più celebre risultato dell’arte pirandelliana, i Sei personaggi
in cerca d’autore, al punto da informare di sé le stesse didascalie e il loro
sistema enunciativo e relazionale, come ho rilevato in un mio studio14.
La commedia del ’21 è certo il momento più esemplare e decisivo di
tutta la storia pirandelliana. Qui si attraversa un passo memorabile
dell’arte novecentesca nel mentre si decide il destino dello scrittore in
rapporto alla ricerca delle proprie potenzialità. Campailla riesuma la
stratigrafia dei molteplici aspetti dell’opera: dal torbido di una vicenda
psicologica e familiare alla sua proiezione nella leggerezza di creazione
scenico-atistica frequentata dall’onirico e dallo spiritico, alla rivoluzione
tecnica del teatro che diventa metateatro e della poetica che
vede mutati i rapporti tra autore e personaggio. La tragedia greca, remoto
e pur irriducibile ipotesto, la visionarietà spiritica,
la impietosa
messa a nudo della crisi familiare, componenti ideative e strutturali
indicate da Campailla (molto attento, fra l’altro, alla fenomenologia
immaginale derivante dallo stereotipo del «morto redivivo») e dal
cappello introduttivo ai Sei personaggi di Giuseppe Leonelli (che sottolinea
in particolare l’incidenza d’un universo familiare straziante e
conturbante al limite della impraticabilità rappresentativa) dicono come
una svolta irreversibile si verifica ai primi anni venti nell’itinerario
pirandelliano già pervenuto con i romanzi a tappe molto avanzate.
Naturalmente, a proposito dei Sei personaggi in cerca d’autore, ci si
11 Ivi, p. 19.
12 Per questi ed altri aspetti rimando a R. Salsano, Sondaggi critici e percorsi di
lettura in Bracco novelliere, Città di Castello, Edimond, 2002.
13 T. De Matteis, La tragedia contemporanea. Pirandello, Pasolini, Testori, Roma,
Ponte Sisto, 2006.
14 R. Salsano, Pirandello. Scrittura e alterità, Firenze, Franco Cesati, 2005.
[ 7 ]
pirandello: romanzi, novelle, teatro raccolti in un volume 787
può chiedere a quale livello effettivo di profondità sia giunto Pirandello
nella decostruzione del modello del teatro tradizionale e del
paradigma sociale che esso rappresentava. Leonardo Sciascia ha intravisto
taluni limiti circa la capacità pirandelliana di andare al fondo
delle contraddizioni umane e sociali15. Pirandello insomma non sarebbe
all’altezza di Shakespeare ed il suo dramma eluderebbe il tragico
conflitto di una drammaturgia che non si pieghi alla scappatoia del
non rappresentabile, riconfermando la soggezione ad una convenzionalità
operativa che proprio nella non rappresentazione ribadirebbe i
propri limiti borghesi16. D’altra parte è pur vero, dobbiamo ricordare,
che con la pièce del ’21 siamo non poco lontano dagli stereotipi del
dramma borghese, al punto che crolla del tutto un modello tipico della
sua macchina teatrale: la cosiddetta “quarta parete”. E si può anche
osservare, riguardando il paradigma della finzionalità, quanto la
struttura epica del dramma pirandelliano faccia i conti con una realtà
della rappresentazione la quale, tutt’altro che non rappresentata, finisce,
come nota Peter Szondi17 attento alle evoluzioni del rapporto tra
tema e forma nello sviluppo di un nuovo teatro, per far coincidere la
rappresentazione finta con la realtà stessa, ciò che si evince da eventi
reali quali il colpo di rivoltella e la morte della bambina.
Altri livelli discriminanti puntualizzati da Campailla sono da rinvenire
nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore ove si verifica l’incontro
(o meglio l’incontro-scontro) tra lo scrittore e l’Avanguardia che con il
cinema trova una delle sue manifestazioni di punta, e nel romanzo
Uno nessuno e centomila. Né mi sembra cosa marginale che il testo che
più offre, per la lunga elaborazione, il documento di un arco continuativo
di esperienza scrittoria, Uno nessuno e centomila, mostri elementi
possibili di confronto e insieme di differenza rispetto al grande romanzo
situato ancora a ridosso degli esordi, Il fu Mattia Pascal, e ciò
sul filo di un’alternativa tra esperienza, tuttavia negativa, questa volta,
fin dall’origine, di un tentativo euristico di identità, da una parte,
definizione di uno stato esistenziale bloccato da un angosciante nichilismo
relativizzante che percorre, prima del finale, il corso dell’intero
romanzo, dall’altra parte.
Particolarmente significativo, a mio avviso, risulta il possibile col15
L. Sciascia, Pirandello e la Sicilia, Milano, Adelphi, 1996, pp. 132-135.
16 Scrive Sciascia: “I sei portano infatti un conflitto di elementi tragici che
avrebbe dovuto essere necessariamente svolto fino in fondo…” cfr. L. Sciascia,
Pirandello e la Sicilia, cit., p. 135.
17 P. Szondi, Teoria del dramma moderno, Torino, Einaudi, 1962, pp. 107-112.
[ 8 ]
788 roberto salsano
legamento per analogia e differenza tra Il berretto a sonagli ed Enrico IV.
Campailla cita in contiguità Il berretto a sonagli ed Enrico IV. Diciamo
allora che se si può passare dall’uno all’altro si può anche ipotizzare
una, per certi aspetti, persistenza continuativa del fattore grottesco,
caratterizzante in buona parte Il berretto a sonagli, nel suo trasferimento
dal livello basso al livello tragico eroico dell’Enrico IV con una attenuazione
dell’eventuale giudizio, anche se in certa misura innegabilmente
valido, che con la tragedia dell’imperatore ci si trovi già sulla
via dell’astrazione e della metafisica pirandelliste, di quei connotati,
cioè, i quali soprattutto nel prosieguo dell’attività pirandelliana
saranno
notevolmente distanti da un primo Pirandello stimolato da fervidi
umori di concreta polemica storica e ideologica. L’Enrico IV insomma,
pur avendo superato la fase più specificamente realistico-grottesca dei
primi drammi per trascendentalità metafisica di sguardo, non è probabilmente
in una fase talmente esistenzialistica,
eroica, o pirandellista
da prescindere da certo lievito grottesco, umoristico-scompositivo
dei paradigmi umani e sociali della contemporaneità,
se non ribadito
tal quale parzialmente memorizzato e trasfigurato. Indubbiamente si
può dire che è in atto, in Pirandello, la possibilità di traslazioni di certi
motivi da un contesto ad un altro della sua parabola letteraria, riconfermandosi
certa mobilità di variazioni che contrassegnano la fluidità
del suo svolgersi artistico. A sostegno dell’idea che un processo
di commutazioni è tratto distintivo e dinamico di uno scrittore il quale
solo apparentemente ripete sé stesso potremmo ricordare che come
il motivo grottesco si trasferisce con Enrico IV nel contesto tragico, così
il sicilianismo di certa produzione più legata alle origini antropologiche
e sociali del mondo paesano è riadattato per trasferirsi in contesti
ove alla socialità popolaresca si sostituisce il rapporto interpersonale
tipico del ceto borghese.
Un momento, aurorale questo, della carriera pirandelliana, che segna
l’inaugurazione di un nuovo stadio di cultura e autocoscienza, registrabile
come un evento sul piano formativo, è quello del soggiorno
tedesco del giovane laureando nella città di Bonn. La rilevanza di siffatta
esperienza non è solo esteriormente biografica se Campailla si premura
di rilevare che il viaggio in Germania è la messa a fuoco di un
confronto con l’alterità, e ciò nel solco di una dinamica di esodo o di
fuga che caratterizza il vissuto e la sua esemplarità letteraria
nella tradizione
siciliana anteriore e posteriore, vedi situazioni a loro modo analoghe
di Verga, De Roberto, Rosso di San Secondo. La vicenda biografica
in questo caso rientra, con riflessi non certo legati all’episodicità e al
contingente, nel corpo vivo d’un’esperienza totale. Si potrebbe osserva-
[9 ]
pirandello: romanzi, novelle, teatro raccolti in un volume 789
re, in definitiva, che, se un motivo di unità nel ritratto pirandelliano
possiamo formulare mediante il rapporto tra biografia d’autore e scrittura
creativa, si dilunghi su Pirandello, smentendo la teoria che nell’analisi
letteraria espunge la considerazione dell’autore, proprio «l’ombra
lunga dell’autore» per dirla con parole di un saggio di Carla Benedetti
rivolto al ruolo ineliminabile dell’autore nella modernità letteraria18.
In effetti, a parte l’autorialità che appare, magari travisata da schermi
ironici, nell’autocitazionismo affiorante da vari testi pirandelliani, a
parte tutto ciò che di artefatto, è lecito aggiungere, appartiene alla strategia
di Pirandello per farsi riconoscere dal ceto intellettuale contemporaneo
e che può inquinare le stesse proposizioni ufficiali di poetica
connotandole di esteriorità, cioè di quel marchio di opera esterna di
cui ha fatto cenno, come abbiamo sopra ricordato, il Taviani, c’è un’autorialità
a mezzo tra l’esperienza letteraria ed episodi precisamente
circoscritti, materialmente vissuti, fil rouge non certo eludibile in un
sondaggio, in profondità, di Pirandello artista. Una novella come La
Madonnina citata da Campailla riporta direttamente a un vissuto concreto
che ha caratterizzato la formazione pirandelliana sfociata in una
disillusione nei confronti delle pratiche della Chiesa. Già Sciascia, attento
nel rilevare autentici pezzi di autobiografismo, ha illustrato parallelismi
tra cronaca biografia e letteratura, ad esempio collegando un
pezzo di La ragione degli altri a una rievocazione contenuta nella biografia
tracciata dal Nardelli19. E poi, come non tener conto, sulla scia delle
osservazioni di Campailla,
di una situazione biografica quale il rapporto
vissuto con la moglie Antonietta e di tutto il seguito del trauma
psicologico che ne è derivato, per ciò che attiene, talvolta nell’evidenza
quasi di una trasposizione, alla stessa inventiva pirandelliana? C’è poi
un’autorialità
meno diretta, più compromessa con le strutture letterarie,
quella che risulta, voglio dire, dalla proiezione troppo marcata
dell’autore in un alter ego. In quest’ordine di rilievi si mostra ad esempio
la protagonista di L’esclusa come portavoce di pensieri e sentimenti
pirandelliani o si intravede nella Silvia Roncella di Suo marito la controfigura
dello scrittore. Su un altro piano, poi, l’autore viene riscoperto
nello sfondo di tutta una tradizione letteraria alla quale guarda Pirandello
all’interno di uno status familiare che filtra in termini culturali,
storici, di costume, un particolare etos, con una specifica concezione
della vita e della società. Viene allo scoperto, insomma, una collocazio-
18 C. Benedetti, L’ombra lunga dell’autore. Indagine sopra una figura cancellata,
Milano, Feltrinelli, 1999.
19 L. Sciascia, Pirandello e la Sicilia, cit., p. 75.
[ 10 ]
790 roberto salsano
ne pirandelliana su un incrocio con la tradizione letteraria e di costume
siciliani sia per il tramite della famiglia sia per quello della suggestione
operata da autori siciliani, Verga e De Roberto, in particolare, nello
snodo di una genealogia di cui Pirandello più che l’iniziatore è il continuatore
e l’innovatore in termini di aggiornamento e di differenza.
Indubbiamente, come ha rilevato Sciascia, il sicilianismo di Pirandello
riguarda la sicilianità come «modo di essere siciliano», e giustamente
Campailla scevera questa prospettiva di analisi calandola nella temperie
sociale, culturale e antropologica di un milieu in cui è profondamente
radicato l’autore. Infine, parte più qualitativamente adesiva alla facies
interna della scrittura pirandelliana, emerge, come abbiamo rilevato,
un volto di Pirandello affacciato dalle profondità della psiche e riflesso
dalle strutture rappresentative della narrativa e del teatro.
Da ultimo, l’opera pirandelliana, per la sua stessa dinamica costitutiva
tendente alla forma o scena dei suoi contenuti, può ispirare a
Campailla un modo di accostamento ad essa di tipo, si direbbe ricalcando
una sentenza famosa dell’Agrigentino, critico-fantastica. L’insieme
della ricostruzione della personalità e dell’arte pirandelliana
che le introduzioni alla presente edizione ci offrono mostra, del resto,
un affiorante carattere inventivo e stilistico che ravviva l’esposizione,
coniugato pur sempre con l’intenzione critica. In primo luogo si può
delineare, tra scrittura critica e testi analizzati, una trasversalità di motivi
e temi inventivi e di riecheggiamenti di un vissuto. Pensiamo
all’espansione del raggio di esperienze vitali ed artistiche dalla Sicilia
al mondo, tipico di Pirandello e degli scrittori siciliani, ribadito in
Campailla narratore nei passaggi dalla Sicilia, a Roma, al mondo (da
Una Stagione in Sicilia, alla Roma di Domani domani, all’America di Romanzo
americano, alle varie città europee di La divina truffa). Quanto poi
al livello dello stile critico, è da riscontare un particolare linguaggio
che tende spesso a concentrarsi in forme sintetiche e pregnanti, quasi
epigrammatiche, non senza sfumature ossimoriche. Si veda, per fare
solo degli esempi, la temperatura «furiosa e insieme fredda20» che si
può rinvenire in L’esclusa, o, non priva di potere allusivo, tendenzialmente
caricaturale, l’illustrazione del temperamento di Antonio Pentagora,
sempre in L’esclusa, che balza vivo dentro la tonalità di una
«disperazione entusiasta21».
Interessante d’altronde, tale quasi da fare intravedere un’adesione
20 L. Pirandello, I romanzi, le novelle e il teatro, cit., p. 18.
21 Ivi, p. 17.
[ 11 ]
pirandello: romanzi, novelle, teatro raccolti in un volume 791
a Pirandello mediata da proprie istanze critiche ma anche ricreative
talvolta nel segno, perfino, di un’incipiente parodia, la riformulazione,
attuata da Campailla, di certi titoli pirandelliani. Si pensi, ad esempio,
a Sua moglie sostituente Suo marito. A proposito dei Quaderni di Serafino
Gubbio operatore Campailla, alludendo soprattutto al rapporto tra la
Nestoroff e la tigre, arriva a coniare un titolo che è desunto criticamente
da una interpretazione puntuale del testo e insieme è tributario di
un’ascendenza culturale ripescata dentro la tradizione: Storia di una
tigre reale, che sintetizza Storia di una capinera e Tigre reale, ove c’è, si
direbbe, quasi a prefigurare l’imminenza di una definizione umoristica,
certa dinamica di spostamento e concentrazione. Altra volta il titolo
riformulato parodizza, in un tendenziale sbocco intertestuale, un
titolo esterno all’opera. Mi riferisco al titolo generale dell’introduzione
ai Quaderni di Serafino Gubbio operatore: Delitto e finzione, che rievoca
con uno scarto Delitto e castigo di Dostoevskij. Ma i riferimenti a
quest’ultimo riguardo possono ampliarsi: si ricordi un saggio contenuto
in Controcodice dove Campailla, riferendosi al Capuana di Il marchese
di Roccaverdina aveva parlato, inserendo la formula nel titolo del
proprio saggio, di «Delitto e castigo in Sicilia22». Altra volta Campailla
suggerisce un titolo atto a focalizzare la tematica pirandelliana in un
orizzonte di rapporti tra intertestualità e differenziazione. A proposito
della pazzia dominante in Uno nessuno e centomila viene suggerito un
titolo: Mentre sono pazzo a confronto col titolo pirandelliano della novella
Quand’ero matto. Né è superfluo notare che la intitolazione da
Pirandello data alla novellistica: Novelle per un anno dovrebbe corrispondere,
sempre per Campailla, a un titolo quale Novelle per sempre.
Un titolo che ci sembra attribuibile allo scrivere dell’Agrigentino, non
solo per ciò che concerne le novelle, aperto all’illimitato, in un infinito
rincorrere la vita. E certamente siffatto scrivere per sempre, se lo proiettiamo
oltre l’esito mortale dello scrittore, troverà una sua ulteriore
realizzazione ideale nella risposta di quei lettori che da ora in poi, in
virtù di questo Pirandello editorialmente ricompattato, avranno più
agevole possibilità di viaggiare attraverso il suo mondo creativo. Essi
favoriranno così quel destino di immortalità che Pirandello esaltava
nei grandi personaggi dell’arte universale.
Roberto Salsano
(Università degli studi di Roma Tre)
22 S. Campailla, Controcodice, Napoli, ESI, 2001 p. 67.
[ 12 ]
PASQUALE TUSCANO
Tra storia e invenzione:
Il romanzo del casale di Giovanni Sapia*
Written in a lyric-epic style, Sapia’s Romanzo del casale is a sort of
journey of the memory in a world that, though vanished, still belongs
to us. The author describes the Calabria of old, a land on
which nobody looks back with nostalgia, a metaphor of an inhuman
reality which men can shutter only if they defeat resignation
and look for a solution to the most humiliating social injustices.
Che Giovanni Sapia avesse, per dono di natura, la vocazione di
piacevole intrattenitore, di affabile novelliere, non era una novità per
nessuno di noi, suoi amici ed estimatori. Che, però, un giorno ci avesse
fatto la felice sorpresa di consegnarci il resoconto-lirico della sua
vocazione narrativa, farcita da una forte presenza autobiografica, corroborata
da un’esperienza di rara ricchezza e intensità, proiettata dalla
fantasia in un’aria di leggenda, è stata, almeno per me, una sorpresa.
Certo conosciamo bene la sua riservatezza, ma anche la sua caparbietà
di porsi un obbiettivo con la certezza di saperlo raggiungere, di
‘non torcere mai l’occhio da la mèta’, per dirla col Manzoni. Devo confessare,
poi, che qualche assaggio della sua prova narrativa aveva voluto,
generosamente, farmelo fare, e che io non sono stato d’incoraggiamento,
conoscendo le insidie, le difficoltà, i rischi del mestiere difficilissimo
del romanziere, soprattutto oggi che, come accennerò in
seguito, i contenuti e le forme espressive sono agli antipodi della visione
del mondo e della Cultura che impersona un umanista della statura
di Giovanni Sapia. Riconosco di non essere stato un buon profeta.
Sapia il suo romanzo l’ha costruito, con una struttura architettonica di
racconto davvero eccellente, nel rispetto, naturalmente, del modello
* T esto della presentazione tenuta presso la Sala del Dottorato dell’Università
degli Studi di Perugia, il 4 ottobre 2010, per l’Associazione Culturale Amici della
Calabria e dell’Umbria, presieduta dal dott. Pietro Abbritti, consigliere presso la
Suprema Corte di Cassazione.
Il romanzo del casale di Giovanni Sapia 793
letterario classico, che certo non andrà a genio al palato della fitta
schiera dei romanzieri ‘novissimi’, che si appellano ‘avanguardie’, e
che, tenuti a battesimo dai loro colleghi in televisione, riempiono le
edicole delle stazioni ferroviarie.
La struttura è quella classica del ‘viaggio’. Si apre con l’arioso capitolo
Il casale, e si chiude con uno, dal titolo, non casuale, Il ritorno, che
stringe in forte unità lo svolgersi, ora lento, ora tumultuoso e convulso,
degli eventi di questo viaggio avventuroso della memoria, in un
mondo che ci appartiene, e che non solo non c’è più, ma non ha quasi
lasciato traccia di sé.
Umanista-pensatore di non comune sensibilità, tra classicismo, tradizione
culturale mediterranea e apertura, certo non pacifica, a una
moderna, ma sana, sensibilità, Giovanni Sapia, con la parola scritta, e
una mai intermessa attività di dinamico operatore culturale, vive, soffre
e testimonia, l’ansia di ricerca di una saggezza antica, dei valori,
oggi vituperati, di un passato che, con tutte le sue contraddizioni, ci
appartiene. Lo fa con ammirevole onestà intellettuale, sdegnoso della
vana prosopopea dei tanti laudatores temporis acti, cogliendone i profumi
e gl’insegnamenti, ma evidenziandone fermamente anche i guasti,
quelle ‘favole antiche’, che, nel bene e nel male, nella gioia e nel dolore,
nella fatica o nell’ozio stupido, autenticano la nostra identità di
uomini, di meridionali in particolare.
Mi pare che vadano colti entro tale prospettiva, non soltanto i più
risentiti momenti d’indimenticabili trasalimenti dell’animo, bensì anche
i temi chiave della sua visione del mondo calata nella elegante
prosa del romanzo. Penso ai temi della fatica, della fame, della solitudine,
della guerra, della morte, sola fedele alla memoria di luoghi, di
eventi, di cose, e che tutte le comprende e le illumina.
* * *
Il ‘romanzo’1 di Sapia non nasce, mi pare, come ‘storia’ di una città
ideale. Il suo ‘casale’, questo piccolo gruppo di case rurali circondato
da proprietà agricole, non è, né vuol essere, una nuova Città del Sole.
È una ‘comunità’ – ma nemmeno questo è termine appropriato – di
braccianti, di ‘iornatari’, di raccoglitrici di olive, in sostanza di poveri
cristi. La visione dello scrittore, dentro la quale si legge, in filigrana,
una saggezza antica, è, tuttavia, amara, cupa, dolente. Non c’è posto,
1 G. Sapia, Il romanzo del casale, Napoli, Tullio Pironti Editore, 2009.
[ 2 ]
794 PASQUALE TUSCANO
non diciamo per il ‘riso’, leopardianamente inteso, ma nemmeno per
il ‘sorriso’ affabile e cordiale. Le lacrime, i lutti, le frustrazioni, le rivalse,
i dispetti, le invidie, le gelosie, fanno l’‘identikit’ del casale. Che è
frutto anche, naturalmente, dell’immaginazione dello scrittore, se dà
al racconto la qualifica di ‘romanzo’, ma è parte indiscutibile di una
realtà che, se non è del tutto tramontata, è oggi presente solo marginalmente,
sulla fine della quale, come scrive Corrado Alvaro, nel secondo
paragrafo del racconto Gente in Aspromonte, che dà il titolo
all’omonima raccolta, «non c’è da piangere, ma bisogna trarre, chi ci è
nato, il maggior numero di memorie».
La struttura sociale del casale di Sapia è semplice. Le classi che vi
abitano, e vi operano, intrise di odio-amore, sono, sostanzialmente,
due: i nullatenenti, sfruttati, umiliati, derisi (braccianti, ‘iornatari’, raccoglitrici
di olive, artigiani geniali ma indigenti, servi, ecc.), e un ceto
di modesti benestanti, di preti, di burocrati, di succhioni. Un sottoproletariato
straccione e rassegnato e i signorotti terrieri che vivono di
rendita, ignoranti e parassiti.
Dentro tale cornice, Sapia costruisce il suo mondo fantastico, al
quale, con la parola ornata e la fervente immaginazione, dà sangue e
linfa a una realtà umana e paesaggistica di rara capacità emotiva, tramata
più di sdegni e di ripulse, che di piena, umana solidarietà.
Il casale ripropone un’immagine della Calabria che fu, che nessuno
– almeno me lo auguro – rimpiange e, quel che più conta, si fa metafora
di una realtà disumana, inquietante, negazione dei più elementari
valori umani e cristiani, che si può vincere soltanto sconfiggendo la
rassegnazione, il lasciar fare e accontentarsi, lottando per la soluzione
delle più macroscopiche e avvilenti ingiustizie sociali.
In questo senso, il romanzo di Sapia non appartiene più, o non
soltanto, ai calabresi e ai meridionali, ma ai lettori di ogni paese dove
quei principi, umani e cristiani, non solo stentano a farsi strada, ma,
con scandalose pubblicità, anche a livelli alti, continuano la miserabile,
programmata vocazione all’umiliazione, allo sfruttamento, all’insensatezza
delle guerre, offerte nell’ipocrita dimensione di portatrici
di democrazia e di libertà. Ne è illuminante il capitolo 10, il cuore del
romanzo – i capitoli che lo compongono sono venti –, che s’intitola La
campana di San Michele. Dopo aver ascoltato le notizie sulle amare vicende
della guerra alla radio di Micuzzo il barbiere, i commenti «alimentavano
l’allarme e la paura»:
‘Loro, la guerra, l’accendono e se la guardano da lontano, a noi disgraziati
tocca farla’.
[ 3 ]
Il romanzo del casale di Giovanni Sapia 795
‘Che volevi? L’hanno sempre fatta i poveri e i deboli; gli altri trovano
come scansarla, e se ci vanno, sanno come uscirne sani’ (p. 115).
Espressione che ritorna ne L’abito dello sposo, a commento dello
«spettro della guerra» che «era entrato dovunque nel casale e vi abitava
ogni giorno più tristo»:
Dicevano: la guerra la fanno i poveri e i deboli, come della precedente,
la guerra ‘grande’, narravano i vecchi, quelli che avevano avuto la fortuna
di tornarne (p. 154).
* * *
Questo di Sapia appartiene a quel genere fortunato di romanzi che
il Manzoni definisce «misti di storia e d’invenzione». Anche per ciò, a
mio parere, è destinato a due categorie di lettori: a quelli della mia
generazione, che rivisitano una realtà concretamente vissuta e sofferta,
tuttora bruciante, capace di suscitare emozioni forti, espressa com’è
con una scrittura appassionata e sanguigna insieme, che non indugia
a patetismi, classicamente ferma e composta (penso ai capitoli riguardanti
gli eventi tragici della dittatura fascista e della seconda guerra
mondiale – come il XVI, Donna Maria –); e agli altri lettori, a quelli
delle generazioni seguenti, che guardano a quella realtà increduli, trasognati
e stupiti. Sono coloro che lo leggeranno, appunto, come ‘romanzo
d’invenzione’ di eventi incredibilmente amari, che solo una
fervente fantasia poteva reinventare e raccontare.
Nel sottofondo del romanzo c’è l’avventura dell’anima che ripercorre,
ora con refrigerio spirituale, ora con rabbia, memorie che devono
servire sì di legittima fierezza per esserne stati partecipi, ma soprattutto
di monito al lettore che se li ritrova nella loro nuda e cruda
verità.
* * *
Il romanzo non presenta protagonisti privilegiati. È popolato da
una umanità che, nella diversità e, spesso, nella contrapposizione,
esprime una sorprendente coralità. I personaggi positivi e quelli negativi,
i vincitori e i vinti, sono le facce della stessa medaglia. Tale coralità
è manifesta già nel preludio del capitolo d’apertura:
Il casale giaceva a mezzo della costa che dalla piana ionica s’arrampica,
tra molli ondulamenti di oliveti e vigne e anfratti selvaggi, fino a
[ 4 ]
796 PASQUALE TUSCANO
incontrare i contrafforti selvosi della Sila greca; alto sulla distesa di
verde e d’oro, guardava al mare come vi si specchiasse e ad occidente
alla corona degradante del Pollino, sotto la quale i paesi biancheggiavano
sparsi, netti talora che pareva toccarli, e la notte brillavano come
seminati smeraldi fino alle ultime luci di Roseto (p. 7).
I nomi degli attori sono sempre accompagnati dal soprannome,
com’è di una tradizione ancestrale, tuttora presente. Nei paesi rurali,
il cognome non serve, disorienta. È etichetta da stato civile. È nel soprannome
che si registra l’intrinseca qualità umana della persona, legata
alla propria discendenza, al proprio lignaggio: Giovanni ’e Maratona;
Pasquale ’u zingaru; Giosuelino ’e Giosué; Peppe ’e ’Ntoni; Giovanni
’e Moschetto; Ciminiera; Saverio ’u mericanu; Giovanni ’e Pipi;
Tonino Malanima; Gennaro ’e Santo; mastro Ferretto; Giuseppe ’e Calamo;
Micuzzo Varranca; Carmine Pisciona; Giovanni ’u litamaru; Maria ’a
lorda; Tommaso ’u galante, ecc.
Nell’atmosfera corale, trovano un momento privilegiato le zuffe:
‘Correte, don Ferdinando! Quelli si ammazzano!’
Non frappose attimo e fu, così com’era, in calzoni a mezza gamba,
nello spiazzo, dove in un groviglio indistinto, alcuni se le davano di
santa ragione e altri s’affannavano invano a sedarli, mentre altri ancora
guardavano alla larga e le donne urlavano dallo spavento sulle porte
[…] (p. 75).
Ci sono le feste religiose, in perfetta consonanza con quelle descritte
da Alvaro, da Perri, da Seminara; il silenzio fatto persona, di accattivante
memoria leopardiana:
Giosuelino, a mano a mano si abituò alla compagnia del silenzio. Il silenzio
era come un grande corpo disteso, grande quanto il piano, con i
suoi polmoni immani, che respiravano con le immagini del suo mondo:
il casale, il bosco, la scuola […]. Era, quel silenzio, di pasta lieve, da
potersi prendere con le mani, tagliare come la sfoglia di farina che la
mamma ammassava nei giorni di festa, e nei mesi più assolati s’impastava
dell’eco, che veniva d’ogni lontananza, delle cicale impazzite, o
sonava ogni tanto, all’improvviso, del campanaccio di un carro lento
sugli sparsi tratturi e per buona parte dell’anno degli spari dei fucili da
caccia (p. 21).
Era un pomeriggio festivo di fine novembre, tiepido e assolato dopo
giorni freddi e scuri, e i casalini consumavano a occhi aperti quell’ora
blanda di riposo, le donne sedute sulle soglie, gli uomini, quelli che
non avevano pensieri anche nei giorni di festa, a oziare sulla strada,
[ 5 ]
Il romanzo del casale di Giovanni Sapia 797
celiando tra loro, scambiando una parola con un passante e aspettando
l’ora alla cantina (p. 124).
Lo scrittore assegna un posto di riguardo alla sensualità, resa eros
gentile e maliardo:
[A Gesuelino] se gli avveniva d’incontrare lo sguardo di Carmela, ne
raccoglieva nelle carni il cupido ardore, fasciandola a sua volta con gli
occhi e quasi percorrendola con le mani e ammassandola come la pasta
sul tagliere, fermandosi anche nella parte più nascosta di lei (p. 23).
La ragazza era soda e bella e già florida di promesse ai primi assaggi
(p. 76).
L’ultimo nato riceveva la poppata dal seno della madre, poi passava
nelle braccia di lei, che lo cullava, lo chetava, lo sorvegliava durante il
sonno. Le avveniva talora di guardare con occhio bieco a quel seno
turgido e flottante e sentire il proprio dilatarsi e aprirsi come sorgente
(p. 99).
Maria, ormai trentenne, era ancora quella bellezza contadina, prosperosa
e soda, che si era annunziata nell’adolescenza, quando non c’era
giovane voglioso che le passasse accanto senza sentirsela nel sangue
(p. 175).
Sapia coglie con delicata e malinconica accuratezza i rituali del matrimonio
dei casalini, dalla tradizione del ‘corredo’ alla fuga d’amore,
dai sogni delle madri povere al beatificante abbandono della ragazza
rassegnata a un matrimonio impostole, al matrimonio per procura.
Il ‘corredo:
Teresa espose sul letto, nella mattinata, sotto gli occhi della parentela,
il corredo a ventiquattro, di tela fine, contando i capi a mano a mano
che li estraeva dal baule lucido di ulivo, e la suocera adornò Carmela,
dopo il pranzo, com’era d’uso, del parato di splendenti granatina, acquistato
con l’impiego dei pochi risparmi (p. 42).
[Espose][…], il corredo a ventiquattro, che la madre aveva pazientemente
composto per lei come per le sorelle e attendeva invano di passare
nel baule intonso e lustro in una nuova casa (p. 95).
La fuga d’amore:
Ma i giorni continuarono a scorrere eguali. Allora decisero il gesto
estremo, quello che, in simili casi, persuade, a evitare l’onta, i genitori
renitenti […]. Lei […] aprì, furtiva, la porta in una notte flagellata dalla
[ 6 ]
798 PASQUALE TUSCANO
pioggia e dal vento e con lui corse per il sentiero di montagna fino alla
casa del nonno materno (p. 41).
Le madri povere che, per le figlie, sognano, freudianamente, il matrimonio
di ‘convenienza’ come sicurezza economica per gli anni avvenire:
‘Quello, figlia mia, è un altro mondo: lavoro per tutti, il denaro fiocca,
mangi, ti vesti e ti diverti. Tu vai in un palazzo, sei servita, hai vestiti e
gioielli come le signore. Che cerchi di più? Col tempo aiuti anche noi
poveretti, pensi alle tue sorelle, e, se vuoi, te le chiami con te (p. 106).
La rivalsa, in un abbandono beatificante, della ragazza costretta a
un matrimonio non desiderato che si concede, prima della cerimonia,
al ragazzo di cui era innamorata:
Marietta […] lo guardò, com’egli l’aveva guardata la prima volta, con
luce intensa, ed egli si conturbò, ma colse il messaggio e la seguì cauto,
a distanza, com’essa aveva fatto, fino alla grotta. La trovò pronta, come
in offerta, con i lembi della veste nelle mani aperte in croce. Non gli era
accaduto mai di tremare, come ora sentiva, davanti a un corpo di donna,
ma essa gli diceva:
‘Vieni, non avere paura’.
Si avvolse a lei come a cosa preziosa e fragile, con la tenerezza della
prima volta, quando gli aveva sussurrato:
‘L’onore no!’
Ma ora lo traeva a sé con le unghie nella carne, aggredendo le sue resistenze,
e gli ansimava sul viso:
‘Tutto! Non avere paura!’
Ed egli la colse con amore e sgomento, come chi stringe un fiore in
bocca e sente l’amaro dello stelo (p. 112).
L’intero racconto Il matrimonio per procura, per immaginazione e
per stile, si chiude, così, esemplarmente, con l’eleganza e la delicatezza
di un Boccaccio calabrese.
* * *
Con l’occhio e l’attenzione dell’esperto antropologo, Sapia racconta
il rito cruento della macellazione del maiale:
Era, tra le circostanze di festa familiare, l’uccisione del maiale. La festa
raccoglieva intorno alla bestia le famiglie legate da più stretti vincoli,
con le donne affaccendate ad allestire l’acqua e gli strumenti e gli uo-
[ 7 ]
Il romanzo del casale di Giovanni Sapia 799
mini a dividersi i compiti intorno al padrone di casa, al quale toccava
vibrare il colpo; poi la tavolata, nitida del miglior parato di famiglia,
con i posti per gli uomini e le donne a servirli e a consumare in disparte,
alla buona, le ricercatezze consacrate: i grossi maccheroni sacramentali,
quelli delle feste di nozze, col ragù del capocollo e della pancetta
affogati nella conserva di casa, il bollito con i cavoli più teneri
dell’orto, lo spezzatino d’interiora piccante e quante cose l’agiatezza
consentiva e la povertà inventava per un rigurgito di dignità (p. 13).
E ancora:
Quando Gennaro bussò a casa di Saverio, già nello spiazzo retrostante
i due porci pendevano scannati e appesi per gli stinchi e Giovanni e
Luigi si sbracciavano a ripulirli delle setole a furia di lama di coltello,
mentre le donne versavano di mano in mano sulle parti l’acqua bollente
per rendere docile il pelame (p. 50).
Descrizioni che richiamano alla memoria la quartina del sonetto
Paesi che Corrado Govoni comprese nelle Poesie elettriche (1919), dedicato
all’evocazione della vita paesana fresca e favolosa:
Ammazzano un maiale nella neve
tra un gruppo di bambini affascinati
dal sangue, che con gli occhi spalancati
aspettan la crudele agonia breve.
(Poesie elettriche: Paesi, vv. 5-8).
Così, con un cenno di sorriso quasi riservato, Sapia racconta puntualmente
le fissazioni del ‘malocchio’; della ‘maledizione di Dio’; della
‘malasorte’ nei matrimoni; delle magie. Tutte ossessioni che trovano
le radici nelle avvilenti condizioni socio-economiche e, forse più,
nell’ignoranza e nella superstizione. A mastro Ferretto, dopo anni di
attesa, era nato un bambino morto:
‘Dove succedono queste cose, diceva mio padre, c’è la maledizione di
Dio […]. La maledizione è nella carne e dorme; ogni tanto si risveglia
e fa di questi sconquassi […]. Lasciate fare a Dio: forse è meglio così’
(p. 68).
Recò con sé alcuni indumenti di Mariangela. La maga li manovrò a
lungo, accompagnando i gesti della mano con l’incomprensibile cantilena
delle sue formule, in mezzo a una teoria di candeloni annosi, che
accendeva e spegneva ripetutamente, per spegnere l’invidia e il livore
nel cuore della mala gente, poi prescrisse l’abitino con sette cose, da
portare appeso al collo contro il malocchio (p. 99).
[ 8 ]
800 PASQUALE TUSCANO
La madre di Maria, per salvaguardare la figlia dalla gente “invidiosa e
maligna”, “si segnava tre volte, e tre volte – ‘pu! pu! pu!’ – faceva l’atto
di sputare per terra, e il gesto – ‘sciù! sciù!, sciù!’ – di cacciare il malocchio
fuori della soglia (p. 106).
Teresa schiacciava le lacrime per non farle vedere e alternava agli scongiuri
contro il malocchio la supplica alla Madonna (p. 166).
Fa rivivere, con dovizia di particolari, e una scrittura che esprime
vivo compiacimento, le arti e i mestieri sui quali si reggeva l’economia,
e la storia sociale e culturale, del casale, più delle stesse proprietà terriere,
odiate testimoni di un feudalesimo destinato al definitivo tramonto,
del quale lo scrittore offre la poetica testimonianza nel pìcaro
Giosuelino, fraterno, per qualche verso, di Lazzarillo des Tormes. Ecco
come si svolgeva la vita reale del casale tramite gli antichi mestieri:
Mastro Ferretto […] il maniscalco del casale, conosceva a uno a uno i
suoi clienti, che erano i venti asini stanziali, oltre a due muli che servivano,
in proprio e a nolo, per i lavori della trebbiatura e per le macine
del frantoio, e li ferrava con cura orgogliosa, contendendo con la natura
(p. 57).
Don Peppe, il mercante, transitava settimanalmente per il casale e sapeva,
fidato com’era, i segreti di tutte le famiglie (p. 62).
Compare Gennarino, sensale di matrimoni, aveva l’arte di contentare
ogni attesa e dipanare ogni matassa (p. 91).
Mastro Gaetano il socialista, miscredente e mangiapreti, sbuffava tra
una forata di lesina e un colpo di martello (p. 117).
Mastro Giuseppe era per tutti il calzolaio di casa, che, quando faceva le
scarpe nuove, misurava il piede con la meticolosità del farmacista, e
non v’era in tutta la contrada chi non ricorresse a lui per toppe o risuolature
o per una rinnovata di bollette, che egli distribuiva con l’armonia
di una bella architettura (p. 149).
Mastro Battista, sarto raffinato e istruito, nella borgata contadina ci
stava come nella sua sede naturale, continuando il mestiere del padre
(p. 156).
Tale atmosfera di vivace laboriosità è turbata dalla presenza di preti
e di suore non sempre in obbedienza con la loro missione, come nei
capitoli La promessa e La donna del prete.
Un episodio, reso memorabile dallo scrittore per il significato profondo
degli esiti conseguiti, è quello del prete progressista «bello e
[ 9 ]
Il romanzo del casale di Giovanni Sapia 801
forte, ma sempre triste»(p. 77), mandato, dal suo lontano Piemonte,
esule al casale dal suo vescovo per aver messo incinta una suora, e il
signorotto locale, ipocrita e succhione. Al prete che, durante l’omelia,
predicava la necessità della giustizia, testimone com’era di tanta povertà,
un disperato povero, Carmine Pisciona, che, «in dieci anni di
matrimonio, per il rispetto del sacramento, aveva infilato sette figli»
(p. 78), il prete rispose, seguendo il magistero del Cristo, ma, da persona
colta, echeggiando anche l’ammonimento espresso da Dante nella
Monarchia (I, xi) «Mundus optime dispositus est cum iustitia in eo
potissima est». (Il mondo è disposto ottimamente quando in lui la giustizia
è potentissima):
“Mi chiedi dov’è la giustizia. È al di sopra di noi, lontana da noi, nelle
mani di Dio, come la verità, ma noi ci avviciniamo ad essa se tutti hanno
una casa, una veste e un pane. È la carità, l’amore del prossimo il fondamento
della giustizia. Ma ci vogliono nuovi uomini e nuove leggi”.
Don Filiberto, il trentenne signore del feudo, che era miscredente
all’osso, ma per la figura non mancava mai alla messa, si sentiva addosso
la frusta, ma non aveva l’animo di dargli torto (p. 79).
In tale atmosfera si colloca il ‘duello dialettico’ tra il vescovo e il
prete, tra la fredda teologia e la struggente umanità del Vangelo, ampiamente
narrata nel capitolo La promessa. Ma, come la ragione e la
giustizia sono destinate quasi sempre a soccombere, il prete progressista
finisce l’avventura terrena con una morte tragica:
Lo trovarono a capo fitto, in un burroncello, tra pietre e rovi, attraverso
i quali il nero della veste occhieggiava sotto la coltre bianca.
Le donne indossarono il lutto stretto e gli uomini la camicia nera,
com’era d’obbligo per la perdita di un familiare; i giovani si raparono
a zero, ignari di ripetere il gesto d’amore compiuto dai servi e contadini
di Let Marefià per la morte del loro amico e benefattore, l’esploratore
italiano Orazio Antinori (p. 90).
È il caso di ricordare che il marchese Orazio Antinori [Perugia, 1811
– Let-Marefià (Etiopia), 1882], si dedicò all’ornitologia, alla tassidermia,
all’imbalsamazione degli uccelli. Fu un esponente illustre dell’età
aurea della massoneria perugina e nazionale dell’Ottocento risorgimentale,
zoologo e botanico insigne. Appassionato cacciatore, donò
una collezione ornitologica all’Università di Perugia. Filantropo di
non comune umanità e intelligenza, famoso per i suoi viaggi africani,
fu insignito della medaglia d’oro della Società Geografica Italiana. Tra
le numerose opere di scienza, molte delle quali pubblicate in tedesco,
[ 10 ]
802 PASQUALE TUSCANO
ci lasciò uno dei libri di viaggio più affascinanti dell’’800, Viaggio nei
Bogos (1887), luoghi, in quegli anni, considerati parte dell’Abissinia.2
* * *
Suggeriscono un fascino particolare le ‘memorie del cacciatore’,
che occupano uno spazio rilevante nel romanzo, offrendo, tra l’estatico
del racconto e la velata ilarità, oltre allo spaccato della sua psicologia,
spesso smargiassa e divertita, un campionario straordinario delle
presenze di animali cacciabili, campionario che rientra nell’evocazione
malinconica di tempi ormai remoti, non ancora compromessi dal
cosiddetto progresso dell’agricoltura tecnologia e chimica, che ha avvelenato
terra e atmosfera. Ecco, allora, le presenze meravigliose delle
lepri, di piccoli aironi detti ‘urselli’, e La taverna dell’anatra popolata,
secondo la stagione, da tordi, pernici, beccacce, volpi, conigli, palombelle,
croccoloni, anatre. Il capitolo A caccia di tortore, dedicato alla caccia
primaverile, è popolato di tortore, upupe, rigogoli, quaglie, adorni,
cioè i falchi pecchiaioli. Il passo delle anatre suggerisce al cacciatore
visioni che lo mandano in visibilio. Siamo in un inoltrato tramonto
primaverile:
Il cielo, striato di bianco all’estremo orizzonte, filtrava di là le ultime
luci, ma sul pantano s’incupiva sempre più e versava una poggia fine,
che il vento rendeva rabbiosa e pungente […]. Dal fondo nero le anatre
balzarono improvvise come uno sparso miracolo di fiori notturni
(p. 131).
* * *
Pesa, nel racconto di Sapia, l’ombra di un pessimismo irrimediabile,
da tragedia greca. Sarà la sua visione del mondo e della storia. Certo
è che il lettore rimane alquanto turbato. Anche perché lo stesso paesaggio
rimane compreso dall’umor nero dell’io narrante. Si racconta
quanto il potere della fame sia impietoso. Lo dimostra, tra l’altro, la
ressa dei casalini intorno ai due soldati neri americani, appena sbarca-
2 Apparso, in cinque puntate, nel 1887, nel ‘Bollettino della Società Geografica
Italiana’ (Roma), e riunito come volume ‘estratto’ della rivista, lo stesso anno (Roma,
Stab. Tip. G. Civelli), divenuto raro e mai più ristampato, l’ho riedito, in edizione
critica curata da Manlio Bonati, nel 2000, nella collana di ‘Classici Umbri
della Letteratura dalle Origini al Novecento’, diretta da me e da Antonio Carlo
Ponti, per l’editore perugino Fabrizio Fabbri.
[ 11 ]
Il romanzo del casale di Giovanni Sapia 803
ti in Calabria, che distribuiscono cioccolatine e scatolette di carne per
accattivarsi la loro simpatia:
Fu chiaro ancora una volta il potere della fame, perché i casalini, dimentichi
del colore, fecero ressa intorno ai venuti da lontano, chi afferrando
la mano, chi dicendo loro una parola che, anche non compresa,
trovava la sua via, qualche genitore accennando a una carezza come ai
figli non ancora tornati dalla guerra (p. 175).
In tale direzione, gioca un ruolo fondamentale il capitolo IV, La casa
maledetta, il più drammatico della raccolta: domina un’aria cupa, opprimente,
luttuosa e cruenta, come uscita dalla mano di certo Tarchetti,
o di Stecchetti, senza, tuttavia, la loro civetteria letteraria della moda
del romanzo ‘nero’ lievitato dall’umorismo heiniano, ma senza serie
ricerche di lingua e di stile. Al racconto delle disgrazie di mastro
Ferretto, si aggiungono le pagine forti relative alla descrizione del parto
infelice della moglie. Doveva nascere il terzo figlio, ardentemente
desiderato, quasi a riparare la nascita di due femminucce. Venne al
mondo una ‘maledizione di Dio’:
Quello non era un corpo di neonato, ma uno straccetto di corpo, con le
braccine e le gambette distorte e cadenti, e dietro, quasi al punto medio
della colonna, come una grande piaga, quasi un foro che la divideva in
due. Ma sul quel povero ammasso di stracci la testina era di linee perfette
e il viso bello come quello dei putti della chiesa (pp. 66-67).
Destino ancora più crudele, quando mastro Ferretto si recò al cimitero
per portargli un fiore e collocarlo in una cappella dignitosa, ma
del bimbo malnato non trovò più traccia. La terra del cimitero l’aveva
dissolto. Della piccola bara non si trovò neppure una scaglia di legno.
Evento probabilmente anche realmente accaduto. Tuttavia, nell’ambito
della narrazione, assume la metafora della famiglia che si disfà sotto
il peso demoniaco delle malattie del secolo, che la miseria certamente
acuiva (‘polmonite acuta’, ‘meningite’, ‘turbecolosi miliare acuta’,
ecc.), ma, soprattutto, posseduti dalla fame dell’oro, dal diritto alla
ricchezza a qualunque costo, dall’egomania e dall’egoismo, dallo scadimento
di valori come il rispetto, la solidarietà, la cultura.
Nel racconto, che copre un arco di tempo che va dagli albori del
Novecento ai giorni nostri, si evidenzia come non ci sia soluzione di
continuità nel vichiano succedersi di corsi e ricorsi storici, che certo
non dispongono alla speranza, quando che sia, di un tempo in cui la
libertà dal bisogno, il senso dell’onestà, del rispetto, che oggi si privilegiano
come ‘dottrina’, possano diventare effettiva realtà. Alla satira
[ 12 ]
804 PASQUALE TUSCANO
sardonica delle adunate fasciste, lo scrittore non sa nascondere la rabbia,
caduta la dittatura, per il presente neghittoso e vile. Un giudice,
ragionando con l’avvocato Liberti, vittima di ruberie e di vendette,
rimaste sempre impunite, dice sdegnato:
Mezzo secolo di libertà è stato più che sufficiente per fare bordello della
democrazia e mettere sotto scacco la giustizia […]. Oggi la libertà
concede al figlio del mafioso o dello spacciatore di droga di essere incondizionatamente
agente dell’ordine o collaboratore scolastico o professore
o direttore d’ospedale (p. 228).
A una nobiltà terriera in irreversibile tramonto, succede una nuova,
nel senso classico del termine, più arrogante e rozza, cresciuta e pasciuta
col denaro. È la facile profezia di donna Ernestina. In un’aria
crepuscolare da Vill’Amarena, senza la leggerezza dell’ironia gozzaniana,
esprime una profonda tristezza per una stagione che tramonta
e per una che s’impone per arroganza e per una sempre più allarmante
disumanità:
“Brutti tempi, amiche mie! Vuol dire che ci saranno nuovi ricchi e una
nuova nobiltà, sangue sporco, ma stracarico di soldini […].
Senza dire che oggi si affaccia una povertà molto più vasta e pericolosa,
che non è solo mancanza di pane” (p. 195).
Alla vita agra del racconto, danno un senso di desiderata leggerezza
i numerosi aforismi, messaggeri di verità antiche e universali. Ne
ricordo qualcuno:
Chi bussa col piede è sempre gradito (p. 52).
Se bussi alla porta col piede, ti viene aperto più presto (p. 62).
Col bicchiere e un buon piatto ognuno si libera da impacci e si mostra
per quello che è (p. 94).
Il male cammina più veloce del bene e fa più presto a essere creduto (p.
97).
I figli non sono di chi li fa, che ci vuol poco, ma di chi li cresce e dà loro
attimo per attimo anima e sangue (p. 100).
* * *
Un’ultima considerazione sulla lingua e sullo stile della pagina di
Sapia. Le levigatezza e l’innervatura della parola del dotto umanista
[ 13 ]
Il romanzo del casale di Giovanni Sapia 805
di ascendenza carducciana e, quindi, dalle inaspettate venature toscaneggianti
(«Il professore […] gli chiese: “Caro ammazzatore di croccoloni!
E dove hai trovato codesta manna?”»; «consumarono il bicchiere
e cianciarono di fucili e d’anatre e di cani», pp. 127 e 130), con echi
manzoniani originalmente filtrati («Queste e di simil genere erano le
voci della gente vicina», p. 205), l’impiego di un vocabolario elegantemente
aulico («brivido lene», «complice voluttà», «sonava», «non avvezza
», «i veroni ricchi di garofani», «novellando», ecc.) in tempi di
esibizionismi, anche linguistici, tanto assurdi quanto culturalmente
corrivi, non favoriscono certamente la lettura del Romanzo del casale.
Non è facile farsi largo in un momento di preoccupante imbarbarimento
della nostra lingua parlata e, in eguale misura, di quella scritta.
Non appartengono alla cognizione della cultura di Sapia, e di chi vi
parla, le espressioni rozze e volgari, ormai stucchevoli, ma che fanno
tanto moda, proponendo, fino alla nausea, un codice linguistico che
ha toccato – complice, se non protagonista –, la televisione, il fondo
del grottesco. Penso ad espressioni tra cervellotiche e demenziali, come
recepisce il discorso, una cosa megagalattica, fare la quadra, soggetto attenzionato,
grosso modo s’è capito, utilizzatore finale, ecc., tutte discendenti
povere dall’espressione che ne fa la storia, cioè le famigerate convergenze
parallele di memoria morotea. Dal tono alto, elegante e severo, da
Dante a Leopardi, a Carducci, qualche volta anche abusato per civetteria
letteraria, siamo scaduti in un registro stomachevole di diminuitivi
pallidi ed esangui, che denotano uno svilimento del carattere individuale
e, di riflesso, sono lo specchio di una società flaccida e malata.
Termini come attimino, aiutino, televisorino, telefonino, messaggino, decretino,
leggina, indultino, ecc., non appartengono alla lingua parlata nei
mercati. Li ascoltiamo, sgomenti, in televisione; li sentiamo nei discorsi
dei politici e dei governanti3, ed è serio il rischio che entrino nel
vocabolario ufficiale, se verranno consolidati da una realtà linguistica
diffusa. Senza accennare all’abuso dei latinismi, nell’illusione di apparire
persone colte, e dei forestierismi, sconcerta, in particolare, l’anglo-
3 Mi limito a indicare qualche espressione del politichese, che vorrebbe essere
orfica, ma è insensata e greve, a partire dalle famigerate ‘convergenze parallele’:
‘recepisce il discorso’; ‘una cosa megagalattica’; ‘quando mi inquadrate?’; ‘soggetto
attenzionato’; ‘grosso modo s’è capito’; ‘utilizzatore finale’, ‘abbiamo trovato la
quadra’, ‘la finanza creativa’, ‘la scrittura creativa’, ecc. Ed evito, per decenza, il
profluvio di termini del vocabolario più osceno, resi tali perché sempre impiegati
fuori luogo, fuori tempo, quasi con una voluttà incaricata di dare forza e prestigio
al discorso.
[ 14 ]
806 PASQUALE TUSCANO
mania, l’uso dell’itangliano, così sapientemente, e amaramente, caricaturizzato
dal nostro Michele Pane in quel capolavoro che è il poemetto
Lu calavrise ’ngrisatu, per cui la lingua ‘del bel paese dove ’l sì
sona’ (If., XXXIII, 81), è divenuta quella dove imperversa l’okey. Con
Dante, padre della nostra lingua, dobbiamo condannare severamente
coloro che la rifiutano o la caricaturizzano: «a perpetuale infamia e
depressione de li malvagi uomini d’Italia, che commendano lo volgare
altrui e lo loro proprio dispregiano» (Convivio, I, 11).
* * *
A partire dagli anni Trenta del Novecento, la narrativa calabrese ha
dato un apporto considerevole a quella nazionale, anche sul piano del
rinnovamento linguistico. Ma si è trattato quasi sempre di risposte,
anche positive, alle mode letterarie del momento, cioè di romanzi a
tesi, dal momento del realismo magico o lirico, a quello del neorealismo,
del decadentismo tardo dannunziano, del romanzo di denuncia
dei mali che corrodono impietosamente la società moderna. Penso ai
contributi, anche eccellenti, in tale direzione, di Alvaro, di Perri, di La
Cava, di Répaci, di Seminara, di Strati. Nessuno, tuttavia, ci ha dato
l’affresco compiuto di un’epoca, nella quale si ritrovino, e si riconoscano,
indiscutibilmente, l’io narrante – autore del romanzo – e intere generazioni,
in un racconto non soggetto ad alcuna tesi o ad alcuna moda,
che scorra liscio come l’olio, senza operare alcuno strappo a quella
temperie della nostra straordinaria pagina, diciamolo pure, di ‘civiltà
agro-pastorale’, dalla quale, avendone fatto parte, siamo usciti ‘in più
spirabil aere’, senza, tuttavia, aver saputo conservare gelosamente quel
senso della misura, del rispetto, della generosità, che nemmeno la povertà,
la fame, l’orrore delle guerre e della dittatura fascista, avevano
saputo appannare. Né ci si è ancora del tutto resi consapevoli del tragico
impoverimento che ha comportato l’aver spazzato via la cognizione
esistenziale e l’impiego pratico dell’intelligenza della vita rurale.
Sapia, col dono della sua saggezza e della sua parola ornata, piegata
magistralmente ora all’ironia, ora alla rabbia, ora alla dolcezza degli
eventi gradevoli, ci ha saputo consegnare quell’epoca nella sua realtà
di paesaggi e di anime, assicurandone la memoria, in tempi di sempre
più diffusa smemoratezza, anche alle generazioni future. Di questo
dono gli siano particolarmente grati.
Pasquale Tuscano
(Università degli Studi di Perugia)
[ 15 ]
Italo Michele Battafarano, Antonio
Castronuovo (a cura di), Il
lavoro come professione nella Piazza
universale di Tomaso Garzoni, Bologna,
Bononia University Press, 2009,
pp. 206.
L’opera è costituita da dodici saggi
che offrono un’agile, ma densa esplorazione
di un testo che non smette di
attrarre e di sollevare sempre nuove
questioni, e anzi questa silloge sembra
inserirsi in un momento particolarmente
propizio per una riflessione
su un tema come il lavoro, da Garzoni
eletto a vero e proprio segno distintivo
di tutta un’idea di umanità e
di società. A più di quattro secoli dalla
pubblicazione de La piazza universale
di tutte le professioni del mondo
(1585), si resta sorpresi dalla sua capacità
di sollecitare il dibattito contemporaneo,
come ben emerge dai
diversi contributi con cui ciascun autore
esamina una particolare sezione
del testo garzoniano, inserendosi in
una più ampia e generale cornice che
la Premessa dei due curatori mette
chiaramente in luce. Il titolo della
raccolta è di per sé emblematico dell’approccio
adottato nei confronti dell’opera
garzoniana, la quale, pur essendo
stata scritta da un esponente
del clero, rifiuta di concepire il lavoro
come «missione» o come «condanna
», concetti di derivazione teologica,
nonché di risolverlo in una sbrigativa
opposizione tra negotium e
otium, propendendo invece per una
visione a più ampio spettro, che, «senza
esprimere giudizi di valore sui diversi
tipi di lavoro, tutti essendo degni
della sua [di Garzoni] attenzione
», delinea l’immagine, molto rinascimentale,
di «una realtà sociale integrata,
nella quale ogni professione
è dipendente dalle altre e contribuisce
con tutte le altre al progresso della
comunità» (p. 7). Si potrebbe aggiungere
che ciascuna professionalità
rappresenta un valore in sé per la
piazza universale che, in quanto universale,
non può configurarsi come
tale se non dispone della competente
e coscienziosa cooperazione di ogni
suo membro o gruppo professionale.
Il lavoro, dunque, viene affrancato
da qualsiasi ipoteca metafisica, per
assurgere a condizione imprescindibile
per una civile convivenza nel
mondo di quaggiù. Il merito di ciascun
individuo viene pertanto misurato
in base al suo concreto impegno
nella vita quotidiana, alla serietà con
cui svolge la sua attività, alla capacità
di non gravare sulla società, di es-
Recensioni
808 recensioni
serne, anzi, in maggiore o minore
misura, componente essenziale. Quello
di Garzoni sul mondo del lavoro è
davvero uno sguardo a tutto tondo,
scevro da preclusioni di sorta e pronto
a cogliere anche i dettagli più minuti
delle varie professioni, tanto da
dar luogo a «uno dei repertori lessicografici
più ricchi della nostra lingua
» (Paolo Cherchi, p. 23). Il primo
pregio dei saggi contenuti in questa
silloge risiede proprio nel sottolineare,
fin dai titoli, la vastità della materia
presa in esame dal canonico di
Bagnacavallo, il quale ci offre un panorama
altamente significativo della
realtà come pure di certe aspirazioni
del suo tempo. Dalle professioni culinarie
(Italo Michele Battafarano)
alla milizia (Hildegard Eilert), dagli
editori e stampatori (Stephan Füssel)
ai maestri del convincimento (Volker
Kapp), dalle professioni dell’occulto
(Elmar Locher) a quelle artistiche
(Volker Meid) e del cuoio (Andrea
Pagani), le attività umane passate in
rassegna da Garzoni sono davvero le
più disparate, secondo un coerente
disegno enciclopedico che si spinge
fino a includere «meretrici e puttanieri
» (Walter Pretolani), «sfaticati»
(Antonio Castronuovo) e «oziosi» (Elide
Casali), in un contesto nel quale
«lavorativo» e «festivo» si compenetrano
e si riflettono funzionalmente
(Vera Di Natale).
Come si legge nel saggio di Cherchi
(che inserisce la Piazza all’interno
di un più ampio discorso sulla biografia
intellettuale di Garzoni), per
ciascuna delle attività prese in considerazione
si esaminano, sistematicamente,
origini, strumenti e persone,
in una trattazione nella quale passato
e presente, mito e storia, concretezza
tecnica e astrazione teologica
contribuiscono insieme a fornire un
retroterra e una dimensione consistenti
alle diverse declinazioni dell’operosità
umana. In questo senso
non sorprende se un saggio come
quello di Battafarano (emblematico
di una situazione riscontrabile più o
meno in tutti i contributi della raccolta),
dedicato alle professioni culinarie,
si dispieghi in considerazioni e
riflessioni che vanno ben al di là
dell’argomento specifico e che ben
sottolineano la modernità dell’opera
garzoniana – «è il primo trattato di
un autore dell’età moderna che abbia
intuito che cosa ci sia dietro ogni professione
o mestiere, dal più umile al
più prestigioso, prima di ogni asserzione
moralistica: la produzione di
merci o di servizi in cambio di denaro»
(p. 36) –, ma anche la sua carica utopica,
tracciando come fa l’immagine
di una città ideale – ancorché saldamente
ancorata sulla terra – dove
«nessuno è disoccupato, nessuno
soffre la fame, nessuno è affetto da
pestilenze o martoriato dalla guerra,
purché abbia un lavoro, lo svolga con
impegno e venda i suoi prodotti o
servizi ad un prezzo corrispondente,
senza inganno e senza mistificazione
» (pp. 36-37).
Alla base del corretto funzionamento
della Piazza sta insomma un
forte senso della responsabilità individuale;
il mestiere delle armi, ad
esempio, può senz’altro generare disordini
e disastri, ma viene riabilitato
nel momento in cui gli si riconosce il
ruolo di «difesa della comunità e il
mantenimento dell’ordine a favore
dei ceti laboriosi e delle classi che
producono beni e servizi» (Eilert, p.
96). Gli stessi cultori del «mestiere di
Michelazzo», pur biasimati per la loro
inerte oziosità – rea addirittura di
recensioni 809
corrompere la dignitas hominis e di
sfigurare l’armonia dell’universo
creato (Casali, p. 60) –, in qualità di
«consumatori non-produttivi» possono
risultare «paradossalmente utili
alla macchina sociale» (Castronuovo,
p. 74). La piazza è un sistema complesso,
che va analizzato a vari livelli
per essere compreso nella sua interezza.
Un livello è certamente quello
linguistico, senza il quale cesserebbe
la comunicazione fra gli individui e
verrebbe a cadere qualsiasi ipotesi di
società, per cui «tutti coloro che si occupano
del linguaggio lavorano per
il bene comune, per giovare alla città
» (Kapp, p. 120). Altrettanto si può
dire per l’invenzione della stampa,
che Garzoni interpreta come «fattore
trainante nella trasmissione del sapere
e […] fondamento di tutte le scienze
e della conoscenza» (Füssel, p.
108), tanto più se si considera che la
sua stessa opera è il frutto di un colossale
e certosino lavoro di citazione,
se non di vero e proprio plagio,
come era usuale in epoca tardo-cinquecentesca.
Nondimeno, un ampio spazio è
dedicato ai settori della magia e della
divinazione, che offrono a Garzoni
l’occasione di mettere in campo il
suo bagaglio di erudizione storicoteologico-
filosofica, ma anche di discutere
concretamente in merito alla
reale efficacia di figure e sistemi di
interpretazione del futuro, questione
che Elmar Locher riprende per interrogare
la presunta onnipotenza della
scienza moderna. Nei discorsi dedicati
alle arti emerge, invece, l’umana
parzialità di un autore che, da enciclopedista
tutt’altro che neutrale
qual è, elogia al massimo grado la
musica e denigra senza pietà la danza,
assumendo un atteggiamento più
sfumato riguardo al teatro; in ogni
caso, sottolinea Volker Meid, la sostanziale
legittimazione delle professioni
artistiche denota un atteggiamento
che distingue Garzoni dalla
coeva ostilità manifestata, soprattutto
dalla Chiesa, verso di esse. Interessante
è poi il quadro che emerge a
proposito dei laboratori del cuoio e
delle pelli, alla cui nobilitazione concorre
il fatto che questi «non si limitano
soltanto a sede di mere lavorazioni
artigianali ma diventano luoghi
di sperimentazioni chimiche e di attività
mistiche, veri e propri centri di
dibattito filosofico e religioso» (Pagani,
p. 165).
Il saggio finale di Walter Pretolani
evidenzia una contraddizione all’interno
del testo garzoniano che, da un
lato, testimonia dell’umoralità di un
uomo non privo di particolari inclinazioni
e idiosincrasie, dall’altro
mette ancora più in risalto l’equanimità
con cui egli si approccia alle attività
e ai mestieri umani nella loro
interezza, giudicati solo in base alla
professionalità con cui vengono esercitati.
Un discorso che, appunto, non
vale solo per le meretrici che, pur essendo
proverbialmente esponenti
del mestiere più antico del mondo,
vengono condannate senz’appello e
considerate molto genericamente come
una calamità per la regolata comunità
tratteggiata dal canonico di
Bagnacavallo. Una peregrina nota di
intolleranza che possiamo perdonare
a chi, come scrive Vera Di Natale, ha
il merito di configurare «la “piazza
universale” […] come luogo di transito
e di scambio di differenti specificità
(lavorative e culturali)», ma anche
di riflettervi «un progetto politico,
religioso, sociale e civile che si
andava realizzando in quegli anni, e
810 recensioni
che aveva a modello le teorizzazioni
espresse da Machiavelli e dal machiavellismo
» (p. 79). Un merito non
da poco, in un’epoca nella quale andavano
prevalendo chiusure e contrapposizioni.
Non molto diversamente
da ciò che accade oggi sotto i
nostri occhi e che ci fa leggere
nell’opera di Garzoni un solido richiamo
all’apertura verso l’altro e
alla valorizzazione delle diverse capacità
e competenze di ciascuno.
Vito Carrassi
Girolamo Cicala, Carmina, Lecce,
Argo, 2011, pp. 560.
Già esperto conoscitore della letteratura
del Seicento in area salentina
col fortunato e poderoso volume Geminae
voces, Marco Leone presenta
ora una edizione dei Carmina di Girolamo
Cicala. Lo stampatore del libro
era il Micheli, presso il quale fu
licenziata la seconda edizione del
Tancredi di Ascanio Grandi. Ma il Micheli
era anche lo stampatore del Cicala,
di cui aveva pubblicato alcune
plaquette latine, nelle quali si celebrava
il poema del conterraneo Grandi,
e sempre il Micheli ripubblicherà postumi
i Carmina del poeta salentino
nel 1649. Tutti questi componimenti
furono poi racchiusi nella stampa del
’49, insieme a una raccolta di rime
del poeta Antonio Bruni. Sono testi
caratterizzati da una nota celebrativa
e volta a solennizzare le istituzioni
politiche, militari, civili e religiose
del tempo, entro un rapporto tra poeta
nobiliare e letterati nel secolo
XVI.
Né mancarono componimenti elogiativi
nei confronti del Cicala, come
quelli di Pietro Angelo De Magistris,
Francesco Cardani, racchiusi in una
raccolta allestita da Giulio Cesare
Grandi, fratello di Ascanio. Girolamo
Cicala appariva l’elemento di raccordo
tra i due più importanti circoli letterari
salentini (Antonio Grandi, Diego
Personé). La personalità del Cicala
presentava un punto di riferimento
essenziale nel panorama salentino,
sia per la sua capacità di promuovere
progetti culturali, sia per i risvolti
della sua vita giudiziaria e cronachistica.
Il barone rientrava nella casistica
dei signorotti locali, coniugando
armi e lettere. Discendente, tra l’altro,
da una nobile famiglia genovese, trapiantata
a Lecce, espletò dei soggiorni
presso Napoli e Roma, documentati
nei suoi Carmina. La data dell’imprimatur
dei Carmina è il 1645, nei
quali egli effettua una contaminazione
tra lingua parlata e lingua poetica
latina. L’intento dell’opera,
evidentemente
celebrativo, come risulta dalle
tematiche confessionali e religiose, si
innesta su un filone classicheggiante,
che richiama alcune auctoritates della
quattro-cinquecentesca lirica in latino.
Inoltre la collaborazione tra Cicala
e Personé produsse esiti significativi
in campo musicale con un gruppo
di madrigali della tradizione gesualdiana,
mentre gli esiti del petrarchismo
con l’accentuazione della malattia
d’amore sono espressione di una
lacerazione dell’esperienza
amorosa.
Tra i temi si segnalano la descrizione
del paesaggio, le differenti tipologie
del vasto repertorio femminile petrarchesco,
mentre tra i modelli principali
abbiamo Catullo, Orazio, Ovidio.
Il Cicala si pone sulla scia di una
tradizione elegiaca meridionale, e
particolarmente di quella napoletana,
con le Elegie
di Bernardino Rota,
recensioni 811
di Pontano, del Sannazaro. «Se l’uso
del latino», sostiene Marco Leone assume
«implicito risvolto celebrativo»
(p. 36), il Cicala rianima i modelli di
uno spirito nuovo, accompagnando
il tema elegiaco con la poesia del lutto
domestico e coniugale, e con lo
spaccato di una civiltà violenta e lacerata.
Una sezione importante dei
Carmina è Clytia, riservata alla traduzione
di ventiquattro sonetti celebri
della letteratura italiana, oltre che a
versioni di ottave del Furioso, della
Liberata e del Tancredi, mentre tra i
metri usati figura anche il sonetto, legittimato
da una codificazione retorico-
normativa.
Il poderoso volume di Marco Leone,
oltre a una ricca Introduzione tematico-
esplicativa, si avvale di una
corposa nota al testo e fornisce il volgarizzamento
in italiano dei testi latini.
I testi sono commentati e annotati
in appendice, con l’indicazione delle
fonti e argomentazioni storico-erudite,
entro un esercizio filologico del
testo assai bene documentato e articolato.
Non resta che augurarsi che
ulteriori tasselli della poesia latina
seicentesca vengano alla luce, nella
serietà dell’impianto, che rivela la
traduzione analitica dei testi condotta
da Marco Leone, entro un impianto
filologico- esegetico.
Valeria Giannantonio
Catalogo della Biblioteca Leopardi in Recanati
(1847-1899). Nuova edizione a
cura di Andrea Campana. Prefazione
di Emilio Pasquini, Firenze, Olschki,
MMXI, pp. VII+316.
Con raro scrupolo nella collazione
del manoscritto originale che l’aveva
generato, viene riedito, a cura di Andrea
Campana, il prezioso Catalogo
della Biblioteca Leopardi in Recanati.
Ispiratore di questa meritoria impresa
è uno studioso e un filologo del
valore
di Emilio Pasquini, al quale si
deve anche un’illuminante Prefazione.
Non si tratta di un’opera bibliografica
condotta ex novo, eventualmente
con collaboratori operanti in
gruppo (un’ipotesi tutt’altro che praticabile
e comunque poco utile, per
una serie di ragioni che nelle pagine
introduttive il curatore spiega bene),
ma di una rinnovata, quanto mai necessaria
edizione di un’opera già apparsa
nel 1899 negli «Atti e Memorie
della Reale Deputazione di Storia Patria
per le province delle Marche»:
una pubblicazione dovuta alla mano
di un archivista, Enrico De Paoli, che
trascrisse per la stampa il manoscritto
intitolato Catalogo Alfabetico della
Biblioteca Leopardi in Recanati, approntato,
per mano di Pier Francesco
Leopardi
(per i famigliari, Pietro o
Pietruccio), coadiuvato da altri, tra il
7 giugno 1847 e il 4 novembre 1848,
conservato ora all’Archivio di Stato
di Roma (BIBLIOTECA MS, 304)
consistente di ben 299 carte. Come
garantiva Pier Francesco nella sua
lettera del 28 ottobre 1848 al Cardinale
Camerlengo di Roma, che è uno
dei cinque documenti allegati al suddetto
manoscritto del Catalogo (insieme
ad altri, ora riprodotto in Appendice
nel volume che in questa sede
si esamina), si tratterebbe né più né
meno di «tutti i Libri che compongono
la Biblioteca di mia Famiglia […]
in coerenza ad altri Indici precedentemente
fatti della medesima […]».
Questo manoscritto fotografava di
fatto quella che era stata prima la libreria
e poi, dal 1812, anno in cui il
812 recensioni
patrimonio librario ammontava già a
ben dodicimila volumi e in cui avvenne
l’apertura al pubblico, la biblioteca
di un valorosissimo bibliofilo
come il conte Monaldo Leopardi,
anche se non poco via via incrementata
con frequenti richieste di ulteriori
acquisti da parte dei figli, a cominciare
ovviamente da Giacomo: un
quadro, dunque, che comprende pure
i volumi liberamente accessibili al
poeta sin dalla sua adolescenza: «[…]
non credo siavene uno solo a lui sconosciuto
[…]», notava Monaldo con
un certo orgoglio in una lettera del 17
gennaio 1815 a Carlo Antici. E la frequentazione
di Giacomo con una così
dotata biblioteca andrà avanti con
gli anni, almeno fino al 1830, ultimo
della sua permanenza a Recanati; e,
naturalmente, i volumi contenutivi
vanno tenuti presenti e confrontati
pure con i cosiddetti Elenchi delle letture
(anni 1823-1830).
Dopo il 1830 l’incremento del fondo
librario della famiglia del poeta
verrà influenzato soprattutto da Paolina
Leopardi, molto appassionata
di romanzi inglesi e francesi. Ma per
restare al Catalogo, si deve dire che a
monte di questo processo di catalogazione
libraria vanno certamente
considerati i già menzionati tre diversi
indici, tutti manoscritti per mano
di Monaldo, naturalmente, ma
anche da Giacomo e dagli altri figli.
Solo di uno, però, l’Index Bibliothecae
Gentis Leopardae de Recaneto, che consta
di quattro tomi, dei quali ha ampiamente
trattato Francesco Moroncini
in un suo studio di anni lontani1,
si può affermare che, avviato nel
1803 (lettera di Monaldo a Carlo Antici
del 4 ottobre), nel 1813 può considerarsi,
secondo una testimonianza
epistolare di Natanaele Fucili, canonico
della Cattedrale di Recanati,
«se non compito, almeno molto
avanzato» (l’anno precedente, del
resto, Monaldo aveva cooptato quasi
certamente nell’impresa anche un
esperto archivista e bibliografo come
il canonico Joseph Anton Vogel,
all’epoca esule proveniente dall’Alsazia).
E pure particolare considerazione,
sempre
nella preistoria del
Catalogo, merita la “memoria” scritta
da Monaldo, datata 19 dicembre
1822, intitolata Della formazione e accrescimento
di questa biblioteca. Commentario,
che opportunamente Campana
ripropone come primo di altri
cinque importanti documenti nell’Appendice
che segue il suo saggio introduttivo
(si veda alle pp. 40-43): uno
scritto che conferma la vocazione del
conte bibliofilo, il quale, del resto,
anche grazie a qualificati intermediarî,
già ben prima della Restaurazione,
e in modo particolare nel 1798
e nel 1810 – rileva Campana (p. 9) –,
«quando Napoleone
soppresse, in
due riprese, gli ordini religiosi, i conventi,
le confraternite, dove giacevano
fondi librari cospicui e di qualità
altissima […]», si procurò enormi
quantità di volumi. E sempre di Monaldo
vanno pure ricordate le sue
visite alle fiere marchigiane di Senigallia
e Recanati; e non è un caso –
mi sia concesso di integrare l’esposizione
del curatore – che nella biblioteca
Leopardi si trovino anche volumi
di traduzioni in lingua italiana di
testi europei fondamentali apparsi
nella vicine Ancona o Macerata, come
le opere di Hugh Blair e di Ed-
1 Francesco Moroncini, Biblioteca
recanatese, in Id., Studi sul Leopardi filologo,
Napoli, Morano, 1891, pp. 307-320.
recensioni 813
mund Burke, apparse rispettivamente
nel 1803 e nel 18042.
La funzione del Catalogo resta in
ogni caso centrale per gli studî leopardiani
perché costituisce un insostituibile
dato di verifica che affianca
necessariamente il lavoro dei critici e
degli esegeti. Se, per esempio, si scoprono
nei più diversi testi del poeta
sorprendenti e inconfutabili riprese o
veri e proprî calchi stilistici e sintattici
da autori antichi, come i greci o i
latini, o in traduzione da autori moderni
di opere possedute nella biblioteca
di famiglia negli anni coincidenti
con le rispettive fasi elaborative,
i risultati di valutazione critica e
filologica potrebbero trovare conferme
importanti.
Come s’è accennato, l’opportunità
e la convenienza di procurarsi fondi
librarî preziosi vennero meno con
l’età della Restaurazione allorché entrano
in scena attivi librai e stampatori,
a cominciare dal veneziano Antonio
Fortunato Stella, trapiantato in
quel vivo centro di attività intellettuali
ed editoriali che fu la Milano postnapoleonica,
sulla quale resta tuttora
valido lo studio di Marino Berengo3.
Tenendo anche conto di contributi
precedenti più o meno recenti (tra
cui quelli della Incarbone Giornetti,
della Moroni, della Landi e della Benucci),
il curatore della nuova edizione
del Catalogo tratteggia bene i rapporti
proficui e interessanti intercorsi,
almeno fino al 1818, tra lo Stella e
il conte Monaldo, al quale però i volumi
ordinati non sempre arrivavano,
come mostra per esempio il sequestro
da parte della censura pontificia
di opere come Du Congrès de
Vienne e Mémoires historiques di Dominique
de Pradt Dufour, mai più
riconsegnatigli.
Molti ulteriori dettagli si apprendono
dalle pagine introduttive del
curatore, utilizzabili, volendo, anche
come prezioso frammento della biografia
del poeta, il quale è «molto
ambiguo nel parlare per lettera della
biblioteca monaldesca» e per di più,
come mostra la lunga missiva a
Giordani del 30 aprile 1817, denuncia
il completo insuccesso dell’iniziativa,
ufficialmente avvenuta nel
1812, s’è detto, di aprire al pubblico
la biblioteca medesima, da lui comunque
giudicata del tutto insufficiente
non si dica a colmare, ma almeno
ad attenuare il vuoto di vita e
di ricerca culturale nella Recanati
del suo tempo.
Sia il Catalogo del 1899 sia il suo antecedente
del 1848, osserva il curatore
(p. 37), non sono mappe certe e
definitive, ma fotografia di una determinata
situazione storica. È un lavoro
consegnato alle vicende culturali
di un tempo irripetibile. Nel costituirne
una nuova edizione, non si
può toccare, o correggere, o integrare
un solo lemma senza dover poi correggere
tutti gli altri. Il curatore ha
inteso con estrema diligenza solo riportare
in circolazione una testimonianza
indispensabile per gli studiosi
del poeta, i quali, dopo aver verificato
la presenza di una data opera nella
biblioteca di casa Leopardi, dovran-
2 Sui molteplici innesti eseguiti da
Leopardi dalle prime traduzioni italiane
da Blair, oltre che da Burke, mi sia
concesso rinviare al mio Lo scrittoio di
Leopardi. Processi compositivi e formazione
di topoi, Napoli, Liguori (“Critica e
letteratura”), 2011, pp. 188.
3 M. Berengo, Intellettuali e librai nella
Milano della Restaurazione, Torino, Einaudi,
1980.
814 recensioni
no sempre e comunque materialmente
consultarla direttamente prima di
citarla. Ma d’altra parte non v’è nessuno,
credo, tra gli studiosi che avrebbero
preteso una cosa diversa: rendere
il Catalogo della Biblioteca Leopardi
finalmente accessibile a tutti indistintamente,
senza più difficoltà alcuna.
Giuseppe A. Camerino
Aniello Montano, I testimoni del
tempo. Filosofia e vita civile a Napoli tra
Settecento e Novecento, Napoli, Bibliopolis,
2010, pp. 502.
Nei dodici saggi raccolti in questo
volume Aniello Montano prende ad
oggetto della sua attenzione critica la
filosofia e la vita civile napoletana
dal Settecento e Novecento. Così nel
titolo. Ma in effetti è tutto il Meridione
d’Italia che si fa presente attraverso
i suoi «testimoni del tempo». Testimoni,
peraltro, non tutti napoletani
e neppure tutti campani, ma che –
vissuti a Napoli, sia pure per periodi
limitati della loro esistenza – hanno
espresso nella loro vita e nel loro lavoro
intellettuale una qualche forma
di “appartenenza” all’ambiente culturale
locale.
Da Giambattista Vico, Gaetano Filangieri,
Antonio Genovesi, da Francesco
De Sanctis e Benedetto Croce,
fino a Giuseppe Capograssi, Antonio
Aliotta, Michele Federico Sciacca, Napoli
fu “sentita”, per dirla con le stesse
parole di Montano, «quasi come un
luogo dello spirito». Pur distinguendosi
per personali percorsi di pensiero,
essi sono accomunati da un impercettibile
«minimo comune denominatore
teorico». Talvolta fortemente distanti,
se non decisamente divergenti
tra loro, essi condividono la stessa
esigenza: sottrarsi alle tentazioni del
mero intellettualismo. Respingono
infatti l’idea di una filosofia intesa come
sistema rigido di deduzioni formali.
Ripugna alla loro intelligenza
una teoresi che spieghi la vivente realtà
con pure astrazioni concettuali.
Certo, il panorama dei «testimoni»,
a rigore, non si chiude con quelli individuati
e indicati dall’autore. Testimoni
del tempo sono anche tanti altri
uomini di cultura che hanno manifestato
la loro genialità in campi diversi
da quello specificamente speculativo.
La naturale apertura della città alla
novità, alla varietà e alla diversità
consentiva a tutti gli uomini d’ingegno
di svolgere persino una loro parte
sulla sua scena culturale. Non per
nulla “quella” città – culturalmente
ricca e preziosa, stimolante non solo
per i sensi, ma anche per l’intelligenza
– ha attirato in ogni tempo l’attenzione
e soprattutto l’interesse appassionato
anche di tanti “intellettuali
viaggiatori”, italiani e stranieri.
A Montano, tra i tanti altri, vanno
riconosciuti subito alcuni importanti
meriti, che vanno ben al di là di quelli
guadagnati, ora, con questo lavoro.
Mi riferisco anzitutto all’ampiezza
del campo d’indagine del suo personale
itinerario di studioso. E poi al
rigore metodologico impostosi nell’esercizio
della ricerca storica; mi riferisco
all’osservanza rispettosa di
quello specifico statuto disciplinare
che individua la “storia della filosofia”
e la distingue dalle altre branche
del sapere filosofico. Niente a che vedere
dunque con le arroganti approssimazioni
metodologiche ed ermeneutiche
di certi apprendisti stregoni.
Errori può commetterne chiunque.
Sviste, interpretazioni inautentiche o
recensioni 815
precipitazioni di giudizio stanno
sempre in agguato nel processo della
ricerca umanistica. Ma tutto il percorso
intellettuale di Aniello Montano,
scandito da volumi e saggi in
ogni campo, epoca e settore del pensiero
filosofico, costituiscono l’accredito
remoto anche alla serietà di
quest’ultima sua fatica, in cui, appunto,
è possibile trovare il sedimentato
di analisi, letture, approfondimenti
di un’intera vita di studi. La
sua capacità di muoversi con destrezza
e competenza in ogni settore della
storia del pensiero costituiscono una
solida garanzia di attendibilità per
l’argomentazione adottata
– ad esempio
– nel saggio Il «fascino insidioso»
di Spinoza, o in quello che reca il titolo
Il comico come deformazione del reale
nella critica di Francesco De Sanctis.
Naturalmente è impossibile dare
un resoconto adeguato dei temi e dei
pregi di questi saggi. Mi sarebbe piaciuto
mostrare quanta filosofia antica
affiora da questi studi, e segnalare
quanto la ricostruzione storico-filosofica
di Montano si sia giovata della
metodologia storiografica da lui adottata
nei suoi precedenti studi di filosofia
greco-classica. Insomma mi sarebbe
piaciuto mostrare il lascito che il
Montano ha raccolto dal suo maestro,
Giuseppe Martano, uno dei due dedicatari
ideali del volume. Ma il discorso
diventerebbe fin troppo tecnico.
Mi soffermerò invece su tre saggi
che per motivi diversi hanno catturato
la mia attenzione.
In «Le Accademie private e la libera
ricerca a Napoli in età moderna» Montano
fa una ricostruzione – attenta, ricca,
rigorosa – della storia delle istituzioni
di ricerca scientifica e di attività
formativa che hanno visto la luce nel
nostro Sud, e in particolare nella città
di Napoli. Il saggio però non è solo
una miniera di preziose informazioni.
Esso costituisce un’accurata ricognizione
dell’evoluzione – sul piano
tematico e su quello metodologico –
della libera ricerca. E rende ragione
dell’eccellenza della formazione culturale
di tanti personaggi, alcuni più
noti altri meno, che in qualche modo
hanno lasciato il segno nella storia civile
del nostro Meridione. È insomma
una testimonianza di come, in ogni
tempo, l’apertura intellettuale, anzitutto
alle sollecitazioni provenienti
da ogni parte d’Europa, sia stata sempre
considerata, qui, un valore prezioso.
È l’attestazione, storicamente
fondata, di come a Napoli, nel campo
della ricerca scientifica, le istituzioni
private non solo abbiano mantenuto
il passo con omologhe istituzioni
pubbliche, ma addirittura, talvolta,
abbiano lanciato nel circuito culturale
idee e temi che hanno anticipato
felici sviluppi verificatisi poi nelle
istituzioni scientifiche pubbliche.
Molto opportunamente l’autore ha
posto ad epigrafe di questo suo lungo
saggio un bel passo dell’Autobiografia
di Giambattista Vico. Qui il filosofo
parla del «bellissimo frutto»
che «rendono alle città le luminose
accademie», quelle accademie capaci
di infiammare l’animo dei giovani –
così aperto alla fiducia e alla speranza
–, e capaci di stimolarli «a studiare
per la via della lode e della gloria». E
a sua volta Montano ricorda che a
Napoli, «comunemente considerata
città filosofica per eccellenza», spesso
«il culto e la pratica della filosofia» si
sono sviluppati «nel segno di un’originale
e perdurante vocazione di carattere
civile». Sicché, facendo seguito
a quanto Benedetto Croce espresse
per esaltare l’importanza e il valore
816 recensioni
delle Accademie nel Settecento, e al
tempo stesso evidenziando l’importanza
del magistero esercitato in quel
periodo da intellettuali “napoletani”
quali Ferdinando Galiani, Gaetano
Filangieri, Antonio Genovesi, giustamente
Montano rileva che «a promuovere
una svolta vera nella vita
economica e culturale del Regno» fu
proprio «un gruppo di intellettuali,
attivo al di fuori delle istituzioni ufficiali
e riunito intorno ad un maestro in
una sorta di accademia privata, animata
dall’entusiasmo e dal disinteresse
della pura passione civile
».
Quanto poi alle tesi sostenute nel
saggio «Benedetto Croce: … io, lettore
amoroso di De Sanctis» mi piace ricordare
anzitutto l’elogio che ne ha fatto
Sossio Giametta, uomo di queste nostre
terre e studioso, eccellente quanto
appassionato, di Benedetto Croce.
Nel primo capitolo del suo libro Eterodossie
crociane Giametta dice: «Finora
si sapeva di Benedetto Croce
che era un neoidealista e che aveva,
come suoi numi tutelari, Hegel, Vico
e De Sanctis. Ma a guardar bene le
cose, come fa Aniello Montano, viene
fuori che i tre maestri di Croce
erano in realtà uno solo: Francesco
De Sanctis». È De Sanctis il pilastro
su cui poggia la costruzione crociana.
È De Sanctis che ha “passato” a
Croce sia Vico che Hegel. È De Sanctis
che ha suggerito a Croce come
andava interpretato Hegel. Giametta
insomma riconosce a Montano il merito
d’aver indicato che l’insofferenza
di Croce verso Hegel aveva come
un unico ispiratore quel fine intellettuale
che, in una Lettera a Camillo
De Meis, era esploso in una singolare
quanto significativa esclamazione:
«Sono stanco dell’assoluto, dell’ontologia
e dell’a priori. Hegel mi ha
fatto un gran bene, ma insieme un
gran male. Mi ha seccato l’anima». E
infatti Montano evidenzia che Croce
ha accolto il pensiero di Hegel proprio
quando su Hegel cadevano «le
critiche dirompenti» del suo maestro
De Sanctis; e che l’amorevole lettura
crociana dei testi desanctisiani ha
aiutato lo stesso Croce a emanciparsi
dalla «servitù» all’hegelismo e a sviluppare
quella che poi Croce indica
come la «eversione dell’hegelismo».
Il terzo saggio da segnalare è «Croce
lettore di Giordano Bruno». Alla conclusione
di questo suo scritto, in una
serratissima sintesi, Montano segnala
che Croce considera Bruno soprattutto
come uomo «di carattere» e
«martire»; che lo elogia per aver rivendicato
l’autonomia del sapere filosofico
da tutti gli altri saperi; che lo
stima come voce autorevole capace
di mantenere viva la lezione civile e
politica del Rinascimento italiano.
Ma aggiunge pure che Croce, del
Bruno, ha letto sistematicamente i testi
solo nell’occasione della pubblicazione
delle “Opere italiane” da parte
di Gentile; che non a caso, quindi, del
Nolano ha trattato soprattutto in
scritti redatti nel biennio 1907-1908; e
che dalla lettura di quei testi ha apprezzato
fondamentalmente quanto
egli stesso, Croce, pensava potesse
servirgli per confermare e sostenere
alcune sue posizioni teoriche, o per
sollecitare ricerche erudite o per sostenere
qualche filosofica polemica:
«In tutti gli scritti di Croce – dice
Montano – Bruno sembra chiamato
in causa e utilizzato quasi sempre in
funzione polemica contro avversari
diretti di Croce stesso».
In verità con questa sintesi Montano
non rende giusto merito al suo
lavoro, a quanto egli stesso ha articorecensioni
817
latamente argomentato nel suo saggio.
Egli infatti mette bene in luce
che, anche a proposito dello studio e
dell’interpretazione del pensiero del
Nolano, il Croce ebbe a sua guida De
Sanctis, da cui accoglie l’idea che
Giordano Bruno, come Giambattista
Vico, «rappresenta l’avvio di un nuovo
corso nella storia della cultura». E
infatti Croce dice di Bruno e Vico che
sono «menti sublimi, liberissimi spiriti
», e veri innovatori sul piano civile
e politico. Sicché per Croce anche il
filosofo nolano va annoverato nel
piccolo gruppo dei «pochi e sparsi e
smarriti apostoli dell’avvenire». Croce
è esplicito: Bruno non solo è il
pensatore che segna «una cesura netta
tra filosofia medievale e filosofia rinascimentale
», ma, al pari di Tommaso
Campanella, incarna la figura
dell’«individuo morale»; è dunque
l’icona di un eroe del pensiero, di un
pensatore la cui filosofia fa tutt’uno
con la propria esistenza, e che è capace
di difendere anche a costo della
vita quelle sue idee che egli stesso
vedeva come anticipatrici di un’epoca
nuova, di una civiltà diversa, dagli
orizzonti più vasti.
Addirittura Croce, accogliendo le
indicazioni di De Sanctis, evidenzia
che Giordano Bruno fu «testimone e
attore di un’esigenza dello spirito
universale» e insieme interprete di un
bisogno diffuso di un salto verso il futuro;
fu insomma «anticipatore e fonte
generativa delle future conquiste
della modernità». E fu tutto questo
con quella sua filosofia sempre in stato
di fermentazione, sempre tesa spasmodicamente
a cogliere l’unità del
tutto nella distinzione. Lo fu con quella
sua filosofia che aveva colto subito
la necessità di una netta distinzione
tra sapere speculativo e sapere tecnico-
scientifico, e tra ambito filosofico e
ambito religioso. Lo fu con quella sua
prosa caratterizzata da «le virtù e i vizi
della barbarie», con quella scrittura
bizzarra che risultò ostica anche al
Carducci, piena com’era di napolitanismi
e di spagnolismi, ma che riusciva,
con le sue espressioni dense e calde,
ad «esprimere il rapimento e
l’esaltazione eroica del pensiero».
Sicché Montano, a sua volta apprezzato
studioso del pensiero del
Nolano, parlando di come Bruno intendesse
le “altre” filosofie, sulla
scorta di Croce asserisce con decisione
che l’approccio di Bruno alla verità
teoretica è di grande modernità.
Non solo Bruno «non la ritiene una
mera costruzione logica, realizzata
da una razionalità pura e assoluta,
cioè dallo spirito umano preliminarmente
e necessariamente purificato
da tutte le passioni, le emozioni e le
immaginazioni; ma la considera
sempre in fieri»; o meglio la considera
«frutto del confronto e dell’integrazione
graduale e permanente di
innumeri visioni di singole viventi
individualità coscienti e ragionanti»;
la considera come esito dell’interazione
tra «attivi punti di osservazione
di interpretazione e di rappresentazione
critica del reale». Insomma,
per Bruno, la filosofia è razionalità
alimentata dal sentimento, resa fervida
dalla passione; è sforzo euristico
che si giova dell’attività necessaria
dell’immaginazione; è punto di raccolta
di quanto la tradizione speculativa
ha serbato vivo; è agglutinazione
di fermenti il cui sviluppo e affidato
alle menti del futuro.
Per concludere: in questo lavoro
Montano ha ricostruito ambienti culturali
e percorsi intellettuali non soltanto
nel pieno rispetto, anche forma818
recensioni
le, del materiale a disposizione, ma
scovando, in questo materiale, nessi e
rapporti che solo una consolidata
competenza, unita a gusto intellettuale
e a prudenza ermeneutica, potevano
consentire di comporre in un quadro
attendibile, armonico, coerente e
interessante.
Giuseppe Tortora
Guido Baldi, Menzogna e verità nella
narrativa di Svevo, Napoli, Liguori,
2010, pp. 212.
Le indagini sull’inattendibilità del
racconto di Zeno Cosini, «vecchio
bugiardo che […] scrive»1, secondo
la notissima definizione di Mario Lavagetto,
sono ampie ed approfondite.
Tutte le bugie, più o meno consapevoli,
tutti i lapsus e gli atti mancati
del protagonista della Coscienza sono
stati al centro di studi assai articolati.
Al lavoro di Guido Baldi, intitolato
significativamente Menzogna e verità
nella narrativa di Svevo, va il merito di
averli arricchiti di ulteriori riferimenti
e di aver esteso l’ambito della riflessione
critica agli altri testi della
produzione sveviana. Il volume, organizzato
in cinque capitoli, raccoglie
quattro saggi pubblicati già in
precedenza,
e qui riattraversati e aggiornati,
ed uno studio inedito, che
costituisce il segmento di raccordo
tra le riflessioni sui romanzi e quelle
dedicate alla Novella del buon vecchio e
della bella fanciulla. I saggi sono opportunamente
disposti in modo da
rispettare la successione cronologica
degli scritti di Svevo. L’intenzione,
dichiarata esplicitamente dall’autore
nella premessa del testo, è di valutare
la diversa fisionomia assunta dagli
inetti sveviani mettendola, di volta
in volta, in relazione con la falsa coscienza
che essi esibiscono in maniera
sempre più complessa.
Il capitolo posto in apertura del
volume è dedicato ad Una vita. L’attenzione
si concentra sulla figura di
Alfonso Nitti, intesa «non come prodotto
di natura bensì come prodotto
di un preciso contesto storico» (p. 5).
In altre parole, il protagonista del
primo romanzo sveviano deve la
propria inettitudine, congenita al punto
da essere indicata da Svevo, com’è
noto, in un primo tempo già nel titolo
scelto per l’opera (Un inetto), ad
una nuova condizione antropologica.
Lo spostamento del personaggio
dall’ambiente familiare della provincia
a quello caotico e impersonale
della città diventa, infatti, nella lettura
di Baldi, segno dell’irreversibile
passaggio dal mondo premoderno
alla modernità. Lontano dalla campagna,
luogo dell’idillio e degli affetti
autentici, Alfonso si sente estraneo
ad un ambiente che alimenta le sue
frustrazioni. In quest’ottica, l’indagine
dello studioso si concentra sulla
serie di autoinganni che egli costruisce.
Essi tendono, da un lato, a idealizzare
la sua vita precedente, dall’altro
offrono di lui una rappresentazione
«nobilmente ascetica» (p. 36). La
sua relazione con Annetta diventa il
culto di una bellezza angelica e asessuata,
pronto a crollare quando la
donna gli appare nella sua sensualità.
Parallelamente, la città è un ambiente
asfittico, opprimente, dal quale
egli non può fare altro che fuggire.
Analizzando tutte le sfumature attraverso
cui si costruisce questa immagine
da contemplatore, Baldi ne indi-
1 M. Lavagetto, La cicatrice di Montaigne,
Torino, Einaudi, 2002, p. 217.
recensioni 819
vidua, però, il sostanziale fallimento.
Il personaggio sveviano, lungi dall’aver
raggiunto qualsiasi forma di
noluntas, esprime, attraverso la scelta
di morire, la «confessione del proprio
bisogno mai abbastanza appagato
di integrazione» (p. 48).
Il motivo della trasfigurazione della
donna amata è il filo conduttore
che lega queste riflessioni a quelle
che lo studioso sviluppa, nel capitolo
successivo, intorno al secondo romanzo
sveviano. Tra le pagine di Senilità
Angiolina diventa, agli occhi di
Emilio, una creatura pura, perfetta,
che subisce un processo di trasformazione
tale da renderla «simbolo
solare di sanità, forza, vitalità, giovinezza
» (p. 62). Particolarmente efficace
risulta, a proposito, il confronto
preciso che lo studioso traccia tra
l’immagine reale della donna – grossolana,
poco sensibile, attratta da uomini
dominatori – e quella che si costruisce
nella mente di Emilio. L’uso
costante della focalizzazione interna
produce sul lettore un effetto di straniamento
che mette in luce le distorsioni
operate del personaggio sulla
realtà e svela «tutte le maschere che
l’eroe ama indossare per nascondere
a se stesso la propria miseria» (p. 77).
A partire dall’opposizione che si genera
tra l’inetto e il suo antagonista,
all’interno della quale si colgono elementi
di affinità tra il fallimento artistico
dell’uno e quello dell’altro, Baldi
accosta e discute le proposte interpretative
avanzate dalla critica sveviana
rispetto al sistema dei personaggi
del romanzo. La conclusione a
cui egli arriva è che è impossibile
contemplare tutte le dinamiche interne
al testo in una struttura chiusa,
poiché è la prospettiva di ciascun
personaggio che, di volta in volta, filtra
l’ottica della scrittura «come in un
gioco di specchi» (p. 98). La narrazione
non è, dunque, la rappresentazione
mimetica dei pensieri dei personaggi,
ma appare una «psico-narrazione
» (p. 101), una descrizione dei
processi della coscienza.
Queste riflessioni si collegano direttamente
al terzo dei saggi che
compongono il volume. Se «la narrazione
eterodiegetica di Una vita e Senilità
equivale a una narrazione autodiegetica
in cui sia il personaggio
stesso a raccontare la sua storia» (p.
125), allora l’impostazione del terzo
romanzo rende esplicito, attraverso
l’uso della prima persona, un procedimento
già sperimentato da Svevo.
Tuttavia, Baldi sottolinea opportunamente
come l’inattendibilità del narratore
sia denunciata in questo caso
fin dalla soglia del testo, quando il
dottor S. mette in guardia il lettore
dalle «verità e bugie»2 che si fondono
del racconto di Zeno. La prospettiva,
dunque, anche qui non è unica: Zeno
narratore, che rivede e racconta gli
eventi del suo passato, dialoga continuamente
col se stesso protagonista
dei fatti narrati. A proposito, il critico
cita un passaggio del capitolo dedicato
alla morte del padre in cui, secondo
la sua interpretazione, «l’oggetto
è visto con gli occhi dello Zeno
che sta vivendo gli eventi, non con
quello che racconta a distanza di anni
» (p. 127). Rispetto all’ottica con cui
il protagonista del romanzo osserva
e descrive gli eventi della sua vita,
l’attenzione è posta sull’influenza
che Svevo ha ricevuto dalle teorie
darwiniane.
Il contatto con queste ri-
2 I. Svevo, La coscienza di Zeno, in
Id., Romanzi e «continuazioni», Milano,
Mondadori, 2004, p. 626.
820 recensioni
flessioni determina un parziale cambiamento
nella fisionomia dell’inetto,
privo di un’identità salda e immutabile
e dunque disposto alla continua
trasformazione che la pluralità
della vita richiede. Lascia qualche
perplessità, all’interno di questo ragionamento,
l’interpretazione del
passo cruciale della Coscienza in cui
Zeno definisce la vita «né brutta né
bella, ma […] originale»3. Piuttosto
che contenere «implicazioni inquietanti
» (p. 144), espressione della «totale
mancanza di senso e di scopo» di
un’esistenza «insopportabile all’uomo,
separato da essa da una frattura
incolmabile» (p. 145), sembra che
questa affermazione anticipi le considerazioni
contenute nelle pagine
conclusive del testo. L’originalità individuata
nella trama della vita diventa,
per Zeno, premessa per l’accettazione
incondizionata di tutte le
sfumature che essa contiene. Il fatto
che il personaggio, sulle rive dell’Isonzo,
possa affermare di aver imparato
a «sorridere alla […] vita e
anche alla […] malattia»4 appare, di
fatti, espressione di un instancabile
amor fati, che va oltre la denuncia
dell’«assurdità del reale» (p. 145).
Alle Continuazioni della Coscienza è
dedicato il quarto capitolo del saggio.
In particolare, Baldi si sofferma
ad analizzare le pagine di Un contratto
e mette in luce tutti gli elementi
che lo accomunano al romanzo, rispetto
al quale lo studioso individua
un procedimento di ripresa e di amplificazione
dei medesimi temi. Soprattutto,
l’analisi si ferma sul modo
in cui nel testo viene declinato il motivo
della lotta, centrale in tutta la
produzione sveviana e qui presentato
con la massima evidenza.
A conferma di una scrittura fatta di
continui echi, di suggestioni più o
meno marcate che rimandano dall’uno
all’altro testo e dispongono in
una tela compatta l’intera produzione
di Svevo, il saggio che chiude il volume
apre uno squarcio sui racconti e si
ferma ad analizzare La novella del buon
vecchio e della bella fanciulla. Il testo è
presentato dallo studioso come una
riscrittura di Senilità che «al posto del
giovane “senile” presenta un vecchio
vero, ma con le fondamentali caratteristiche
che erano dell’inetto
dell’antico
romanzo» (p. 185). Soprattutto, a
sottolineare la struttura unitaria del
lavoro di Baldi, l’interesse si concentra
ancora una volta sugli autoinganni,
sugli alibi che il personaggio costruisce
per mentire a se stesso. L’analisi
si ferma sulla serie di maschere
che il buon vecchio indossa per dissimulare
la seduzione erotica esercitata
su di lui dalla giovane donna che gli
offre la possibilità di un ritorno agli
umori della gioventù. L’estrema sublimazione
del desiderio sembrerebbe
avvenire attraverso il contatto con
la scrittura, alla quale il personaggio
si dedica nel tentativo di elevare a pura
teoria l’istinto di trasgressione. In
realtà, anche quella di scrittore si rivela
la maschera di «un nodo traumatico
irrisolto, desiderio, senso di colpa,
terrore della punizione e della morte»
(p. 204). Come tutti gli altri protagonisti
della narrativa sveviana, anche il
buon vecchio, conclude Baldi, cela,
dentro di sé, un «groviglio nevrotico»
(p. 205) all’interno del quale le aspirazioni
si fondono con i sensi di colpa e
il piacere è prodotto dall’infrazione.
Stefania Capuozzo
3 Ivi, p. 972.
4 Ivi, p. 1066.
recensioni 821
Marialuigia Sipione, Beppe Fenoglio
e la Bibbia. Il «culto rigoroso della libertà
», prefazione di Giovanni Tesio, Firenze,
Cesati, 2011, pp. 178.
«Dall’universo etico della vita e
dell’opera di Fenoglio Marialuigia Sipione
– con sensibilità critica non comune
– ha saputo estrarre gli echi (o i
rimbombi) più segreti», avverte Giovanni
Tesio nella sua prefazione (p.
15). E difatti siamo dinanzi ad uno
studio che offre nuove chiavi di accesso
al mondo fenogliano e che possiede,
principalmente, un duplice essenziale
merito: da un lato ci consente
di procedere lungo il percorso di sdoganamento
dell’opera dello scrittore
albese dalle ermeneutiche – parziali e
riduttive – che negli anni l’hanno
ascritta all’angusto perimetro del Neorealismo,
d’altro lato esso struttura
una lettura in filigrana dell’epos resistenziale
e langarolo alla luce delle
nervature relative al sacro e alla sua
fenomenologia, le quali si irradiano
lungo i romanzi ed i racconti attraverso
direzionalità multiple e curvature
inattese. La Sipione, basandosi
su testimonianze ad ampio raggio,
documenta la fitta rete di corrispondenze
che intercorrono tra il Testo
Sacro e una visione della vita permeata
da «un profondo pessimismo teleologico
ed escatologico»; il percorso
che la studiosa traccia, mira «a ricostruire
il rapporto tra lo scrittore e la
Bibbia, sia da un punto di vista biografico
che culturale», e ad operare
«una ricognizione […] di lessemi, immagini
e figure bibliche presenti nel
corpus fenogliano» (pp. 17-18).
Il ricorso di Fenoglio allo sterminato,
prezioso bacino rappresentato dalle
Sacre Scritture appare spontaneo
ed innescato da un forte interesse conoscitivo
nei riguardi dei fondamenti
della fede, pur risultando privo di richieste
consolatorie, non adagiato
quindi su una posizione di attesa passiva
in vista di una vagheggiata redenzione;
egli appare infatti sideralmente
distante da una religione di
compromesso che non contempli
l’esperienza, vissuta in maniera critica
e dialettica, dello statuto ontologico
del male. Al suo professore di religione,
don Natale Bussi, il futuro
scrittore e partigiano dichiarò, a soli
sedici anni, di non riuscire più ad
identificarsi con il messaggio della Rivelazione;
si allontanò precocemente
dalla pratica religiosa ma mantenne
rapporti frequenti con figure importanti
per la sua formazione umana e
culturale, come Pietro Chiodi, Eugenio
Corsini, Piero Rossano, le quali
stimolarono ed alimentarono costantemente
la riflessione sui principi connaturati
all’universo religioso ed etico.
La studiosa rimarca infatti come
Fenoglio ricerchi ed incontri una religiosità
che enfatizza «la natura umile
e meschina dell’uomo», che incita «alla
riflessione e alla meditazione», che
non lenisce «i tormenti dell’animo ma
che, al contrario», rintuzza «i dolori,
ponendoli a confronto con quelli patiti
dai Santi o dai martiri» (p. 66).
L’analisi – impostata però «su parametri
religiosi», criteri fino ad oggi
trascurati dalla critica – verte poi sulla
fondamentale impronta che la cultura
inglese ha impresso in Fenoglio:
il Seicento ‘storico’ di Cromwell e
quello ‘poetico-speculativo’ di Bunyan,
Donne, Milton, Crashaw, Marwell,
Herbert, Ben Johnson, secolo
del puritanesimo e di conquiste politiche
e sociali, di tensione metafisica
e di secolarizzazione del calvinismo
(in merito alla matrice protestante
822 recensioni
della scrittura fenogliana si insiste in
modo convincente in più occasioni);
e poi, risalendo i secoli, Coleridge,
Browning, Hopkins, Emily Brontë,
Stevenson, Grahame, T.S. Eliot. Da
molti di questi autori Fenoglio «ha
estratto l’essenza stessa della scrittura:
il bisogno di assumere una posizione
difronte agli eventi, la necessità
di comprendere a quale fazione si
appartenga e di dichiararlo apertamente
» (p. 87).
Sipione circoscrive infine il sillabario
biblico di Fenoglio scandagliando
la complessa natura dei suoi personaggi,
facendo emergere l’utopia –
della libertà di scelta e dell’autodeterminazione
– che li permea attraverso
la scomposizione e la collazione
di tranches testuali significative e
rivelando similarità con il collettore
biblico che ad una lettura superficiale
potrebbero sfuggire: ecco che allora
Alba può essere letta come il Paradiso
da cui si viene cacciati (un idillio
originariamente contaminato, di memoria
gnostica), e i partigiani sono
trasfigurati in emissari della luce divina.
Una religiosità inquieta che si nutre
di fonti diverse: «il mito di Cromwell
e del puritanesimo come partecipazione
attiva al tessuto sociale sono
l’utopia di un intellettuale e non
[…] una reale identificazione con un
credo religioso dai dogmi precisi ed
inviolabili. Ecco perché Il partigiano
Johnny, il grande romanzo sulla Resistenza
e l’eroismo del singolo, smentisce,
in qualche modo, la sua stessa
appartenenza al genere neo-realistico:
nulla vi è di concreto nell’esperienza
di Johnny; tutto è trasfigurato
e rielaborato secondo il diaframma
smerigliato della visione del personaggio
e dell’autore» (pp. 115-116).
Resistenza e scrittura come itineraria
ascetici, sentieri obbligati per una
possibile purificazione tra i naufragi
della Storia. Da questo saggio, elegante
e di piacevole lettura, mai forzato
nelle interpretazioni (malus usus
frequente in certi approcci tematici) e
reso avvincente dal taglio comparatistico,
emerge un nuovo ritratto di
Beppe Fenoglio: autore intriso degli
stilemi e dei ‘canoni’ dell’Occidente
(la Bibbia e la letteratura della terra
d’Albione), scrittore di respiro europeo
nella rappresentazione polifonica
– perché realistica e metafisica al
contempo – delle tragedie pubbliche
e private che hanno insanguinato
l’Italia ed il continente.
Insieme al recente La sfortuna in
favore. Saggi su Fenoglio di Valter
Boggione (Venezia, Marsilio, 2010,
pp. 285), quello di Marialuigia Sipione
si presenta come studio imprescindibile
per chi voglia indagare
la fitta rete di intertestualità che avvolge
le opere dell’albese, e, al momento,
unico punto di riferimento
per una lettura degli echi biblici che
si propagano tra le pagine fenogliane.
Echi che sembrano investire inaspettatamente
molti testi della nostra
letteratura, come vuole dimostrare,
tra le altre, l’opera diretta da
Pietro Gibellini La Bibbia nella letteratura
italiana (Brescia, Morcelliana):
usciti i primi due volumi (I. Dall’Illuminismo
al Decadentismo, II. L’età
contemporanea), attraverso i prossimi
tomi essa si appresta a completare
l’indagine sulle riscritture di figure e
tòpoi della tradizione biblica, a testimonianza
che l’interconnessione tra
Sacre Scritture e letteratura è più che
mai attuale.
Matteo Vercesi
recensioni 823
Lavinia Spalanca, Il martire e il disertore.
Gli scrittori e la guerra dall’Ottocento
al Novecento, Lecce, Pensa
MultiMedia, 2010, pp. 224.
Fine e accurata l’analisi condotta da
Lavinia Spalanca nel suo recente saggio,
in cui l’autrice convoglia una lunga
serie di riflessioni avviate da tempo,
e efficacemente esplicitate pure
in
numerose altre sedi. Un percorso,
quello tracciato dall’Autrice, inteso a
riferire della percezione del dramma
bellico attraverso l’esperienza intellettuale
e insieme biografica di cinque
autori-epigoni della letteratura italiana:
Igino Ugo Tarchetti, Edmondo De
Amicis, Federico De Roberto, Piero
Chiara e Dario Fo. Una indagine dei
rapporti fra esperienza bellica e narrazione
letteraria che rivela, come
l’autrice stessa premette nel capitolo
che funge da introduzione al volume,
la parabola discendente dell’evento
bellico, il quale, considerato dapprima
“fondamentale esperienza
di senso,
generatrice di valori per la collettività,
col trascorrere delle epoche, e soprattutto
a partire dai primi decenni
del XX secolo (…), diventa l’emblema
stesso dell’insensatezza”. Addirittura,
sembrerebbe “(…) che l’assurdità della
condizione novecentesca trovi nell’assurdità
della guerra il suo più convincente
paradigma espressivo”. È
difatti nel Novecento che lo scontro
armato “escludendo la parentesi partigiana
(…) perde qualunque connotazione
eroica e acquista i caratteri
dell’inutile strage”: e nondimeno il
Novecento letterario non rinuncia
all’analisi delle modalità di narrazione
del conflitto, le cui rappresentazioni
più penetranti sono, paradossalmente,
nell’opera
di quegli scrittori
che “non hanno sperimentato direttamente
l’orrore e la violenza bellica e,
nonostante ciò, ne hanno compreso lo
stesso la terribile esemplarità”. L’opera
di questi scrittori si esplica in
«un corpus variegato – dal romanzo
al bozzetto, dalla novella all’“invenzione
autobiografica” – caratteristico
per l’ibridazione fra diverse forme di
testualità, come la scrittura epistolare
e diaristica»; e significativo di questa
varietà è il corpus preso in esame nel
saggio: in cui non mancano, da parte
di Lavinia Spalanca, oltre a una occasione
preliminare di chiarimento delle
motivazioni storiche dell’atteggiamento
antibellicista e antimilitarista,
momenti di riflessione su temi paralleli
e insieme intersecantisi alla tematica
centrale della guerra – ad esempio,
la distinzione di una “doppia
personalità” del soldato, che da un
lato osanna “l’ordine costituito (Dio,
Esercito, Patria)”, e dall’altro prova
un’irresistibile attrazione per tutto ciò
che incarna il disordine (Io, Eros, Follia),
distinzione che confermerebbe la
presenza
“di quella diade guerra-sessualità
che connota da sempre le narrazioni
di argomento bellico”. Di non
minor rilievo sono le annotazioni inerenti
agli stili adoperati nelle diverse
fasi della narrazione bellica: ove, ad
esempio, il passaggio dalla “narrazione
epica del conflitto”, e dunque dalla
“esperienza estetica di piena visibilità”,
alla totale assenza della dimensione
drammatica corrisponde all’adozione
del “modo grottesco e satirico,
(…) emblematico del ribaltamento di
qualunque mito guerriero”. Non è un
caso, dunque, che l’analisi prenda avvio
dalla riflessione – non nuova
all’autrice, ma proprio per questo
sempre ricca di nuove suggestioni
critiche ed esegetiche – da Una nobile
follia, romanzo antimilitarista di Igino
824 recensioni
Ugo Tarchetti, “che pone radicalmente
in discussione l’esistenza degli
eserciti e la necessità dello scontro armato”.
Preoccupazione di Tarchetti,
rileva la Spalanca, sembra essere
quella di “registrare le lacerazioni che
il meccanismo sociale opera nell’intimità
ormai violata dell’uomo moderno,
il cui apprendistato alla vita non
può più coincidere con la piena integrazione
nel consorzio umano”. La
particolare caratterizzazione di Vincenzo
D., protagonista
del romanzo, il
quale, reduce dalla sconvolgente
esperienza della guerra di Crimea,
“pronuncia una condanna senza appello
della vita militare, finendo per
ribaltare tutte le leggi di comunanza
sociale” fa del romanzo uno scritto
difficilmente a-
scrivibile ad una singola
tipologia romanzesca: la psiche
frammentata del personaggio si traduce,
rileva l’autrice, “nella frammentazione
stessa
della struttura romanzesca”,
che dunque si discosta –
anche se non del tutto – anche dai romanzi
epistolari ottocenteschi del
Werther e dell’Ortis, cui pure Tarchetti
attinge.
Se De Amicis era stato significativamente
richiamato già nel capitolo
di ispirazione tarchettiana, a lui è dedicata
un’ampia parte della successiva
riflessione. L’autrice passa difatti
in attenta e peculiare rassegna l’opera
letteraria di De Amicis, guardando
ad essa come autentica “cartina al
tornasole di un’epoca storica” in grado
di rispecchiare assai efficacemente
“le aspirazioni e le contraddizioni di
una nazione di nome ma non di fatto”.
De Amicis è in generale noto per
l’impegno messo nella celebrazioneesaltazione
dei valori della patria,
della scuola e della famiglia: addirittura
della sua opera è rilevabile
l’esplicito intento di fornire una “rappresentazione
edulcorata della vita
militare”. Per raggiungere questo risultato,
De Amicis attinge al patrimonio
delle patrie lettere, riferendosi in
particolar modo all’opera manzoniana,
specie laddove Manzoni si dedica
a piene mani alla questione della lingua.
Sarà dalla lettura della relazione
Dell’unità della lingua e dei mezzi
per diffonderla che De Amicis deriverà
la necessità di risciacquare “vigorosamente
i panni in Arno, allorché si
accinge, a Firenze (…) alla revisione
dei suoi bozzetti militari”. E sarà sulla
lingua – il “linguaggio del patetico”,
lo definisce eloquentemente l’autrice,
cui si integrerà una peculiare
varietà di ars rhetorica – che De Amicis
punterà per raggiungere il suo
obiettivo di “idealizzazione delle figure-
chiave dell’istituzione militare”,
un processo complementare alla generale
esaltazione di valori ‘nostrani’
– scuola, patria, guerra – cui già si è
fatto riferimento. Anche con De Roberto,
come con De Amicis, ci troviamo
di fronte, almeno in principio, a
“una immagine idealizzata della realtà
bellica”:
sennonché, se da un lato
“l’esibizione tipica del bagaglio interventista
costituisce l’emblema
del volontarismo
ideologico dell’autore” –
ricordiamo che De Roberto non poté
prender parte direttamente al conflitto
–, dall’altro lato la posizione dello
scrittore verista affettuosamente caro
ai più celebrati Verga e Capuana “risulta
differente (…) se non addirittura
estranea (…) a quel clima”, soprattutto,
fa notare l’autrice, “in relazione
a quella cultura irrazionalistico-reazionaria
da cui prendeva le mosse il
ribellismo antipositivistico dei fautori
della guerra (…)”. Se è vero che la
guerra esercita su De Roberto un cerrecensioni
825
to fascino, è anche vero che “il suo
scetticismo radicale gli impedisce (…)
una totale integrazione ai presupposti
e ai moventi storico-politici del nazionalismo”:
il che si rivela un grande
punto di forza per l’ultima produzione
derobertiana. A partire dalla “Cocotte”,
meritevole di una lettura approfondita
che ne sveli le molteplici
implicazioni psico-sociologiche (non
ultimo il sentimento di “profonda disillusione
esistenziale e storica” che
per intero permeò la percezione derobertiana),
Lavinia Spalanca offre una
disamina dei nove racconti di guerra
derobertiani, offrendo per ciascuno
una molteplicità di suggestioni e di
chiavi di lettura, insistendo – e non a
torto – sulla nuova dignità conferita
da De Roberto all’elemento vernacolo,
l’uso del quale gli consente di definire
al meglio le complesse (e assai
spesso inique) dinamiche belliche, ad
esempio nel rapporto tra ufficiali e
soldati semplici.
Il passaggio dall’Ottocento al Novecento
‘costringe’ lo studioso di narrativa
bellica a volgere lo sguardo a
due conflitti. Se del primo, noto come
la Grande Guerra, si occupano una
molteplicità di autori del panorama
italiano ed europeo, non si deve ignorare
l’esistenza di una letteratura della
seconda guerra mondiale (un conflitto,
annota l’autrice, che agli occhi
di una intera generazione si rivela come
“un’occasione mancata”), con
esponenti di altrettanto spessore
e
complessità dei precedenti scrittori.
L’autrice porta, nella parte finale della
sua articolata disamina, le esperienze
paradigmatiche di Piero Chiara
e Dario Fo. In Chiara, che sceglie lo
stile diaristico per narrare “l’antitesi
tra esperienza e conoscenza” su cui si
fonda la sua percezione dell’evento
bellico, è evidente la presenza di “una
nuova, e più concreta, percezione del
conflitto, spogliato delle precedenti
idealità e ridotto solamente ad un
contenzioso fra ideologie opposte”.
V’è di più: in Chiara si presenta con
altrettanta evidenza
l’amara delusione
verso il regime, che “da strumento
rivoluzionario e d’opposizione si era
trasformato in forza d’ordine, conservatrice
e autoritaria”; e l’intensità con
cui questo sentimento di delusione
viene manifestato è da ascrivere probabilmente
al carattere autobiografico
della testimonianza dello scrittore
che, ventisettenne, venne chiamato a
prender parte ad un conflitto non voluto,
tra l’altro, perché permeato da
un clima di sconforto sconosciuto alla
prima guerra mondiale.
Quanto al conterraneo del “glauco
Verbano” di Chiara, Dario Fo, nella
sua narrazione della esperienza bellica
– condotta in chiave essenzialmente
autobiografica – la destituzione del
potere costituito avviene “all’insegna
del paradosso, del grottesco e della
satira”: un’insegna percepibile già nel
breve brano posto dalla Spalanca in
epigrafe alla riflessione sull’opera di
Fo, e tratto da un’opera dal titolo altrettanto
evocativo, Elogio della guerra
totale. Da Tarchetti a De Amicis, da De
Roberto a Chiara e a Fo, la narrazione
dell’evento bellico può assumere
dunque, di volta in volta, tratti e connotati
differenti, a volte addirittura
contrastanti, ma nondimeno adatti
a
descriverlo con efficacia. Di questi
tratti la disamina di Lavinia Spalanca
dà puntualmente ed esaustivamente
conto, confermando il significato rilevante
della scrittura di guerra nel panorama
culturale italiano ed europeo.
Rossella Abbaticchio