11 Feb Anno XXXVII (2009), Fasc. IV, N. 145
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Saggi
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GIONA TUCCINI
Il popolino credulo. Divagazioni su Bernardino da Siena e il suo uditorio – pp. 627-640
Moving from the liturgical theatre, the jesters’ performances and the Tuscan “Maggio”, and taking into
account Bernardino’s work and his personality, this essay concentrates on the formal and innovative aspects of
his ars predicandi. The author tries to show how the stories and anecdotes of the Franciscan, who makes use of
aprosdòcheton and epimythion as they were employed by the ancient fabletellers, aim at Christianizing his
audience by making them empathize with the historical and fictitious characters of his sermons. -
ARMANDO BISANTI
Navigando nell’oceano dei racconti salgariani – pp. 641-669
During his life Emilio Salgari (1862-1911) wrote about 150 tales of adventures, often published under
pseudonyms (cap. Guido Altieri, S. Romero, Enrico Bertolini, etc). They mirror the variety and scope of the
subjects dealt with by Salgari in his novels. The first part of my paper reviews the existing bibliography on
Salgari’s tales. The second
part analyzes three collections of tales, Le novelle marinaresche di Mastro Catrame (Torino, Speirani, 1894),
Nel paese dei ghiacci (Torino, Paravia, 1896), Le grandi pesche dei mari australi (Torino, Speirani, 1904),
and the
short story I predoni del gran deserto (Napoli, Urania, 1911). -
VIRGINIA DI MARTINO
Il sonno e la visione di Camillo Sbarbaro: Pianissimo 1914 – pp. 670-702
In Pianissimo (1914) Sbarbaro is a divided self, looking at his person from outside. Wandering around the
streets of a hostile waste town, the narrator becomes aware of his blindness and of his incapability in
finding meanings in reality. For him, mankind is suffocated and restrained by Necessity and Custom.
Nevertheless, at the end of his collection, Sbarbaro seems to be more indulgent towards himself and the
contradictions of his own soul. -
BRUNO PORCELLI
I cavatori di Alvaro e Rosso Malpelo di Verga – pp. 703-711
This essay is based on an intertextual comparison between two short stories, I cavatori by Alvaro (published
in “La Stampa” on October 27th 1937) and Rosso Malpelo by Verga, and tries to demonstrate that the hypotext
acts as a sort of anti-model. This is confirmed by the lyricism of I cavatori (see the stillness of the world
described: the sea, the atmosphere of the quarry, the harmlessness of the quarrying materials, the
relationships between young and
old miners, and the lack of any reference to death), dominated by the figure of a free and self-assured
worker. -
GIUSEPPE DE MARCO
La Campania nelle pagine di viaggio di Guido Piovene: per una religio dello sguardo – pp. 712-727
This essay takes into account the chapter dealing with Campania in Guido Piovene’s Viaggio in Italia and
underlines the function – sometimes subversive and fantastic – of “seeing” in his text. It also emphasizes the
fact that Piovene’s travelling in the Fifties corresponds to the so called “research through travel”. His
prose style is never journalistic, but clear and objective, now and then literary in the common sense of the
word.
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Linguistica
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MARIA MICHELA DI LIETO
Un contributo alla questione della lingua: L’Infermità dell’Eloquenza di Luigi Serio – pp. 728-753
This essay analyses a manuscript by the Neapolitan author Luigi Serio, written at the end of the eighteenth
century (now in the National Library of Naples). The manuscript is a mock-heroic poem in which Serio explains
his ideas about the Italian language of his time. At the same time, he goes back to a dispute concerning the
Neapolitan dialect
where he had opposed Ferdinando Galiani’s viewpoints.
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Meridionalia
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GIUSEPPE PESCE
Nicola Pugliese: dall’ambigua mitizzazione al recupero di Malacqua – pp. 754-766
This essay starts up by discussing the ambiguous fortune of Malacqua by Nicola Pugliese, a novel written in
1977 and from time to time seen as a literary representation of Naples so powerful to keep its up-to-dateness
intact. Since a close critical reading of this novel is still missing, this essay intends to free it from some
misunderstandings and identify its innovative literary coordinates. Malacqua, in fact, though grounded on
chronicle suggestions, swings
between La Capria and the most important European literary tradition of XX century (Joyce, Kafka), ranging
from the language of D’Arrigo to Gadda’s “painful” autobiographical tendency.
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Contributi
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UGO DOVERE
La nascita di un best-seller ottocentesco. I Misteri del chiostro napoletano di Enrichetta Caracciolo di
Forino – pp. 767-792The study of unpublished archive materials enables the author to reconstruct the story of the publication of
Misteri del chiostro napoletano (1864), the well-known autobiography of the ex-nun Enrichetta Caracciolo di
Fiorino. The essay concentrates on Spiridione Zambelli, Adriano Lemmi and Stanislao Bianciardi’s editings. -
ROSSELLA ABBATICCHIO
Nell’inferno della grande guerra. In margine a una novella di Federico De Roberto – pp. 793-807
A short tale by Federico De Roberto, first published in 1920 on a periodical review, Il rifugio (The haven)
is part of a group of tales published by De Roberto between 1919 and 1923. It analyzes deeply and from various
perspectives the topic of desertion: but the main character, the deserter, son of a peasant family of northern
Italy, who writes nothing but lies to his parents about his glorious behaviour as a soldier, but shows a
certain boldness when he’s being justiced, far from being by no means despicable, could maybe represent the
natural human opposition to the war logic and to its absurd “sacred duties”.
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Recensioni
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DONATO PIROVANO
Dante e il vero amore. Tre letture dantesche, Pisa-Roma 2009 (Maria Cristina Albonico)
– pp. 808-811
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GIANLUCA GENOVESE
La lettera oltre il genere. Il libro di lettere, dall’Aretino al Doni e le origini dell’autobiografia
moderna, Roma-Padova 2009 (Paola Villani)
– pp. 811-814 -
LAVINIA SPALANCA
I fiori del deserto. Sbarbaro tra poesia e scienza, Genova 2008 (Paolo Zoboli)
– pp. 814-815 -
ALESSANDRO PARRONCHI – MARIO TUTINO
«Arte nata dall’arte». Carteggio 1956-1966, a cura di Paola Baioni, Pisa-Roma 2009 (Annalisa Zanotti
Fregonara)
– pp. 815-817 -
ANTONIO PALERMO
I miti della società e altri saggi alvariani, a cura della Fondazione Alvaro, Soveria Mannelli 2008
(Caterina De Caprio)
– pp. 817-820 -
ROBERTO MOSENA
Fenoglio. L’immagine dell’acqua, Roma 2009 (Fabio Pierangeli) – pp. 820-822
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TONI IERMANO
Geografie e storie del Novecento letterario. Profili critici e proposte di lettura, Atripalda (Avellino)
2009 (Antonio Catalfamo)
– pp. 822-825
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Saggi
GIONA TUCCINI
Il popolino credulo.
Divagazioni su Bernardino da Siena
e il suo uditorio
Moving from the liturgical theatre, the jesters’ performances and the
Tuscan “Maggio”, and taking into account Bernardino’s work and
his personality, this essay concentrates on the formal and innovative
aspects of his ars predicandi. The author tries to show how the
stories and anecdotes of the Franciscan, who makes use of aprosdòcheton
and epimythion as they were employed by the ancient fabletellers,
aim at Christianizing his audience by making them empathize
with the historical and fictitious characters of his sermons.
Ogni ora pensa come debbi fare la sezzaia
ora che viverai; – e pensa sempre de la
morte.
Paolo da Certaldo,
“Il libro di buoni costumi”
Quando nei primissimi anni del XV secolo Bernardino iniziò la
sua attività predicatoria, i contemporanei ebbero l’impressione di
trovarsi di fronte a un’oratoria nuova, totalmente diversa dalle forme
assunte dalla predicazione trecentesca – quella domenicana di
Giordano da Pisa e, più tardi, del Cavalca e di Jacopo Passivanti –
da assomigliare più ad una lezione/spettacolo prima ancora che a
un discorso destinato al grande pubblico. L’opera di predicazione
del francescano restò ben distinta anche rispetto agli apologhi di
Girolamo Savonarola che, nella seconda metà del Quattrocento, dopo
la morte dell’Albizzeschi, continuò a parlare ai toscani – specie alle
donne e ai bambini – preferendo però la logica del narrato, alla sua
espressività e capacità di persuasione. Giacomo della Marca, suo
seguace devoto, tenendo il panegirico di San Bernardino a Padova
nel 1460, esaltava gli aspetti più comunicativi della sua parola e
della sua recitazione: ne rilevava le esclamazioni, i modi, i tratti per
628 GIONA TUCCINI [2]
restituire la predicazione dell’Osservanza ai procedimenti giullareschi
delle origini. Il frate di Siena, effettivamente, cedeva volentieri alla
tentazione della scena. Nella novella Un dialogo tra Dio e il Diavolo1,
per esempio, i motivi narrativi, i personaggi e le loro azioni vengono
drammatizzati – con la sola voce del predicatore – sul modello
del teatro liturgico e, in particolare, del maggio toscano: eroe e antieroe
si sfidano e il loro dramma risponde alla legge secondo la
quale il bene trionfa sempre sul male.
Molto è stato scritto sull’ars praedicandi di Bernardino, qualcosa
sul suo carattere di “maledetto toscano”, nulla sul suo ego ipertrofico.
Col suo Io amplificato – un Io dilatato che paralizzava l’altro – il
monaco amministrava incontrastato il suo rapporto con gli uomini,
prendendoli in una rete di argomentazioni commoventi, divertenti
che, poco a poco, assumevano significati più profondi e, alla fine,
nel loro ultimo senso, diventavano vertiginosi, qualche volta folli.
Agli astanti era impossibile sottrarsi al suo flusso inibitorio. La natura
del frate era la più vasta che si potesse immaginare: senza
freno alcuno, dava libero sfogo all’anima e alla sua voglia di cambiare
il mondo. In piazza, come nel ventre di un teatro a cielo
aperto, la società quattrocentesca, còlta al sommo dell’inquietudine,
si confrontava con lui e doveva correggere i suoi atteggiamenti. La
personalità dei fedeli sarebbe diventata tanto più debole quanto più
forte risultava essere quella del religioso con cui si confrontavano. Il
loro fervore, se esasperato, poteva diventare idolatria. Il discorso Né
podestà né capitano ci dimostra che, entrando in stretto contatto con
la cittadinanza, il francescano esercitava un ascendente diretto sulle
incertezze degli individui. Le novelle e gli aneddoti che raccontava
di luogo in luogo, gli permisero non solo di disporre i cittadini ai
precetti dell’umanesimo civile fiorentino, rimodellato in base alla
spiritualità cattolica2, ma anche di dilatare la sua personalità. Egli
ha tentato, riuscendoci nettamente, di riordinare la vita del villano
a suon di insinuazioni e di minacce, perché le altre, quelle degli
intellettuali, non seppe e non poté condizionare. Ciò si capisce perché
l’ignorante e l’intelligente medio hanno bisogno di paraocchi
1 Bernardino da Siena, Novellette, aneddoti, discorsi volgari, a cura di G.
Tuccini, Genova, Il Melangolo, 2009, p. 79. D’ora in avanti, tutti i testi
bernardiniani che citerò, senza riferimento bibliografico, sono presenti in questa
edizione, salvo quando diversamente indicato.
2 Di questo ho parlato nel saggio introduttivo Opere e doveri di un frate giustiziere,
in Bernardino da Siena, Novellette, aneddoti, discorsi volgari, cit., p. 10.
[3] DIVAGAZIONI SU BERNARDINO DA SIENA E IL SUO UDITORIO 629
che facilitano il trotto regolare; un’intelligenza viva ama il dubbio,
un gioco di forze insidiose, esige l’orgoglio, la lotta, lo slancio della
ricerca, l’entusiasmo dell’esperienza in nome di un’umanità più
brillante e autonoma. Un’idea della manovra manipolatoria praticata
dal frate sugli umili, ricorre nell’intimidazione ai senesi – una
delle tante – contenuta nella Predica XII del 1427:
Voglia Idio che questa vostra città non sia di quelle che Idio punisce
colla sua giustizia, e che ella non sia la pignatta dove è sotto il
fuoco, che la fa poi bollire. Sai, quando si leva il romore, che ogni
cosa bolle! Doh! Io vorrei essare inteso senza favellare; tu forse mi
puoi intendare; ché tal cosa s’intende, che non si può dire. O donne,
che molto sta a voi, sapete voi, quando il pignatto bolle, non lassate
mai romparvi la schiuma, che se si rompe, mai non è buona cucina.
[…] O fanciulli, state bene a udire. Ohimè, che stamane non ce ne
so’ venuti come sogliono, e ben me ne ’ncresce, ch’io non ve ne feci
avisati; e tu donna l’hai lassato nel letto! Ché è tanto utile cosa
questo a sapere a una città parziale: ché una predicazione a questo
modo detta, potrebbe essere tanto utile, che sarebbe atta a campare
Siena da ogni grande pericolo; e a uno che non l’ode, potrebbe
essere tanto dannoso a non udirla, che sarebbe possibile di guastarla.
E però dico, che sarebbe stato molto buono d’averceli menati; che
forse mai non ve ne sarà predicato in questo modo: ché non arete
ogni volta uno che vel canti chiaro, come vel canto io; né anco forse
li sarà dato che elli possa dire come posso io3.
Questa drammatica medievale, fatta di terrorismo psicologico e
d’ossessione apocalittica, oggi potrebbe farci sorridere. Eppure, quando
l’Albizzeschi dialogava con la gente, offuscandole il pensiero con
un nuvolo di moniti e ammiccamenti, nessuno degli astanti si permetteva
di esprimere un’idea; farlo sarebbe valso a velare gli occhi
dello Stupa, infrangere il rituale di uno sciamano. Ma Bernardino
ispirava anche simpatia, se è vero che le persone ridevano di gusto
alle sue battute; ch’è difficile a credersi, se ci atteniamo agli esiti di
una iconografia che ce l’ha ritratto sofisticato, secco come un piccione
di covata, quasi sempre con il broncio e la scucchia irrimediabilmente
puntata verso il basso (si dice che un Santo debba aborrire le
cose della terra…). E notiamo anche che, a causa della sua dirittura
morale cattolica, bastava una stortura per farlo sobbalzare, ruggire
d’indignazione, rimescolarlo fino all’ultima goccia di sangue (potrei
ricordare numerosi casi, ma cito solo la smania enfatica con cui il
3 S. Bernardino da Siena, Prediche volgari sul campo di Siena 1427, a cura di
C. Delcorno, 2 voll., Milano, Rusconi, 1989, tomo I (Predica XII), pp. 369-370.
630 GIONA TUCCINI [4]
predicatore conclude il discorso Attenzione alle ribalde!, e il suo parlare
concitato nel brano Sul sesso in monastero e su altre perversioni).
Da questi e da altri testi ancora, ben traspare quanto la plebaglia
fosse irretita in una congiura perfetta tesa a catturarla e a sottometterla
alle forze mostruose della Collettività e della Chiesa. Parole e
concetti assumono un significato completamente diverso: scienza,
morale, ragione, logica, spirito diventano gli strumenti di un principio
superiore imposto sfacciatamente. Tutto è calcolato, tutto tende
a impadronirsi dell’individuo e a possederlo. E quale sarebbe
questo principio? La Madre Chiesa, Unam Sanctam come l’ha voluta
Bonifacio VIII. Esiste solo lei e la massa a lei sottoposta pedissequamente,
attraverso l’opera di un abile frate. Sì, perché “l’uomo spirituale”
– come assevera l’apostolo Paolo – può giudicare tutte le
cose, senza poter essere giudicato da alcuno4.
Da tempo ci interroghiamo sulle circostanze e sulle ragioni che
hanno portato Bernardino ad un successo così strepitoso, e abbiamo
capito che erano le sue virtù – soprattutto conative e referenziali –
a fare della sua voce uno strumento retorico di particolare valore, in
un contesto sociale senza logica né senso di responsabilità, intriso di
illusioni, teorie, fobie, manie e dalla pura e semplice arte di infinocchiare
il prossimo. Per poter influenzare il pubblico concretamente,
il frate mise l’uditorio di fronte a fatti compiuti e precisi, ossia
verosimili e comprensibili, raccontati in forma di aneddoti ed episodi
morali. Attraverso il narrato, il predicatore mirava a far comprendere
e quindi ad influenzare il vissuto della gente; distruggeva
dialetticamente la loro irrazionalità primitiva, istintiva, per fabbricargliene
un’altra “superiore”, tutta religiosa, morale, oserei dire
pretestuosa, in quanto era alimentata dalla paura della vendetta
divina. Per poter comprendere in che modo l’Albizzeschi operasse
questo cambiamento, sarà bene recuperare, ai fini della nostra disamina,
l’importanza del concetto di mivmesi” in retorica e letteratura.
Qualche anno fa, Arrigo Stara, nell’Avventura del personaggio, ha illustrato
con chiarezza i problemi e le risposte suscitati dalla narrativa,
insistendo sul bisogno di meraviglioso e di angoscia che, sin
dalla notte dei tempi, attrae contraddittoriamente l’uomo; e conclude
che il personaggio romanzesco moderno non sarebbe altro che
word-masses (“gruppi di parole”, secondo la definizione di E.M.
Forster), terreno di progetti esistenziali in bilico fra la realtà e l’utopia,
il dovere e il proibito, la bontà e la perversione; dimensioni che
4 1Cor 2,15
[5] DIVAGAZIONI SU BERNARDINO DA SIENA E IL SUO UDITORIO 631
parlano al cuore del lettore e che vengono attivate attraverso un
“traffico di parole” tra autore e personaggio. Una simile osservazione
può valere orientativamente anche per certa letteratura umanistica
in prosa e, nello specifico, per quei prodotti “interumani”5 che sono
i racconti di Bernardino da Siena. Sul piano strettamente filosofico,
ricorderemo che il rapporto illusionistico, di identificazione, tra
personaggio e discente dipende proprio dalla molteplicità interiore
della voce narrativa, o meglio dalla componente imitativo/mimetica
del raccontare. Il narratore, in quanto mimetès (imitatore) è, secondo
il Socrate della Repubblica, colui che risveglia l’elemento irrazionale
dell’anima umana. Conseguentemente, secondo la lezione socratica,
un personaggio funziona quando fomenta e nutre nel discente la
sua irrazionalità. Di tutt’altro avviso era Platone, secondo il quale
l’uomo, specialmente quando è giovane, deve essere difeso dall’identificazione
che potrebbe snaturarlo, spingendolo a sperimentare in
se stesso modi di esistenza degradanti e pericolosi. La mimesis, tanto
temuta da Platone, non spaventava invece Aristotele che, in linea
con Socrate, credeva che l’uomo acquistasse le sue prime conoscenze
per via imitativa: attraverso la mimesis l’uomo si differenzierebbe
dagli altri esseri viventi in quanto egli è, di tutti gli esseri viventi,
il più inclinato alla imitazione.
L’Albizzeschi, uomo scaltro e studioso straordinario dei classici,
doveva conoscere tutto ciò e, in qualche misura, se ne servì per
attuare il suo progetto di conversione e di rinnovamento dei costumi.
Alla base della caratterizzazione dei suoi personaggi, sia storici
che immaginari, ci sarebbe infatti un processo mediante il quale il
religioso cercava di provocare nell’uditore un effetto determinato, a
livello emotivo, quindi estetico (nel significato greco del termine6).
Le azioni e le vicende del filosofo, dell’indovino, di Dolcino, della
fattucchiera di Lucca, di Funicella, del criminale di Trezzo sull’Adda,
del pellegrino in Terrasanta, di Pietro Pettinaio, della vedova savia,
di Madonna Saragia, della fanciulla di Genova, di Ghino di Tacco e
via dicendo, sono utili per dare risalto al carattere di questi prota-
5 Nell’introduzione alle Novellette, spiegavo che la letteratura omiletica bernardiniana
esiste in quanto prodotto comunitario, perché nasce per implicita richiesta
della società, fortemente titubante in un periodo di transizione; e si presta
ad essere studiata come risultanza di un sodalizio tra predicatore e uditorio.
Cfr. G. Tuccini, Opere e doveri di un frate giustiziere, in Bernardino da Siena,
Novellette, aneddoti, discorsi volgari, cit., pp. 12-13.
6 Dal greco a-sqhvsi” “sensazione”, e da a-sqavnomai “percezione mediata dal
senso”.
632 GIONA TUCCINI [6]
gonisti che, nelle novelle e nei discorsi predicali oggetto della nostra
analisi, si propongono all’uditorio quali esche luccicanti, funzionali
al processo di rifondazione sociale e religiosa voluto dal frate; modelli
positivi o negativi che incarnano, in modo elementare, uno
stile di risposta alla vita. La capacità di far immedesimare l’uditore,
dipende dalla loro “polifonia”7 (dialogicità), ossia dall’abilità di parlare
al pubblico e di interpretare tante voci quante ne esistono nella
realtà sociale a cui le prediche bernardiniane si rivolgono. Una virtù,
questa, già sottolineata da Giovanni Papini, che in Santi e Poeti
annotava perspicacemente:
La voce di Bernardino era unica per tutti, ma si rifrangeva, come la
luce del sole, in mille riflessi e colori sicché ad ogni cuore giungeva
diversa, con quel tono e quel contenuto che ad ogni uditore eran
necessari in quel momento. La moltiplicazione dei pani è figura di
questa moltiplicazione miracolosa della parola, perché anche le parole
dei grandi son pani e diventano tante, quante son le bocche
degli affamati8.
Uno dei meriti inconfutabili di Bernardino da Siena, effettivamente,
è quello di aver introdotto nei suoi discorsi, oltre alla sua diretta
testimonianza, una seconda voce, quella del popolo; punto focale,
quest’ultimo, significativo, perché gli permette di attuare la conversione
di massa (con racconti tipo Un pellegrino in Terrasanta e Un buon
ortolano) e la riforma dei costumi (il discorso Donne ribalde), non solo
agendo esternamente – cioè attraverso il potere suasivo della predica
vera e propria – bensì innescando tali processi all’interno dell’uditore
stesso, speculando sulle sue emozioni profonde, tramite l’opera
“immedesimatoria” dei personaggi menzionati sopra.
A ragione, dunque, è stato detto e ribadito che al Santo di Siena,
per quel suo parlare irriflesso e figurato – atto a seppellire l’uditore
sotto una terminologia dernier cri, per quell’epoca – spetta il primato
di riformatore della predicazione medioevale e di iniziatore di un
tipo di eloquenza nuova. Noi oseremmo definirlo un self made man
della letteratura omiletica, che reperiva in sé tesori di sincerità, di
intransigenza e di severità assolutamente indispensabili alla coeva
7 Termine coniato da Michail Bachtin, nei suoi studi sulla creazione artistica
di Dostoevskij. Cfr. M. Bachtin, Piano per il rifacimento del libro su Dostoevskij
(1961), in L’autore e l’eroe. Teoria letteraria e scienze umane (1979), Torino, Einaudi,
1988, p. 322.
8 G. Papini, Postille a San Bernardino, in Santi e Poeti, Firenze, Libreria Editrice
Fiorentina, 1948, p. 72.
[7] DIVAGAZIONI SU BERNARDINO DA SIENA E IL SUO UDITORIO 633
società civile e decisivi per il suo futuro progresso. In primo luogo,
è nell’uso che il francescano fa dell’exemplum che ritroviamo l’inclinazione
dialogico-gestuale della sua orazione; sermoni spiritosi come
le conferenze di un urlone di piazza, pronunciati in modo tale da
poter rifare anche il verso alla gente, imitarne le voci, mimare le
mosse degli animali, interrogare il pubblico (quando non veniva
apostrofato), scacciare i cani e i venditori ambulanti. Già le formule
introduttive dei racconti, con il loro carattere estemporaneo, svolgono
una funzione fàtica e stabiliscono un contatto familiare tra predicatore
e uditorio; si tratta di frasi quali «Vedesti mai mai di verno
li scardiccioni?»9, «Udiste tu mai quella novella della volpe e del
lupo?»10, «Doh! io voglio che tu ne porti uno essemplo, che non so’
se l’udisti mai, di quello che disse Pietro Pettinaio»11, «Doh, io ti
voglio dire quello che intervenne una volta a Siena»12, «Doh, non
considerate voi a quello che Idio ha fatto?»13, «Doh! Io ti voglio dire
uno essemplo che fu nella corte del re di Francia»14, «Avete voi
posto mente, quando uno avaro va in uno uffizio?»15, «Oimmè! O
non sapete voi quello che si fece a Roma mentre io vi predicai?»16,
eccetera. L’exemplum, a cui l’arte bernardiniana s’abbevera, affonda
le sue radici nei testi omiletici e nei sermoni ed è stato teorizzato
dai predicatori, di ogni ordine e grado, che si sono susseguiti nel
tempo. Si tratta di un apologo teso a insegnare la rettitudine di pensiero
o di comportamento. Tale racconto, dallo stile irrinunciabilmente
piano, accessibile, familiare, è un elemento retorico garante
dell’efficacia del sermone stesso. Con la sententia, da cui deriva,
l’exemplum bernardiniano condivide alcuni tratti della retorica classica:
il cosidetto aprosdòcheton (dal greco prosdivkhton, aggettivo sostantivato
che significa “inatteso”, derivante dal verbo prosdoka;w,
“attendo”), la battuta imprevista che comporta un’impennata e una
conclusione inaspettata della vicenda narrativa; una frase di chiusura
volta a denunciare la vanità (Donne dal cuore pieno di chicchirichì)
e la millanteria (La vedova sventurata), la presunzione (Il contadino in
9 Bernardino da Siena, Novellette, aneddoti, discorsi volgari, cit., p. 104 (I
cardi).
10 Ivi, p. 105 (La volpe e il lupo).
11 Ivi, p. 112 (Ammonimenti di Pietro Pettinaio).
12 Ivi, p. 117 (Madonna Saragia).
13 Ivi, p. 120 (Peccati di letto).
14 Ivi, p. 126 (La scimmia e l’orso).
15 Ivi, p. 127 (Il lupo e il cinghiale).
16 Ivi, p. 141 (Le streghe in Roma).
634 GIONA TUCCINI [8]
convento), i capricci (Quanto più hai, più ti manca) e l’incompetenza (Il
predicatore sottile e il frate grosso; L’ignoranza del profano) quali peculiarità
negative di cui il mondo di ieri, come quello di oggi, è pieno.
Proprio così, perché Bernardino ha riempito pagine che ci assomigliano
e ci fanno vergognare: i giubbini corti all’ombelico, le frappe,
gli imbratti, gli “accorgimenti” estetici quali tratti qualificanti dell’uomo
rinascimentale, non mancano di richiamare l’indecenza di
certe mode del nostro tempo. E saranno proprio questi aneddoti e
discorsi, di carattere sociale e antropologico, a farci riflettere sul
nesso esistente fra improvvisazione e arte della memoria.
L’Albizzeschi non ha mai rinunciato all’uzzolo di porre il dito
sulla piaga più cancrenosa (lo scopo del suo “parlare chiarozzo”, in
fondo, era proprio questo). Le novelle con soggetti animali, micro
filone su cui mi sono soffermato in altra sede17, sono storie fittizie
che fungono da scampoli di verità in forma di metafora. Tale definizione
è applicabile in sé a parecchie forme sapienziali: proverbi,
sentenze, battute contestualizzate, anch’essi presenti nei testi volgari
del Santo; ma, soprattutto, verrà applicata a quegli aneddoti, già
riferiti da Esopo e da Fedro, che trasferiscono le vicende del mondo
animale nella realtà umana e viceversa. Chiarificatrice, in tal senso,
è la favola Gli animali in capitolo, dove i pregi, le mancanze, le confusioni,
i luoghi comuni e le finali bancarotte dell’anima umana, a
cui accennavo poco fa, vengono valutati sul metro del fittizio, attraverso
il comportamento simbolico di alcune bestiole.
In linea di massima, la favola si è separata dal racconto quando
il narratore, preoccupatosi di essere utile, ricavò dalle sue storie una
lezione morale. Come sappiamo, la favola serviva principalmente a
insegnare, la novella a intrattenere attraverso l’esposizione di equivoci
e di beffe, di casi avventurosi – dall’accento pungente e arguto
– di vicende sentimentali più o meno felici, maliziose ed erotiche.
Ed era fondamentalmente indirizzato, il racconto breve in prosa, ad
un pubblico di non letterati che traeva diletto dall’ascolto di simili
storie. Se guardiamo attentamente, le novelle di Bernardino lasciano
indovinare la lunga e multiforme serie di esperienze narrative, sviluppatesi
ben prima del Trecento, da cui esse traggono spunti e
stoffa: oltre al già citato exemplum morale e religioso, rinveniamo
17 Si tratta dei brani XXVIII (La volpe e il lupo), XXIX (Gli animali in capitolo),
XXXVIII (La scimmia e l’orso), XXXIX (Il lupo e il cinghiale), XL (Le cornacchie e lo
spaventapasseri), in Bernardino da Siena, Novellette, aneddoti, discorsi volgari,
cit., pp. 105, 107, 126, 127, 128.
[9] DIVAGAZIONI SU BERNARDINO DA SIENA E IL SUO UDITORIO 635
traccia – per lo meno echi – di romanzi cavallereschi, dei fabliaux
francesi, dei racconti arabi e orientali diffusi in Occidente attraverso
vari canali, delle fiabe e delle storie popolari, dei racconti orali delle
brigate aristocratiche e cittadine. Talora, lo scarto tra favola e novella
è talmente sottile, da incastrarle e sovrapporle per finalità e natura.
Non a caso, in molte novelle umoristiche del francescano, troviamo
un’aggiunta conclusiva – l’epimythion degli antichi favolatori
– contenente una raccomandazione morale: «Corbo con corbo non si
cava mai occhio» è la postilla di chiusura, desunta dal regno naturale,
pronunciata a mo’ di proverbio in fondo a Gli animali in capitolo.
Un commento di saggezza analogo viene offerto, sotto forma di
domanda, alla fine dell’aneddoto su Madonna Saragia, dove ancora
una volta il predicatore si avvale di alcune qualità animali per biasimare
i comportamenti dell’uomo: «Ècci qui madonna Saragia che
si mostra così schifa, e fassi tanto da la longa, che si fa una coniglia,
e è una porca?». Formule simili ricorrono, in chiusura, anche in
Donne dal cuore pieno di chicchirichì, dove la femmina vanitosa viene
paragonata alla civetta, e nel brano Le malelingue, dove il detrattore
viene comparato ad un riccio puzzolente. Quanto alla morale espressa
nelle favole dell’Albizzeschi, essa esorta per lo più alle virtù sociali,
come la laboriosità, la lealtà e la fedeltà, la moderazione e la prudenza;
in sostanza, suggerisce quei comportamenti pragmatici e quotidiani
confacenti al milieu popolare al quale i racconti, inclusi nei
sermoni, sono spesso indirizzati.
Come è noto, Bernardino accompagnava il racconto orale con
l’ostensione di una tavoletta dorata con su scritto il nome di Gesù (il
trigramma IHS). Incominciò a farlo, perché sapeva che tutti i simboli
visibili del potere avevano un fascino pressoché immediato sulla
gente. Il suo si presentava come un solido quadrato, una specie di
orifiamma contrassegnato dal sole con i raggi a spillo e fiaccole a
ricciolo; trasposizione figurata di un anonimo canto medievale che
paragonava Cristo al sole che fu anche di Akhenaton e di Eliogabalo,
Sol occasum nesciens. Le iniziali scritte di Gesù, come stemma, emblema,
amuleto, portafortuna e sigillo (posto anche sopra l’entrata dei
bordelli), dovevano sostituire tutti gli oggetti e i simboli di guerra,
di superbia o di superstizione in circolazione nel Medioevo. «In
Nomine Jesu omne genu flectatur, coelestium, terrestrium et infernorum
», comandava il frate, sollevando sopra la massa dei fedeli la
tabulella con il nome di Gesù circonfuso di raggi… Prima di allora,
gli occhi del popolino non avevano mai visto qualcosa di simile; ora,
quegli occhi, si aprivano fulgidi di meraviglia e di fede, il cuore
636 GIONA TUCCINI [10]
batteva nella luce, nei pispigli, nella letizia di un momento così
straordinario, secondo il racconto di un testimone oculare18:
Detto questo, frate Bernardino, ardente d’amore di Spirito Santo e
dell’amore di Gesù, con fervore grande, con doppieri accesi, cavò
fuori una tavoletta di circa a uno braccio per ogni verso e in essa
figurato el nome di Gesù nel campo azzurro, con uno razzo d’oro
con lettere intorno [come vedi qui disegnato19]. Tutto el popolo, che
era piena la chiesa, inginocchione, senza nulla in capo, tutti [gridando
e20] piangendo [di dolcezza e21] di tenerezza dell’amore di Gesù,
e per grande divozione adorandolo e reverendolo.
L’uso della tabulella valse al frate, per ben quattro volte, l’accusa
di eresia: prima presso Martino V (1426), poi presso il cardinale domenicano
Giovanni Casanova (1431), poi presso la corte di Sigismondo
di Lussemburgo (1433) e infine al Concilio di Basilea (1438). Fu
incolpato d’insegnare un culto superstizioso, quasi una nuova idolatria,
come se egli vedesse nel nome di Gesù una virtù magica,
taumaturgica. Ma il francescano spiegò che quella devozione già si
trovava negli scritti di san Paolo e nei sapienti come Duns Scoto,
nell’inno Jesu dulcis memoria, attribuito a san Bernardo, nonché negli
scritti di san Francesco. E chiarì, senza mezzi termini, il senso di
quell’ostenzione: come l’uditorio adorava Gesù in carne, così doveva
adorarne il nome; non la scultura, non il colore, non il segno, ma
ciò che significavano, perché il nome di Gesù, esemplificato nelle
tre lettere dorate, designava il Salvatore, il Redentore, il Figlio di
Dio. Nondimeno, a quanto pare, il primo commerciante italiano di
oggetti sacri deve la sua fortuna proprio all’Albizzeschi, se è vero
che, come spiega Bernabò da Siena nella prima biografia che è stata
scritta sul Santo, fu lo stesso Bernardino a disegnare su un cartoncino
il trigramma, per darlo poi ad un artigiano di Bologna – certo
Valesio – che si era recato da lui, disperato. A seguito dell’ostensione
della tabulella, il popolo di Bologna, impressionatissimo, aveva acce-
18 S. Bernardino da Siena, Le prediche volgari [Quaresimale di Firenze del
1424], a cura di C. Cannarozzi, 2 voll., Pistoia, Pacinotti, 1934, tomo II, p. 213-
214. Tra parentesi quadre racchiudo le varianti contenute nel codice II.II.392 (già
Magl. cl. XXXV, 196) della Biblioteca Nazionale di Firenze, quelle del codice
Conv. Soppr. F.6.1329 sempre della Nazionale di Firenze e del codice Ricc. 1264
(anticamente P.II.23) della Biblioteca Riccardiana.
19 BNCF manoscritto II.II.392.
20 BNCF manoscritto Conv. Soppr. F.6.1329 codice Ricc. 1264.
21 BNCF manoscritto Conv. Soppr. F.6.1329 codice Ricc. 1264.
[11] DIVAGAZIONI SU BERNARDINO DA SIENA E IL SUO UDITORIO 637
so il “castello del diavolo”, un grande falò in cui vennero arsi dadi,
tavolieri, scacchiere e, soprattutto, i tarocchi dipinti a mano di cui,
da lungo tempo, i bolognesi erano esperti creatori. Valesio raccontò
a Bernardino di essere uno degli artigiani della città che campava
dipingendo quelle carte, e che ora lui e i suoi figli non avrebbero
più avuto di che mangiare. «Quand’è così» – pare abbia risposto
Bernardino – «bisognerà che ti dia qualche altra cosa da vendere»;
fu allora che, preso un pezzo di cartone grezzo, vi disegnò il suo
emblema, ordinando a Valesio di dipingerlo e di venderlo al posto
dei tarocchi. In tal modo, l’artigiano si trovò ad avere tanti di quei
clienti che il pane non gli mancò mai più22. L’episodio bolognese
non fu l’unico, ma va ricondotto alla logica di una Riforma morale
più generale che, poi, fu anche la più antica del Quattrocento. Sì,
perché il predicatore francescano può essere considerato il precursore
del Savonarola se, come narra Vespasiano da Bisticci, il primo
bruciamento delle vanità lo si deve proprio a lui, il 9 aprile del 1424
in quel “nido di demoni” che era Firenze, ventotto anni prima che
il frate di Ferrara venisse al mondo23. Con i falò di Firenze e di
Bologna, Bernardino rivelava l’essenza della sua idea di Rinascimento
e assestava un duro colpo al Neopaganesimo.
A questo punto, torniamo brevemente alla fama del senese per
affermare che la suggestione della sua oratoria si deve, in buona
misura, anche all’esposizione di un oggetto nitido (la tabulella sacra
appunto) che accreditava memorabilità ed effetto drammatico alla
predicazione. Essa era una finestra spalancata sul mistero, attraver-
22 L’aneddoto è riportato nella Vita di San Bernardino ad opera di Bernabò
da Siena, in «Acta Sanctorum», Maii, IV, p. 743.
23 «Venendo a Firenze la trovò molto corrotta ne’ vizi; attese a fare come
aveva fatto negli altri luoghi, ch’era detestargli e dannargli; di natura che, sendo
i Fiorentini assai bene disposti alla via della verità, dannando ogni vizio nella
sua natura, condusse in modo questa città, ch’egli la mutò, e fèlla, si può dire,
rinascere. E per levare via i capegli alle donne, che li portano, che non sono
loro, e giuochi e vanità, fece fare uno capannuccio in su la piazza di Santa
Croce, e disse a ognuno che aveva di quelle vanità, che ve le portasse, e così
feciono; misevi fuoco, e arse ogni cosa; che fu cosa mirabile a vedere di mutare
gli animi di chi s’era vòlto in tutto alle pompe e fasti del mondo. Perché dice
santo Giovanni Grisostomo, ch’egli è più facile a Dio di potenza ordinaria creare
il cielo e la terra un’altra volta di nuovo, che mutare l’animo d’uno uomo,
per la libertà dell’arbitrio che gli ha dato». Vespasiano da Bisticci, Vita di San
Bernardino, premessa a Prediche volgari di San Bernardino da Siena, ora primamente
edite da L. Banchi, 3 voll., Siena, Tip. Edit. all’inseg. di S. Bernardino, 1880-
1888, tomo I, pp. XXI-XXII.
638 GIONA TUCCINI [12]
so la quale il fedele intraprendeva, con i sensi, un percorso dal
visibile all’invisibile, dal materiale allo spirituale. L’Albizzeschi, imponendo
la visione del nome di Cristo allo sguardo rischiarato della
massa, rinterpretava l’opera di evangelizzazione francescana, allo
scopo di trattare i maggiori temi morali (quali il matrimonio, la
vendetta, la lotta politica, la dignità della donna, l’usura, la stregoneria)
e i vizi (l’omosessualità e il celibato protratto) con la stessa
immaginativa e concretezza del teatro buffonesco. Quando il frate
arriva a Siena, nell’estate del 1427, dopo tanti sermoni pronunciati
in tutte le regioni centro-settentrionali della Penisola, in Italia non vi
è uomo più famoso di lui. La società del tempo – relativamente
ricca ma politicamente instabile, angosciata dai conflitti e già avviata
da ricorrenti pestilenze al declino demografico – gli si rivolge
tutta in cerca di consigli. A lui ricorrono uomini e donne semplici,
ma anche duchi famosi e grandi potentati. E Bernardino, che aveva
intuito le loro emergenze e le loro possibilità di riscatto, rispondeva
al singolo e alle folle, sfruttando magnificamente l’Onnipotente; ossia,
sottomettendo l’uditorio al pensiero collettivo dominante (quello della
Chiesa che fa di Dio una giustificazione del proprio regime totalitario),
cercando di condizionare l’individuo anche nelle questioni pratiche
quando, fino ad allora, almeno sul piano del quotidiano, l’uomo
aveva pensato con la propria testa, in modo empirico e adogmatico.
In una bella pagina pubblicata nel 1913, Massimo Bontempelli
sosteneva che il futuro Santo era perfettamente cosciente sia della
portata della sua opera di predicatore, sia dell’indole e della novità
dei suoi mezzi24. Essi rispondevano a un programma studiosamente
elaborato ed esattamente attuato, fondato sulla circolarità dei temi:
quelli cari alla trattatistica borghese (la mercatura, il matrimonio, la
maternità) e quelli di carattere prettamente teologico. La necessità
di affidare la memorizzazione dei princìpi morali ad aneddoti e
racconti ben articolati e delimitati con precisione, impone al racconto
stesso uno schema contrassegnato da polarità interna. Nasce così
quel ritmo tematico che fornisce uno dei supporti primari del ricordo,
sia della specifica trama, sia del significato simbolico che si è
voluto denotare. Favola e racconto obbediscono strutturalmente
proprio a questa necessità25. Tuttavia, il “patrimonio morale”, rac-
24 M. Bontempelli, Un oratore sacro: S. Bernardino da Siena, in «L’eloquenza»,
III, 1913, 7-8, p. 51.
25 Cfr. G. Tuccini, Opere e doveri di un frate giustiziere, in Bernardino da
Siena, Novellette, aneddoti, discorsi volgari, cit., p. 23.
[13] DIVAGAZIONI SU BERNARDINO DA SIENA E IL SUO UDITORIO 639
chiuso nelle narrazioni dell’Albizzeschi, s’arricchisce grazie all’abilità
del francescano di sfruttarne le possibilità semantiche, attraverso
la combinazione di un numero circoscritto di prototipi (il prete,
l’ebreo, il mercante, la donna, il povero, l’omosessuale, il sovrano, il
miscredente) con dei motivi conduttori: alla donna faranno capo
temi quali la stregoneria, la lussuria, la maternità, la fede, al sovrano
i motivi dell’equanimità, dell’indulgenza, della generosità o dell’avarizia,
nel mercante ritornano tutti questi contenuti, ora in modo
tragico ora in modo buffo. Come dicevamo poc’anzi, tale ciclicità
tematica, al livello del racconto, viene affidata al circuito della memoria
collettiva, affinché esso non perda mai l’efficacia pedagogica.
Talora, la ripetizione consiste nel riferire uno stesso aneddoto in
luoghi diversi, come nel caso dell’episodio della fanciulla di Genova
che vuole scegliersi il marito; storiella raccontata a Firenze l’11 aprile
1424 e poi a Siena il 3 settembre 1427, minimamente variata.
Abbiamo scritto che molti di questi aneddoti mirano ad una institutio
moralis che interessava, in primo luogo, l’individuo e di riflesso i
maggiori problemi della società (l’amministrazione della giustizia,
l’etica economica, i rapporti tra le fazioni politiche); brani atti a
rivelare il valore di un gesuato che non ebbe paura di condannare
la classe dirigente del tempo e perfino i giudici, per la loro avidità
e prepotenza26. Altri testi ancora, invece, rappresentano il tracciato
cartografico di un processo di repressione, promosso dal Santo, su
cui ci siamo soffermati nell’introduzione alle Novellette; processo che
si tinge con i colori dell’horror là dove, ad essere soffocati con i fumi
dei roghi, sono gli scismatici, le streghe e gli omosessuali.
Dalle pagine scritte contro i miscredenti, la sodomia e la negromanzia
– ma anche nei discorsi eziologici sull’origine e la funzione
antisodomitica delle donne – emerge, come una minorazione, il
carattere impavido e l’intellettualismo rigido di Bernardino. In fondo,
l’etimologia tedesca del suo nome lo designa “ardito come orso”…
Nel trattare questi argomenti, infatti, il monaco imponeva un ferreo
codice disciplinare che non manca di rievocare le crudeltà di Cerbero
e del Minosse dantesco; come nel seguente episodio raccontato da lui
impietosamente, con l’ambizione di dare alla gente un suggerimento:
Fu una volta in uno reame, che v’era questo maledetto vizio della
sodomia. Al re di quello reame, molto dispiaceva. Uno dì uno dei
suoi cavalieri che aveva in dispetto questo vizio ne va al re e dice:
26 Funzionale a questo discorso risulterà, ancora una volta, la lettura del brano
XXIX (Gli animali in capitolo).
640 GIONA TUCCINI [14]
– Perché non trovate modo che si spenga questo vizio?
Disse il re:
– Se ti dà il cuore di stirparlo, tu sarai il maggiore amico che abbia.
Dice il cavaliere:
– Datemi la vostra libertà, che io possa fare in questo, ciò che voglio;
e lasciate fare a me.
Il signore gliela diè.
Va questo cavaliere, e piglia seco di molti fanti armati; e vassene
nelle principal terra.
E va per la terra, e trova uno di questi sodomiti. Dice a questi fanti:
– Tagliate costui a pezzi!
E così fecero. Va più là, e trovane un altro.
– Tagliate costui a pezzi!
E così fecero. E a questo modo faceva in tutte le terre di quel re: ché
non aspettava altra sentenza se non che caldi caldi tutti gli tagliava
a pezzi. E a questo modo in poco tempo stirpò sì questo vizio che
non vi ritornò27.
Facendo propri simili racconti, l’uditorio veniva scosso da passioni
furenti, insorte da chissà quali profondità telluriche, e il suo
torpore partiva al galoppo, afferrato da un raptus riformatore. I
Governatori di Siena, poi, approvandole, dettero alle norme contenute
nelle prediche bernardiniane, il valore di legge. E furono le
Riformagioni di San Bernardino. Questo fu senz’altro il più grande
attestato di stima che i senesi potessero dargli.
Attraverso gli ammaestramenti dell’Albizzeschi, milioni di persone
credettero di raggiungere la realtà assoluta al di là delle convenzioni.
Sul piano letterario, fu uno spirito insonne che segnò il
massimo fulgore del Quattrocento volgare (non dimentichiamoci che
la tradizione del racconto ritrovò in lui un senso complesso, profondo).
Cinque secoli dopo, a rivendicare la grandezza della scrittura
bernardiniana, furono letterati come Massimo Bontempelli e Federigo
Tozzi. Bontempelli ne sottolineava la spontaneità di stile, la capacità
illimitata di comunicare un messaggio e di coinvolgere il pubblico.
Tozzi, invece, ci trovava la liberazione delle sensazioni umane: sospettava
che desse vita alle cose meno suscettibili d’essere scritte28.
Giona Tuccini
27 S. Bernardino da Siena, La trovata del cavaliere, in Racconti ed episodi morali,
a cura di G. Auletta, Modena, Edizioni Paoline, 1964 (7ª ediz.), pp. 111-112.
28 F. Tozzi, San Bernardino da Siena, in «Il Messaggero della domenica», 5
ottobre 1918. Ora in Pagine critiche, a cura di G. Bertoncini, Pisa, Edizioni ETS,
1993, p. 236.
ARMANDO BISANTI
Navigando nell’oceano dei racconti salgariani*
During his life Emilio Salgari (1862-1911) wrote about 150 tales of
adventures, often published under pseudonyms (cap. Guido Altieri, S.
Romero, Enrico Bertolini, etc). They mirror the variety and scope of
the subjects dealt with by Salgari in his novels. The first part of my
paper reviews the existing bibliography on Salgari’s tales. The second
part analyzes three collections of tales, Le novelle marinaresche di Mastro
Catrame (Torino, Speirani, 1894), Nel paese dei ghiacci (Torino, Paravia,
1896), Le grandi pesche dei mari australi (Torino, Speirani, 1904), and the
short story I predoni del gran deserto (Napoli, Urania, 1911).
1. Ricognizione bibliografica
1.1. La prima raccolta antologica di racconti salgariani apparve
nel 1923. Essa si intitolava Il brick del diavolo (dal titolo del primo
racconto ivi esibito), era pubblicata dalla Società Editrice L’Italica di
Milano1 ed era curata da Luigi Motta, certamente il più importante
fra i discepoli e gli imitatori (i cosiddetti “nipotini”) di Emilio Salgari2.
* Dedico questo lavoro alla memoria di Maria Elena (Lalla) Sacco Bisanti, la mia
nonna paterna che mi regalò, in occasione del mio decimo compleanno (nel 1967),
il mio primo libro salgariano (si trattava de Il figlio del Corsaro Rosso, in una edizione
Carroccio splendidamente illustrata ma – me ne accorsi tanti anni dopo – abbondantemente
tagliata), e alla memoria di Giuseppe Bisanti, mio padre (venuto a mancare
nel 2004), che mi insegnò a leggere, ad apprezzare e ad amare le avventure
create dal padre di Sandokan e di Yanez, del Corsaro Nero e del Leone di Damasco.
1 E. Salgari, Il brick del diavolo, Milano, Società Editrice L’Italica, 1923. Utilizzo
la ristampa anastatica: E. Salgari, Il brick del diavolo, Cavallermaggiore,
Gribaudo, 1994.
2 Luigi Motta (Bussolengo, 1881 – Milano, 1955) fu il più celebre e fecondo
fra i continuatori e gli imitatori di Emilio Salgari, autore di una enorme quantità
di romanzi d’avventure e di fantascienza, spesso articolati per cicli (degli
adoratori, dell’Africa australe, dei tempi futuri, di Bisanzio). Su di lui, si vedano
i molti studi di F. Pozzo, fra i quali ricordo qui Luigi Motta, «LG Argomenti»,
642 ARMANDO BISANTI [2]
Il brick del diavolo comprendeva complessivamente tredici racconti
“salgariani”, tutti apparsi sul periodico «Per Terra e per Mare»
diretto, coordinato e in gran parte redatto dallo stesso Salgari per
l’editore Antonio Donath fra il 1904 ed il 1906. Innanzitutto, due di
questi racconti sono sicuramente apocrifi, come hanno mostrato le
indagini dei più recenti studiosi salgariani (anche se Luigi Motta,
inserendoli nel volume da lui curato, li riteneva probabilmente originali):
tali sono da considerarsi, infatti, Le meravigliose avventure di
caccia, lungo racconto apparso in dodici puntate sui nn. 28-40 (1904)
di «Per Terra e per Mare», a firma di John Staar (qui riproposto col
titolo Le caccie [sic!] nell’India); e Il vascello della morte, già comparso
in «Per Terra e per Mare», n. 26 (1905), e qui accolto col titolo La
nave fantasma. Gli altri undici racconti sono, invece, sicuramente
autentici. Si tratta de Il brick del diavolo, edito sul n. 19 (1905) della
rivista; Lo scheletro della foresta (qui col titolo Il mistero della foresta),
uno dei racconti più giustamente celebri di Salgari, apparso in due
puntate sui nn. 41 e 42 (1904) di «Per Terra e per Mare»; In mezzo
all’Atlantico (qui riproposto con l’apocrifo titolo In mezzo all’Oceano),
pubblicato sul n. 16 (1904) della rivista e con lo pseudonimo di
Enrico Bertolini3; Gli orrori della fame nell’India (qui col titolo La fame
nell’India), comparso sul n. 26 (1904) di «Per Terra e per Mare»,
anch’esso con lo pseudonimo di Enrico Bertolini; Sull’Oceano Indiano,
già pubblicato sul n. 13 (1904) della rivista; I pescatori dello Stretto
di Behering, pubblicato sul n. 24 (1904) della rivista, con lo pseudonimo
di S. Romero4; Il castello degli spiriti, apparso sul n. 25 (1905) di
«Per Terra e per Mare», un’intrigante storia di fantasmi fasulli in un
castello della Bretagna (Salgari, d’altronde, non credeva affatto ai
fantasmi, come dimostrano le pagine de Gli scorridori del mare, de La
3 (1981), pp. 23-32; Luigi Motta. La sua attività di romanziere sino al 1920, «Almanacco
Piemontese», 1984; Luigi Motta sulle orme di Salgari, «Studi piemontesi», 23
(1994), pp. 375-380; Emilio Salgari e dintorni, Napoli, Liguori, 2000, pp. 68-89 e
passim; nonché quelli di P. Azzolini, La grande tormenta del discepolo Motta, in «Io
sono la Tigre». Atti del Convegno di Verona del gennaio 1991, a cura di S. Gonzato,
Verona, Banca Popolare di Verona, 1991, pp. 97-109; L’avventura di Luigi Motta.
Per una biografia, «Salgariana. Sezione del Bollettino della Biblioteca Civica di
Verona», 2 (1996), pp. 149-157.
3 Su questo, e gli altri racconti pubblicati da Salgari con lo pseudonimo di
Enrico Bertolini, cfr. E. Salgari, Storie con la maschera, a cura di F. Pozzo,
Atripalda (AV), Mephite, 2003.
4 Con il medesimo pseudonimo Salgari pubblicò il romanzo Gli scorridori del
mare (Genova, Donath, 1900), che costituisce, in realtà, una non del tutto riuscita
rielaborazione del precedente I drammi della schiavitù (Roma, Voghera, 1896).
[3] NAVIGANDO NELL’OCEANO DEI RACCONTI SALGARIANI 643
“Bohème” italiana e, soprattutto, Le novelle marinaresche di Mastro
Catrame); La tigre di Laparam (qui col titolo La tigre misteriosa), pubblicato
in due puntate sui nn. 27 e 28 (1905) della rivista; I moderni
Robinson, pubblicato sul n. 48 (1905) di «Per Terra e per Mare»5;
L’isola delle Sette Città (qui col titolo L’isola del Mar dei Sargassi), già
comparso sul n. 20 (1905) di «Per Terra e per Mare»6; e, infine, Un
tragico naufragio, apparso sul n. 18 (1904) della rivista, con lo pseudonimo
di Romero S.
Si trattò, per l’epoca in cui apparve, di una pubblicazione importante,
in cui per la prima volta, a soli dodici anni di distanza dal
tragico suicidio dello scrittore veronese, si cercava di mettere un po’
d’ordine nell’ingarbugliata matassa dei racconti salgariani, cercando
di districarsi abilmente fra i vari pseudonimi con cui lo scrittore veronese
aveva firmato buona parte dei racconti, delle novelle e degli
articoli apparsi su «Per Terra e per Mare»7.
Salgari, come è noto, aveva pubblicato innumerevoli racconti per
molte riviste e collane editoriali per l’infanzia e l’adolescenza, oltre
a quelli apparsi in «Per Terra e per Mare» e oltre ai 67 racconti
presentati, fra il 1901 ed il 1906, con lo pseudonimo di cap. Guido
Altieri, nella «Bibliotechina Aurea Illustrata» dell’editore Biondo di
Palermo8. Nel 1905, col medesimo pseudonimo di cap. Guido Altieri,
egli aveva pubblicato tredici racconti nella collana «Piccole avventure
di terra e di mare», edita a Torino dai fratelli Speirani9. Altri
5 Quello di Robinson è uno dei temi narrativi ricorrenti nei romanzi e nei
racconti salgariani (si pensi al romanzo I Robinson italiani, Genova, Donath,
1896; cfr. L. Clerici, I Robinson salgariani, in Molti, uno solo. Tipologie della letteratura
giovanile, a cura di D. Mazza, Firenze, La Nuova Italia, 1994, pp. 111-140).
6 Su questo racconto, cfr. F. Pozzo, L’isola delle sette città, in Emilio Salgari e
dintorni, cit., pp. 129-143.
7 Cfr. Id., Nella giungla degli pseudonimi salgariani, «Quaderni di storia», 45
(1997), pp. 155-167.
8 Di questi 67 racconti si tornerà a parlare a più riprese nel corso di questa
rassegna.
9 Si tratta dei racconti Il tamburino giapponese, Un terribile naufragio, Le tigri del
mare, Il tesoro delle caverne d’Ellora, Il cacciatore di caimani, Il naufragio dell’Alabama,
Fra gli indiani del Far-West, Un dramma sull’Atlantico, Gli antropofagi del deserto di
pietre, Una terribile avventura sul Congo, Yanko il torpediniere, La mano rossa, Il rajah
di Bitor. I racconti Il tamburino giapponese e Yanko il torpediniere sono stati di
recente riediti in appendice a E. Salgari, L’eroina di Port Arthur. Avventure russogiapponesi
e altri racconti (Il tamburino giapponese, Janko il torpediniere, I banditi della
Manciuria, I lottatori giapponesi, Le geishe giapponesi), a cura di F. Pozzo e G.
Viglongo, Torino, Viglongo, 1990; i racconti Le tigri del mare, Una terribile avven644
ARMANDO BISANTI [4]
racconti erano già comparsi sul periodico milanese «La valigia»10;
altri ancora apparvero, ancora con lo pseduonimo di cap. Guido
Altieri, su «Psiche. Letture moderne illustrate» e su «Almanacco
moderno illustrato per le famiglie» (1901-1905), riviste pubblicate
entrambe dall’editore palermitano Salvatore Biondo11; su «Il giornalino
della domenica» di Firenze (1906)12; e inoltre sul settimanale
«L’innocenza, Giornale illustrato per bambini» e sulla «Biblioteca
per l’infanzia e l’adolescenza»13. L’ultimo racconto noto di Salgari,
Una vendetta malese, fu edito poi in appendice al romanzo La “Bohème”
italiana (Firenze, Bemporad, 1909)14.
Quantunque pulluli di refusi che, talvolta, infastidiscono non
poco la lettura e sia fondato su testi non sempre filologicamente
sicuri e corretti, Il brick del diavolo merita, in ogni caso, di essere
conosciuto, anche perché i due già menzionati racconti apocrifi in
esso presenti, e soprattutto Le meravigliose avventure di caccia, sono
degni di essere riscoperti e, magari, studiati con attenzione. Non
tura sul Congo e Il rajah di Bitor sono apparsi, fra l’altro, in E. Salgari, Gli
antropofaghi del Mare del Corallo. Racconti ritrovati, a cura di F. Pozzo, Milano,
Mondadori, 1995, pp. 278-285, 286-293 e 294-301.
10 Fra questi, si ricordi quello che, in assoluto, è il primo racconto noto del
Salgari, cioè I selvaggi della Papuasia («La Valigia», in quattro puntate, dal 26
luglio al 16 agosto 1883, ora in E. Salgari, Gli antropofaghi del Mare del Corallo,
cit., pp. 21-34).
11 Si tratta dei racconti Lo stagno dei caimani («Psiche» [1901], «irreperibile
fino ad oggi», come avverte V. Sarti, Nuova bibliografia salgariana, Torino, Pignatone,
19942, p. 134); La rupe maledetta («Almanacco moderno illustrato per le
famiglie» [1902], recuperato da Giuseppe Turcato e pubblicato su «L’Arena» di
Verona il 3 novembre 1993 a cura di S. Gonzato); La torre del silenzio («Almanacco
moderno illustrato per le famiglie» [1903]); Il mio terribile segreto («Psiche»,
38 [1904], qui con lo pseudonimo di E. Bertolini); e Il Mocassino Sanguinoso (in
quattro puntate, «Psiche», 29 [1905], racconto recuperato da Emilio Firpo e pubblicato
in «Nuovi Argomenti», 4 [1983], a cura di F. Pozzo, e, di lì, in E. Salgari,
Gli antropofaghi del Mare del Corallo, cit., pp. 265-277).
12 Cfr. E. Salgari, Gli antropofaghi del Mare del Corallo, cit., p. 13.
13 Su quest’argomento cfr. gli studi di F. Pozzo, Emilio Salgari e il settimanale
«L’Innocenza», «LG Argomenti», 3 [1979], pp. 12-15; Id., Il primo periodo torinese
di Emilio Salgari: «Attraverso l’Atlantico in pallone» e la «Biblioteca per l’infanzia e
l’adolescenza», «Studi piemontesi», 15 [1986], pp. 393-397; Id., Salgari onesto pedagogo
per la rivista «L’Innocenza», «Almanacco Piemontese» [1996]; l’elenco completo di
tali articoletti per bambini si può leggere in Id., Emilio Salgari e dintorni, cit., pp.
302-304.
14 Il racconto è stato ripubblicato in E. Salgari, Gli antropofaghi del Mare del
Corallo, cit., pp. 302-328. Un’altra novella, dal titolo I drammi del mare, era stata
pubblicata in appendice alla prima ediz. del romanzo “fantascientifico” Le meraviglie
del Duemila (Firenze, Bemporad, 1907).
[5] NAVIGANDO NELL’OCEANO DEI RACCONTI SALGARIANI 645
saranno stati scritti da Salgari, ma il fatto che egli li accettò per la
pubblicazione sulla propria rivista la dice lunga sulla qualità di tali
testi, che, fra l’altro, riflettono molte delle tematiche più tipiche e
caratteristiche del Salgari autentico.
1.2. Undici anni dopo, nel 1934, la casa editrice fiorentina Bemporad
(l’ultima delle “storiche” case editrici con cui collaborò Salgari
in esclusiva dal 1906 alla morte) pubblicò altri racconti salgariani,
con il titolo L’ultimo corsaro15.
Ancora vent’anni dopo, nel 1954, fu curato da Mario Morini (per
la casa editrice Marvimo di Milano) un volume dal titolo Storie rosse16,
da non confondersi, però, col precedente, omonimo volume edito nel
1910 dalla casa editrice Bemporad di Firenze e contenente 15 brani di
romanzi salgariani pubblicati dallo stesso Bemporad fra il 1895 (Un
dramma nell’Oceano Pacifico) ed il 1910 (Le Selve Ardenti), con illustrazioni
di Alberto Della Valle, Giuseppe Garibaldi Bruno, Carlo Chiostri
e Gennaro Amato, raccolti, ordinati e arricchiti da una biografia di
Achille Lanza e da brevi cenni introduttivi ai singoli brani17. Quello
curato da Morini, invece, era un volume di contenuto completamente
differente, trattandosi infatti di una silloge di 23 racconti salgariani
già precedentemente apparsi in varie sedi (qui presentati, in alcuni
casi, con il titolo più o meno sensibilmente modificato).
Molti dei racconti ivi presentati erano già apparsi, con lo pseudonimo
di cap. Guido Altieri, nei fascicoletti della «Bibliotechina
15 E. Salgari, L’ultimo corsaro, Firenze, Bemporad, 1934.
16 Id., Storie rosse, a cura e con prefazione di M. Morini, Milano, Marvimo,
1954. Per una ristampa del vol., cfr. Id., Storie rosse, Milano, Fabbri, 1969 (n. 52
della collana «Tigri e Corsari»).
17 Si dà qui di seguito l’elenco dei brani di cui è composto il vol. in questione,
accompagnati dall’indicazione, fra parentesi, del romanzo dal quale sono
stati tratti: 1) La caverna degli antropofaghi (da Il tesoro della Montagna Azzurra,
1907); 2) Il campo degli Apaches (da Il Re della prateria, 1896); 3) L’assalto dei
Patagoni (da La “Stella dell’Araucania”, 1906); 4) Nella città sottomarina (da Le
meraviglie del Duemila, 1907); 5) L’incendio della nave (da Un dramma nell’Oceano
Pacifico, 1895); 6) Il Re dell’aria (da Il “Re dell’aria”, 1907); 7) La caccia al conte di
Ventimiglia (da Il figlio del Corsaro Rosso, 1908); 8) La milizia dei disperati (da
Sull’Atlante, 1907); 9) I bufali selvaggi (da Sandokan alla riscossa, 1907); 10) Le
meravigliose trovate di un guascone (da Gli ultimi filibustieri, 1908); 11) Una confessione
penosa (da I corsari delle Bermude, 1909); 12) Alle estreme terre boreali (da Una
sfida al Polo, 1909); 13) La leggenda del cavallo bianco (da Sulle frontiere del Far-West,
1908); 14) Una partita di boxe nella prateria (da La Scotennatrice, 1909); 15) Le guerre
indiane e le Selve Ardenti (da Le Selve Ardenti, 1910).
646 ARMANDO BISANTI [6]
Aurea Illustrata», pubblicata dall’editore Biondo di Palermo fra il
1901 ed il 190618 (indico fra parentesi il numero originario del
fascicoletto): così La corriera della California (n. 167), Nella Pampa
argentina (n. 132), Il bisonte nero (n. 159), Il piccolo esploratore (n. 100),
Un’avventura nel Gange (n. 75), La pantera nera (n. 225), Il Re dei Re
(n. 186), Nel paese degli Zulù (n. 179), Lo schiavo della Somalia (n. 163),
I naufragatori del Canada (n. 122), Il ponte maledetto (n. 171), Il piccolo
guerriero del Transwaal (n. 183), Nel regno delle tenebre (n. 151), L’Isola
del Diavolo (n. 249) e I pescatori di merluzzo (n. 165, col titolo I pescatori
di merluzzi). Altri racconti, presentati sempre con lo pseudonimo
di cap. Guido Altieri, erano apparsi in altre sedi: così Fra gli Indiani
del Far-West e Il tamburino giapponese, pubblicati entrambi nel 1905
nella collana «Piccole avventure di terra e di mare», pubblicata
dall’editore Speirani di Torino. Un racconto, L’isola dei cannibali, era
apparso, col titolo corretto Gli antropofaghi del Mare del Corallo, su «Il
giovedì», in quattro puntate, dal 7 al 28 gennaio 1897, e quindi era
stato pubblicato in un volumetto autonomo (Torino, Speirani, 1898:
con l’apocrifo titolo L’isola dei cannibali esso era apparso poi come n.
66 della collana «I racconti di avventure», pubblicata dall’editore
Sonzogno di Milano fra il 1935 ed il 1941); un altro, Un soldato della
Mezzaluna, era apparso, col titolo corretto Sulla frontiera albanese, sul
n. 47 (1905) della rivista «Per Terra e per Mare». Altri ancora, allo
stato attuale delle mie conoscenze, erano già apparsi nella or ora
ricordata collana de «I racconti di avventure», pubblicata dall’editore
Sonzogno di Milano fra il 1935 ed il 1941, anche se non saprei dire
fino a che punto essi possano essere considerati originali:19 così La
18 Questi racconti sono stati tutti esemplarmente pubblicati, in tempi recenti,
da Mario Tropea: cfr. E. Salgari (cap. Guido Altieri), I racconti della «Bibliotechina
Aurea Illustrata» dell’editore Biondo di Palermo con i disegni originali di
Corrado Sarri, a cura di M. Tropea, vol. I, prefazione di M. Tropea, saggi di C.
Gallo, C. Lombardo, F. Pozzo, Torino, Viglongo, 1999; E. Salgari (cap. Guido
Altieri), I racconti della «Bibliotechina Aurea Illustrata» dell’editore Biondo di Palermo
con i disegni originali di Corrado Sarri e Sardofontana, vol. II, con prefazione e
a cura di M. Tropea, Torino, Viglongo, 2001; E. Salgari (cap. Guido Altieri),
I racconti della «Bibliotechina Aurea Illustrata» dell’editore Biondo di Palermo con i
disegni originali di Giuseppe Garibaldi Bruno, Corrado Sarri e illustrazioni tratte dal
«Giornale illustrato dei viaggi», vol. III, a cura e con saggi introduttivi e finali di
M. Tropea e con una nota sulla «Bibliotechina Aurea illustrata» di C. Gallo e C.
Lombardo, Torino, Viglongo, 2002.
19 Essi, infatti, non sono compresi, almeno coi titoli con cui Morini li pubblicò,
nella bibliografia salgariana redatta da F. Pozzo, Emilio Salgari e dintorni, cit.,
pp. 299-309.
[7] NAVIGANDO NELL’OCEANO DEI RACCONTI SALGARIANI 647
barriera di fuoco (n. 74), La statua di Visnù (che corrisponde però a Il
tesoro delle caverne d’Ellora, apparso insieme a Un eroico messaggero nel
n. 67)20, La caccia all’uomo (n. 73). Per quanto concerne infine l’ultimo
racconto, Gli scorridori della prateria, non mi è stato finora possibile
individuare l’origine di esso (probabilmente si tratta di un apocrifo).
1.3. Altre raccolte di racconti si susseguirono nei quarant’anni
intercorrenti fra il 1954 ed il 1995. Fra queste, ricordiamo qui, un
po’ a volo d’uccello, i due volumi pubblicati nel 1959 e intitolati
Cento anni di avventure sugli oceani21; l’antologia Avventure di prateria,
di giungla e di mare curata da Daniele Ponchiroli nel 197122; i Racconti
avventurosi editi nel 197423; la raccolta (completa, almeno sulla carta)
di Tutti i racconti e le novelle di avventure curata da G. Cristini e
pubblicata dalla casa editrice Mursia nel 197724; e, infine, i Racconti
di avventure curati da Salvatore Pagano e Walter Fochesato nel 199125.
Per poter disporre di una antologia di racconti salgariani il cui
testo fosse filologicamente sicuro e completo, poiché fondato su una
attenta verifica delle edizioni originali, bisognò però attendere addirittura
il 1995, anno in cui, per l’editore Mondadori di Milano, comparve
negli “Oscar” la silloge Gli antropofaghi del Mare del Corallo,
egregiamente curata e prefata da Felice Pozzo26. La raccolta comprende
ben 25 racconti “ritrovati” (come recita il sottotitolo del
volume), alcuni dei quali già abbastanza noti agli specialisti (I selvaggi
della Papuasia, Le grandi cacce nelle Sunderbunds indiane, Le grandi
pesche nei mari australi, I polipi giganti, La spedizione degli elefanti nel
Delta Gangetico, Gli antropofaghi del Mare del Corallo, Le grandi cacce
nell’Africa australe, Fra gli indiani del Rio Vermejo, Sull’Oceano Indiano,
20 Mi ha scritto, a tal proposito, Felice Pozzo in una lettera del 5 aprile 2006:
«Ma, insomma, persino i Morini e i Ponchiroli hanno utilizzato in buona fede
alcuni testi arbitrariamente variati (insieme ai titoli) da Sonzogno negli anni
Trenta. E così ecco spuntare dal nulla La statua di Visnù che è in realtà […] Il
tesoro delle caverne d’Ellora».
21 E. Salgari, Cento anni di avventure sugli oceani, Roma, Vito Bianco, 1959.
22 Id., Avventure di prateria, di giungla e di mare, a cura di D. Ponchiroli,
Torino, Einaudi, 1971 (di questo vol. si parlerà fra breve, a proposito della
seconda ediz. di esso, apparsa nel 2002).
23 Id., Racconti avventurosi, Milano, Sugarco, 1974.
24 Id., Tutti i racconti e le novelle di avventure, a cura di G. Cristini, Milano,
Mursia, 1977.
25 Id., Racconti di avventure, a cura di S. Pagano e W. Fochesato, Borgo San
Dalmazzo, Edizioni Bertello, 1991.
26 Id., Gli antropofaghi del Mare del Corallo, cit.
648 ARMANDO BISANTI [8]
Lo scheletro della foresta, Il Mocassino Sanguinoso, Le tigri del mare, Una
terribile avventura sul Congo, Il rajah di Bitor e Una vendetta malese).
Tre racconti, poi, furono pubblicati da Salgari con il solito pseudonimo
di cap. Guido Altieri nella già menzionata «Bibliotechina Aurea
Illustrata» dell’editore Biondo di Palermo (anche in questo caso indico
fra parentesi il numero originario del fascicoletto): si tratta dei
racconti La perla nera (n. 112), Negli abissi dell’Oceano (n. 161) e Il re
di Tikuno (n. 228).
Altri racconti rappresentano, invece, delle vere e proprie “primizie”
(di quelle cui Pozzo ci ha sovente abituati in oltre trent’anni di
fervida attività di ricerche salgariane): così Il figlio del naufragio (apparso
ne «Il Novelliere Illustrato» di Torino il 17 dicembre 1893),
Un mostro … nemico dei pescatori (già pubblicato nel settimanale degli
Speirani «L’Innocenza» il 30 dicembre 1893), Inghiottiti dal Maëlstrom
(già comparso sul «Silvio Pellico», in due puntate, dal 18 al 25
febbraio 1894), La pesca dei pescicani (apparso ne «Il Novelliere Illustrato
» il 18 novembre 1894), La pesca delle perle (già edito nella
«Biblioteca per l’infanzia e l’adolescenza» di Torino il 15 dicembre
1894), Fra le Pellirosse (pubblicato nel «Silvio Pellico», in tre puntate,
dal 20 gennaio al 3 febbraio 1895) e La Pasqua del mozzo (già sulla
«Biblioteca per l’infanzia e l’adolescenza» del 15 aprile 1895).
Su alcuni di questi racconti, vale la pena di soffermarsi brevemente,
servendosi della via maestra tracciata da Felice Pozzo nella breve
ma succosa introduzione al volume27. Per quanto attiene al racconto
Il figlio del naufragio, lo studioso rileva infatti che Salgari trasse il titolo
e l’idea di esso da un romanzo dell’esploratore sir Samuel White
Baker (1821-1893), il quale, «dopo aver dato alle stampe due libri sui
suoi movimentati viaggi africani (The Albert Nyanza Great basing of the
Nile and Explorations of the Nile sources, Londra 1866, e The Nile tributaires
of Abyssinia, ivi 1868), sollecitato dai giovani lettori scrisse un romanzo
d’avventure intitolato appunto Il figlio del naufragio, apparso in
Italia nel 1879. Il primo capitolo di questo dimenticato romanzo ha
senza dubbio germinato l’omonimo racconto salgariano, anche se Baker
ambienta l’azione sulle coste della Cornovaglia e Salgari presso il
capo Finisterre: nel romanzo c’è l’infante che si salva dalle onde in
una cassa sorretta da botti, nel racconto in una culla. Baker, inoltre,
si sofferma sul rintocco delle campane, suono inquietante e laico
nell’aria satura di tempesta, mentre Salgari ci appare, insolitamente,
delicato pittore di un quadretto “per grazia ricevuta”. Il motivo è che
27 Ivi, pp. 5-12.
[9] NAVIGANDO NELL’OCEANO DEI RACCONTI SALGARIANI 649
nel 1893 egli era ancora pressoché sconosciuto al grande pubblico,
aveva necessità di lavorare ed era approdato presso gli Speirani con
una raccomandazione di un abate veronese, Pietro Caliari. Inoltre il
direttore dei periodici Speirani era allora un altro abate, Giovanni
Lanza, prefetto della Basilica di Superga»28.
Il racconto Inghiottiti dal Maëlstrom è quindi ispirato, con tutta
evidenza, al celebre Una discesa nel Maëlstrom di Edgar Allan Poe,
pubblicato nel maggio 1841 sul «Graham Magazine» (e due anni
dopo Salgari inserirà alcune descrizioni contenute in questo racconto
nell’ultimo capitolo de I naufraghi dello Spitzberg, contenuto in Nel
paese dei ghiacci, Torino, Paravia, 1896)29: «Salgari – osserva a tal
proposito Pozzo – ripercorre fedelmente la descrizione dell’ispiratore,
già ripresa dagli antichi testi di Jonas Ramus e di Atanasio Kircher,
mantenendo la dimensione di terrore suscitata dal vortice-mostro,
che spande ai venti una voce spaventosa inghiottendo balene e orsi
pervasi dal panico. Si noti, inoltre, la presenza insistente del colore
bianco […], il “colore simbolico della morte”, del sudario, del sepolcro,
colore del vuoto, del nulla o più precisamente colore della
vertigine, assunto dagli altri colori nel moto vorticoso. È il colore
dei colori inghiottiti. Il colore della paura. Con indubbia bravura,
Salgari costruisce, in crescendo, il dominio del bianco: dapprima
con la densa nebbia attraverso la quale sfilano come fantasmi i
ghiacci, poi con l’apparizione del gigantesco iceberg che fracassa la
nave, e infine con l’immenso lenzuolo di candida spuma che ondeggia
sinistramente annunciando “il mostro”»30.
1.4. Due anni dopo, nel 1997, apparve una nuova antologia di
racconti salgariani, pubblicata nella serie “Il mare” della casa editrice
Sellerio di Palermo. Stavolta si trattava di una scelta organica e,
per così dire, “monografica”, sia per quanto attiene all’origine dei
racconti ivi presentati, sia per quanto riguarda la tematica ivi trattata,
quella, appunto, “marina” o “marinaresca” nella quale si consuma
la più autentica e sorgiva vena dell’ispirazione narrativa salgariana.
La raccolta in questione, dal titolo «L’Isola di Fuoco» e altre
storie di mare, con una introduzione di Paola Pallottino e una nota di
Salvatore Mazzarella31, comprendeva dodici racconti, tutti apparte-
28 Ivi, p. 8.
29 Si veda, più avanti, il § 3 di questo lavoro.
30 E. Salgari, Gli antropofaghi del Mare del Corallo, cit., p. 9.
31 E. Salgari, «L’Isola di Fuoco» e altre storie di mare, a cura di P. Pallottino
e S. Mazzarella, Palermo, Sellerio, 1997.
650 ARMANDO BISANTI [10]
nenti alla serie dei 67 pubblicati da Salgari, con lo pseudonimo di
cap. Guido Altieri, nella «Bibliotechina Aurea Illustrata» dell’editore
Biondo di Palermo. Ecco, qui di seguito, l’elenco dei titoli dei racconti
ivi accolti, con l’indicazione, fra parentesi, del numero originario
del fascicoletto della «Bibliotechina Aurea Illustrata» in cui videro
per la prima volta la luce: L’Isola di Fuoco (n. 204), Il negriero (n.
155), La capitana della “Columbia” (n. 189), Il naufragio della “Dordogna”
(n. 169), Il vascello fantasma (n. 140), L’Isola del Diavolo (n. 249), Le
tigri del mare (n. 153), I pescatori di merluzzi (n. 165), I pirati del Riff
(n. 251), La pioggia di fuoco (n. 245), Perduti tra i ghiacci del Polo (n.
138) e Il deserto di ghiaccio (n. 110).
Si tratta di racconti fra i più belli ed affascinanti di Salgari, racconti
che, pochi anni dopo, Mario Tropea saprà illuminare della
giusta luce che essi meritano. Per es., ne Il vascello fantasma compare
il tema della nave fantasma, del vascello maledetto eternamente vagante
sui mari32; per quanto concerne I pirati del Riff, possono istituirsi
non soltanto confronti con i più famosi “romanzi d’Africa”
salgariani, da I predoni del Sahara (Genova, Donath, 1903) a Sull’Atlante
(Firenze, Bemporad, 1907) fino al più tardo I briganti del Riff
(Firenze, Bemporad, 1911, che ha un titolo quasi uguale a quello di
questo racconto, pur trattando di una vicenda assolutamente differente),
ma anche con un libro che certamente Salgari conosceva, cioè
Marocco (Milano, Treves, 1879) di Edmondo De Amicis, resoconto di
un viaggio effettuato in quelle terre dal futuro autore di Cuore33;
riguardo al racconto che dà il titolo alla raccolta, L’Isola di Fuoco, ci
troviamo poi – come ha opportunamente rilevato Mario Tropea – di
fronte ad un vero e proprio mito, ad un topos, quello dell’«isola
periodicamente affiorante e scomparente con eruzioni e piogge vulcaniche
dal mare (l’“isola non trovata”, l’“isola che non c’è”, un
“altrove” e un mito, anche questo, di antichi geografi e antiche carte,
che non c’era dubbio che Salgari non si sarebbe lasciato sfuggire)»34.
32 Senza voler scomodare Richard Wagner, ricordo che Il vascello maledetto è
il titolo della seconda de Le novelle marinaresche di Mastro Catrame (Torino,
Speirani, 1894), libro di cui si discorrerà più avanti.
33 Tale relazione fra I briganti del Riff e Marocco è già stata istituita, oltre vent’anni
or sono, da M. Guglielminetti, Pirati e/o patrioti, in Scrivere l’avventura: Emilio
Salgari. Atti del Convegno Nazionale [Torino, marzo 1980], a cura di A. Jacomuzzi e
G. Bàrberi Squarotti, Torino, Quaderni dell’Assessorato per la Cultura, 1980, p.
229; cfr. anche, più di recente, M. Botto, Due italiani nel Riff. L’Africa nella letteratura
industriale da De Amicis a Salgari, «Narrativa», 14 (1998), pp. 71-88.
34 M. Tropea, Viaggio “da nessuna parte”, dovunque e per altrove, in E. Salgari
[11] NAVIGANDO NELL’OCEANO DEI RACCONTI SALGARIANI 651
Non solo, ma tali racconti forniscono, in nuce, la stragrande
maggioranza dei temi e degli argomenti ricorrenti nella narrativa di
mare salgariana (non solo quella “breve” dei racconti e delle novelle,
ma anche quella “lunga” dei romanzi). Nella sua postfazione (I
Biondo e Salgari)35, dopo aver tracciato un quadro accurato delle vicende
della famiglia Biondo a Palermo tra la fine del XIX e gli inizi
del XX secolo ed aver illustrato adeguatamente la qualità dei rapporti
che legarono, per un certo numero di anni (dal 1901 al 1906) lo
scrittore veronese agli imprenditori ed editori siciliani36, Salvatore
Mazzarella mette giustamente in risalto gli scopi prettamente “pedagogici”
che la «Bibliotechina Aurea Illustrata» si prefiggeva e,
inoltre, la varietà dei temi emergenti dalla lettura dei racconti salgariani
qui presentati: «Si potranno notare – scrive lo studioso – la
condanna della schiavitù (Il negriero) ed al tempo stesso l’evidenziazione
della superiorità dell’uomo bianco sul nero (I pirati del
Riff); la fiducia nel progresso scientifico e la sottolineatura della
parte che in esso era dovuta agli italiani (Il naufragio della “Dordogna”);
la sequenza colpa-pena (Il vascello fantasma), ma pure la
fallibilità della giustizia umana (L’Isola del Diavolo); la distribuzione
dei ruoli fra padri e figli, fra anziani e giovani (La capitana della
“Columbia”); l’affermazione delle qualità della donna (La capitana
della “Columbia”); l’amicizia, la fedeltà, la solidarietà, etc.»37.
1.5. Come si è detto più sopra, nel 1971 la casa editrice Einaudi
di Torino pubblicò una antologia di racconti e brevi articoletti salgariani
a cura di Daniele Ponchiroli, intitolata Avventure di prateria,
di giungla e di mare38. Destinata ad una circolazione essenzialmente
scolastica, l’antologia in questione forniva, per l’epoca in cui apparve
(prima, cioè, delle ricognizioni bibliografiche e filologiche dei
vari Spagnol, Pozzo, Fioraso, Marchi, Gallo e Tropea), un ottimo
(cap. Guido Altieri), I racconti della «Bibliotechina Aurea Illustrata», cit., vol. II,
pp. 313-319 (in partic., pp. 314-315).
35 S. Mazzarella, I Biondo e Salgari, in E. Salgari, «L’Isola di Fuoco» e altre
storie di mare, cit., pp. 193-204.
36 Ma sui Biondo cfr. l’eccellente saggio (apparso due anni dopo) di C. Lombardo,
La casa editrice Biondo di Palermo ed Emilio Salgari, in E. Salgari (cap.
Guido Altieri), I racconti della «Bibliotechina Aurea Illustrata», cit., vol. I, pp.
XXVII-XLVIII.
37 S. Mazzarella, I Biondo e Salgari, in E. Salgari, «L’Isola di Fuoco» e altre
storie di mare, cit., p. 203.
38 E. Salgari, Avventure di prateria, di giungla e di mare, cit.
652 ARMANDO BISANTI [12]
“colpo d’occhio” sulla varietà e la molteplicità dei temi e dei modi
stilistici della narrativa breve di Salgari. Oltre trent’anni più tardi,
nel 2002, la raccolta è stata ripubblicata dalla stessa Einaudi, con un
nuovo titolo (Il mistero della foresta e altri racconti)39, una equilibrata
introduzione di Emanuele Trevi (La letteratura come gioco: sui racconti
di Salgari)40 ed una eccellente postfazione di Luciano Tamburini (Una
“tigre” in casa)41. Assolutamente immutata è rimasta la struttura del
volume, che presenta 17 racconti salgariani raggruppati in quattro
sezioni: storie della vecchia America (Aquila Bianca, Il bisonte nero,
Nel paese dell’oro, Il mistero della foresta); storie dell’Oriente misterioso
(La statua di Visnù, La perla nera, La tigre misteriosa); drammi sul
mare e fra i ghiacci (Un eroe del mare, Un dramma sull’Atlantico, Il
faro di Dhoriol, L’isola dei cannibali, Perduti fra i ghiacci del Polo, Le
valanghe degli Urali); avventure di caccia e di pesca (Il deserto di
ghiaccio, Un’avventura al Borneo, I pescatori di merluzzi, Un’avventura
in Siberia). In appendice, vengono quindi accolti sei brevi articoletti
per bambini apparsi su «L’Innocenza» degli Speirani fra il 1895 e il
1896 (Le foche, Il tricheco, I bisonti delle praterie americane, Le vittime del
mare, Gli emigranti, Fra i ghiacci).
Ciò che ritengo discutibile, nella presentazione di quest’antologia
(e tenendo conto del fatto che nel 2002 la filologia e la bibliografia
salgariane avevano compiuto passi da gigante rispetto al 1971), è il
fatto che dei racconti qui proposti non vengono assolutamente indicate
né la data né la sede di prima pubblicazione. Si tratta, nella
maggior parte dei casi, di racconti apparsi con lo pseudonimo di
cap. Guido Altieri nella «Bibliotechina Aurea Illustrata» (Aquila Bianca,
Il bisonte nero, Nel paese dell’oro, La perla nera, Un eroe del mare, Il
faro di Dhoriol, Perduti fra i ghiacci del Polo, Le valanghe degli Urali, Il
deserto di ghiaccio, I pescatori di merluzzi, Un’avventura in Siberia) o
nella collana «Piccole avventure di terra e di mare» (Un dramma
sull’Atlantico) o, ancora, pubblicati in «Per Terra e per Mare» (Il
mistero della foresta, Un’avventura al Borneo, La tigre misteriosa)42. Non
solo, ma alcuni racconti vengono qui presentati con titoli apocrifi e
39 Id., Il mistero della foresta e altri racconti, introd. di E. Trevi, con un saggio
di L. Tamburini, Torino, Einaudi, 2002.
40 Ivi, pp. V-XVI.
41 Ivi, pp. 253-264.
42 Per le indicazioni bibliografiche relative ai singoli racconti, si può fare
ricorso a V. Sarti, Nuova bibliografia salgariana, cit., pp. 133-146; e a F. Pozzo,
Emilio Salgari e dintorni, cit., pp. 305-309.
[13] NAVIGANDO NELL’OCEANO DEI RACCONTI SALGARIANI 653
non risalenti agli originali, bensì alle più o meno infide raccolte
apparse fra gli anni ’20 e ’50 del secolo scorso: così avviene per il
racconto che dà il titolo alla raccolta, Il mistero della foresta (il cui
titolo originale, come si è già detto, è Lo scheletro della foresta); così,
ancora, per Aquila Bianca (il cui titolo corretto è L’Aquila Bianca,
anche se in questo caso si tratta di una differenza minima), per La
tigre misteriosa (cioè La tigre di Laparam), per L’isola dei cannibali (o
meglio Gli antropofaghi del Mare del Corallo), per La statua di Visnù
(cioè Il tesoro delle caverne d’Ellora) e, infine, per Un’avventura al
Borneo (vale a dire Un’avventura del capitano Salgari al Borneo).
1.6. All’edizione, esemplarmente curata da Mario Tropea fra il
1999 e il 2002, dei 67 racconti pubblicati da Salgari con lo pseudonimo
di cap. Guido Altieri nella «Bibliotechina Aurea Illustrata»
dell’editore Biondo di Palermo, ho dedicato alcuni anni fa, sulle
pagine di questa stessa rivista, un’ampia sezione di una mia rassegna
bibliografica, cui, in questa sede, non posso far altro che rimandare43.
Pochi anni dopo, nel 2003, tutti e 67 i racconti in questione sono
stati ripresentati in tre voll., con brevi e sintetiche introduzioni a
cura di Caterina Lombardo, nell’ambito della collana divulgativa
(ma utilissima) «Emilio Salgari – L’opera completa» edita della Fabbri
di Milano44.
Diversamente da quanto aveva fatto Mario Tropea, la Lombardo
ha pubblicato i racconti in oggetto non secondo l’ordine cronologico
in cui essi apparvero per la prima volta nella «Bibliotechina Aurea
Illustrata» (dal n. 64, Lo schiavo, al n. 251, I pirati del Riff), bensì li ha
raggruppati, in base agli argomenti, alle tematiche e alle ambientazioni
in essi presenti (e con qualche comprensibile ed inevitabile
approssimazione), in sezioni più o meno ampie ed organicamente
strutturate. E così, nel corso dei tre densi volumi, si susseguono le
avventure di mare (Un eroe del mare, I Robinson del Golfo del Messico,
Il corsaro del Fiume Rosso, La perla nera, Nell’isola delle scimmie, Il
43 A. Bisanti, Il ritorno di Emilio Salgari, «Critica letteraria», 32 (2004), pp.
363-397 (in partic., pp. 377-397). Mario Tropea ha indugiato sui racconti salgariani
anche in Salgari: nota sulla situazione e sui «Racconti», in Studi d’Italianistica per
Paolo Mario Sipala, a cura di N. Mineo [e altri], Catania, Facoltà di Lettere e
Filosofia, 2002 (= «Siculorum Gymnasium», n.s., 55 [2002]), pp. 223-234.
44 E. Salgari, I racconti della «Bibliotechina Aurea Illustrata», 3 voll., a cura di
C. Lombardo, Milano, Fabbri, 2003.
654 ARMANDO BISANTI [14]
baleniere, I naufragatori del Canadà, Il vascello fantasma, Le tigri del
mare, Il negriero, Negli abissi dell’Oceano, I pescatori di merluzzi, Il
naufragio della “Dordogna”, La capitana della “Columbia”, Il faro di
Dhoriol, L’Isola di Fuoco, Gli schiavi gialli, Il cimitero galleggiante, La
pantera nera, Il naufragio dell’“Hansa”, La pioggia di fuoco e L’Isola del
Diavolo), le avventure d’aria (Un dramma in aria, La “Stella Filante” e
La conquista della Luna), le avventure di terra (Lo stregone della palude
nera, Nel paese dell’oro, Le valanghe degli Urali, Il re degli antropofaghi,
Nel paese dei diamanti, Nel regno delle tenebre, Il ponte maledetto, Una
caccia sul Maronì, Il “Paria” del Guzerate, Un dramma in Persia, Una
bufera di polvere, La Stella degli Afridi e Un eroe persiano), le avventure
tra gli indiani (Fra gl’Indiani, Il piccolo esploratore, L’Aquila Bianca,
Nella pampa argentina, Il bisonte nero e La corriera della California), le
avventure fra i ghiacci (Un’avventura in Siberia, Fra i ghiacci del Polo
Artico, I cacciatori di lupi, Il deserto di ghiaccio e Perduti fra i ghiacci del
Polo), le avventure in Africa (Lo schiavo, Sulla Costa d’oro, Un dramma
nel deserto, Lo schiavo della Somalia, L’uomo dei boschi, Nel paese degli
zulù, La Stella del Sud, Il piccolo guerriero del Transwaal, Il re dei re,
L’eroe di Karthum, Il re di Tikuno e I pirati del Riff) e, infine, le avventure
nelle giungle (Un’avventura nel Gange, Perduta fra le solitudini
dell’Amazzoni, Le foreste vergini, Il vampiro della foresta, Il fanciullo
rapito e Il boa delle caverne).
Nelle pagine introduttive ai tre volumi, Caterina Lombardo mette
in evidenza, in primo luogo, che questi racconti «non hanno nulla
da invidiare, pur nella loro brevità, alla struttura dei romanzi. L’universo
descrittovi è lo stesso, così come uguale è la galleria dei personaggi
presentati: uomini di mare, donne intrepide, corsari e avventurieri
»45. Per ciò che attiene ai racconti di mare, le ambientazioni
in essi presentate spaziano dai mari europei delle zone nordiche (I
pescatori di merluzzi) alle coste del Portogallo (Il faro di Dhoriol), dagli
abissi dell’Oceano Indiano (La perla nera) ai mari tropicali (Le tigri
del mare) e alle gelide lande polari (Il baleniere)46. Degni di nota, fra
i temi più ricorrenti, sono la tempesta e il naufragio (Il naufragio
dell’“Hansa”, I Robinson del Golfo del Messico, Il naufragio della “Dordogna”),
nonché il motivo dell’isola, «sinonimo di salvezza per gli
sventurati superstiti che approdano sulle sue spiagge, ma anche di
45 C. Lombardo, Fra tempeste e abissi marini, in E. Salgari, I racconti della
«Bibliotechina Aurea Illustrata», vol. I, Racconti di mare, cit., p. 5.
46 Un racconto, quest’ultimo, che ripropone alcune situazioni già presenti nel
romanzo I pescatori di balene (Milano, Treves, 1894).
[15] NAVIGANDO NELL’OCEANO DEI RACCONTI SALGARIANI 655
pericolo, come nel caso del misterioso fenomeno eruttivo che sconvolge
le acque della nuova Zelanda (L’Isola di Fuoco) o della natura
ostile che circonda l’isolato penitenziario francese tristemente famoso
per l’ingiusta detenzione del capitano Dreyfus (L’Isola del Diavolo)
»47.
Passando ai racconti legati all’elemento terra (è evidente che,
nella sua disamina, la Lombardo segue la traccia proposta, in tal
senso, da Mario Tropea nella definizione di Emilio Salgari come
scrittore “elementare” e “planetario”)48, essi spaziano sugli scenari
più disparati: «In La Stella degli Afridi l’India della dominazione
inglese, in cui nasce una delicata storia d’amore tra un tenente inglese
e una bellissima giovane indiana; la pampa argentina travolta
da un tornado nel racconto Una bufera di polvere; il sottosuolo europeo
delle miniere di carbone con il pericolo costante di esplosioni
provocate dal “grisou” nella novella dal titolo Nel regno delle tenebre;
e la California della “corsa all’oro” nel racconto Nel paese dell’oro.
Primeggiano comunque le vicende che si svolgono fra le pellirosse
del selvaggio West americano e che dipingono, di volta in volta, i
rossi guerrieri come eroi o come il feroce nemico da abbattere»49.
Fra i rimanenti racconti ambientati ai Poli, all’Equatore o nelle
torride giungle, la Lombardo50 indugia in particolare sui tre che
vedono come protagonista-narratore il coriaceo “ostiako” papà Roskoff
(e cioè I cacciatori di lupi, Un’avventura in Siberia e Fra i ghiacci
del Polo Artico)51 e sulle due “storiche” narrazioni Perduta fra le solitudini
dell’Amazzoni (narrazione dell’eroica avventura di madame
Isabela Godin des Odonais, intrepida donna che tra la fine del 1769
e l’inizio del 1770 attraversò, con pochi compagni – e, dopo la morte
di tutti loro, da sola – il vastissimo tratto di foresta amazzonica che
47 C. Lombardo, Fra tempeste e abissi marini, cit., p. 6.
48 Cfr. M. Tropea, Uno scrittore “elementare” e “planetario”: Emilio Salgari. I
racconti della «Bibliotechina Aurea» Biondo, in E. Salgari (cap. Guido Altieri), I
racconti della «Bibliotechina Aurea Illustrata», cit., vol. I, pp. IX-XXV.
49 C. Lombardo, Macchine volanti e totem indiani, in E. Salgari, I racconti della
«Bibliotechina Aurea Illustrata», vol. II, Racconti d’aria e di terra, cit., p. 6.
50 C. Lombardo, Dai ghiacci eterni al torrido equatore, in E. Salgari, I racconti
della «Bibliotechina Aurea Illustrata», vol. III, Racconti ai Poli e all’Equatore, cit., pp.
5-6.
51 Cfr. anche E. Salgari, Un’avventura in Siberia, a cura di A. Niero, con una
introd. di F. Pozzo, Roma, Voland, 1996. Il tema siberiano compare nella produzione
salgariana già nel romanzo Gli orrori della Siberia (Genova, Donath, 1900;
cfr. la più recente ristampa, a cura dello stesso A. Niero, Milano, Fabbri, 2003).
656 ARMANDO BISANTI [16]
si estende dal Perù alla foce del Rio delle Amazzoni, per ricongiungersi
al marito, ingegnere francese malato e impossibilitato a
muoversi nella Guajana, andando incontro ad ogni sorta di pericoli
– fame, sete, malattie, caimani, giaguari, antropofagi e tutto il consueto
armamentario salgariano – una vicenda, questa, raccontata
più volte, pure da Jules Verne nel romanzo del 1881 La Jangada.
Huit cent Lieues sur l’Amazone, anche se occorre rilevare che in questo
caso lo scrittore veronese non dipende dal suo grande modello
francese, anzi risulta di lui assai più preciso nei particolari storici e
nell’individuazione esatta dei vari personaggi che fanno da contorno
alla figura della coraggiosa protagonista) e L’eroe di Khartum
(ritratto a tutto tondo, e ricco di particolari storici, della nobile figura
di Gordon Pascià, eroicamente morto a Khartoum nel gennaio
del 1885, durante la rivolta mahdista dei sudanesi contro le truppe
anglo-egiziane: un tema, questo, che Salgari aveva già altre volte
trattato, sia nel romanzo La favorita del Mahdi, Milano, Guigoni, 1887,
sia in numerose cronache che, durante il conflitto, egli, poco più che
ventenne, aveva redatto per la «Nuova Arena» di Verona, celandosi
dietro lo pseudonimo di Ammiragliador)52.
1.7. Claudio Gallo, che nel 2004 ha pubblicato una antologia in
cui sono stati riediti (in alcuni casi per la prima volta) tutti i racconti,
le note e i brevi articoli sicuramente attribuibili allo scrittore
veronese, da lui pubblicati, fra il 1904 ed il 1906, sulla già più volte
ricordata rivista «Per Terra e per Mare» (su cui qui non mi soffermo
perché ne ho già riferito in una mia precedente rassegna)53, ha poi
giustamente osservato che «Salgari è famoso come scrittore di romanzi,
ma si deve convenire che i racconti sono a lui congeniali.
Rispondono infatti a una particolare vocazione stilistica: muovono
sempre da un’intuizione, da un’idea forte. La tipologia dei personaggi
e degli ambienti è la stessa dei testi più lunghi. Ma, nello
stesso tempo, lo scrittore è consapevole che la brevità, l’essenzialità,
52 Cfr. C. Gallo – F. Pozzo, La breve parabola letteraria del capitano Guido Altieri,
in E. Salgari (cap. Guido Altieri), I racconti della «Bibliotechina Aurea Illustrata
», cit., vol. I, pp. LVIII-LX e LXIII-LXIV; ed E. Salgari, A Tripoli! Il Mahdi,
Gordon e gli italiani ad Assab nelle “corrispondenze” per la «Nuova Arena» (1883-
1885), a cura di C. Gallo, Padova-Verona, Edizioni Europee-Perosini, 1994.
53 E. Salgari, Per terra e per mare. Avventure immaginarie, a cura di C. Gallo,
Torino, Nino Aragno Editore, 2004; cfr. A. Bisanti, Rassegna salgariana (2003-
2005), «Critica letteraria» 141 (2008), pp. 754-782.
[17] NAVIGANDO NELL’OCEANO DEI RACCONTI SALGARIANI 657
la linearità della storia sono elementi da cui non si può prescindere
»54.
Terminata quindi questa lunga e forse un po’ noiosa scorribanda
bibliografica55, dedicherò la seconda parte di questo lavoro alla presentazione
e all’analisi di alcuni racconti salgariani, proponendo
quattro paragrafi costituiti, ciascuno, da una breve “scheda” di presentazione
delle raccolte Le novelle marinaresche di Mastro Catrame,
Nel paese dei ghiacci e Le grandi pesche nei mari australi, nonché del
racconto lungo (o romanzo breve) I predoni del gran deserto.
2. Le novelle marinaresche di Mastro Catrame
Il volume fu pubblicato, in prima edizione, a Torino, dai fratelli
Speirani, nel 1894, con illustrazioni di Giovan Battista Carpanetto e
con una breve presentazione (Ai lettori) di Giovanni Lanza (il prefetto
della Basilica di Superga, allora direttore dei periodici Speirani,
di cui si è già detto). Nel 1909 apparve una nuova edizione, pubblicata
a Milano, dalla Casa Editrice Italiana con l’apocrifo titolo Il
vascello maledetto (tratto dal titolo del secondo dei racconti), con una
prefazione di Antonio Quattrini e con l’aggiunta di quattro altri
racconti (gli stessi che, nel 1904, avevano costituito il volumetto Le
grandi pesche nei mari australi, edito sempre da Speirani, e cioè Le
grandi pesche nei mari australi, Un’avventura nelle Pampas, Una caccia
nelle Montagne Rocciose e Le avventure del Padre Crespel nel Labrador:
si tratta comunque di una edizione sconfessata dallo stesso Salgari).
L’edizione originale comprende i seguenti tredici racconti: Un lupo
di mare, Il vascello maledetto, Il passaggio della linea, La campana dell’inglese,
La croce di Salomone, I fantasmi dei Mari del Nord, I fuochi misteriosi,
Il vascello dei topi, Le sirene, Il serpente marino, Le murene, La
nave-feretro sul mare ardente, L’apparizione del naufrago.
Si tratta di un libro decisamente atipico nel vasto ambito della
narrativa salgariana, in quanto in esso viene adottata (per l’unica
volta dal narratore veronese) la struttura della raccolta di racconti
54 C. Gallo, Uomini coraggiosi tra le nevi e i ghiacci, in E. Salgari, Nel paese
dei ghiacci, Milano, Fabbri, 2003, p. 6.
55 Ai titoli qui ricordati vanno aggiunte almeno le due seguenti antologie: E.
Salgari, Storie con la maschera, cit.; e Id., Un naufragio nella Florida, a cura di F.
Pozzo, Atripalda (AV), Mephite, 2004 (su entrambe queste antologie, cfr. la mia
recensione, «Critica letteraria», 34 [2006], pp. 802-808).
658 ARMANDO BISANTI [18]
“a cornice” (con un capitolo introduttivo, dal titolo Un lupo di mare,
dedicato alla descrizione della figura del protagonista, appunto
Mastro Catrame).
Mastro Catrame è un «marinaio d’antico stampo». Ha la barba
bianca, i capelli radi, il volto rugoso e, come si conviene ad un lupo
di mare, non disdegna mai una buona bottiglia di vino, come testimonia
il suo naso rosso da bevitore incallito. Ma è proprio questo
attaccamento al vino che gli procura, un giorno, l’inizio di una serie
di guai. Egli viene infatti scoperto, ubriaco fradicio, in fondo alla
stiva del vascello in cui si trova imbarcato. La disciplina di bordo
prevedrebbe, in questi casi, una esemplare fustigazione, ma, in considerazione
dell’età e della lunghissima esperienza marinaresca, il
vecchio marinaio viene soltanto severamente rimproverato dal capitano.
Ma non è tutto, né Mastro Catrame può cavarsela così a buon
mercato. Il capitano, infatti, prende spunto dalla punizione che avrebbe
dovuto infliggere al vecchio lupo di mare per fornire occasione
di divertimento e di diletto a se stesso e a tutto il resto dell’equipaggio.
Si dice, infatti, che il vecchio marinaio conosca centinaia e centinaia
di storie di mare (generalmente misteriose e soprannaturali)
ed è appunto questa la punizione che il capitano ha escogitato per
Mastro Catrame: raccontare al resto della ciurma le migliori storie
di mare che egli conosca, o in cui si sia trovato protagonista, un
racconto per ogni sera, per un totale di dodici sere. E così, brontolando
ma non potendo sottrarsi alla punizione, il vecchio Mastro
Catrame, uomo taciturno e laconico per natura, si trova costretto a
raccontare, sera dopo sera, dodici vicende marinaresche più o meno
incredibili, piene di apparizioni “fantastiche” o, per meglio dire,
“fantasmatiche” (secondo una linea tipica di certa narrativa salgariana).
Ciò che costituisce l’essenza ed il significato del libro è, comunque,
il fatto che lo stesso Salgari, per ogni avventura narrata, fa
anche il punto della situazione e, forte delle armi della logica e
della cultura, per bocca del capitano (che rappresenta la figura “razionale”
del libro, nonché una sorta di “proiezione” dello stesso
autore) fornisce una spiegazione “scientifica” dei fenomeni e dei
personaggi che sono stati presentati nei racconti. Come è stato più
volte rilevato, si può, infatti, dire che in questo volume è come se ci
fossero due Salgari: uno è Mastro Catrame stesso, il lupo di mare
rotto a tutte le avventure ma superstizioso come tutti i marinai;
l’altro è il capitano del vascello, che si beffa di tutte le credenze
perché sa bene che ogni cosa ha una sua logica e razionale spiega[
19] NAVIGANDO NELL’OCEANO DEI RACCONTI SALGARIANI 659
zione nei fenomeni della natura o nello studio dell’animo umano.
Ma, a mio modo di vedere, Salgari è impersonato assai più dal
raziocinante capitano che dal vecchio marinaio superstizioso.
Un altro elemento che caratterizza questa silloge di racconti è
poi un certo qual spirito umoristico che contraddistingue talvolta
Salgari, benché le avventure, come si è detto, siano avvolte prevalentemente
in un’aura di mistero, che le rende indubbiamente suggestive,
al buio, di sera, col rumore delle onde che si infrangono
contro la prua del vascello in cui i marinai stanno riuniti attorno ad
un vecchio lupo di mare che narra storie di fantasmi e di apparizioni
misteriose.
In occasione della nuova presentazione del romanzo, ripubblicato
nel 2002 dalla casa editrice Robin di Torino56, Giovanna Viglongo ha
redatto un saggio introduttivo nel quale, fra l’altro, ha affermato
che «questo libro è da considerare, nella produzione salgariana, un
autentico piccolo gioiello o quanto meno una ghiottoneria che va
giudicata per quello che è: opera esemplare più che degna di venire
proposta in una collana di classici». La studiosa ha inoltre messo
giustamente in risalto il fatto che «al momento in cui Le novelle marinaresche
di Mastro Catrame vennero pubblicate, nel 1894, il panorama
delle narrazioni marinare era di tutto rispetto: in Europa venivano
avidamente letti, grazie alle mirabili traduzioni di Baudelaire
[…], gli straordinari Racconti ed anche le sconvolgenti Avventure di
Gordon Pym di quel grandissimo genio che fu l’americano Edgar
Allan Poe; accostarsi poi all’altro americano Melville per godere
della bellezza poetica e allegorica di Moby Dick dava forti sensazioni
emotive. Senza contare la vasta e popolare produzione di Robert
Louis Stevenson, in particolare de L’isola del tesoro e de Il naufragio
(ma anche de Il dottor Jeckyll e mister Hyde che, pur non presentando
attinenze con il tema del mare, è tuttavia da segnalare per il fascino
terrificante e antagonistico che può avere suggestionato Salgari). Ci
siamo limitati a illustrare un particolare del grandioso quadro della
letteratura avventurosa marinaresca ché, a volere esplorarla tutta, a
ritroso nel tempo, ci sarebbe da soffermarsi su Bernardin de Saint-
Pierre, su Chateaubriand, sul Coleridge de La ballata del vecchio marinaio,
sul Defoe non solo del Robinson, ma anche del Capitano
Singleton, su Les aventures de Robert Chevalier dit Beauchene di Lesage,
56 E. Salgari, Le novelle marinaresche di Mastro Catrame, a cura di G. Viglongo
e G. Lanza, Torino, Robin, 2002.
660 ARMANDO BISANTI [20]
e poi le avventure del marinaio Selkirk, ispiratrici del Defoe, e le
leggende nordiche del vascello fantasma, spettrale e nero con le
vele sanguigne, e le stupende narrazioni, vere epopee del mare, fino
a Omero e, a non volersi fermare, ancora oltre, alle tempeste e ai
naufragi biblici. Davanti al respiro potente del mare, di questo superbo
elemento meraviglia dell’universo, che confina con la curva
del cielo e davanti a cui la solitudine dell’uomo si smarrisce, la
suggestione è così forte, magnetizzante, da dare felici ispirazioni: in
tempi più vicini a Salgari possiamo pensare a Byron, a Shelley, a
Michelet, Sue, Conrad, Victor Hugo, Pierre Loti».
Sulla stessa linea interpretativa si è posto, più recentemente,
Fabrizio Foni, che ha parlato, a proposito de Le novelle marinaresche
di Mastro Catrame, di un vero e proprio «Decameron del fantastico»,
notando innanzitutto come la figura del marinaio-narratore verrà
resa celebre, pochi anni dopo, da Joseph Conrad in Cuore di tenebra,
con il personaggio di Marlowe, e rilevando altresì che già fin dal
suo racconto d’esordio, I selvaggi della Papuasia (apparso ne «La
Valigia», in quattro puntate, dal 26 luglio al 16 agosto 1883), Salgari
aveva dato prova della propria «inclinazione verso le situazioni
misteriose e inquietanti, seppur sullo sfondo di scenari esotici»57. A
proposito dell’opera, lo studioso ha scritto: «Il mare diventa la terra
dell’ignoto, prodigiosa dimora di mostri spaventosi. Dalle solitarie
distese ghiacciate del polo alle torride zone dei paesi caldi non c’è
angolo di mare che non celi il suo terribile e insidioso mistero:
sirene, vascelli stregati, sinistri naufraghi che riappaiono. Un campionario
di brividi che si dispiega per l’evocativo numero di tredici
capitoli»58. Per quanto concerne poi le suggestioni letterarie fruite
da Salgari per la composizione del libro, è sicuro che lo scrittore
(come si è già detto) conoscesse Edgar Allan Poe, dal cui celebre
Una discesa nel Maëlstrom (1841) egli trasse lo spunto per il proprio
racconto Inghiottiti dal Maëlstrom, comparso in due puntate il 18 ed
il 25 febbraio 1894 (quindi l’anno medesimo in cui vennero pubblicate
Le novelle marinaresche di Mastro Catrame) sul «Silvio Pellico» di
Torino59, ed anche per il racconto I fantasmi dei Mari del Nord, qui
compreso. Assai probabilmente, poi, lo scrittore veronese ebbe con-
57 F. Foni, Un «Decameron» del fantastico, in E. Salgari, Le novelle marinaresche
di Mastro Catrame, Milano, Fabbri, 2004, p. 5.
58 Ivi, p. 6.
59 Anche questo racconto è stato ristampato in E. Salgari, Gli antropofaghi
del Mare del Corallo, cit., pp. 55-61.
[21] NAVIGANDO NELL’OCEANO DEI RACCONTI SALGARIANI 661
tezza de Il capitano della «Stella Polare» (1883) di sir Arthur Conan
Doyle, come mostrano le sorprendenti analogie che è possibile istituire
fra il racconto Le sirene e la or ora menzionata novella del
creatore di Sherlock Holmes, analogie certamente non imputabili a
fortuite e casuali circostanze.
3. Nel paese dei ghiacci
La prima edizione del volume fu pubblicata a Torino, dalla casa
editrice Paravia, nel 1896, con illustrazioni anonime. Nella ristampa
Paravia del 1910 apparvero una nuova copertina e nuove illustrazioni
firmate da Alberto Della Valle. «La scelta a favore dell’artista
napoletano – ha scritto Claudio Gallo – non era casuale. Paravia
ristampava continuamente i testi salgariani del suo catalogo, avvicinandoli
sempre più, nel corso del tempo, alla formula editoriale e
grafica messa a punto da Donath, e in seguito perfezionata da Bemporad,
all’interno della quale il disegnatore napoletano era considerato
colui che meglio rappresentava gli eroi e gli scenari avventurosi
creati dal popolare narratore d’avventure»60.
Il volume comprende due racconti lunghi: I naufraghi dello
Spitzberg e I cacciatori di foche della Baia di Baffin. Nel 1929 la casa
editrice Sonzogno di Milano ripubblicò l’opera in due volumetti
separati, comprendenti, rispettivamente, il primo I naufraghi dello
Spitzberg (in appendice Padre Crespel nel Labrador), il secondo I cacciatori
di foche della Baia di Baffin, con l’apocrifo titolo I cacciatori di
foche (in appendice l’altrettanto apocrifo racconto pseudo-autobiografico
A bordo dell’Italia Una. Primo viaggio marittimo dell’autore)61.
I due racconti in questione presentano una tematica comune e
tipiche situazioni che si ripetono assai di frequente nell’ambito della
vasta produzione salgariana relativa ai temi del Polo, delle scoperte,
della vita fra i ghiacci62. A questo gruppo possono infatti variamen-
60 C. Gallo, Uomini coraggiosi tra le nevi e i ghiacci, cit., p. 5. Su Alberto Della
Valle, cfr. P. Pallottino, L’occhio della Tigre. Alberto Della Valle fotografo e
illustratore salgariano, Palermo, Sellerio, 1994.
61 Traggo queste notizie da V. Sarti, Nuova bibliografia salgariana, cit., p. 47.
62 Su questa sezione della produzione romanzesca salgariana cfr. M. Morini,
Una contesa letteraria intorno al Polo Nord, «Corriere Lombardo» (Milano) del 18-
9-1953; e S. Zavatti, Emilio Salgari e i suoi romanzi polari, «Annuario della Scuola
Media Statale “Ippolito Nievo”» (Spilimbergo), 1962-1963; F. Pozzo, Alla conquista
dei Poli con Emilio Salgari, ne «Il Polo», Civitanova Marche, 1979; E. Salgari,
662 ARMANDO BISANTI [22]
te ricollegarsi i romanzi I pescatori di balene (Milano, Treves, 1894),
Al Polo Australe in velocipede (Torino, Paravia, 1895), Al Polo Nord
(Genova, Donath, 1898) e Una sfida al Polo (Firenze, Bemporad, 1909)63,
nonché innumerevoli racconti, più o meno ampi, come Le avventure
del Padre Crespel nel Labrador (Torino, Speirani, 1896, poi in Le grandi
pesche dei mari australi, ivi, 1904)64 o Fra i ghiacci del Polo Artico, il
Deserto di ghiaccio e Perduti fra i ghiacci del Polo, pubblicati col consueto
pseudonimo di cap. Guido Altieri rispettivamente come voll.
87, 110 e 138 della più volte ricordata «Bibliotechina Aurea Illustrata
» e quindi come voll. 8, 14 e 26 della collana «I racconti di avventure
» della casa editrice Sonzogno di Milano (1935-1941). Un caso a
sé, in quest’ambito, è poi rappresentato da La «Stella Polare» ed il suo
viaggio avventuroso (noto anche con lo scorretto titolo Verso l’Artide
con la «Stella Polare»)65, pubblicato nel 1901 dall’editore Donath di
Genova, libro che costituisce la cronaca romanzata della celebre
spedizione italo-norvegese al Polo Nord del 1899-1900 guidata da
Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi (e sono ben note le polemiche
che la tempestiva pubblicazione del libro salgariano innescò nei
confronti dell’analogo volume del cronista “ufficiale” dell’impresa,
l’ammiraglio Umberto Cagni, La «Stella Polare» nel mare Artico, che
apparve dopo quello sfornato “a tamburo battente” dall’infaticabile
e inesausto scrittore veronese). Inutile aggiungere che anche di questo
filone “polare” della narrativa salgariana si impadronì, dopo la
morte dello scrittore, la florida industria dei “falsi”66, producendo
Avventure ai poli, a cura di F. Pozzo, Fermo, Istituto Geografico Polare «Sergio
Zavatti» e Attività culturali del Comune di Fermo, 1995; F. Pozzo, Articoletti
polari di Emilio Salgari per bambini, «Il Polo», Fermo, settembre 1993.
63 Alcuni di questi romanzi sono stati di recente ripubblicati in E. Salgari,
Avventure al Polo. I. Al Polo Australe in velocipede; II. Al Polo Nord; III. Una sfida
al Polo, a cura di V. Sarti, introd. di S. Gonzato, ill. di G.G. Bruno, G. Gamba,
G. D’Amato, 3 voll., Milano, Mondadori, 2002; cfr. anche Id., Al Polo Australe in
velocipede (rist. anast. della prima ediz., Torino, Paravia, 1895), nota introduttiva
di S. Giuntini, corrispondenze di viaggio di R. Gatti, Arezzo, Limina, 2005. Su
alcune particolari caratteristiche linguistiche dei romanzi “polari” cfr. il lungo
studio di L. De Anna, Gli articismi nelle opere di ambiente polare scritte da Emilio
Salgari, «Studi di lessicografia italiana», 12 [1994], pp. 217-272.
64 Di questo vol., e del racconto Le avventure del Padre Crespel nel Labrador in
esso contenuto, si discorrerà specificamente nel prossimo paragrafo di questo
studio.
65 E. Salgari, La «Stella Polare» ed il suo viaggio avventuroso (rist. anast. della
prima ediz. Donath del 1901), a cura di F. Pozzo, F. Giardini e G. Viglongo,
Torino, Viglongo, 2001.
66 Cfr., fra gli altri, A. Viglongo, L’origine dei falsi salgariani. Chi ha veramente
[23] NAVIGANDO NELL’OCEANO DEI RACCONTI SALGARIANI 663
alcuni titoli (ricordo qui, per es., I naufraghi dell’«Hansa», pubblicato
da Mondadori nel 1921 con firma abbinata Emilio Salgari-Luigi
Motta, ma in realtà probabilmente opera esclusiva di quest’ultimo)67.
Ne I naufraghi dello Spitzberg si narra del ricco armatore norvegese
W. Foyn, che organizza una spedizione, guidata dal provetto capitano
Tompson, per tentare di salvare dalla distruzione e dal disastro
completo gli equipaggi delle baleniere “Tornea” e “Gotheborg”,
che hanno fatto naufragio nelle Isole Spitzberg, fra il Mar di Groenlandia
e il Mare di Barents, e che si trovano imprigionati fra i ghiacci.
Foyn, insieme al capitano Tompson e al professor Oscar Benstorp
(uno scienziato esperto delle zone polari), si imbarcano quindi sulla
“Torpa”, un veliero di piccolo tonnellaggio. Dopo alcuni giorni di
navigazione regolare, vengono però travolti da un furioso uragano
che provoca l’affondamento della nave. Prigionieri fra i ghiacci, i
superstiti vengono trascinati sulle coste dell’Isola degli Orsi, non
molto lontano dalla Norvegia dalla quale erano partiti e dovranno
affrontare pericoli e patimenti di ogni tipo prima dell’immancabile
lieto fine e della loro provvidenziale salvezza. C’è da notare che in
questo racconto, ad un certo punto della narrazione, fa la sua comparsa
il Maëlstrom, il terribile gorgo consacrato dal celebre racconto
di Edgar Allan Poe, da cui i protagonisti rischiano di essere inghiottiti
(e si è già detto che in questo capitolo Salgari ha ampiamente
ripreso il precedente racconto Inghiottiti dal Maëlstrom); e, ancora,
come il motivo del naufragio nell’Isola degli Orsi verrà ripreso dallo
stesso Salgari nel successivo racconto Perduti fra i ghiacci del Polo (n.
138 della «Bibliotechina Aurea Illustrata»).
Ne I cacciatori di foche della Baia di Baffin la circostanza che dà
l’avvio alla narrazione è molto simile. Anche in questo caso, infatti,
ci troviamo di fronte ad una spedizione organizzata per salvare un
scritto «Le mie memorie», in «Almanacco Piemontese», Torino, Viglongo, 1981; P.
Azzolini, Luigi Motta sapeva tutto sui “falsi” di Salgari, «L’Arena», 10 gennaio
1991; V. Sarti, Nuova bibliografia salgariana, cit., pp. 125-132.
67 Il naufragio dell’“Hansa” è il titolo di uno dei 67 racconti (il n. 241, in cui
viene però narrata tutta un’altra storia) pubblicati, con lo pseudonimo di cap.
Guido Altieri, per la «Bibliotechina Aurea Illustrata». Che I naufraghi dell’“Hansa”
(in cui si narra delle avventure di due esiliati russi nelle regioni artiche) sia
assai probabilmente opera esclusiva di Luigi Motta si ricava anche dal fatto che
tre anni dopo, nel 1924, la stessa casa editrice Mondadori ripubblicò il romanzo
(in abbinamento a L’aeroplano nero e a La linea di fiamma) in un vol. a firma
esclusiva di Luigi Motta (e senza più alcun riferimento ad Emilio Salgari: traggo
questa notizia da V. Sarti, Nuova bibliografia salgariana, cit., p. 125).
664 ARMANDO BISANTI [24]
equipaggio in difficoltà. Mastro Tyndhall, ruvido e coraggioso cacciatore
di foche, essendo venuto a sapere che la nave “Polaris”,
battente bandiera americana, non dà più notizia di sé da troppo
tempo, si imbarca sulla sua “Shannon” con un manipolo di uomini
di provato valore e di coraggio intrepido (Charcot, Grinnell, Thorn,
Mac-Chanty), cui si unisce anche il fedele cane Fox, per ricercarne
l’equipaggio. Purtroppo le ricerche non danno alcun esito. In compenso,
i coraggiosi cacciatori di foche affronteranno una lunga ed
estenuante serie di prove e di pericoli, dal naufragio della loro nave,
schiantatasi contro un iceberg, alle lotte contro gli orsi bianchi, i
trichechi e i delfini gladiatori, fino a che (come sempre avviene in
questi racconti salgariani ambientati fra i ghiacci e fra le nevi eterne,
a contatto con una natura selvaggia e ostile) la provvidenziale salvezza
non giunge, riuscendo i naufraghi ad entrare fortunosamente
in contatto con un gruppo di eschimesi che li ospiteranno, li sfameranno
e li accompagneranno al deposito dei balenieri dove essi
potranno svernare fino all’arrivo dei tanto sospirati soccorsi.
Che i due racconti siano assai simili è stato rilevato anche da
Claudio Gallo, in occasione della ristampa edita dalla Fabbri di Milano
nel 2003: «Entrambi – ha osservato lo studioso – parlano del coraggio
impavido con cui gli uomini affrontano la natura ostile, di
naufragi e di ardite spedizioni nei paesi delle nevi eterne, dove il
ghiaccio incombe come una potenza sovrannaturale e onnipresente
[…]. Salgari descrive un paesaggio incantato: deserti di neve, immensi
banchi di nebbie, grandi campi di ghiaccio in cui si elevano
alte creste, colonne di dimensioni enormi, torri colossali, castelli
smantellati irti di bastioni strani, cupole e guglie. Le tenebre artiche
e i freddi inverni, poi, si colorano di un’opaca luce biancastra, “madreperlacea”,
mentre le montagne dalle punte aguzze, raccogliendo
spenti raggi solari, si tingono di riflessi purpurei o giallastri, ancorati
debolmente su acque azzurro cupo. I ghiaccioli, che fanno capolino
un po’ dovunque, sono venati o incrostati di tinte indefinibili
che hanno i bagliori degli zaffiri e degli smeraldi»68.
4. Le grandi pesche nei mari australi
La prima edizione de Le grandi pesche nei mari australi fu pubblicata
a Torino, dagli editori Speirani, nel 1904, con illustrazioni di Giu-
68 C. Gallo, Uomini coraggiosi tra le nevi e i ghiacci, cit., pp. 5-6.
[25] NAVIGANDO NELL’OCEANO DEI RACCONTI SALGARIANI 665
seppe Garibaldi Bruno. Si tratta di una raccolta di quattro racconti, di
cui si fornisce qui di seguito, preliminarmente, l’elenco, corredato
dalle indicazioni relative alle prime edizioni dei singoli racconti:
1) Le grandi pesche nei mari australi, già apparso su «Il giovedì»
della casa editrice Speirani di Torino, in cinque puntate, dal 3 al 31
maggio 189469;
2) Un’avventura nelle Pampas, già apparso su «Il giovedì», in
quattro puntate, dal 4 al 25 gennaio 1894;
3) Una caccia sulle Montagne Rocciose, già apparso il 22 aprile
1894 su «Il giovedì»;
4) Padre Crespel nel Labrador: il titolo originale del racconto è Le
avventure del Padre Crespel nel Labrador. Si tratta di un racconto “lungo”
(una trentina di pagine nelle moderne edizioni), pubblicato la
prima volta a Torino, in cinque puntate dal 5 novembre al 26 dicembre
1895 sempre sul settimanale «Il giovedì», e quindi, l’anno
successivo, nel 1896, dagli stessi Speirani in uno smilzo volumetto
di 96 pp. Nelle svariate ristampe che si sono succedute nel corso di
oltre un secolo, il titolo del racconto ha subìto talvolta alcune modifiche,
convertendosi in Le avventure di padre Crespel nel Labrador o,
ancor più semplicemente, in Padre Crespel nel Labrador70.
Il volume, come si è visto da questo schematico elenco, comprende
esclusivamente racconti redatti dall’autore durante il suo primo
periodo torinese, fra il 1894 ed il 1895, quando egli era a contatto con
l’editore Speirani che pubblicava, fra l’altro, appunto il periodico «Il
giovedì» in cui comparvero per la prima volta le narrazioni poi
riproposte in questa raccolta del 1904. Nato nel 1888, il periodico in
oggetto ospitava letture per la gioventù, racconti, novelle, viaggi ed
avventure, poesie, giochi, e così via: insomma, tutto ciò che poteva
allietare i ragazzi che di giovedì godevano, a quel tempo, di un giorno
di vacanza infrasettimanale. Come ha osservato Luciano Tamburini,
che ha accuratamente studiato questo periodo della produzione
salgariana, si trattava quindi di un nome appropriato, poiché «era un
giorno sospirato non solo perché di tutto riposo ma per il fatto che in
quel giorno usciva la maggior parte dei giornali per bambini»71.
69 Il racconto in questione è stato ripubblicato anche in E. Salgari, Gli antropofaghi
del Mare del Corallo, cit., pp. 62-80.
70 Per le prime edizioni di questo racconto, cfr. V. Sarti, Nuova bibliografia
salgariana, cit., p. 133.
71 L. Tamburini, Salgari torinese: il quadriennio 1894-1897, «Bollettino della
Biblioteca Civica di Verona», 3 (1997), pp. 213-216.
666 ARMANDO BISANTI [26]
I quattro racconti compresi ne Le grandi pesche nei mari australi
possono utilmente essere suddivisi in due gruppi: uno comprendente
due racconti relativi ad avventure di terra (Un’avventura nelle
Pampas e Una caccia nelle Montagne Rocciose) e l’altro comprendente
due racconti relativi ad avventure di mare (Le grandi pesche nei mari
australi e Le avventure del Padre Crespel nel Labrador). Un’avventura
nelle Pampas narra le vicende di un “gaucho” catturato dagli indiani
e da essi ridotto in schiavitù, che riesce a sfuggire alla prigionia
grazie all’aiuto di una donna che si è innamorata di lui. L’azione di
Una caccia nelle Montagne Rocciose si svolge invece sul Dig-Horn, fra
il Nebraska e l’Utah, ed è tutta concentrata sull’epica lotta fra due
cacciatori ed un ferocissimo orso “grizzly”.
Certamente migliori sono i due racconti costituenti il secondo
gruppo, e soprattutto l’ultimo. Ne Le grandi pesche nei mari australi
«si evocano le atmosfere della grande e tragica caccia del capitano
Achab alla balena Moby Dick narrate da Melville»72. Si narra infatti
di una baleniera americana che, durante un’epica lotta contro un
immane cetaceo, farà naufragio con tutto il suo equipaggio, del
quale si salveranno soltanto il capitano Sanders e il fiociniere Mac-
Byorn. Il più interessante fra tutti e quattro i racconti, e sicuramente
il meglio riuscito (anzi, senz’altro uno dei migliori racconti “lunghi”
di Emilio Salgari) è Le avventure del Padre Crespel nel Labrador. Si
tratta di un «dramma del mare in cui Salgari ricorre al mito letterario
di Robinson: il naufragio, l’approdo su una terra deserta e la
lotta per la sopravvivenza sino all’agognata salvezza. La figura di
spicco è padre Crespel, appartenente all’Ordine dei Francescani Riformati,
che si era messo in viaggio per fare ritorno in Francia dopo
dodici anni di attività missionaria presso le tribù irochesi ed algonchine
del Canada. Partito dal Quebec, disceso il San Lorenzo, l’imbarcazione
su cui viaggia, avvolta dalla nebbia fra il Labrador e
Terranova, tocca le rocce e affonda. Solo una scialuppa e un canotto
approdano su una desolata isola deserta. I naufraghi guadagnano la
penisola del Labrador, svernando minacciati dal freddo, dai ghiacci
in movimento, dalla fame e dalle malattie. Il coriaceo e ingegnoso
francescano condurrà i superstiti alla salvezza grazie all’aiuto degli
indiani, raggiungendo un villaggio di pionieri francesi»73. Felice
Pozzo ha inoltre di recente scoperto che le peripezie di padre Crespel
72 G. Cantarosa, L’ultima frontiera, in E. Salgari, Le grandi pesche nei mari
australi, Milano, Fabbri, 2003, p. 6.
73 Ivi, p. 6.
[27] NAVIGANDO NELL’OCEANO DEI RACCONTI SALGARIANI 667
non sono inventate dalla inesausta e feconda fantasia salgariana, ma
sono autentiche, in quanto il missionario fiammingo Emanuele
Crespel, appartenente all’ordine dei Recolletti, fece veramente naufragio
nel 1736 con alcuni compagni durante un viaggio verso la
Francia, facendo approdo sulle desertiche coste del Labrador, dove
svernò in condizioni disperate finché, nel giugno 1737, riuscì a raggiungere
Quebec e a porre in salvo se stesso e i suoi compagni
superstiti: una vicenda, questa, narrata in un volume francese pubblicato
nel 1757, Voyage au Nouveau Monde et histoire intèressante du
naufrage du Pére Crespel74.
5. I predoni del gran deserto
La prima edizione in volume apparve nel 1911 a Napoli, stampata
dalla casa editrice Urania dei fratelli Ciolfi, con illustrazioni di
Renato Ciolfi.
Il racconto tratta di William Fromster, eccentrico milionario americano,
apatico, introverso ed irrimediabilmente ammalato di spleen,
il quale non trova di meglio che vivere, in barba alla fidanzata
Odowna e all’amico Ernesto, su un aerostato ancorato al suolo, nei
pressi del Castello di Bellosguardo, in Francia. Quando sembra ormai
deciso a ritornare alla normalità, un fulmine spezza il cavo che
trattiene il pallone e l’aerostato si invola in balia dei venti, finendo
per precipitare in pieno deserto del Sahara, dove il caso porterà
Fromster a conoscere, presso un’oasi in cui è riuscito ad atterrare, lo
scozzese John Weddel di Edimburgo, uno scienziato geniale che
vive nel deserto accarezzando il progetto di trasformare l’immensa
distesa di sabbia in un grande lago, progetto che, forse proprio per
la sua eccentricità, incontra subito il favore di Fromster. Durante un
assalto dei Tuareg, i predoni del deserto che danno il titolo al romanzo,
Fromster e Weddel riescono a salvarsi miracolosamente. I
Tuareg, infatti, ritenendo l’aerostato un mostruoso uccello magico e
William un figlio del Sole, cercano di farselo amico e lo obbligano
a seguirli fino al loro villaggio. Il capo della tribù impone, a questo
punto, a Fromster di sposare la propria figlia, la bellissima Afza.
All’inizio egli è riluttante, ma il fascino e la dolcezza di Afza riesco-
74 Cfr. F. Pozzo, Ai confini tra storia e fantasia, in E. Salgari, Un naufragio
nella Florida, cit., pp. 10-11.
668 ARMANDO BISANTI [28]
no, a poco a poco, a compiere il miracolo. Quando Ernesto, che
finalmente ha rintracciato l’amico dopo una lunga serie di avventure,
cerca di riportarlo alla civiltà, viene da questi convinto a restare
con lui presso i Tuareg.
Il racconto (o breve romanzo) costituisce (come Le novelle marinaresche
di Mastro Catrame, ma per motivi differenti) un unicum all’interno
del corpus narrativo salgariano. Esso, infatti, apparve in cinque
puntate, fra il 29 novembre e il 27 dicembre 1896 su «Il Novelliere
Illustrato», periodico pubblicato a Torino dagli Speirani (che poi ne
cedettero i diritti alla casa editrice napoletana Urania dei fratelli
Ciolfi), quale continuazione del romanzo Vita eccentrica – Scene di fin
di secolo di Vincenzina Ghirardi-Fabiani (nota con lo pseudonimo di
Fabiola), apparso sulla stessa rivista l’anno precedente75. Si tratta
appunto di un romanzo breve, «una forma letteraria per la quale
Emilio Salgari ha sempre dimostrato una particolare predisposizione
»76. Nella sua “continuazione”, Salgari ha modificato completamente,
con le avventure nel deserto del Sahara, la tranquilla e
placida impostazione “europeistica” che la Ghirardi-Fabiani aveva
impresso alla storia.
C’è da notare che la protagonista femminile del romanzo si chiama
Afza, nome che Salgari riprenderà oltre un decennio più tardi
per la protagonista femminile di Sull’Atlante (Firenze, Bemporad,
1908)77. Ella è «una creatura bellissima, dalla figura elegante e flessuosa,
i lunghi capelli neri e gli occhi languidi e vellutati che suona
magicamente la “tiorba”, una specie di chitarra, da cui sa trarre i
suoni più delicati, e prepara il “medjum” (una sorta di pasta composta
di burro, miele e foglie di “kif”, da cui si ricava l’“hascisc”)
che fa sognare dolcezze infinite. Sull’esempio di Sherazade, la grande
affabulatrice delle Mille e una notte, la giovane si rivela anche
un’affascinante narratrice di storie, finendo per conquistare definitivamente
il cuore dell’americano al quale non resta che mormorare:
75 Cfr. F. Pozzo, Vita eccentrica di un misogino americano narrata da Fabiola e da
Salgari, in Almanacco piemontese 1995, Torino, Viglongo, 1994, pp. 158-167.
76 C. Gallo, Il misterioso fascino dei Tuareg, in E. Salgari, I predoni del gran
deserto, Milano, Fabbri, 2004, p. 5.
77 Cfr. F. Pozzo, Emilio Salgari e dintorni, cit., pp. 159-160. Pozzo rileva, utilmente,
che il nome Afza ricorre anche ne I predoni del Sahara (Genova, Donath,
1903), laddove ella è «la più bella donna del deserto, una Tuareg» acquistata «a
peso d’oro sul mercato d’Anadjem», i cui begli occhi provocano numerosi morti
e la distruzione di un’oasi (cfr. il cap. 12 del romanzo, dal titolo Una vendetta nel
deserto).
[29] NAVIGANDO NELL’OCEANO DEI RACCONTI SALGARIANI 669
“Narrami quello che vuoi, purché io oda ancora la tua voce”»78. Per
quanto concerne poi lo spleen dal quale è affetto (almeno nella prima
parte del racconto) il protagonista maschile, si tratta di un tema
che ricorre con una certa frequenza nella narrativa salgariana: basti
pensare alle figure di James Brandok ne Le meraviglie del Duemila
(Firenze, Bemporad, 1907) e di Lord Wylmore ne La scotennatrice
(ivi, 1909) e ne Le “Selve ardenti” (ivi, 1910)79.
Come ha osservato Claudio Gallo in occasione della recente ristampa
de I predoni del gran deserto, esso «è un racconto semplice,
lineare, dotato di grande forza narrativa, profuso, nonostante lo
scenario proprio del Continente Nero, di riferimenti alla cultura
orientale, introdotta in quelle terre dall’espansione araba di cui i
misteriosi Tuareg fanno parte a pieno diritto. Ed è proprio il magico
fascino dell’esotismo che induce il viaggiatore ad abbandonare i
suoi costumi per una vita “primitiva” ma affascinante. In qualche
modo, il popolare romanziere si fa interprete di un incontro fra
culture diverse e mondi lontani. È, dunque, la possibilità della comprensione
e della accettazione della diversità che, in questo contesto
africano, si affaccia con grande forza in Salgari»80.
Armando Bisanti
(Università di Palermo)
78 C. Gallo, Il misterioso fascino dei Tuareg, cit., p. 6. La “tiorba” e il “medjum”
(o “madjum”) compaiono anche ne Le pantere d’Algeri (Genova, Donath, 1903).
79 Cfr. F. Pozzo, Lo “spleen” di Lord Byron, in Emilio Salgari e dintorni, cit., pp.
163-176.
80 C. Gallo, Il misterioso fascino dei Tuareg, cit., p. 6.
VIRGINIA DI MARTINO
Il sonno e la visione di Camillo Sbarbaro:
Pianissimo 1914
In Pianissimo (1914) Sbarbaro is a divided self, looking at his person
from outside. Wandering around the streets of a hostile waste town,
the narrator becomes aware of his blindness and of his incapability
in finding meanings in reality. For him, mankind is suffocated and
restrained by Necessity and Custom. Nevertheless, at the end of
his collection, Sbarbaro seems to be more indulgent towards himself
and the contradictions of his own soul.
1. Il sonnambulo nella città
In una delle lettere inviate a Camon, Sbarbaro dichiara: «Camminare
è sempre stato il mio modo migliore di vivere»1: si tratta di
un’affermazione di fondamentale importanza, alla luce delle poesie
di Pianissimo, la raccolta pubblicata nel ’14 per le Edizioni della «Voce».
Se è vero, difatti, che l’io poetante si presenta più volte nell’atto
di camminare, è anche vero che è nel sonno che tale atto si compie:
Taci, anima stanca di godere
e di soffrire (all’uno e all’altro vai
rassegnata).
[…]
Noi non ci stupiremmo
non è vero, mia anima, se il cuore
si fermasse, sospeso se ci fosse
il fiato…
Invece camminiamo.
Camminiamo io e te come sonnambuli.
(Taci, anima stanca di godere2, p. 41, vv. 1-3, 11-16).
1 F. Camon, Camillo Sbarbaro, in Id., Il mestiere di poeta, Milano, Garzanti,
1982, p. 38.
2 C. Sbarbaro, Pianissimo, a cura di L. Polato, Venezia, Marsilio, 2001. Le
[2] IL SONNO E LA VISIONE DI CAMILLO SBARBARO: PIANISSIMO 1914 671
Nel momento in cui parla del camminare come della forma più
compiuta e completa di vita che gli sia concessa, Sbarbaro sembra
gettare retrospettivamente uno sguardo alle liriche del ’14: camminare
come un sonnambulo è forse il «modo migliore di vivere» che
gli sia dato al tempo di Pianissimo. Come ha perduto la voce l’«anima
stanca» del poeta, così ha smesso di cantare – e di incantare – il
mondo in cui egli si muove:
E gli alberi son alberi, le case
sono case, le donne
che passano son donne, e tutto è quello
che è, soltanto quel che è.
(Taci, anima stanca di godere, p. 41, vv. 17-20).
In un paesaggio che ha esaurito ogni possibilità di essere decifrato
in chiave simbolica o allegorica, «la conclusione della poesia […]
designa il distacco dalla voce della natura (una leopardiana fine
delle “favole antiche”), indica il confine netto, con la parola “deserto”,
dalla tradizione simbolistica delle correspondances»3.
La «sirena del mondo»4, come le sirene di un racconto kafkiano
del 19175, tace. Ma, laddove l’Ulisse di Kafka finge di udirne ancora
liriche di Sbarbaro saranno citate, salvo indicazione diversa, da tale edizione,
per cui ne saranno specificati solo i numeri di pagina e di versi.
3 P. Cataldi, Le idee della letteratura. Storia delle poetiche italiane del Novecento,
Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1994, p. 73.
4 La figura dannunziana della «sirena» come simbolo del mondo torna anche
nei Frammenti lirici di Clemente Rebora (pubblicati appena un anno prima
di Pianissimo, nel 1913), a indicare il fascino inafferrabile della vita come fluire
inarrestabile del tempo: «L’egual vita diversa urge intorno; / Cerco e non trovo
e m’avvio / nell’incessante suo moto: / […] / E quando per cingerti io balzo
/ – Sirena del tempo – / Un morso appena e una ciocca ho di te: / O non
ghermita fuggi…» (C. Rebora, L’egual vita diversa urge intorno, in Id., Le poesie,
a cura di G. Mussini e V. Scheiwiller, Milano, Garzanti, 1994, p. 15, vv. 1-3,
11-14).
5 «Sennonché le sirene possiedono un’arma ancora più temibile del canto,
cioè il loro silenzio. […] Di fatti all’arrivo di Ulisse le potenti cantatrici non
cantarono, sia credendo che tanto avversario si potesse sopraffare solo col silenzio,
sia dimenticando affatto di cantare alla vista della beatitudine che spirava
il viso di Ulisse, il quale non pensava ad altro che a cera e catene. Egli invece,
diremo così, non udì il loro silenzio, credette che cantassero e immaginò che lui
solo fosse preservato dall’udirle. Esse invece […] non avevano più voglia di
sedurre. […] La tradizione però, aggiunge qui ancora un’appendice. Ulisse,
dicono, era così ricco di astuzie […] che nemmeno il Fato poteva penetrare nel
suo cuore. Può darsi […] che realmente si sia accorto che le sirene tacevano e
672 VIRGINIA DI MARTINO [3]
il canto, il poeta-viandante di Pianissimo accetta la perdita di valore
e di vita di una realtà che non sa o non vuole più sedurre, e affronta
ad «asciutti occhi» (v. 24) la scoperta della desertificazione del
mondo e di se stesso, guardandosi attorno e osservandosi, «senza
alcuna partecipazione emotiva»6, nell’atto stesso del guardare. Assistiamo,
così, ad uno sdoppiamento ulteriore dell’io, che è insieme
vedente e visto, «personaggio come “soggetto” narratore, come voce
narrante»7, e «personaggio come “oggetto” della narrazione, protagonista
della vicenda»8.
L’autoanalisi, lo sguardo del soggetto costantemente rivolto su
di sé, portano a dichiarare la morte come condizione naturale, necessaria,
che non susciterebbe stupore. E «invece» (v. 15) il poeta
continua a vagare, «discutendo con l’anima già stanca»9, scaduti
entrambi ad automi, nel torpore del sonno. È situazione che torna
più avanti, nel secondo momento di Pianissimo:
Perché a me par, vivendo questa mia
povera vita, un’altra rasentarne
come nel sonno, e che quel sonno sia
la mia vita presente.
(Talor, mentre cammino solo al sole, p. 42, vv. 13-16).
Alla consapevolezza dello stato di sonnambulismo si accompagna
la coscienza della propria cecità: il soggetto che guarda il mondo
si coglie, con un effetto straniante, come un «cieco»10: nella cecità
risiede l’unica possibilità di beatitudine e di armonia. È quanto
Sbarbaro afferma in uno dei Fuochi fatui:
Se la cecità di cui beneficiamo per assuefazione dalla nascita cadesse
come una benda, ci lusingherebbe forse meno il nostro aspetto che
troviamo così bello da attribuirlo anche a Dio11.
in certo qual modo abbia soltanto opposto come uno scudo a loro e agli dei la
sopra descritta finzione» (F. Kafka, Il silenzio delle sirene, in Id., Racconti, a cura
di E. Pocar, Milano, Mondadori, 1992, pp. 428-29).
6 L. Polato, Sbarbaro, Firenze, La Nuova Italia, 1969, p. 10.
7 A. Perli, La parola necessaria. Saggio sulla poetica di Sbarbaro, Ravenna, Giorgio
Pozzi Editore, 2008, p. 95.
8 Ibidem.
9 C. Baudelaire, Les sept vieillards, trad. it. I sette vecchioni, in Id., «I fiori del
male» e altre poesie, traduzione e introduzione di G. Raboni, con testo a fronte,
Torino, Einaudi, 1999, p. 143, v. 12.
10 «Un cieco mi par d’essere, seduto / sopra la sponda d’un immenso fiume
» (Talor, mentre cammino solo al sole, p. 42, vv. 6-7).
11 C. Sbarbaro, Fuochi fatui, in Id., L’opera in versi e in prosa – Poesie – Trucioli
[4] IL SONNO E LA VISIONE DI CAMILLO SBARBARO: PIANISSIMO 1914 673
L’io che osserva, in Talor, mentre cammino solo al sole, svela la
cecità abituale dell’io osservato. E non è solo il proprio «aspetto» ad
essere guardato impietosamente, ma quello di tutto il mondo circostante,
definito «fraterno» (v. 3) all’inizio della lirica, e «misero […]
angusto» (v. 21) in chiusura. Derivano di qui l’«improvviso gelo»
(v. 5) e lo «smarrimento» (v. 17) che attanagliano il poeta. La cecità
è una forma di «incoscienza», come lo è lo stato del sonnambulo, ed
è l’unica difesa nei confronti di una realtà ostile: «Deploriamo l’incoscienza;
e senza questo sughero quanti si terrebbero a galla?»12.
La perdita del sonno apre ad una sensazione di terrore:
Mi desto dal leggero sonno solo
nel cuore della notte.
[…]
Improvviso terrore mi sospende
il fiato e allarga nella notte gli occhi
(Mi desto dal leggero sonno solo, p. 43, vv. 1-2, 9-10).
Se è vero che «la veglia nella notte è, da Leopardi, condizione
endemica del poeta moderno, segno immediato della sua differenza,
della sua distanza dagli uomini che dormono»13, è anche vero
che Sbarbaro tenta di rituffarsi nella condizione di limbo propria
del sonno, di fatto rifiutando la condizione di diversità – sia essa
segno di privilegio o di condanna – che è esclusiva del poeta (o,
come vedremo in seguito, rivendicherà la possibilità di vivere lo
stato di veglia annullando le distanze proprio con i rappresentanti
della più marginale e reietta umanità).
Sonno e consuetudine, quindi, attutiscono l’impatto con il mondo
esterno: l’io di Pianissimo, rimbaudianamente, «vuol vivere son-
– Fuochi fatui – Cartoline in franchigia – Versioni, a cura di G. Lagorio e V.
Scheiwiller, Milano, Scheiwiller-Garzanti, 1999, p. 438. La raccolta sarà in seguito
citata con la sigla OVP.
12 Ivi, p. 437.
13 V. Coletti, Prove di un io minore. Lettura di Sbarbaro – Pianissimo 1914,
Roma, Bulzoni Editore, 1997, p. 59. Basti pensare – per citare solo due esempi
emblematici del tema della veglia nella letteratura degli anni immediatamente
vicini a quelli di Pianissimo – a Veglia di Ungaretti (in G. Ungaretti, Vita d’un
uomo. Tutte le poesie, a cura di L. Piccioni, Milano, Mondadori, 1969, p. 25), o
ai poeti futuristi, che prima di dettare le regole della nuova arte «aveva[no]
vegliato tutta la notte» (F.T. Marinetti, Fondazione e Manifesto del Futurismo, in
Id., Teoria e invenzione futurista, a cura di L. De Maria, Milano, Mondadori,
1968, p. 7).
674 VIRGINIA DI MARTINO [5]
nambulo»14, e restare, al pari del tozziano Pietro Rosi, «con gli occhi
chiusi».
L’immagine del viandante sonnambulo attraversa tutta la raccolta:
è ancora come addormentato, privo di lucidità, il personaggio
«smemorato» che cammin[a] per la strada / della città tumultuosa
solo» (Talor, mentre cammino per la strada, p. 52, vv. 4, 1-2), e si
muove «come in sonno tra gli uomini» (Sempre assorto in me stesso,
p. 60, v. 2); mentre in uno stato d’ipnosi, di stordimento, si risolve
anche l’occasione di risveglio occorsa per caso al viandante di Io che
come un sonnambulo cammino.
Quasi un Arsenio ante litteram, incapace di cogliere e seguire «il
segno d’un’altra orbita»15, il viandante di Sbarbaro si muove senza
memoria, senza coscienza di sé, perso in una «città astratta»16, straniante
e disumana, in cui «tutto è […] soltanto quel che è»: sonnambulismo
e incoscienza si presentano, allora, come le sole difese dalle
«acque vorticose» (Talor, mentre cammino solo al sole, p. 42, v. 8),
dalla vertigine di vuoto e di silenzio del reale.
2. Il risveglio
Non sempre lo stato di grazia del sonno preserva dall’incontro
con la vita: sia in Talor, mentre cammino solo al sole, che in Mi desto
dal leggero sonno solo, l’interruzione del sonno è fonte di scoperte
angosciose. Se nella prima delle due liriche il poeta avverte la propria
cecità, e la miseria e l’angustia del proprio mondo, nella seconda
gli si dà chiara la consapevolezza dell’estraneità che si insinua
tra il suo “io” e quello degli altri:
Improvviso terrore mi sospende
il fiato e allarga nella notte gli occhi.
Separata dal resto della casa
separata dal resto della terra
è la mia vita e io son solo al mondo.
(Mi desto dal leggero sonno solo, p. 43, vv. 9-13)
14 A. Rimbaud, Une saison en enfer, trad. it. Una Stagione in inferno, in Id.,
Opere, a cura di D. Grange Fiori, Milano, Mondadori, 1975, p. 237.
15 E. Montale, Arsenio, in Id., Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, Milano,
Mondadori, 1990, p. 83, v. 12.
16 A. Perli, La parola necessaria. Saggio sulla poetica di Sbarbaro, cit., p. 97.
[6] IL SONNO E LA VISIONE DI CAMILLO SBARBARO: PIANISSIMO 1914 675
Proprio nel mezzo della notte, mentre tutti dormono, il poeta
vive invece un’esperienza di risveglio, che sembrerebbe connotata
positivamente: lo scenario che circonda l’io lirico è quello di un
silenzio assorto, di una quiete amica, rischiarata dalla presenza del
porto – luogo di sogni per lo Sbarbaro fanciullo17 – con le sue luci.
Subito, tuttavia, si manifesta la natura illusoria dell’intimità con
le cose: caduto, con lo svanire del sonno, il velo che uno sguardo
abituato getta sulla realtà, si
rivel[a] di colpo una condizione rimasta inconscia durante il giorno,
per cui il contenuto latente irrompe nella coscienza nel momento in
cui il suo sistema di difesa è meno vigile. E la rivelazione ha, nella
sua violenza, tutto il carattere dell’incubo […], con la fondamentale
differenza che non si tratta di interrompere un sogno pauroso ma di
destarsi a una verità amara18.
Un «improvviso terrore» – gemello del «terrore d’ubriaco»19 provato
dal viandante degli Ossi di seppia che, voltandosi, scopre il
mondo deserto – «sospende il fiato» di chi torna dal sonno. Era una
situazione prevista dal protagonista di Pianissimo già in apertura del
poemetto, nei versi centrali della lirica proemiale.
In Taci, anima stanca di godere il cuore non si ferma, il respiro non
viene a mancare: il poeta continua a camminare «come un sonnambulo
». In Mi desto dal leggero sonno solo lo stato di sonno si interrompe,
e il fiato è sospeso20: l’evento atteso accade e sortisce un effetto,
più che di stupore («noi non ci stupiremmo», era infatti stato dichiarato),
di vero e proprio «terrore». Invano «il ricordo delle vie
consuete» (v. 14), del montaliano «inganno consueto»21 torna, col
sonno, ad attutire il trauma: l’«improvviso gelo», già in Talor, mentre
17 Per il fanciullo il porto rappresenta un’altra via di fuga dalla realtà, diversa
dal sonno, ma rispondente allo stesso bisogno di dimenticare la propria vita,
di «essere un altro»: «Quante volte guardai come uno scampo / i bastimenti
ch’escono dal porto! / New York, Calcutta, Londra: nomi immensi. / Perdermi
là sognavo, essere un altro, /dimenticarmi sino del mio nome» (C. Sbarbaro,
Lettera dall’osteria, OVP, p. 87, vv. 28-32.
18 L. Polato, Commento e note ai testi, cit., p. 93.
19 E. Montale, Forse un mattino, andando in un’aria di vetro, in Id., Tutte le
poesie, cit., p. 42, v. 4.
20 L’effetto di sospensione è, tra l’altro, rafforzato dall’enjambement che intercorre
tra il verbo e il complemento («sospende / il fiato»); così come era evocato
dalla spezzatura tra verbo e soggetto in Taci, anima stanca di godere («sospeso se
ci fosse / il fiato»).
21 E. Montale, Forse un mattino, andando in un’aria di vetro, cit., p. 42, v. 6.
676 VIRGINIA DI MARTINO [7]
cammino solo al sole legato all’attimo di verità, si stabilisce, non più
«improvviso» e transitorio, nel «fondo» della coscienza del poeta
(«Ma, svanita col sonno la paura, / un gelo in fondo all’anima mi
resta», Mi desto dal leggero sonno solo, p. 43, vv. 18-19).
L’insistenza sul terrore e sulla sensazione di vuoto, la certezza
del perdurare di tale situazione negativa, indicano la coscienza, da
parte di Sbarbaro, della «caduta dell’estrema illusione romantica di
un’umanità unita sotto il cielo vuoto, fra le cose ostili»22.
A sancire la povertà dell’io lirico, la sua totale incapacità di reagire,
interviene la constatazione «ma restan gli occhi crudelmente
asciutti» (v. 33). Nulla irrompe, nel deserto di Pianissimo, a «mozza[re]
il silenzio degli occhi»23, condannati a scrutare, come già nella chiusura
di Taci, anima stanca di godere, l’orizzonte esistenziale inaridito
in cui l’io è costretto a vivere.
Se è questa la vita che si prospetta al risveglio, non stupisce la
«ripugnanza» (Svegliandomi il mattino, a volte io provo, p. 59, v. 2)
provata da Sbarbaro nell’abbandonare il «limbo» (v. 14) del sonno,
raccontata anche in una delle Lettere a casa dal fronte, raccolte in
Cartoline in franchigia: «sono una marionetta che si sente sempre
tale. Oggi sveglia, un veni foras: non gli obbedisco con minore ripugnanza
»24.
Abbandonare il «Sonno, dolce fratello della morte» (Sonno, dolce
fratello della morte, p. 48, v. 1), che come la morte «affranca» (v. 2)
per un po’ dalla vita, equivale qui, esplicitamente, ad una resurrezione:
novello Lazzaro, l’io poetante ha obbedito all’ordine («veni
foras») ed è, letteralmente, chiamato a «ritornare in vita», riemergendo
dalle acque oblianti del Lete. Tuttavia, come il «ricordo […] riemerge»
dopo il risveglio di Mi desto dal leggero sonno solo (vv. 13-15), così
«l’esperienza emerge» (Svegliandomi il mattino, a volte io provo, v. 9),
terra sommersa, quando rifluisce la marea.
Si tratta di una verità, sprofondata nella coscienza, che viene a
galla «con la forza e l’effetto di un trauma»25: la vita è guardata in
22 G. Barberi Squarotti, Camillo Sbarbaro, Milano, Mursia, 1971, p. 51.
23 G. Ungaretti, Lindoro di deserto, in ID., Vita d’un uomo. Tutte le poesie, cit.,
p. 24, v. 2. Al poeta del Porto sepolto si offre, nello spazio indifferenziato della
notte e della sabbia, una visione; il deserto è, per Ungaretti, l’orizzonte di attesa
in cui irrompe l’evento, aspettato e consolatorio, di un’alba che indica il rigenerarsi
del tempo, laddove in Sbarbaro la situazione di estraneità e di silenzio
«sarà per sempre».
24 C. Sbarbaro, Cartoline in franchigia, OVP, p. 608.
25 L. Polato, Commento e note ai testi, cit., p. 122.
[8] IL SONNO E LA VISIONE DI CAMILLO SBARBARO: PIANISSIMO 1914 677
tutta la sua mancanza di senso e ragione, e l’individuo vive la sua
“resurrezione” quotidiana come una quotidiana condanna ad essere
cacciato dall’Eden, dal grembo indifferenziato della notte, traccia di
un antichissimo grembo materno. Il sonno «consolatore degli afflitti»
(Sonno, dolce fratello della morte, p. 48, v. 9), invocato in termini liturgici,
si veste di attributi materni26, di connotati fiabeschi, tanto da
spingere l’io poetante a desiderare una condizione di vita diversa da
quella umana, pur di godere pienamente dei benefici del sonno:
Sonno, beata culla navicella fatata che dal buio ci sbarchi alla promessa
dell’alba. Inesaudito il voto ch’era nascere pianta, animale
fossi nato che toglie in collo il letargo27.
La «beata culla» rimanda ad una condizione di regressione; ma
anche la «navicella», meno direttamente, richiama identici desideri:
«la barca rappresenta la culla e la bara – fluttuazione degli stati e
dei pensieri. Essa traccia il cammino dell’anima: ancora un sollievo
materno»28, ancora espressione dell’ansia di autoannullamento provata
dal soggetto protagonista di Pianissimo.
E dunque ritornare alla vita provoca, come il risveglio notturno,
un’acuta sensazione di terrore:
Come il burrone m’empie di terrore
la disperata luce del mattino
(Svegliandomi il mattino, a volte io provo, p. 59, vv. 19-20).
In uni dei Fuochi fatui farà ritorno l’immagine del burrone associata
al motivo del sonno: «sull’orlo del sonno sei su un precipizio;
non sai che ti accadrà nel mondo di larve in cui scivoli»29. Con una
basilare differenza: se nella prosa dei Fuochi fatui il sonno rappresenta
il precipizio, nella lirica di Pianissimo, con esito straniante,
l’immagine del baratro indica il risveglio:
[Sbarbaro] utilizza un incubo ma per identificarlo alla verità: la luce
del mattino terrorizza come il burrone verso cui precipita. […] La
misura dello straniamento operato è appunto nella paradossale iden-
26 «Nessun bambino mai così fidente / s’abbandonò sul seno della madre /
com’io nelle tue mani m’abbandono» (Sonno, dolce fratello della morte, p. 48, vv.
12-14).
27 C. Sbarbaro, Fuochi fatui, cit., p. 505.
28 M. Bulteau, Le figlie dell’acqua: presenze del femminile nel mito e nella letteratura,
Genova, ECIG, 1993, p. 9.
29 C. Sbarbaro, Fuochi fatui, cit., p. 467.
678 VIRGINIA DI MARTINO [9]
tificazione della funzione della luce con quella di una realtà oscura
rappresentata dal burrone30.
Il desiderio di morire31, di scadere a pianta o ad animale cui
soccorre il letargo, non è assecondato: il poeta deve fare i conti con
le conseguenze del risveglio, che comporta la perdita dell’unica
parvenza di autenticità concessagli.
Io ti vedo con gioia e con paura
ogni giorno scemare, mio Dolore.
[…]
ogni mattino che mi sveglio scopro
il tuo volto più pallido, Dolore,
finchè un mattino al posto tuo m’appaia
il volto scialbo della Consuetudine.
(Io ti vedo con gioia e con paura, p. 51, vv. 1-2, 8-11).
La consuetudine che resta al poeta, tuttavia, è qualcosa di diverso
dal sonnambulismo: è, piuttosto, un’apatia consapevole, priva
quindi della benefica interruzione di vita portata in dono dal sonno.
Se «quando si dorme non si sa più nulla» (Sonno, dolce fratello della
morte, p. 48, v. 15), se il sonnambulo non «vede» chiaramente quello
che pure «guarda»32, il risveglio significa, da un lato, perdere il
rifugio consolante dell’inconsapevolezza senza, d’altra parte, affacciarsi
ad una vita piena: il poeta resta, così, scisso, a guardare come
dall’alto lo spettacolo offerto dal proprio corpo, dai propri occhi
intenti a spiare la fine delle illusioni.
3. La chiaroveggenza e l’estraneità
Il dileguarsi del Dolore, «amante» (v. 4) che si fa sempre più
estranea, significa dunque, per Sbarbaro, l’impossibilità di chiudere
gli occhi, di rifugiarsi nel pianto:
Tu che illudesti per un po’ la mia
aridità e che ai miei occhi chiari
30 L. Polato, Sbarbaro, cit., p. 18.
31 Si leggano i versi di C. Baudelaire, Le Léthé, trad. it. Il Lete, in Id., «I fiori
del male» e altre poesie, cit., p. 241: «Voglio dormire! pur di non vivere, dormire!
/ In un sonno dolce come la morte…» (vv. 9-10).
32 «E se ogni cosa guardo acutamente / quasi sempre non vedo ciò che
guardo» (Sempre assorto in me stesso e nel mio mondo, p. 60, vv. 4-5).
[10] IL SONNO E LA VISIONE DI CAMILLO SBARBARO: PIANISSIMO 1914 679
di pianto intorbidandoli, lasciasti
vedere meno bene, e mi facesti
tutta la vita vivere nell’attimo,
adesso che ho imparato a amarti solo
o Dolore tu anche passeggero,
irreparabilmente te ne vai.
E se mi fosse dato, non avrei
forse il coraggio di chiamarti indietro.
(Io ti vedo con gioia e con paura, p. 51, vv. 12-21)
Come già visto, la sensazione del «gelo»33, del «freddo dell’irreparabile
» (v. 5), induce una condizione di chiaroveggenza: anche
l’estraneità è dato che viene percepito con gli occhi – «i due corpi
così vicini vede / farsi ogni giorno più tra loro estranei», vv. 6-7 –,
quasi presenza fisica che si offre a una vista velata dal pianto solo
«per un po’» (v. 12).
Già prerogativa del Satana baudelairiano, che scruta gli abissi e
li nasconde ai sonnambuli34, gli «occhi chiari» dell’io lirico significano
la sua disposizione a guardare senza schermi la realtà. L’unico
impedimento, quello costituito dalla torbidità del pianto, viene meno
appunto con la fuga «irreparabile» di un dolore «passeggero». Eppure,
se anche gli fosse concesso, il poeta non saprebbe «chiamar[lo]
indietro», pur consapevole dell’uguaglianza vita-sofferenza: «Ma la
mia vera vita con te viene / perché quando non soffro neppur vivo»
(vv. 22-23).
È uno stato, dunque, di non-vita, quello dal quale si esercita la
chiaroveggenza sbarbariana: condizione non nuova nel primo quindicennio
del secolo, se pensiamo al Totò Merumeni protagonista dei
Colloqui di Gozzano, ugualmente congelato in uno stato di non-vita,
da «sopravvissuto», da cui osservare gelidamente un altro se stesso:
Venticinqu’anni! … Come più m’avanzo
all’altra meta, gioventù, m’avvedo
che fosti bella come un bel romanzo!
Ma un bel romanzo che non fu vissuto
da me, ch’io vidi vivere da quello
che mi seguì, dal mio fratello muto.
[…]
33 Cfr. Talor, mentre cammino solo al sole e Mi desto dal leggero sonno solo.
34 Cfr. C. Baudelaire, Les litanies de Satan, trad. it. Le litanie di Satana, in Id.,
«I fiori del male» e altre poesie, cit., pp. 206-207, vv. 22-23, 25-26.
680 VIRGINIA DI MARTINO [11]
Non vissi. Muto sulle mute carte
ritrassi lui, meravigliando spesso.
Non vivo. Solo, gelido, in disparte,
sorrido e guardo vivere me stesso35.
Negli anni Venti, sarà Montale ad esprimere, con gli Ossi di
seppia, l’arsura che impedisce di fiorire alle «monche esistenze»36,
svelando, con sguardo instancabile, il male che le corrode, e riconoscendole
come minimo residuo di una «vita strozzata»37, «viss[uta]
al cinque per cento»38. Chiaroveggenza, aridità, non-vita: i tre elementi
si fondono in Pianissimo e divengono uno dei motivi più
densi della raccolta.
In Talor, mentre cammino solo al sole la chiaroveggenza si accompagna
alla scoperta della manchevolezza della propria vita, della
propria cecità, della miseria del mondo, scoperta che provoca «smarrimento
», «sgomento pueril» (p. 42, v. 17).
La chiaroveggenza implica, necessariamente, la scoperta della
propria generale cecità; si dà come momentanea interruzione di tale
incapacità di guardare, come facoltà che nega per un attimo lo stato
consueto dell’assenza di lucidità. La verità è, dunque, vissuta da
Sbarbaro «come alhvqeia, implicante un’originaria non-verità, uno
sfondo – da cui emerge, da cui si schiude – che resta oscuro»39;
l’intuizione (letteralmente intesa come potere di “guardare dentro”
le cose) richiede la mancanza di vista cui si contrappone (la «blindness
» di cui parlerà De Man, «cecità necessaria e non contingente
errore»40).
L’attimo di chiaroveggenza si configura quindi non come termine
assoluto, positivo, bensì come dis-velamento, negazione dell’abituale
nascondimento41 delle cose agli occhi dell’io lirico.
35 G. Gozzano, I Colloqui, in Id., Poesie, a cura di G. Barberi Squarotti,
Milano, Rizzoli, 1977, pp. 132-133, vv. 20-25, 38-41.
36 E. Montale, Crisalide, in Id., Tutte le poesie, cit., p. 88, v. 38.
37 Id., Arsenio, cit., p. 84, v. 58.
38 Come Montale dirà molto più tardi, in Per finire, in Diario del ’71 e del ’72,
in Tutte le poesie, cit., p. 520, v. 8.
39 E. Saccone, Introduzione a P. De Man, Blindness & Insight. Essays in the
Rhetoric of the Contemporary Criticism, trad. it. Cecità e visione. Linguaggio letterario
e critica contemporanea, Napoli, Liguori, 1975, pp. XII-XIII.
40 Ivi, p. XIII.
41 Se si pensa al termine greco che indica la verità, ajlhvqeia, non si può non
notare che esso costituisce proprio la negazione del nascondimento, del nascondere,
idea presente nella parola con la radice -laq- /-lhq-.
[12] IL SONNO E LA VISIONE DI CAMILLO SBARBARO: PIANISSIMO 1914 681
È singolare che, anche in un altro momento di chiaroveggenza,
Sbarbaro si dica dominato da un’inquietudine definita, come in Talor,
mentre cammino solo al sole, «puerile» (Talor, mentre cammino per la
strada, p. 52, v. 6).
Scomposto in un io osservante ed un io osservato, l’io poetante
scompone a sua volta anche gli individui che lo circondano, di fatto
facendoli scadere a livello di oggetti, analizzati nell’osservazione dei
singoli «Pezzi Anatomici»42 che li compongono: «facce volpine stupide
beate, / facce ambigue di preti, pitturate / facce di meretrici…» (Talor,
mentre cammino per la strada, p. 52, vv. 13-15). Amplificato dall’anafora,
il ritmo ossessivo rende ancora più tragico il tono dei versi sbarbariani,
campionario della più misera e animalesca umanità. Si tratta delle
stesse «persone senza volto»43 di cui si parla nei Fuochi fatui, che «compaiono
ogni tanto in casa» o «sulla “Rivista Aziendale”»44: persone
dalle «facce […] asimmetriche, senza fronte o tutta mascella; segnate
come le stoviglie che si scartano per difetti di lavorazione»45.
Persi nell’illusione di ingannare gli altri, i protagonisti della lirica
non si accorgono di vivere a loro volta per l’inganno che al solo
poeta è chiaro:
E conosco l’inganno pel qual vivono,
il dolore che mise quella piega
sul loro labbro, le speranze sempre
deluse,
e l’inutilità della lor vita
amara, e il lor destino ultimo, il buio.
(Talor, mentre cammino per la strada, p. 52, vv. 17-22).
Il poeta non si pone come semplice osservatore: piuttosto, come
sottolineato da Polato,
qui nella visione dell’assurdità della vita ritratta in questa teoria di
figure, come riproduzione meccanica di atti e sentimenti, come un
carosello pauroso, paradossale, sinistro per il suo non senso, Sbarbaro
diventa il veggente, non del suo destino, ma di quello dell’umanità46.
Unico in grado di «ved[ere] i fili e sopra le teste la mano che li
42 C. Sbarbaro, Al Gran Cairo, OVP, pp. 139-140.
43 Id., Fuochi fatui, cit., p. 464.
44 Ibidem.
45 Ibidem.
46 L. Polato, Sbarbaro, cit., p. 26.
682 VIRGINIA DI MARTINO [13]
impugnava»47, l’io lirico prova la sensazione straniante di «ved[ere]
/ inseguire farfalle lungo l’orlo / d’un precipizio» (Talor, mentre
cammino per la strada, vv. 28-30) invisibile a tutti: ritorna, in questi
versi, il senso di vertigine e di vuoto, «metafora angosciosa che […]
allude appunto alla realtà del disinganno»48, che figura in Svegliandomi
il mattino49 e in Talor, mentre cammino solo al sole50.
Stavolta il poeta non si trova sul margine, ma assiste, senza
saper o voler intervenire, all’altrui danza cieca, destinata a concludersi
nel volo mortale, se i protagonisti sono definiti «condannati»
(v. 31). L’attimo di chiaroveggenza si conclude: l’istante privilegiato
in cui il velo di Maia si lascia penetrare dallo sguardo del poeta non
può prolungarsi; datosi come rottura dell’abitudine, proprio perciò
non può divenire tempo ordinario. E tuttavia, se anche «poco ciò
dura» (v. 32), se anche la vista torna ad offuscarsi, l’intuizione della
verità lascia il suo segno doloroso nell’intimo del poeta.
La sensazione di paura torna nel dodicesimo momento di Pianissimo,
I miei occhi implacabili che sono, accompagnandosi ancora una
volta, a ribadire lo stretto nodo tematico che li stringe, ai motivi
dell’allontanamento del «Dolore» e dell’acutezza dello sguardo.
I miei occhi implacabili che sono
sempre limpidi pure quando piangono
Amicizia non vale ad ingannare.
Quando parliamo troppo forte o quando
d’improvviso taciamo tutti e due
vedono essi il male che ci rode.
(I miei occhi implacabili che sono, p. 56, vv. 1-6).
Armato di uno sguardo «implacabile», non offuscato adesso neanche
dal pianto dietro cui talora si nasconde, Sbarbaro desacralizza
gli affetti borghesi per antonomasia: quello costituito dall’amicizia51,
47 C. Sbarbaro, Al Gran Cairo, cit., p. 140.
48 A. Padovani Soldini, «Il nome dell’amico è un nome vano». Solitudine e
illusioni nel tempo di «Pianissimo», in Camillo Sbarbaro, Atti della giornata di
studio (11 aprile 2003), a cura di G. Devoto e P. Zoboli, Genova, Edizioni S.
Marco dei Giustiniani, 2003, p. 24.
49 «Io sono in quel momento proprio come / chi si desti sull’orlo d’un
burrone / e con le mani disperatamente / d’arretrare si sforzi ma non possa»
(p. 59, vv. 17-18).
50 Cfr. infra, nota 10.
51 Si veda lo Scampolo Capogiro (OVP, pp. 188-190), drammatica rassegna di
tre incontri risolti in tre occasioni mancate, in tre episodi di incomunicabilità ed
isolamento.
[14] IL SONNO E LA VISIONE DI CAMILLO SBARBARO: PIANISSIMO 1914 683
e, accanto ad essa, l’amore per i familiari. Il senso di estraneità ed
inimicizia verso gli altri e se stesso, la chiarezza di vista esercitata
con esiti devastanti, conducono ad un’accorata invocazione alle lacrime.
È una liberazione, quella offerta dal pianto, che può darsi,
però, esclusivamente nella solitudine: dopo aver scoperto e indagato
lucidamente l’insensatezza di ogni comunicazione che si voglia
autentica, l’io lirico non può che fuggire gli altri, visti, metonimicamente,
non nella loro interezza di individui, bensì come «sguardi
curiosi», occhi reificati e reificanti, che nel momento stesso in cui
puntano sull’io poetante lo riducono alla stregua di un oggetto.
Lacrime, sotto sguardi curiosi
non mi scoppiate a un tratto mentre parlo
di vane cose (mi sovviene a un tratto
del mio cammino sotto i cieli bui,
non avendo una mano che m’incuori:
e l’inutilità di ciò che dico
di ciò che faccio mi fa grave il cuore).
[…]
E quell’altro mio io il quale sempre
m’accompagna, vorrebbe quando piango
alzar la faccia e ridere frenetico.
(Lacrime, sotto sguardi curiosi, p. 54, vv. 1-7, 12-14).
Come visitato da un ricordo involontario, non evocato ma sopraggiunto
«a un tratto», con la stessa imprevedibilità con cui può
erompere il pianto, il poeta si scopre nuovamente solo, pellegrino
nell’oscurità, lontano dagli altri e preda della propria inettitudine,
accompagnato dalla solita presenza: non un «altro mio io», ma
«quell’altro» solito «mio io», il doppio che lo segue e della cui
presenza straniante sono permeati molti dei versi letti in precedenza.
La scissione subita dal soggetto nega l’assolutezza dei sentimenti
provati, mette in crisi la verità della sofferenza vissuta, la rovescia,
ne smaschera l’illusorietà, allestendo lo spettacolo dello scontro eterno
tra «le grandi passioni elementari, il riso e il pianto allo stato puro»52.
Attraverso un riso «frenetico» e carico di tensione, l’«altro io»
sbarbariano si configura, al pari del clown di cui parla Starobinski,
come «sfida alla serietà delle nostre certezze»53, che si pone in «con-
52 J. Starobinski, Portrait de l’artiste en saltimbanque, trad. it. Ritratto dell’artista
da saltimbanco, a cura di C. Bologna, Torino, Bollati Boringhieri, 1984, p. 50.
53 Ivi, p. 150.
684 VIRGINIA DI MARTINO [15]
traddizione»54 nei confronti di «una società organicamente strutturata
»55.
La “rivolta” sbarbariana si concretizza, in questi versi, nella «figura
polivalente»56 del doppio:
la figura dell’intruso che si impone o che viene espulso; figura della
vittima espiatrice o del demone ingannatore; figura dello slancio
ottimista verso l’alto o della caduta nell’abisso57.
Sconosciuto a se stesso, sconosciuto al padre – estraneo dunque
al proprio presente e alle proprie radici – l’io lirico nega legittimità
all’affetto filiale, disconoscendo la famiglia come luogo in cui abbandonarsi
al ristoro del pianto: «Mentre guardo mio padre ginocchioni
/ non mi colate giù rapide e calde» (Lacrime, sotto sguardi
curiosi, vv. 15-16).
Lo stesso avverbio «ginocchioni», posto in posizione equivoca58,
sembra accentuare la miseria della figura genitoriale: in Pianissimo
non esiste più un’autorità cui ribellarsi, un Padre con cui misurare
la conquista della propria autonomia; il mito, la tragedia, non sono
più possibili nello spazio e nel tempo del sottotono, del “pianissimo”,
del grigio. L’io poetante che non vuole svelarsi agli amici ed al
padre, nella «solitudine d’un bosco» (v. 22) si abbandona finalmente
al pianto.
Paradossalmente, la propria vera essenza è recuperata e scoperta
dietro il riparo offerto dalle lacrime, il «velo sottile»59 che protegge
l’io senza falsarlo, senza mascherarlo:
Allora sotto la bontà dei cieli
io sono nudo come quando nacqui.
54 Ivi, p. 154.
55 Ibidem.
56 Ivi, p. 151.
57 Ibidem.
58 «Allorché Sbarbaro scrive “Mentre guardo mio padre ginocchioni”, non è
un’immagine deformata, di miseria fisica, che egli dà del padre, ma un ricordo
preciso di sé ragazzo, che gli è rimasto nella mente: quando il padre era seduto
in poltrona, i figli per parlargli dovevano mettersi nella sua visuale e quindi in
ginocchio davanti a lui» (G. Lagorio, Sbarbaro. Un modo spoglio di esistere, Milano,
Garzanti, 1981, p. 30).
59 Nell’edizione del ’60 al termine «velo» sarà sostituito il termine «schermo»
(cfr. OVP, p. 71, v. 23): verrà, così, accentuata l’idea del nascondimento della
reale essenza del soggetto. Se il velo protegge assecondando e lasciando intravedere
i contorni della cosa velata, lo schermo si frappone in modo drastico tra
l’io e il mondo, come una barriera falsante e impenetrabile.
[16] IL SONNO E LA VISIONE DI CAMILLO SBARBARO: PIANISSIMO 1914 685
Dietro il sottile velo delle lacrime
allora sono solamente io.
(Lacrime, sotto sguardi curiosi, pp. 54-55, vv. 29-32).
Al contrario, le lacrime piante in città, nell’estraneità e nell’isolamento
più che nella solitudine pacificante vissuta nel contatto con
la natura, sono lacrime sterili, che non confortano, che anzi si configurano
come occasione di vergogna per l’io poetante:
Andando per la strada così solo
tra la gente che m’urta e non mi vede
mi pare d’esser da me stesso assente.
E m’accalco ad udire dov’è ressa
sosto dalle vetrine abbarbagliato
e mi volto al frusciare d’ogni gonna.
Per la voce d’un cantastorie cieco
per l’improvviso lampo d’una nuca
mi sgocciolan dagli occhi sciocche lacrime
mi s’accendon negli occhi cupidigie.
(Taci, anima mia. Son questi i tristi, p. 69, vv. 8-17).
La lirica, posta ad inaugurare la seconda sezione di Pianissimo60,
si apre, in maniera speculare al primo componimento della prima
parte della raccolta (Taci, anima stanca di godere), con un’allocuzione
alla propria anima, ancora congelata nell’afasia. I giorni segnati
dall’assenza di volontà, i giorni dell’attesa senza senso, non motivata
da alcuna speranza, trovano l’io lirico fossilizzato in situazioni di
passività.
Fratello dell’«albero ignudo a mezzo inverno» (v. 4), posto a
languire «nella deserta corte» (v. 5), privato del contesto naturale
per cui gli alberi hanno esistenza così piena da essere oggetto di
invidia61, «spaesato e stupefatto Sbarbaro passa tra gli uomini che
60 È stato notato come tale collocazione costituisca un fatto impostante non
solo a livello tematico, ma anche a livello strutturale: «Che la poesia figuri in
apertura della seconda sezione di Pianissimo è fatto di singolare rilevanza, giacché
al valore autobiografico del documento si viene a sovrapporre una specifica
mansione strutturale» (A. Padovani Soldini, Ho bisogno d’infelicità. Pianissimo.
Rimanenze. Primizie. Storia della poesia di Camillo Sbarbaro con testimonianze inedite,
Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1997, p. 55).
61 Si legga quanto Sbarbaro scrive nei Trucioli: «Ma ormai, se qualcuno invidio,
è l’albero. Freschezza e innocenza dell’albero! Cresce a suo modo. Schietto,
sereno. Il sole, l’acqua lo toccano in ogni foglia. Perennemente ventilato. Tremolio,
brillare del fogliame come un linguaggio sommesso e persuasivo! […] Essere un
686 VIRGINIA DI MARTINO [17]
non comprende, tra la vita che lo sopravanza e gli sfugge; e una sua
patria e una sua casa non trova»62.
Ecco dunque il tentativo di far parte della «ressa», di lasciarsi
incantare dalle vetrine – quelle vetrine che Sbarbaro fugge per non
essere costretto ad osservarvi la propria immagine63 –, di riconoscere
«amore e gloria» (Io che come un sonnambulo cammino, p. 74, v. 9)
nel fruscio di una gonna o nel balenare fulmineo di una donna
intravista di spalle. La donna, insieme al «cantastorie cieco», induce
il pianto nel poeta: ancora, si tratta di un evento subito, se l’io vive
passivamente lo «sgocciolare» di «sciocche lacrime», l’«accendersi»
di «cupidigie». La donna e il cantastorie rappresentano due mondi
ambiti e lontani, sogni di pienezza e di vita: l’amore, da un canto;
e, dall’altro, insieme la protezione della cecità e la facoltà di cantare64.
albero, un comune albero…» (Animali ed alberi, OVP, p. 170); «Gli è che l’albero
vive d’una vita tanto più piena e armoniosa della nostra, che dargli un nome è
limitarlo; mentre gli in cospicui e negletti licheni, a salutarli a vista per nome,
pare di aiutarli ad esistere» (Licheni, OVP, p. 365). E ancora, nelle Cartoline in
franchigia, leggiamo: «Gli alberi! invidio soprattutto gli alberi» (OVP, p. 597).
62 E. Montale, Camillo Sbarbaro, in Id., Sulla poesia, a cura di G. Zampa,
Milano, Mondadori, 1997, p. 190.
63 «Se inaspettatamente mi vedo in un vetro di bar, corto, la faccia scialba, i
ginocchielli e le scarpacce; […] una irritazione mi prende che mi lascia tra il
rossore e il pianto. Capisco allora che finirò come uno di quegli stracci umani
che non avranno mai il coraggio di uccidersi, importunando con richieste di
denaro gli ultimi amici che mi eviteranno» (C. Sbarbaro, Se inaspettatamente…,
OVP, p. 197).
64 Le prose sbarbariane sono piene di immagini in cui l’autore è incantato di
fronte a persone o animali che cantano. Così Nuccia, la sola tra le prostitute dei
Trucioli ad essere presentata non come cosa, ma come persona vera: «Trillava a
piena gola, occhi fermi. Guardavo con stupore le sue braccia vere. Per la coltre
sentivo il tepore del suo corpo propagarsi buono come per casa quella del pane.
[…] Discorreva d’una nipotina, Pepìca. […] le dissi: “Pepìca sei tu. Canta!”»
(OVP, p. 148).
In due figure di animali il poeta vede rispecchiato se stesso: «Sull’erbaglia
sommersa che porge oltre il pelo dell’acqua i fioretti bianco-giallini, il rospo ha
gonfiato il suo palloncino e canta. […] Rinfanciullito, mi chino sull’argine. Per
gioco, tiro un sasso nell’acqua. La bestia ammutolisce e s’immergerebbe; ma per
un po’ il gozzo enfiato dal canto la trattiene a galla, bersaglio al passante.
Natura coi poeti è spietata. Ma per cantare anch’io sono pronto a perdermi»
(Rospo, OVP, p. 163). «Hai mai visto l’implume che punta le scapole e si rizza
sull’ultima unghiola, teso nell’impazienza dell’impossibile volo? Ricade e ritenta
la prova. Quell’inutile sforzo di scapole è quanto mi rimane di vivo. Canta!
Vedi? in cambio di tutto, questa tua vocetta sfiatata mi basterebbe» (Sproloquio
d’estate, OVP, p. 273).
[18] IL SONNO E LA VISIONE DI CAMILLO SBARBARO: PIANISSIMO 1914 687
Immagine degli antichi aedi, impossibilitati a guardare il mondo
ma dotati di saggezza più profonda, il «cantastorie cieco» diventa
un alter ego del poeta, che incarna quelle che nel protagonista di
Pianissimo restano solo aspirazioni non realizzate e non realizzabili.
Entrambi gli eventi che “accadono” al poeta passivo si verificano,
non a caso, nei suoi occhi:
Chè tutta la mia vita è nei miei occhi.
Ogni cosa che passa la commuove
come debole vento un’acqua morta.
Io son come uno specchio rassegnato
che riflette ogni cosa per la via.
In me stesso non guardo perché nulla
vi troverei.
(Taci, anima mia. Son questi i tristi, p. 69, vv. 18-24).
Affermare che tutta la sua vita «è nei [suoi] occhi» – in uno
sguardo che, anziché appropriarsi del mondo, subisce «ogni cosa
che passa» – equivale, per il poeta, a mettere tutta la propria vita
sotto il segno della rinuncia, dell’inazione:
le relazioni sociali che un individuo, col proprio essere (intellettuale
e fisico), riesce a instaurare, da Sbarbaro vengono delegate ai soli
occhi. In tal modo le infinite possibilità di conoscere, percepire ed
esplorare il mondo si riducono enormemente, perché si escludono le
altre modalità della conoscenza65.
Dopo aver indicato nell’albero spoglio il correlativo della propria
condizione esistenziale di scacco, l’io lirico sceglie ora un referente
inanimato, l’acqua, definita, per un di più di devitalizzazione, «morta
», stagnante: la figura anticipa quella, presente nei versi immediatamente
seguenti, dello «specchio rassegnato».
È possibile ritrovare figure di poeta allo specchio in diverse liriche
scritte, nei primi quindici anni del Novecento, da Palazzeschi,
Govoni, Campana, Ungaretti. Eppure, in Pianissimo Sbarbaro compie
un’operazione completamente singolare.
Avocando a sé la facoltà di riflettere – operazione già compiuta da
Baudelaire66 – il poeta non è più il soggetto del rispecchiamento, ma
65 E. Citro, Sbarbaro e Campana. Lo sguardo e la visione, Genova, Il Melangolo,
1994, p. 19.
66 In Heautontimorumenos Baudelaire dichiara: «Sì, sono io lo specchio osceno
/ dove la strega si mira!» (in Id., «I fiori del male» e altre poesie, cit., p. 127, vv.
688 VIRGINIA DI MARTINO [19]
diviene il mezzo in cui si «riflette ogni cosa per la via». L’io lirico non
può guardare in se stesso, non cerca un’autenticità da raggiungere
scrutandosi a fondo, bensì si identifica tutto in un occhio specchiante
volto verso l’esterno: guardare in se stessi porterebbe a non trovare
nulla, a trovare il nulla, il vuoto. E dunque nel mondo delle cose
risiede l’unica certezza, l’unica consistenza. Riflettere tale concreta consistenza
è la sola ancora di salvezza al naufragio nell’assenza di senso.
Alcuni anni prima, già Corazzini, nel Piccolo libro inutile (1906),
aveva proposto un’identificazione tra la figura del poeta e quella di
uno «specchio rassegnato»:
Io voglio morire, solamente perché sono stanco;
[…]
solamente perché, io sono, ormai,
rassegnato come uno specchio,
come un povero specchio melanconico67.
Il poeta che sconfessa il proprio ruolo e la propria funzione, che
non indaga nel proprio io, limitandosi passivamente, rassegnatamente,
a farsi tramite per il rispecchiamento e la registrazione della
realtà, è visitato da un desiderio di morte: non credo sia casuale se
anche in Sbarbaro troveremo la stessa idea di autoannullamento,
come estrema conseguenza dell’estraneità dell’io a sé, della riduzione
ad oggetto i cui «occhi […] si limitano a riflettere»68, moltiplicando
lo spettacolo del mondo senza averne parte:
E, venuta la sera, nel mio letto
mi stendo lungo come in una bara.
(Taci, anima mia. Son questi i tristi, p. 70, vv. 25-26).
4. La necessità
Specchio che riflette la realtà senza lasciarsene penetrare, preda
di un oscuro desiderio di morte, il poeta chiaroveggente resta con-
19-20). Il poeta, qui, diviene luogo del sinistro svelamento degli orrori e della
crudeltà del reale, non troppo diversamente dal modo in cui Sbarbaro si fa
rassegnato specchio della varietà di cose indicata, in Taci, anima stanca di godere,
come «Sirena del mondo».
67 S. Corazzini, Desolazione del povero poeta sentimentale – III, in Id., Poesie, a
cura di I. Landolfi, Milano, Rizzoli, 1992, pp. 175-176, vv. 1, 5-7.
68 W. Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Id., Schriften, trad. it. di R.
Solmi, Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 1962, p. 122.
[20] IL SONNO E LA VISIONE DI CAMILLO SBARBARO: PIANISSIMO 1914 689
dannato a «tristi / giorni in cui senza volontà si vive» (Taci, anima
mia. Son questi i tristi, p. 69, vv. 1-2). Lucidità di sguardo, aridità,
rinuncia alla vita: a questi temi si affiancano quelli della Necessità
e della Consuetudine, personificate ed elevate da Sbarbaro a livello
di protagoniste del dramma narrato in Pianissimo.
È già stato sottolineato come l’acutezza dello sguardo sia prerogativa
che accomuna a Sbarbaro due poeti quali Gozzano e Montale:
se torniamo ai componimenti dei Colloqui o degli Ossi di seppia,
non possiamo fare a meno di notare come proprio il tema della
necessità, dell’impossibilità di deragliare da un binario prestabilito,
si configuri come la verità di fondo che si schiude al poeta chiaroveggente.
Come il Totò Merumeni dei Colloqui sa di essere soggetto all’arbitrio
della necessità («Ei vive. Un giorno è nato. Un giorno morirà
»69), senza poterne fuggire le ferree leggi, né governarle in alcun
modo, così l’io lirico degli Ossi di seppia sarà perennemente in cerca
di «una maglia rotta nella rete / che ci stringe»70, di una possibilità
di libertà, di scelta.
Quasi raccogliendo il messaggio gozzaniano, ed anticipando alcune
posizioni di Montale, Sbarbaro coniuga il tema della necessità
con quello della chiaroveggenza: proprio nei rari momenti di veglia,
quando il riparo offerto dal sonno viene meno, quando l’abituale
ottundimento della vista lascia spazio ad una nuova acutezza dello
sguardo, l’esito dell’indagine coincide con la consapevolezza di essere
preso nel «cerchio» delle cose necessarie, di essere impossibilitato
ad agire liberamente e a definire il proprio essere nel mondo,
a riconoscersi padrone della propria vita e delle proprie scelte:
una chiaroveggenza nuova allarga
su la Vita i miei occhi, tal che parmi
di vederla com’è la prima volta.
Vedo allora che nulla nella vita
è buono e nulla è triste, ma che tutto
è da accettare nello stesso modo:
e penso che convenga rassegnarsi
chè tutto eguaglia la necessità
(p. 57, vv. 11-18).
All’immagine della caccia alle farfalle condotta lungo l’orlo d’un
69 G. Gozzano, Totò Merumeni, in Id., Poesie, cit., p. 217, v. 60.
70 E. Montale, In limine, in Id., Tutte le poesie, cit., p. 7, vv. 15-16.
690 VIRGINIA DI MARTINO [21]
precipizio si affianca qui un’altra visione di gioco («… mi si affaccia
/ l’immagine alla mente di una scala / che saliamo e scendiamo
senza tregua / come ragazzi in qualche giuoco sciocco», vv. 7-10):
ancora fermo, in una posizione marginale, ad osservare l’affaccendarsi
insensato degli uomini, Sbarbaro coglie quanto la vita sia,
oltre che inconsapevole danza su un abisso, tensione immotivata
verso un obiettivo inesistente.
Tutta l’esistenza si riduce a gioco senza regole, tanto più «sciocco
» quanto più vicino a sfociare nella più grande assenza di senso
che è la morte. E tuttavia risulta impossibile esprimere un giudizio
di valore persino su tale gioco «sciocco»: se «attese e delusioni obbediscono
a un ritmo di ferrea necessità»71, questa «cancella anche
qualsiasi distinzione etica tra bene e male»72, e rende tutto indistintamente
uguale, portando il poeta, ossessivamente, a ribadire il
proprio desiderio di morte:
Ma poiché in quel momento è così chiara
la mia vista, che di varcare il cerchio
nel quale la Necessità ci chiude
più non m’illudo, e poiché anche sento
che accettar così tutto non potrei,
la tenerezza per la mia sorella
e l’ingordo possesso della femmina,
su dal cuore mi sboccia un improvviso
sincero desiderio di morire.
(A volte, quando penso alla mia vita, p. 57, vv. 19-27).
Se Sbarbaro sa che «la [sua] vita è segnata come il tram dalla
rotaia senza possibili scarti»73, – impossibilitato ad evadere dalla
costrizione che gli detta sia l’affetto fraterno, sia l’impulso sessuale,
di fatto riducendoli entrambi ad eventi subiti più che vissuti, a fatti
più che sentimenti – allora l’unica “ribellione”, l’unico «possibile
scarto» sta proprio nel sottrarsi alla vita, nel rivendicare l’estrema
passività, la morte, come solo desiderio non imposto dalla necessità,
come unica affermazione di sé.
È interessante notare come la spinta alla chiaroveggenza, quando
non parta dalla riflessione sulla propria vita, sia provocata da
un’esperienza erotica («o quando la mia triste sazietà / incontra il
71 L. Polato, Commento e note ai testi, cit., p. 118.
72 Ibidem.
73 C. Sbarbaro, Da quando posso parlare, OVP, p. 133.
[22] IL SONNO E LA VISIONE DI CAMILLO SBARBARO: PIANISSIMO 1914 691
desiderio che vocifera / al canto della strada…», vv. 5-7). Sotto la
spinta della «lussuria» il poeta intuisce che la vita è dominata dalla
Necessità: d’altronde, già in Esco dalla lussuria le due tematiche si
presentavano fortemente interconnesse.
Chè la città mi pare
sia fatta immensamente vasta e vuota,
una città di pietra che nessuno
abiti, dove la Necessità
sola conduca i carri e suoni l’ore
(Esco dalla lussuria. M’incammino, p. 45, vv. 9-13).
Risulta illuminante, per comprendere appieno questi versi ed in
generale le liriche dedicate al tema dell’eros, la lettura di due brani,
tratti rispettivamente dalle Cartoline in franchigia e dai Trucioli.
Scrivendo all’amico Barile Sbarbaro confida: «Dalla pubertà io
ho ridotto l’amore a qc. [sic] di molto spiccio: la rimozione di un
perturbamento, la ricuperata padronanza di sé»74.
Non esiste, dunque, amore: anzi, avvicinarsi alla donna equivale
a “rimuovere” un disagio, un turbamento, e recuperare il dominio
su di sé. Se il sentimento di sempre corrisponde alla «ripugnanza
pel […] simile»75, il desiderio sensuale si presenta come un’improvvisa
inversione di marcia, quasi un venir meno a se stesso:
Ma quando l’istinto ti prende per la collottola, allora, accoppato dal
desiderio, sconti. Quasi dovessi purgare in una volta il lungo
disamore, in chi t’imbatti t’affratelli; con chi, non guardi, più che
l’assetato in che spenga la sete; nel bisogno di comunione che ti
frusta, abbracci e stringi alla cieca, quasi cercassi una consistenza
fuori di te. Rimesso a forza nell’umanità, non ne rifiuti più nulla76.
Rinvenuto dal momento del bisogno cieco di «comunione», e
recuperata la padronanza di sé, il protagonista di Pianissimo torna a
vagare in strade cittadine vaste e vuote, pietrificate, specchio perfetto
della sua condizione di reificazione ed isolamento:
A queste vie simmetriche e deserte
a queste case mute sono simile.
Partecipo alla loro indifferenza,
alla loro immobilità.
74 Id., Cartoline in franchigia, cit., pp. 562-563.
75 Id., Taglione, OVP, p. 405.
76 Ivi, pp. 405-406.
692 VIRGINIA DI MARTINO [23]
Mi pare
d’esser sordo ed opaco come loro,
d’esser fatto di pietra come loro.
(Esco dalla lussuria. M’incammino, p. 45, vv. 14-20).
Lo svuotamento subito dall’io lirico lo porta ad identificarsi con
quanto di più misero egli conosca: una strada77, un «occhio minerale
»78 che guarda la gente «incurioso» (Adesso che passata è la luissuria,
v. 15), un relitto senza meta e senza direzione, un burattino che,
perso nella parentesi in cui sono assenti sia la volontà di vivere che
il desiderio di morire, analizza lucidamente la propria colpa:
Chè il mio padre e la mia sorella sono
lontani, come morti da tanti anni,
come sepolti già nella memoria.
Il nome dell’amico è un nome vano.
Tra me e loro si è interposto il mio
peccato come immobile macigno.
(Esco dalla lussuria. M’incammino, p. 45, vv. 21-26);
Ignoro se ci sia nel mondo ancora
chi pensi a me e se il mio padre viva.
(Adesso che passata è la lussuria, p. 58, vv. 4-5).
Sembrerebbe che il senso di colpa per l’avventura erotica abbia
alienato all’io gli affetti più cari – il padre, la sorella, gli amici – e
persino l’ultimo «bene» costituito dal «soffrire della colpa»79. Barberi
Squarotti, a proposito di Esco dalla lussuria. M’incammino, nota che
«l’indicazione del “peccato” […] fa da esatto riscontro alla “lussu-
77 «Quartiere fuori centro; dove si dà del lei alla portinaia per esserne ricambiati.
Botteguzze. Certo l’erbivendola fa incetta di roba andata a male: cavoli
itterici, mele tubercolotiche, dimesse dall’Ospedale della Frutta. Cose più ripugnanti
invento a carico del formaggio di cattiva cera esposto nella vetrina polverosa.
Per vincere l’oppressione. Conosco questa strada come la mia vita ed è
deserta così. So la persiana donde spia con occhi matrimoniali la signorinetta,
spalleggiata dalla genitrice; allo svolto, la faccia d’impiegato che incrocio, simbolo
dell’immutabilità della mia giornata» (Strada di casa, OVP, p. 175).
78 «Attraverso i secoli muta dunque faccia la città come in un minuto il mare
colore. Ad essere uno squadrato masso in vetta ad una antichissima torre –
occhio minerale per cui gli anni sono istanti per noi – si vedrebbe la città vivere
[…]» (Antica Genova, OVP, p. 223).
79 In uno dei Fuochi fatui Sbarbaro parla del rimorso come di un mezzo per
espiare un male commesso: «Se credi ci sia chi può assolverti, ti dispensi dal
rimorso del male fatto – il modo di purgarlo che avevi» (OVP, p. 519).
[24] IL SONNO E LA VISIONE DI CAMILLO SBARBARO: PIANISSIMO 1914 693
ria” del primo verso, introducendo ancora una nozione di tipo cristiano
»80.
E Polato, commentando la stessa lirica, scrive:
… in Sbarbaro l’amore appare degradato a lussuria; il vuoto, l’aridità,
l’immobilità si presentano come conseguenze della soddisfazione
dei sensi, vissuta come trasgressione, come «peccato» nei confronti
del padre di cui si teme (si desidera inconsciamente) la morte81.
Eppure, a leggere in una prospettiva diversa i versi appena citati,
forse è possibile trarre conclusioni divergenti da quelle dei due critici:
suona così uno dei Fuochi fatui scritti tra il 1940 ed il 1945: «Peccati?
ci avrebbe dunque fatti come siamo perché fossimo diversi?»82.
Sarebbe certamente arbitrario sovrapporre la saggezza ironica
del vecchio all’amaro dei versi scritti un trentennio prima; tuttavia,
si tratta di una spia che spinge a rileggere anche in chiave diversa
sia Esco dalla lussuria. M’incammino che Adesso che passata è la lussuria.
Il “peccato”, più che dalla lussuria, è rappresentato, a mio avviso,
dall’estraneità, dall’indifferenza che isola il soggetto dal resto
del mondo. La lussuria, difatti, avverte Sbarbaro in Taglione, il truciolo
citato precedentemente, è la pena con cui si «sconta» il peccato
reale, la «ripugnanza pel […] simile». L’«immobile macigno» potrebbe
dunque nascondere il viluppo in cui si condensano l’estraneità
del poeta «agli altri ed a se stesso»83, la sua aridità interiore, la sua
chiaroveggenza spinta a cogliere «il male / che tarla il mondo»84, il
silenzio che apre voragini e allontana dalle persone amate.
Contro tale peccato, non vale il pianto: la sofferenza che riscatterebbe
il poeta («perché soffrire della colpa è un bene», Adesso che
passata è la lussuria, v. 12) gli è negata. Se c’è un limite entro il quale
si resta tanto presenti a sé da poter soffrire del proprio peccato,
Sbarbaro varca quel limite, e sconfina nel peccato privo di consolazione
non quando si affratella alla cieca con qualcuno, bensì quando,
rimosso il «perturbamento», dichiara:
M’irrita tutto ciò ch’è necessario
e consueto, tutto ciò ch’è vita,
80 G. Barberi Squarotti, Camillo Sbarbaro, cit., p. 53.
81 L. Polato, Commento e note ai testi, cit., p. 96.
82 C. Sbarbaro, Fuochi fatui, cit., p. 520.
83 E. Montale, Non chiederci la parola, in Id., Tutte le poesie, cit., p. 29, v. 6.
84 Id., Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale, in Id., Tutte le poesie, cit., p. 59,
vv. 10-11.
694 VIRGINIA DI MARTINO [25]
com’irrita il fuscello la lumaca
e com’essa in me stesso mi ritiro.
(Sempre assorto in me stesso e nel mio mondo, p. 60, vv. 9-12).
Allontanatosi, dunque, da «tutto ciò ch’è vita», l’io non può superare
la condizione di stallo e reificazione in cui si è recluso, e
continua, ossessivamente, a vagare: la chiusura di Esco dalla lussuria.
M’incammino ripropone, con movimento circolare, la stessa situazione
presentata in apertura, a ribadire l’impossibilità di rompere lo
schema, di varcare la linea chiusa in cui si dà, senza possibilità di
evasione, la vicenda del soggetto.
Son come posto fuori della vita,
una macchina io stesso che obbedisce,
come il carro e la strada necessario.
Ma non riesco a dolermene.
Cammino
pei lastrici sonori nella notte.
(Esco dalla lussuria. M’incammino, p. 46, vv. 34-38)85.
5. La fraternità
Privo di desideri e di pensieri, Sbarbaro fa esperienza di un
amore che è quasi tortura. In Magra dagli occhi lustri, dai pomelli la
85 In un’epoca segnata dall’entusiasmo per le scoperte della scienza, e dall’esaltazione
per la vita nelle grandi metropoli, alcune voci si levano fuori dal
coro. Se da un lato vi è un Marinetti che si fa estremistico portavoce delle nuove
conquiste dell’uomo, d’altro canto, nello stesso volgere di anni, autori come
Sbarbaro, Rebora o Pirandello denunciano perplessità e turbamento. E dunque,
accanto all’«automobile, più bello della Vittoria di Samotracia» (F.T. Marinetti,
Fondazione e Manifesto del Futurismo, cit., p. 10) riscopriamo «freddezza e grottesco
» (L. Polato, Sbarbaro, cit., p. 41) nella macchina, nel carro e nella strada di
Esco dalla lussuria. E Rebora, nei Frammenti lirici, offre della «macchina» e del
«carro» un’immagine marchiata da violenza e morte: «O carro vuoto sul binario
morto, / Ecco per te la merce rude d’urti / E tonfi. Gravido ora pesi / Sui telai
tesi; / Ma nei rantoli gonfi / Si crolla fumida e viene / Annusando con fascino
orribile / La macchina ad aggiogarti» (C. Rebora, O carro vuoto, in Id., Le poesie,
cit., p. 33, vv. 1-8). E Pirandello, da parte sua, riassumerà in romanzi come Il fu
Mattia Pascal o Quaderni di Serafino Gubbio operatore la reificazione subita dalla
vita «quale [può] essere in un tempo come questo, tempo di macchine; produzione
stupida da un canto, pazza dall’altro» (L. Pirandello, Quaderni di Serafino
Gubbio operatore, in ID., Tutti i romanzi, a cura di I. Borzi e M. Argenziano,
Roma, Newton Compton Editori, 1993, p. 803).
[26] IL SONNO E LA VISIONE DI CAMILLO SBARBARO: PIANISSIMO 1914 695
prostituta «sorella» (v. 6) dell’«anima torbida» (v. 3) del poeta viene
osservata, con sguardo lucido non offuscato da alcun trasporto, alla
stregua di un fenomeno biologico: siamo ancora nella sfera della
necessità.
Accompagnarti in qualche trattoria
di bassoporto
e guardarti mangiare avidamente!
E coricarmi senza desiderio
nel tuo letto!
(Magra dagli occhi lustri, dai pomelli, p. 80, vv. 7-11).
Come l’amore è ridotto a «rimozione di un perturbamento», così
«il sesso si è emancipato dall’eros»86, dalla tensione verso l’altro, dal
desiderio che porta l’io ad evadere dai confini del proprio corpo.
Gli occhi diventano emblema dell’impossibilità di comunicare:
E sentirmi guardato dai tuoi occhi
ostili, poveretta, e tormentarti
domandandoti il nome di tua madre…
(Magra dagli occhi lustri, dai pomelli, p. 80, vv. 18-20).
Lo sguardo, ancora una volta, uccide il desiderio, assumendo la
funzione non di avvicinare, quanto di «scostare»87 le persone. Giunto
a sperimentare la condizione di massima reificazione, il poeta è
«cadavere vicino ad un cadavere»88 (v. 12), «spugna secca» (v. 14)
che si imbeve di amaro.
È interessante notare come invece lo sguardo abbia la funzione
di avvicinare cose e persone che entrano nella sfera visiva dell’io
poetante, quando questi intuisca nell’altro non più l’oggetto di cui
usufruire, bensì un potenziale alter ego, un più vero se stesso. È
86 W. Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, cit., p. 122.
87 Cosa che si esplicita nella versione del ’60: «e sentirmi scostato dai tuoi
occhi…» (OVP, p. 84, v. 18).
88 L’esperienza erotica richiama immagini di morte e cadaveri in diverse
poesie dei Fiori del male: nel XXIV componimento di Spleen e Ideale Baudelaire
scrive: «Vengo all’attacco, insisto su di te / come un grumo di vermi su un
cadavere e t’amo» (Io t’adoro come la volta notturna, p. 43, vv. 7-8); mentre nel
Vampiro leggiamo: «se anche del suo potere / ti liberassimo, idiota! / il cadavere
del tuo vampiro / resusciterebbe ai tuoi baci» (p. 53, vv. 21-24). Ancora come
morta è raffigurata l’amante di Spleen e Ideale – XXXII: «Una notte che accanto
a una tremenda Ebrea / come lungo un cadavere ero steso…» (p. 55, vv. 1-2).
696 VIRGINIA DI MARTINO [27]
quanto accade in Nel mio povero sangue qualchevolta e in Quando
traverso la città la notte89:
La femmina che aspetta sulla porta
l’ubbriaco che rece contro il muro
guardo con occhi di fraternità
(Nel mio povero sangue qualchevolta, p. 73, vv. 10-12);
Mi trasformo nel cieco del crocicchio
che suona ritto gli occhi vaghi al cielo.
[…]
Essere la puttana che sussurra
la parola al passante che va oltre!
la vecchia della porta
che s’attacca pel soldo della grappa
al militare ch’esce nauseato!
(Quando traverso la città la notte, p. 77, vv. 9-10, 14-18).
Cedendo agli «oscuri desideri»90 (Nel mio povero sangue, v. 2) che
lo portano a vagare, «con per compagna la Perdizione» (v. 22),
«verso / […] la Follia» (Quando traverso la città, vv. 26-27), Sbarbaro
«si mette dalla parte degli asociali. La sua sola comunità sessuale è
quella con una prostituta»91, così come il suo solo legame affettivo
è quello con i «magnanimi amici, gli ubriachi»92.
Comunità sessuale e legame affettivo che vengono spinti sino al
desiderio di identificazione: le figure dei margini, i reietti della società,
permettono al soggetto di «scantona[re] dal Tempo e dallo
Spazio»93, di deviare dalla necessità e dalla fissità dei ruoli borghesi,
dagli schematismi di una vita in cui si sente imprigionato. Sono
loro, gli ubriachi, le prostitute, i mendicanti ciechi e le vecchie accat-
89 Le due liriche, che trattano la stessa tematica, saranno fuse in Pianissimo
(1960).
90 L’aggettivo «oscuro», che connota i desideri legati alla sfera sessuale in ciò
che ha di più animalesco e ancestrale, torna nell’avverbio («oscuramente») con
cui Sbarbaro commenta «un rito sotterraneo» cui assiste: una bambina che,
riconoscendo un maschietto nel gruppo di lattanti a lei affidato, «a prova, sollevato
alto il pupo, lo spannucciò; come in bocca lo baciò davanti a tutti, in un
impeto d’orgoglio. […] Toccavo alla radice, io malvivo, la prepotenza della vita.
In quell’atto oscuramente la bambina si prostrava all’istinto che continua il
sangue» (Maschio, OVP, p. 357).
91 W. Benjamin, Parigi. La capitale del XIX secolo, in Id., Angelus novus, cit., p. 149.
92 C. Sbarbaro, Lettera dall’osteria, cit., p. 87, v. 40.
93 Ivi, p. 86, v. 12.
[28] IL SONNO E LA VISIONE DI CAMILLO SBARBARO: PIANISSIMO 1914 697
tone, la possibilità di evasione, la «maglia rotta nella rete»94 che
stringe il poeta.
La «Perdizione», la «Follia», personaggi del dramma notturno
sbarbariano, sembrano divenire, così, occasioni per «liberarsi del
peso della propria coscienza e inserirsi nel mondo»95.
Avendo indagato lucidamente il vuoto, il «giuoco sciocco», la
pantomima in cui la vita si risolve, il viandante di Pianissimo è
pronto a gettarla per la prima donna che passa, per «quella che tutti
ebbero, che ride / facile e non capisce» (Io t’aspetto allo svolto d’ogni
via, vv. 10-11):
Io, come un mendicante che venuto
sulla sponda del fiume, sghignazzando
l’unico soldo che possiede getta,
per lei la vita getterei ridendo
(Io t’aspetto allo svolto d’ogni via, p. 76, vv. 17-20).
Se l’immagine della sponda di un fiume è la stessa che figurava in
Talor, mentre cammino solo al sole, profondamente mutata è la coscienza
dell’io lirico, adesso non più offuscata: il poeta ormai non si raffigura
in veste del cieco che non vede la fuga rovinosa delle acque,
e che confonde il baratro della vita con il «ronzio d’orecchi illusi» (v.
12). Al contrario, il mendicante di Io t’aspetto allo svolto d’ogni via,
erede del veggente protagonista di Talor, mentre cammino per la strada,
o di I miei occhi implacabili che sono, osserva con occhio disincantato
l’essenza del reale. La figura femminile non è più idealizzata (si pensi
invece a Io che come un sonnambulo cammino), ed il povero è colto
crudamente in atteggiamento derisorio, clown tragico che getta quel
poco che ha perché ha visto il vuoto che sottende ogni esistenza.
6. La visione
È forse nei panni dello stesso mendicante il soggetto di A volte
sulla sponda della via: ancora da una posizione marginale di osservatore
che scosta i veli che rendono accettabile il reale, ancora dotato
di (e dominato da) uno sguardo lucido e indagatore che si spinge in
avanti, a scrutare il proprio destino:
A volte sulla sponda della via
preso da un infinito scoramento
94 E. Montale, In limine, cit., p. 7, v. 15.
95 A. Padovani Soldini, Ho bisogno d’infelicità, cit., p. 74.
698 VIRGINIA DI MARTINO [29]
mi seggo: e dove vado mi domando,
perché cammino. E penso la mia morte
e vedo me già steso nella bara
troppo stretta fantoccio inanimato…
(A volte sulla sponda della via, p. 79, vv. 1-6).
L’equilibrio precario su di un orlo è condizione frequente per il
protagonista di Pianissimo. E come ha causato «improvviso gelo»
(Talor, mentre cammino solo al sole, p. 42, v. 5), «disagio» (Talor, mentre
cammino per la strada, p. 53, v. 28), disperazione (cfr. Svegliandomi
il mattino, a volte io provo, p. 59, vv. 15-18), adesso provoca un «infinito
scoramento».
Il viandante che non sa e non vuole far parte delle vite che vede
scorrergli accanto «come / onde di fiume» (vv. 12-13) acquisisce
qui, più che la facoltà della visione, quella della pre-visione: il
veggente si fa preveggente, e l’oggetto di indagine è la propria fine,
priva di qualsiasi consolazione o abbellimento retorico, affrontata a
viso aperto per quello che è: chiusura di un «fantoccio» senza vita
in una bara «troppo stretta».
Ben diversa la rigenerazione seguita all’autoannullamento offerto
dalla «Terra», quando l’io muore a se stesso per rinascere come
nuova creatura:
I miei occhi son nuovi. Tutto quello
che vedo è come non veduto mai.
[…]
In te mi lavo come dentro un’acqua
dove si scordi tutto di me stesso.
La mia miseria lascio dietro a me
come la biscia la sua vecchia pelle.
Io non sono più io, io sono un altro.
Io sono liberato di me stesso.
(Il mio cuore si gonfia per te, Terra, p. 65, vv. 4-5, 8-13).
Nel ritorno alla terra, nel riassorbimento nell’indistinto originario,
l’io muore rimbaudianamente a se stesso: quasi immerso, per
dirla con le parole che di lì a poco userà Ungaretti, in «una bara /
di freschezza»96, «Sbarbaro che si esilia dal mondo ha però nella
terra, […] insieme il suo rifugio e il suo eden»97.
96 G. Ungaretti, Universo, in Id., Vita d’un uomo. Tutte le poesie, cit., p. 49, vv.
3-4.
97 L. Polato, Montegrosso, in Camillo Sbarbaro, Atti della giornata di studio
(11 aprile 2003), cit., p. 59.
[30] IL SONNO E LA VISIONE DI CAMILLO SBARBARO: PIANISSIMO 1914 699
A contatto con l’humus vitale, l’io reificato e straniato recupera la
propria humanitas, paradossalmente nella perdita di sé – un sé che
consiste in travestimenti mistificanti, in una «vecchia pelle» sovrappostasi
all’io più vero, perennemente oppresso, che viene liberato
dall’oblio offerto dalla terra: «i momenti di genuina umanità sono
dunque i momenti in cui ogni anteriorità svanisce, annichilita dal
potere di una dimenticanza assoluta»98.
Alla chiusura della prima parte di Pianissimo, dunque, la visione
cui approda l’io lirico trasfigura «le cose più vili e consuete» (v. 6),
riscatta, vale a dire, il dominio di ciò che, «necessario / e consueto»,
«irrita» (Sempre assorto in me stesso, vv. 9-10) abitualmente il poeta.
La visione che sopraggiunge sul finire della seconda sezione, al
contrario, proietta l’io in una dimensione di morte non più consolata
dall’intimità con la natura. All’uomo rigenerato subentra una
marionetta disanimata, meccanismo inceppato che nulla vale a
rianimare, riposta in una scatola che niente ha a che vedere con
l’humus vitale e materno; così come alla sensazione di beatitudine
si sostituisce la completa reificazione del soggetto:
Una mortale pesantezza il cuore
m’opprime.
Inerte vorrei essere fatto
come qualche antichissima rovina,
e guardare succedersi le ore,
gli uomini mutare i passi, i cieli
all’alba colorirsi, scolorirsi
a sera…
(A volte sulla sponda della via, p. 79, vv. 14-21).
Abbiamo già incontrato, in Sbarbaro, la coppia apparentemente
sinonimica dei verbi che si riferiscono alla sfera visiva: guardare e
vedere. In Sempre assorto in me stesso e nel mio mondo l’io lirico dichiara:
«e se ogni cosa guardo acutamente / quasi sempre non vedo
ciò che guardo» (p. 60, vv. 4-5), mettendo l’accento su come il guardare,
posare il proprio sguardo sulla realtà circostante, non implichi
immediatamente la facoltà di vedere cosa quella realtà significhi,
cosa celi. Guardare è la facoltà dello spettatore; mentre la vista
«chiara»99 appartiene al veggente.
98 P. De Man, Storia letteraria e modernità letteraria, in Id., Cecità e visione, cit.,
p. 185.
99 Cfr. A volte quando penso alla mia vita, p. 57, vv. 19-20: «Ma poiché in quel
momento è così chiara / la mia vista…».
700 VIRGINIA DI MARTINO [31]
In A volte sulla sponda della via Sbarbaro sembra intenzionalmente
abdicare al ruolo di veggente, per ritirarsi in quello di semplice
spettatore. Se nella prima strofa l’io lirico vede chiaramente se stesso
e il proprio destino, nella chiusura preferisce invece, regredito a
«occhio minerale»100, restare a «guardare», chiuso in un pirandelliano
«silenzio di cosa»101, gli eventi che si susseguono intorno a lui.
Tuttavia l’io non riesce, se non per brevi momenti, a sciogliersi
nella natura o ad annientarsi nelle cose: eccolo nuovamente, in chiusura
di Pianissimo, vivere il proprio rapporto ambivalente con la
città desertica che sin dal primo componimento della raccolta fa da
scenario al girovagare del protagonista. Ancora una strada cittadina
è lo spazio in cui si dà il tempo della visione:
Talora nell’arsura della via
un canto di cicale mi sorprende.
E subito ecco m’empie la visione
di campagne prostrate nella luce…
E stupisco che ancora al mondo sian
gli alberi e l’acque
tutte le cose buone della terra
che bastavano un giorno a smemorarmi…
(Talora nell’arsura della via, p. 81, vv. 1-8).
Colto da un ricordo involontario innescato dall’ascolto, in una
strada inaridita di città, di un canto di cicale, l’io lirico è invaso
dalla «visone» di una natura inclemente e riarsa, colpita dalla sferza
di una luce impietosa, dalla «gloria del disteso mezzogiorno» che
sembra annientare ogni «parvenza»102. La vista dello scenario naturale,
nell’arsura accecato e accecante, suscita nel soggetto una sensazione
straniante di stupore: nello stesso mondo ridotto a deserto in
cui egli è costretto a vivere, non sembra sia possibile esistano anche
«le cose buone della terra» che, al tempo di Il mio cuore si gonfia per
te, Terra, lo aiutavano a «scord[are] tutto di [se] stesso» (p. 65, v. 9).
Il ricordo del paesaggio naturale, tuttavia, non basta a far dimenticare
all’io la propria consistenza. Nei Trucioli Sbarbaro confesserà di
aver perso la facoltà di «smemorar[si]»:
100 C. Sbarbaro, Antica Genova, OVP, p. 223.
101 L. Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, cit., p. 804.
102 E. Montale, Gloria del disteso mezzogiorno, in Id., Tutte le poesie, cit., p. 39,
vv. 1-4: «O gloria del disteso mezzogiorno, / quand’ombra non rendono gli
alberi, / e più e più si mostrano d’attorno / per troppa luce, le parvenze, falbe».
[32] IL SONNO E LA VISIONE DI CAMILLO SBARBARO: PIANISSIMO 1914 701
Ma – per dissolvermi – guardare una volta bastava: filo d’erba anch’io,
lucertola su sasso. Per gli occhi mi alleggerivo di me. A tutte
l’ore adesso il mio individuo persiste. Come troppo cresciuto s’inframmette,
ingombrante e caparbio103.
L’io che «persiste», impedendo a Sbarbaro di essere un altro, gli
impedisce, soprattutto, di ritrovarsi fra i «fortunati [che] per gli
occhi escon di sé»104; lo inchioda alla realtà reificante della pietra
«sorda ed opaca» in cui il nottambulo si è tanto spesso identificato.
Ma poi che sento l’anima aderire
ad ogni pietra della città sorda
com’albero con tutte le radici,
sorrido a me indicibilmente e come
per uno sforzo d’ali i gomiti alzo…
(Talora nell’arsura della via, p. 81, vv. 11-15).
Il soggetto resta inevitabilmente invischiato nella «dura, ineludibile
necessità della vita cittadina – ma l’anima ormai vi aderisce
come una seconda natura»105: è impossibile liberarsi di sé, lasciarsi
alle spalle la miseria della propria vita al pari del serpente che muta
pelle. Tuttavia, il soggetto sembra riconciliarsi con il sé tante volte
odiato, il compagno con cui instaurare il gioco dello sdoppiamento,
l’io che ride a fronte delle lacrime e piange contro i propositi di
fermezza.
Accettata la propria condizione di creatura strappata alla natura,
di albero di città, Sbarbaro sorride a se stesso, e proprio dalla pietra
inanimata prende lo slancio per volare. L’esito di tale «sforzo d’ali»
resta escluso da Pianissimo, ma viene affidato ai Trucioli:
Hai mai visto l’implume che punta le scapole e si rizza sull’ultima
unghiola, teso nell’impazienza dell’impossibile volo? Ricade e ritenta
la prova. Quell’inutile sforzo di scapole è quanto mi rimane di vivo106.
Lo «sforzo d’ali» è qui ridotto, molto più prosaicamente, a «sforzo
di scapole», a conato inconcludente. Eppure è in questo tentativo,
sospeso in Pianissimo, frustrato nelle prose, che consiste quanto
ancora Sbarbaro riesca a chiamare vita.
103 C. Sbarbaro, Quest’anno le agavi…, OVP, p. 285.
104 Id., Finestre, OVP, p. 336.
105 L. Polato, Commento e note ai testi, cit., p. 157.
106 C. Sbarbaro, Sproloquio d’estate, cit., p. 273.
702 VIRGINIA DI MARTINO [33]
Una luce grottesca è gettata sull’immagine dell’«implume» in
uno dei Trucioli scritti più tardi, Gente all’osteria:
Rincresce ad esempio dover trascurare quella nidiata di pettirossi:
tre vecchi, tre fratelli: tre capi che si tengono accosto. Pispigliano.
Vispi d’occhi ma afoni, l’aprirsi delle bocche, più che dar adito ai
fiati, sembra, di dov’io sono, reclamar l’imbeccata. Hanno il sangue
a fior di pelle; e accentua quel vermiglio – poca com’è e abbagliante
– la peluria dei cranii e delle gote: più che canizie, peluria appunto
di uccellini da nido107.
Lo Sbarbaro che «sorrid[e] indicibilmente» e solleva i gomiti
nell’anelito al volo, viene da chiedersi, è l’implume che si affaccia
alla vita o il vecchio raggrinzito nell’attesa? Marcel Proust, nel Tempo
ritrovato, parla di
tutto il ridicolo [suscitato dal] papero che con i suoi moncherini non
ha risolto il problema delle ali ma è tormentato dal desiderio del
volo […] come i primi velivoli che non riuscirono a staccarsi da
terra, ma in cui risiedeva, non il mezzo segreto ancora da scoprire,
ma il desiderio del volo108.
Nonostante la desublimante e amara immagine offerta dai Trucioli
– tanto più desublimante e amara in quanto Sbarbaro non può
averla scritta senza pensare a Pianissimo – non si può non vedere,
nell’io lirico che accetta la visione del reale, della sua assenza di
senso e consolazione, l’individuo che «non ha risolto il problema
del volo», ha forse rinunciato persino a cercare un inesistente «mezzo
segreto» per sollevarsi dal deserto della città, ma chiude comunque
il proprio percorso esistenziale su un’immagine di desiderio,
per quanto irraggiungibile.
È proprio la consapevolezza dell’impossibilità del volo, raggiunta
dal veggente pellegrino, che dà più forza alla disperata scelta del
congedo.
Sorrido a me indicibilmente e come
per uno sforzo d’ali i gomiti alzo…
Virginia di Martino
(Università Federico II – Napoli)
107 Id., Gente all’osteria, OVP, p. 342. Ancora, in Il conservatore, leggiamo: «Al
margine della strada, col viso ignudo e palpebrante sporto ad annusare il pericolo,
il vecchio conservatore pare un implume in attesa d’imbeccata» (OVP, p. 384).
108 M. Proust, Á la recherche du temps perdu, trad. it. di G. Raboni, Alla ricerca
del tempo perduto, Milano, Mondadori, 1993, 4 voll., vol. IV, p. 574.
BRUNO PORCELLI
I cavatori di Alvaro e Rosso Malpelo di Verga
This essay is based on an intertextual comparison between two
short stories, I cavatori by Alvaro (published in “La Stampa” on
October 27th 1937) and Rosso Malpelo by Verga, and tries to
demonstrate that the hypotext acts as a sort of anti-model. This is
confirmed by the lyricism of I cavatori (see the stillness of the world
described: the sea, the atmosphere of the quarry, the harmlessness
of the quarrying materials, the relationships between young and
old miners, and the lack of any reference to death), dominated by
the figure of a free and self-assured worker.
Il racconto di Alvaro I cavatori, confluito nella raccolta L’amata
alla finestra del 19531, era già uscito nel 1937 sulla «Stampa»2 e a
breve distanza, ma col diverso titolo Padri e figli, sul «Messaggero»
del 19383. In un’ideale antologia di racconti dedicati al lavoro nelle
cave potrebbe essere collocato accanto a Rosso Malpelo e a Ciàula
scopre la luna, con cui formerebbe una triade caratterizzata dal ripetersi
dell’ambientazione meridionale e dal variare dei materiali di
scavo (la rena, lo zolfo, la pomice). Alvaro conosce i due testi precedenti,
che non possono non essere all’origine, anche se in misura
e visibilità assai diverse, del processo creativo dei Cavatori; ma ne
tralascia l’atmosfera infernale, la presenza della morte, il senso di
angosciosa sofferenza, volgendo al sereno nella sua narrazione la
drammaticità dei loro toni. Però con uno soltanto di essi, Rosso
Malpelo, instaura un preciso rapporto intertestuale che si dispone su
due piani, uno di echeggiamenti lessicali e descrittivi scarsamente
caratterizzanti, a volte assai liberi, ricollocati in zone di funzionalità
narrativa differenziata e perciò poco riconoscibili, ad alcuno dei
quali si può attribuire un tasso di inconsapevolezza; l’altro, costituito
da elementi sovrapponibili che, andando al di là delle concordan-
1 Milano, Bompiani, 1953.
2 Del 27 ottobre 1937.
3 26 febbraio 1928.
704 BRUNO PORCELLI [2]
ze puramente lessicali e descrittive, indicano un riuso consapevole
e mirato del testo di partenza4.
Diamo un quadro degli echi lessicali e descrittivi partendo dal
racconto di Alvaro, di cui seguiamo per comodità lo sviluppo narrativo5:
I cavatori Rosso Malpelo
Sotto c’era il mare turchino (p. 300) e il mare turchino là in fondo
bianchi fin sulle ciglia e nella barba con quel suo visaccio imbrattato di
non rasata (p. 300) lentiggini e di rena rossa
con una fune scendo dall’alto (p. 302) ci si calan colle funi
il babbo ha i pori e le rughe delle dolci e lisci come le mani del babbo,
mani segnati di polvere bianca, che solevano accarezzargli i capelli,
i polpastrelli duri e piatti. La sua quantunque fossero così ruvide e
mano enorme, che egli sente callose
gonfia quando la passa sul viso
dei ragazzi […] (p. 302)
i giovani si caricano sulle spalle la quando portava il suo corbello di rena
corba della pomice (p. 303) in spalla
nella cava, mentre scava col picco- lavorare cantando sui ponti.
ne, il giovane cavatore si mette
a cantare (p. 304)
Già questi richiami denotano in Alvaro una rilettura edulcorante
del modello, il quale risulterà alla fine di questa analisi un vero
antimodello. Il mare turchino dei Cavatori è parte integrante del
paesaggio delle cave, anzi ad esso strettamente collegato perché la
montagna con le buche in cui si calano i lavoratori è a strapiombo
su quel mare; mentre il mare turchino di Rosso Malpelo appartiene
ad un mondo fantasticato ove vivere una vita altra rispetto a quella
della cava. Anche il materiale dei Cavatori ha a che fare col mare in
4 Il riuso di Rosso Malpelo si può accostare al rapporto di trasformazione secondo
cui “Joyce narra la storia di Ulisse ma in maniera diversa da Omero”,
così come afferma G. Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Torino,
Einaudi, 1997, p. 9.
5 Teniamo presente per il vantaggio offerto dalla numerazione delle pagine
(da noi messe tra parentesi) C. A., Opere Romanzi e racconti, a c. e con introduz.
di Geno Pampaloni, Milano, Bompiani, 1990. La prima redazione, quella apparsa
sulla «Stampa» dl 1937, presenta differenze di scarso rilievo rispetto al testo
Bompiani. Di quelle più importanti si dà notizia nel corso del nostro lavoro.
[3] I CAVATORI DI ALVARO E ROSSO MALPELO DI VERGA 705
virtù sia di una fantasiosa similitudine sia della continuità del processo
di produzione, se è vero che “la pomice è leggera come una
schiuma. Figurarsi la schiuma del mare divenuta dura” (p. 301), e
che essa è immediatamente trasportata via mare sui vapori e gli
scialà a rimorchio.
Riproducendo la distinzione tra realtà e fantasticheria, le carezze
del babbo sono parte della vita quotidiana dei figli nei Cavatori,
mentre in Rosso Malpelo appartengono al passato irripetibile del
protagonista; il cantare nella cava è pratica quotidiana del giovane
nei Cavatori, ma miraggio di vita migliore (quella del manovale che
lavora “in alto, in mezzo all’azzurro del cielo”) in Rosso Malpelo.
In cospetto del mare si cala quotidianamente dall’alto lungo le
pareti della montagna il cavatore di Alvaro sin che, toccato l’ingresso
della cava, “vi posa il piede sicuro”6; a differenza degli asini di
Rosso Malpelo che, calati nel ventre della miniera, ci restano “finché
vivono”. L’apertura della cava non ha dunque in Alvaro la funzione
che ha nel racconto di miniera: introdurre nel mondo infernale.
Il bianco della pomice che ricopre il volto dei cavatori non ha la
connotazione negativa del rosso della rena che imbratta il visaccio
di Rosso; così come la corba sulle spalle dei giovani che “vanno su
e giù pei viottoli stridenti della montagna” nel racconto di Alvaro
appare assai meno pesante del corbello sotto cui arranca Ranocchio
nel suo lavoro “sotterra”.
La riscrittura alvariana di Rosso Malpelo è ancor più evidente se
ci si trasferisce sul piano di situazioni narrative di maggior complessità,
che indicheremo in uno schema non più bipartito, seguendo
l’ordine che va dall’esterno dei luoghi all’interno dei personaggi.
Nei Cavatori le cave non hanno l’aspetto di bui ipogei infernali.
Ce ne sono di due tipi: alcune sotto il livello del mare ma illuminate
dalle lanterne; altre aeree con gli ingressi sulle pareti della montagna,
la quale pertanto è “simile a un palazzo bianco: le buche dei
cavatori […] come le finestre d’un edifizio non terminato” (p. 300).
Ognuna di queste finestre appare “come la finestra della sua [del
cavatore] casa: è simpatica e familiare” (p. 301). Se lo scenario fuori
è certamente “bello”, la domanda (del narratore? del cavatore?) su
6 Sicurezza è la caratteristica psicologica e comportamentale dei cavatori di
Alvaro. Ecco un’altra attestazione a p. 301: “ma i cavatori parevano di pietra,
col loro passo libero e sicuro, bianchi fin sulle ciglia, la testa alta, le parole
forti”: dove pare addirittura di veder trascritta in cartiglio didascalico l’iconografia
del lavoratore del regime.
706 BRUNO PORCELLI [4]
come sia dentro (“È bello? Com’è?”, p. 304) rimane senza risposta,
il che non esclude a priori che la risposta possa essere affermativa.
Nelle gallerie aperte sotto il livello del mare c’è, sì, il pericolo
della frana che “seppelisce chi ci lavora”, quando la pomice “crolla
senza rumore”; però la pomice è “leggera come la schiuma del
mare” e “stranamente, non fa male” (p. 302). Così si trasformano in
incidente senza peso quelli che erano stati il “penar molto a finire”
e poi l’oppressiva sepoltura di Misciu Bestia. Riportiamo integralmente
il passo alvariano, che si configura come accorto mosaico di
termini (da noi messi in corsivo) usati nella novella di Rosso Malpelo:
– Si entra per una galleria sostenuta da travate [in Verga: “per sostegno
dell’ingrottato”]. C’è sempre il pericolo delle frane –. – E se
viene la frana? –. – Seppellisce [in Verga: “l’aveva sepolto vivo”] chi
ci lavora –. I ragazzi si stringono: uomini bisogna essere; immaginano
la pomice leggera come la schiuma del mare, che crolla senza
rumore … Stranamente non fa male”.
La morte può anche essere da Alvaro totalmente eliminata: se I
cavatori della raccolta L’amata alla finestra fanno seguire alla descrizione
degli ingressi a strapiombo sul mare la nota “l’onda si distende
a fior d’acqua e fa dei cerchi, come se qualcuno vi fosse caduto
un tempo, e l’onda lo rammentasse” (che già allontana nel passato
l’evento luttuoso), la prima redazione giornalistica7 recava: “poi l’onda
si distende a fior d’acqua e fa dei cerchi, come se qualcosa vi
fosse caduto un tempo, e l’onda la rammentasse”.
Un altro edulcoramento della tragica sofferenza verghiana Alvaro
lo attua nella descrizione degli effetti prodotti dalla diffusione della
polvere di pomice: “Tutto diventa sordo come se la pomice bevesse
la voce. I giovani ridono e sputano secco” (p. 303). Cosa assai diversa,
sia per la stranezza giocosa della metafora ‘bere la voce’ sia per
la tranquillità del ‘ridere’ e ‘sputare secco’ rispetto al tragico ‘sputar
sangue’ di Ranocchio. Il ridere, del resto, è proprio nei Cavatori non
solo dei giovani ma anche degli anziani, e costituisce uno dei tratti
unificanti dell’universo solidale della cava, che non subisce frammentazioni
all’interno: “[…] hanno l’aria di dire i vecchi cavatori, e si
mettono a ridere. I ragazzi, divenuti giovani, ridono” (p. 303).
La solidarietà va oltre la manifestazione del riso coinvolgendo
una serie di atteggiamenti mentali e pratici. Riguarda i consigli
amichevoli utili a sopportare meglio i disagi della vita in miniera:
7 Quella della «Stampa» del 27 ottobre 1937.
[5] I CAVATORI DI ALVARO E ROSSO MALPELO DI VERGA 707
Ce n’era uno che beveva di continuo, arso e sbiadito; si sentiva una
voce amica che diceva: – Non bere, non bere tant’acqua. Affoghi –
(p. 300);
l’orgoglio dei figli per il lavoro del padre apprezzato in tutto il
mondo civile:
I ragazzi pensano al mondo civile. Lontano, fino ai confini del mondo
c’è un pezzo di pomice che ha toccato il padre. Essi ne sono
orgogliosi: in ogni angolo del mondo civile. Dovunque è la mano
del cavatore. Dovunque è il loro padre (p. 303);
e perciò una concezione della pomice amica e non “traditora” come
la rena del Rosso;
la volontà dei figli di seguire il padre nel suo mestiere:
I ragazzi, quando saranno grandi, vogliono fare i cavatori (p. 301).
Un’universale armonia regna nel racconto di Alvaro coinvolgendo
giovani e vecchi cavatori, barcaioli trasportatori di pomice, pescatori.
“Ognuno il suo pane”…… è la ricompensa che non è possibile
far coincidere col pane asciutto o col pane e botte di Verga.
Siamo giunti a quello che ci pare uno dei motivi centrali dei
Cavatori: il rapporto padri-figli, vecchi-giovani, che ripropone un
costante interesse dello scrittore calabrese, ed è qui visto come solidarietà,
mentre in altri suoi testi narrativi prevalentemente come
antagonismo. Non è un caso che nel “Messaggero” del 1938 il nostro
racconto prenda il titolo di Padri e figli.
Accanto alla solidarietà c’è nei Cavatori, non meno importante,
l’immodificabilità del reale. Non vi si nota traccia del sorgere del
nuovo, perché i figli, che faranno le stesse cose dei padri, si aspettano
che i padri, interrogati ogni sera al rientro, ripetano le medesime
parole, quelle che essi già conoscono perché le hanno sentite
tante altre volte:
– Come si lavora sotto il mare? – I ragazzi lo sanno ma stanno
attenti se il padre ripete le stesse parole o non ne dica una nuova,
un mondo nuovo (p. 302).
Il tema dell’immodificabilità del reale risulta chiaro anche nell’esame
della struttura del racconto, che, nonostante l’esiguità, si
presenta nettamente diviso in tre parti di uguale estensione. Le
individuiamo con le lettere A, B, C. La divisione si basa sul mutare
708 BRUNO PORCELLI [6]
del contenuto o, per meglio dire, dello scenario presentato, ma soprattutto
sul ripetersi degli elementi di apertura e chiusura delle
sezioni. Le quali appaiono pertanto come lasse anaforiche ed epiforiche
di un componimento statico più lirico che narrativo, il quale
presenta almeno due topoi fortemente caratterizzanti: quello della
lontananza che sfuma i contorni delle cose già sfumati dal velo
della polvere (vedi es. n. 4):
non andavamo molto lontano
Si vede di lontano
Lontano, fino ai confini del mondo
Lontano si vede la costa, attraverso il velo della polvere
[che sale di continuo
il mondo guarda di lontano
e gli alberi e i campanili lontano;
e quello dell’ora serale come la più propizia alla dolce malinconia:
sul vento delle belle serate
La sera, sulla strada bianca
ma poi si appiattano nella sera
i figli che una sera cominciano a domandare.
Una descrizione di quest’ora coniuga l’incipit di Purgatorio VIII
con Le ricordanze di Leopardi: “Il sole era al tramonto e tutto intorno
s’inteneriva stupito come un viso che riposa […] erano quelli di una
statua che sente amore”8; “Il vento portava le loro parole pesanti”.
Un’altra pare serbare un’eco estenuata dei Limoni montaliani: “Tutto
attorno sembra sul punto di dire qualche cosa”9.
I cavatori appaiono pertanto refrattari ad ogni esigenza di tipo
realistico, come mettono in evidenza la mancata individuazione degli
attanti, presentati secondo generalizzazioni anagrafiche (vecchi cavatori,
ragazzi, giovani) non connesse a trasformazioni storico-culturali
di alcun genere, e la totale assenza di nomi propri, la quale –
ricorriamo a Barthes che parla del narratore proustiano – “provoca
una deflazione capitale dell’illusione realistica”10.
8 Questi corsivi e i successivi sono nostri.
9 Incongrui risultavano nel tono lirico del racconto due passi della prima
redazione: il primo relativo alla discesa del cavatore dall’alto “vi posa il piede
con la scarpa sicura”, sostituito dal non prosaico “vi posa il piede sicuro”;
l’altro relativo al volo dei colombi “i colombi delle vecchie” (cioè del giardinetto
delle vecchie), sostituito dall’indeterminato “i colombi”.
10 R. Barthes, S/Z, Torino, Einaudi, 1973, p. 90.
[7] I CAVATORI DI ALVARO E ROSSO MALPELO DI VERGA 709
A Oggetto d’osservazione sono i ragazzi che attendono di sera la
fine del lavoro dei padri e ne osservano i comportamenti sulla via
del ritorno. Lo scenario è esterno: il mare turchino solcato da imbarcazioni
da carico e da pescherecci, la montagna bianca delle cave, i
colombi in cielo sull’abbrivio del vento, la strada bianca, le case del
paese, qualcuna col giardinetto, gli alberi, i colli nudi e rossastri in
lontananza. Il colloquio padri-figli è appena avviato. In apertura di
A abbiamo la notazione di un momento fondamentale della vita dei
ragazzi: “I ragazzi andavano incontro al padre…”; in chiusura la
nota sull’universale risonanza del lavoro dei cavatori: “La loro fama
è sparsa in tutto il mondo”.
B concentra tutta l’attenzione sul colloquio padri-figli, che porta
alla luce i vari aspetti del lavoro nelle cave e le sue nobili ricadute
commerciali (la pomice serve agli orefici). Vien meno ogni scenario
esterno. Apre B la fondamentale considerazione sui ragazzi che si
proiettano nel futuro: “I ragazzi, quando saranno grandi, vogliono
fare i cavatori”. Chiude, la notazione sull’universale risonanza del
lavoro dei cavatori: “Lontano, fino ai confini del mondo c’è un pezzo
di pomice che ha toccato il padre […] Dovunque è la mano del
cavatore. Dovunque è il loro padre”.
Passando infine a C, osserviamo che l’apertura è data ancora
dai ragazzi: “I ragazzi sono diventati giovani e sono assunti nella
cava”; e la chiusura ancora dall’universale diffusione del lavoro
dei cavatori: “In ogni angolo del mondo civile si trova un pezzo di
pomice”. Ma in C il tempo è passato; e l’attenzione si è spostata
sul lavoro dei figli, che, una volta cresciuti, sono stati assunti nella
cava a fare il lavoro dei padri. Una seconda generazione ha preso
il posto della precedente ripetendone comportamenti e atteggiamenti
sentimentali. Alla fine di C si affaccia la terza generazione,
costituita dai figli dei giovani cavatori. I figli ripongono ai padri le
domande che questi da ragazzi avevano posto ai propri padri: la
scena finale riproduce immutata una scena iniziale. L’ambientazione
di C è prevalentemente esterna: mare con le imbarcazioni, strada
bianca, case, colombi sull’abbrivio del vento, monti, alberi; identica
a quella di A. Questo ritorno all’inizio con movimento circolare
conferma che, nonostante il passare del tempo, la situazione rimane
immutata.
Il senso del ripetersi delle cose lo fornisce soprattutto il passaggio
da A e B a C, dai figli che interrogano i padri ai figli diventati
a loro volta adulti che rispondono alle domande dei propri figli.
Sono assai frequenti perciò in C descrizioni, situazioni, stati d’ani710
BRUNO PORCELLI [8]
mo, battute di dialogo già presenti in A e B. Ove si verifichi una
discordanza, come nel caso del volo dei colombi, prima pesante e
poi leggero, essa trova giustificazione in un’esigenza di variatio
musicale. Nel prospetto che segue i passi sono affrontati secondo lo
sviluppo narrativo della sezione finale C:
A e B C
Si sentiva una voce amica che diceva: – Non bere – dice uno che passa, con
– Non bere, non bere tant’acqua. una voce lenta e domestica
Affoghi –
[le parole] pesanti come i colombi I colombi all’abbrivio del vento volano
delle vecchie case sull’abbrivio leggeri come pezzi di carta
del vento
I vapori arrivano di fuori per caricare S’intravedono i vapori che arrivano sul
il materiale mare florido, spinti a calci dal maestrale
Tornavano i pescherecci con le reti Sul mare tornano i pescherecci con le
distese come capigliature reti stese ad asciugare
– Sì, ma come ci scendete, babbo? –. – E come scendete, babbo, sulla cava
– Con una fune scendo dall’alto più alta? –. – Con una fune –
I ragazzi pensano al mondo civile. – In ogni angolo del mondo civile si
Lontano, fino ai confini del mondo trova un pezzo di pomice –.
c’è un pezzo di pomice che ha
toccato il padre
Restano fuori dalla strutturazione tripartita le ultime righe del
racconto nelle quali si presenta il giovane che canta mentre scava
col piccone. Si tratta indubbiamente di una nota serena, seguita
dalla considerazione “La cava arida beve la sua voce come una
spugna”, che riprende una precedente considerazione dello stesso
Alvaro: “Tutto diventa sordo come se la pomice bevesse la voce”
(questa è voce di cavatori parlanti). Anche la sigla di chiusura sul
giovane che non sa se il lavoro è bello pare riprendere un precedente
alvariano “– Non lo sapevi? – hanno l’aria di dire i vecchi cavatori”.
In realta, la sigla dei Cavatori chiama in causa soprattutto il
finale verghiano, di cui smorza il mistero biblico e dantesco di una
scomparsa11 nell’incapacità di fornire una semplice risposta:
11 Ci riferiamo ovviamente a “nessuno fino a questo giorno ha saputo ove
sia il suo sepolcro” di Mosè e a “non si seppe mai tua sepultura” di Buonconte.
[9] I CAVATORI DI ALVARO E ROSSO MALPELO DI VERGA 711
Alvaro: Non lo sa neppure lui, e del resto mai nessuno saprà
niente
Verga: né più si seppe nulla di lui.
Bruno Porcelli
(Università di Pisa)
GIUSEPPE DE MARCO
La Campania nelle pagine di viaggio di Guido Piovene:
per una religio dello sguardo
This essay takes into account the chapter dealing with Campania
in Guido Piovene’s Viaggio in Italia and underlines the function –
sometimes subversive and fantastic – of “seeing” in his text. It also
emphasizes the fact that Piovene’s travelling in the Fifties
corresponds to the so called “research through travel”. His prose
style is never journalistic, but clear and objective, now and then
literary in the common sense of the word.
Nell’incipit del Viaggio in Italia, Guido Piovene scrive:
Comincio questo viaggio d’Italia senza preamboli. Parto dall’estremo
nord, con l’intento di scendere fino a Pantelleria regione per
regione, provincia per provincia. Sono curioso dell’Italia, degli italiani
e di me stesso; che cosa ne uscirà, non saprei anticiparlo1.
1 G. Piovene, Le tre Venezie, in Id., Viaggio in Italia [1957], Milano, Baldini
& Castoldi, 1993, p. 9. Tutte le citazioni che seguiranno saranno tratte da
questa edizione, con l’indicazione di p. racchiusa in parentesi nel corpo del
testo. Tra i pochi contributi si segnalano: I. Crotti, Piovene viaggiatore della
scrittura:«Viaggio in Italia», in Guido Piovene tra idoli e ragione. Atti del Convegno
di studi – Vicenza, 24-26 novembre 1994, a cura di S. Strazzabosco,
Venezia, Marsilio, 1996, pp. 269-287; L. Clerici, La letteratura di viaggio, in
Manuale di letteratura italiana. Storia per generi e problemi. Dall’Unità d’Italia alla
fine del Novecento, a cura di F. Brioschi e C. Di Girolamo, Torino, Bollati
Boringhieri, 1996, vol. IV, pp. 778-805, alle pp. 796-797; C. Martignoni, I
cinquant’anni del Viaggio in Italia di Guido Piovene, «La modernità letteraria», I,
1, 2008, pp. 175-187; G. De Marco, L’Italia delle Italie di Guido Piovene: per
un’arte del viaggiare, «Rassegna Europea di Letteratura Italiana», 32, 2, 2008,
pp. 57-73; S. Tamiozzo Goldmann, Appunti sul «Viaggio in Italia», in Viaggi e
paesaggi di Guido Piovene. Atti del Convegno di studi – Venezia-Padova 24-25
gennaio 2008, a cura di E. Del Tedesco e A. Zava, Pisa-Roma, Fabrizio Serra
Editore, 2009, pp. 103-122; G. Pullini, Veneto e Campania in «Viaggio in Italia»
di Piovene, ivi, pp. 173-179.
[2] LA CAMPANIA NELLE PAGINE DI VIAGGIO DI GUIDO PIOVENE 713
Non emerge nessun percorso opportunamente pianificato; dunque,
nessun proposito di delineare un quadro socio-economico delle regioni
italiane appena uscite dal secondo conflitto mondiale, quanto, più
volentieri, curiosità, ossia un atteggiamento libero e inimmaginabile, il
diletto di cogliere reazioni immediate di fronte alla realtà che si accingeva
a visitare, nonché un’allusione alla curiosità di se stesso oltre che
delle «cose italiane». Quindi è evidente la soggettività del suo modo
di scrutare e di ricomporre le sfaccettate realtà pressoché in una forma
che amalgamasse simultaneamente la funzione del giornalista con
quella autobiografica dello scrittore2. Con Viaggio in Italia – senza ricorrere
a riferimenti puntuali –, Piovene si inserisce nella fitta schiera
di scrittori italiani del Novecento che partecipano all’esperienza universale
del viaggio, con tutta la carica metaforica che ne fa il simbolo
dell’individuo alla eterna ricerca di sé e della ricongiunzione fra sé e
l’altro, da Cecchi a Comisso, da Barzini a Monelli, a Emanuelli, fino a
Moravia, Pasolini, Parise; tuttavia, l’esperienza di Piovene-viaggiatore
si discosta dalla convenzionalità degli ‘inviati’ successivi, giornalisti di
professione, dediti prioritariamente a documentare, a vagliare, a esplorare,
a indagare con il taccuino degli appunti folto di dati, di informazioni
precise e, fors’anche, ideologicamente orientati3.
Si è preferito focalizzare l’attenzione esclusivamente sulla Campania
– non per mero campanilismo, bensì per il fatto che già in un
nostro precedente saggio abbiamo analizzato l’intera opera4 –, seguendo
le tappe del viaggio così come l’autore le ha registrate e
scandite in paragrafi all’interno del monumentale volume: Napoli,
Da Sorrento a Palinuro, Avellino e Caserta, Benevento5. Un’altra, non
2 In proposito, Pasolini, riferendosi all’Europa semilibera di Piovene giornalista,
ebbe a dichiarare che il libro, nel corso della lettura, mutava registro, per
cui egli «insensibilmente» si è «trovato a leggere non più il libro giornalistico di
uno scrittore, ma un vero e proprio poema: un poema saggistico, in una prosa
che è proprio quella di uno scrittore, benché, ancora, non trasgredisca a nessuna di
quelle regole giornalistiche che tale scrittore si è imposto. Anche delle osservazioni
normali […] prendono un passo, acquistano una leggerezza che le trasforma in
dettagli di un’opera d’immaginazione» (P.P. Pasolini, L’Europa semilibera, «Corriere
della Sera», 2 settembre 1973, ora in Id., Descrizioni di descrizioni [1972-
1975], Saggi sulla Letteratura e sull’Arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, con un
saggio di C. Segre, Cronologia di N. Naldini, Milano, Mondadori «I Meridiani»,
1999, tomo II, pp. 1867-1872, a p. 1871; corsivo nel testo).
3 Si rinvia a G. De Pascale, Scrittori in viaggio. Narratori e poeti italiani del
Novecento in giro per il mondo, Torino, Bollati Boringhieri, 2001.
4 Cfr. n. 1.
5 G. Piovene, La Campania, in Id., Viaggio in Italia, cit., pp. 427-505.
714 GIUSEPPE DE MARCO [3]
secondaria, motivazione della scelta delle pagine campane è stimolata
dal fatto che l’aristocratico vicentino sembra far risaltare fra la
Campania e il suo Veneto, seppure regioni apparentemente antitetiche,
forme ed aspetti di accostamento, quindi due terre affini alla
sua sensibilità, sebbene la scrittura del Viaggio sottenda una sorta di
distacco casuale di talune ponderazioni critiche.
Al di là di un certo comprensibile impaccio iniziale nell’avvicinarsi
a Napoli, in un momento storico delicato quanto tormentato in cui –
siamo nel 1953 – «chi scrive ritiene obbligatorio vedere la vita del
popolo soltanto sotto l’angolo sociale ed economico», pure Piovene
pensa che «la vita abbia più d’una dimensione, e narrandola», dichiara,
«non saprei rinunciare a nessuna. Non potrei per esempio rinunciare
all’incanto che mi dànno le strade e i vicoli di Napoli ancora
prima di riflettere che cosa possa esservi di vero e di tragico sotto la
grazia della loro commedia» (p. 430). Già da queste prime battute, si
rivela e si impone il narratore, con squarci descrittivi della città che
s’innalzano a veri e proprî intenti di poetica. Vero è che – come è stato
opportunamente rilevato – il sottile file rouge che attraversa l’intero
Viaggio in Italia e che si snoda dalla Valle d’Aosta alla Sicilia è «un’impressione
di innesto organico, spontaneo delle “ragioni” del nuovo –
l’adesione a uno stile moderno, con forte influsso del modello americano
– sul tessuto prezioso e fragile di una cultura millenaria, di cui
Piovene sa percepire con sensibilità inaudita le sfumature minime»6.
Piovene – come ha riscontrato con grande icasticità Pampaloni7
– aveva «natura di saggista», di «narratore» delle «idee», ma, nello
stesso tempo, il suo lavorìo è simile a quello di colui che si propone
di prospettare il bilancio di tutto quanto da noi si è fatto, al fine
di rimarginare le piaghe vistose e lancinanti causate dalla guerra al
nostro Paese, nonché di recuperare i segnali di ‘riedificazione’ nelle
opere e negli spiriti; di propagare, altresì, stimoli e ragioni di speranza.
La sua prosa, «morbida, duttile e sensibilissima in superficie
», è sempre sorvegliata da un faro attento a «rispecchiare tutte le
sfumature e le sinuosità del pensiero, e nel fondo aggressiva e
perentoria, fulmineamente prensile nell’afferrare la cangiante ambiguità
del reale, e da complice farsene giudice»8; il suo stile è carat-
6 F. Cuniberto, Viaggi in Italia. Ceronetti, Goethe, Piovene, «Alfabeta», 57, febbraio
1984, p. 30.
7 G. Pampaloni, Ritratto di Guido Piovene, in Guido Piovene tra idoli e ragione,
cit., p. 21.
8 Ibidem.
[4] LA CAMPANIA NELLE PAGINE DI VIAGGIO DI GUIDO PIOVENE 715
terizzato da estrema quanto raffinata chiarezza, sorretto e scandito
da un periodare vigile al respiro del tema affrontato e accuratamente
analizzato o dalla serie di incontri di cui vuol dar conto.
Superato l’ostacolo emotivo dell’imbarazzo iniziale, il viaggiatore-
veneto si avvicina alla città partenopea «senza il minimo sforzo
di imporre il colore napoletano ai napoletani stessi» e viene subito
colpito dal perdurare nella città di «strani mestieri», quali il ramariello,
ossia una sorta di banchiere popolare che finanzia i giovani sposi
«fornendo loro tutto quanto occorre per mettere casa»; il pazzariello,
giullare e saltimbanco piazzaiolo che esibisce ai passanti, intrattenendoli,
il proprio antico repertorio, con canti e lazzi; i guappi, i
burattinai, lettori di versi che «risvegliano i vicoli recitando Dante,
o Leopardi» (p. 428). Ma la «musica napoletana più vera» Piovene
la ode nelle «grida modulate, simili a quelle dell’Oriente». E qui la
memoria non può non andare agli affreschi poetici dell’opera di
Ferdinando Russo; in particolare, sembrano risuonare e trasparire,
nella descrizione di Piovene, echi provenienti dalla lettura di alcuni
versi del poemetto ’O Cantastorie, opera, come è noto, che si distingue
proprio per i caratteri dell’epica grottesca. Difatti, intento precipuo
del poeta partenopeo era quello di rappresentare letterariamente
il popolo napoletano con veristica precisione documentaria e
con l’uso di un dialetto greve e, per taluni aspetti, violento9. Non
dissimile da quella di Piovene, l’impressione registrata da Ungaretti,
un ventennio prima, in una prosa di viaggio, scritta in occasione
della visita del poeta-girovago a Napoli (1932), durante la quale,
vagolando per i «luoghi sinistri ed epici» della città vecchia, viene
a diretto contatto con questo «popolo cavalleresco», il cui «coraggio
mescolato alla favola lo esalta»:
Non so se in quel teatrino dell’angolo, di cui ho alzato, per farci
capolino un momento, la tenda polverosa dell’entrata, ’o cantastorie
legga sempre la storia di Rinaldo o invece quella di qualche guappo
9 Nella premessa al poemetto Gano ’e Maganza, l’autore puntualizza: «Per i
lettori non napoletani, è bene spiegare che, presso il mercato di Porta Capuana,
ogni giorno il cantastorie raccontava al popolino le meravigliose avventure di
Rinaldo, tratte da quanti romanzi cavallereschi si sono scritti, a cominciare dai
primi accenni dell’arcivescovo Turpino. E il popolo napoletano aveva per Rinaldo
una specie di adorazione cieca; e i più caldi ammiratori, i più impressionati
dalle smargiassate di quel tipo, erano denominati patuti o patiti; per Gano di
Maganza invece, che è il tipo del traditore, del fellone, il loro sdegno, il loro
disprezzo erano illimitati» (F. Russo, Le poesie napoletane, Napoli, Perrella, 1910,
p. 5; corsivo nel testo).
716 GIUSEPPE DE MARCO [5]
più recente; né so se, a cielo sereno, queste riunioni abbiano luogo
ancora sul Molo; ma, se dal Vado dò un’occhiata alla folla fluttuante
da una piazza all’altra, vedo bene che sono tutti patuti – ch’è una
parola come «tifosi» –: vedo bene che sarebbero tutti pronti a farsi
scannare per la prodezza d’un Paladino, a massacrare llà pe’ llà un
fellone come Gano ’e Maganza […]10.
Ora, lungi da riesumazioni di immagini, per così dire, litografiche
del costume napoletano, lo scrittore vicentino, nel proseguire la
peregrinazione, prende coscienza di trovarsi «di fronte a una metropoli
che non ha l’eguale nel mondo», per cui lo straniero che vi
giunge non evita «d’essere attratto in un modo di vivere diverso da
ogni sua abitudine» (ibidem). Il termine «metropoli» è da intendere
nell’accezione di «città unica e universale», puntualizza il viaggiatore;
di qui l’«impresa senza fondo» nel penetrarvi e nel raccontarla:
L’aspetto più vistoso della Napoli d’oggi è moderno, razionale; ciò
che più colpisce è l’immensa espansione edilizia. Interamente ricoperte
di case nuove le pendici che la circondano, già solitario nido
di ville signorili, case contadine, conventi, orti, vigne e pinete. […] a
chi l’osserva dal mare Napoli appare una città per tre quarti moderna.
Con i suoi grandi lungomari ricostruiti, è anche, se non si penetra
nei quartieri più poveri, una città pulita. […] Napoli è bella come
sempre. […] Non è vero che la bellezza di Napoli sia estemporanea,
improvvisa. Bisogna aver sentito la qualità unica delle acque di questo
golfo, non di colore denso e carico, come quelle della Sicilia, ma
leggere, diafane, quasi irreali, in cui le navi sembrano sospese come
nell’aria; ed in cui pare sciolto, anche di giorno, un riflesso di luna.
Bisogna averlo visto in luci e giornate diverse, giacché il golfo di
Napoli varia di tinta e d’animo; ed è specialmente bello nelle giornate
seminuvolose e ventose, quando acquista inattese profondità,
moltiplica prospettive; nei tramonti, quando le isole e i promontori
diventano di cristallo. Bisogna far venire a galla la prospettiva più
interna di questo paesaggio, ciò ch’esso ha d’antico e di mitico; […].
La bellezza di Napoli cresce di giorno in giorno, di settimana in
settimana, via via che scopre i suoi segreti. Finché si giunge a inten-
10 G. Ungaretti, Vecchia Napoli. Napoli, il 3 Luglio 1932. Mezzogiorno[1932], in
Id., Vita d’un uomo. Viaggi e lezioni, a cura di P. Montefoschi, Bibliografia a cura
di A. Cortellessa, Milano, Mondadori «I Meridiani», 2000, p. 177 (corsivi nel
testo); sia consentito rinviare a G. De Marco, I «fantasmi della mente». Oltre il
«deserto» verso la «terra promessa»: Viaggio nel ‘Mezzogiorno’ di G. Ungaretti, «Rivista
di Studi Italiani», XXI, 1, 2003, pp. 151-174, confluito, con opportune integrazioni
e aggiornamenti, in Id., Le icone della lontananza. Carte di esilio e viaggi di carta,
Roma, Salerno Editrice, 2008, pp. 57-84, in part. pp. 79-84.
[6] LA CAMPANIA NELLE PAGINE DI VIAGGIO DI GUIDO PIOVENE 717
dere che veramente è questo il più bel golfo della terra. Ed è una
bellezza tonica (pp. 429-430).
Il volto di una città così finemente dipinta rinvia al gusto
pioveniano per l’ossessiva attenzione di scrutare, percepire, penetrare
le cose e il paesaggio, per poi trasporre in scrittura ciò che ha
osservato attraverso il filtro dello sguardo iterato, con bilanciata
devozione imposta da una esigenza di compiutezza. Si tratta di
religio dello sguardo come un rapporto conoscitivo, sia di sé sia del
mondo, che, non appaia incauto, potrebbe essere definita di tipo
mistico, a cui Piovene era stato incline sin dalla giovinezza, come si
legge chiaramente in un lacerto delle Furie11. Ed è in virtù di questa
religio dello sguardo che l’occhio dello scrittore penetra a fondo nel
costume partenopeo tanto da poter affermare che «soltanto i veneti»
gareggiano coi napoletani nel credere e non credere nel medesimo
tempo, e nell’abbandonarsi ai propri sentimenti e gesti rimanendone
in fondo estranei. […] Anche coloro che, per tendenza politica, mi
hanno accompagnato per Napoli cercando di mostrarmi soltanto la
miseria e la sofferenza, e di indicarmi la tristezza, il rancore, la
disperazione sotto la colorita commedia di quella vita, si lasciavano
poi trascinare, parlandone, da un’evidente compiacenza; ondeggiavano
sempre tra la critica e la meraviglia; perciò la loro stessa critica
non convinceva mai del tutto.
[…] Certo Napoli è ancora oggi una città speciale, e chi si reca in
essa per interpretarla deve avvezzarsi ai capovolgimenti paradossali
(pp. 436-438).
Similmente la propensione istintiva al teatro, dell’inscenarsi in
pubblico dei napoletani crea un’altra analogia coi veneti: «È nell’indole
napoletana considerare la città come una macchina teatrale» (p.
431). In proposito, basti leggere la pagina in cui Piovene scrive dei
cosiddetti giorni dello «struscio», in occasione dei quali le strade
principali vengono chiuse al traffico dei veicoli, e la gente osserva
dalle finestre e dai balconi il passeggio, con l’ostentazione plateale
collettiva degli abiti che è «per se stessa un avvenimento teatrale»:
11 G. Piovene, Le Furie [1963], in Id., Opere narrative, a cura di C. Martignoni,
Milano, Mondadori «I Meridiani», 1976, vol. II, pp. 245-606, a p. 472: «La mia
giovinezza è stato un trasporto verso le cose. Davanti a esse, di qualunque genere
fossero, mi concentravo come fa il religioso che si sforza di provocare il sacro.
Non volevo che mi sfuggissero. Non le volevo senza me, un me astratto e astrale,
ridotto a puro sguardo, le caricavo col fissarle di significati e violenze che non
sentivo più in me stesso ma in un oggetto intermediario dove si erano trasferite».
718 GIUSEPPE DE MARCO [7]
Il popolo napoletano si affolla a passeggiare, coi vestiti nuovi, nei
giorni di giovedì o venerdì santo, in via Roma, l’antica via Toledo,
e in via Chiaia; le giovani, un tempo, in costume; adesso, come io le
ho viste, in tailleur, ma appena uscito dal laboratorio del sarto, o
confezionato in famiglia. Questo passeggio di due giorni nelle vie
principali della città, chiuse al traffico dei veicoli e ridotte a salotto,
l’esibizione collettiva degli abitanti mentre la gente guarda da finestre
e balconi, è per se stessa un avvenimento teatrale; […].
Nei giorni stessi dello struscio, si noti, il popolo affolla i Sepolcri nelle
chiese della città. I Sepolcri napoletani non sono funerei ma lieti,
giardinetti di fiori e di piantine d’orzo colore giallo tenero disposti
davanti all’altare; il sarcofago dorato è in alto, sopra uno sfondo di
damaschi (pp. 430-431, corsivo nel testo).
Nel corso del Viaggio in Italia, Piovene ribadisce che il suo non
intende affatto essere, né effettivamente lo è, un libro-guida turistica;
sebbene egli indugi sovente innanzi a monumenti od opere d’arte,
tuttavia, in quelle felici occasioni, demanda al lettore il compito di un
approfondimento diverso e soggettivo. Viene sì attratto dalle fin troppo
visibili e inconfutabili bellezze paesaggistico-artistico-architettoniche
e plastico-figurative del nostro Paese, ma egli preferisce, da fine scrittore,
nel far passare un concetto di arte che avverte autenticamente.
È il caso in cui, mutato il tono della scrittura, viene collocato in primo
piano l’interlocutore di turno, attraverso il quale vengono fatte filtrare
le ponderazioni dello scrittore-viaggiatore, come accade nell’incontro
con Pane, professore alla scuola di Architettura di Napoli, latore
di una concezione dell’arte, per molti aspetti, condivisa dall’autore;
forse, sarebbe più conveniente dire che Guido Piovene fa propria la
tesi dello studioso Pane, asserendo che il monumento non va considerato
«fuori del tessuto della natura e della vita» e che se «distruggete
la natura intorno, oppure abbattete isolando le case che gli fanno
da contrappunto […] il monumento, anche se immune, sarà in realtà
semiperduto» (p. 433). Pertanto, sarebbe sacrilego ritenere che Napoli
vada risanata con interventi e mezzi rigorosissimi e intransigenti, in
quanto «il risanamento» della città è «opera lenta, in gran parte indiretta,
e non può ottenersi mediante provvedimenti draconiani» (ibidem).
Difatti, il colore della vita dei vicoli, dei «bassi»
È un genere di vita che non può trapiantarsi nei cortili e sui pianerottoli
di case moderne ed eccentriche. Questo, e non solo l’abitudine
sentimentale al colore della loro vita, spiega perché i napoletani
si abbarbichino ai loro vicoli, e spesso, quando sono demoliti, in
baracche, rifiutando le case nuove, e resistendo a chi vuol farli sloggiare
(p. 434).
[8] LA CAMPANIA NELLE PAGINE DI VIAGGIO DI GUIDO PIOVENE 719
Ne discende una moderata posizione di Piovene, seppure oscillante
fra due poli estremi: «Bisogna guardarsi dalla retorica; da
quella vecchia, per cui Napoli è tutta canto ed allegria, da quella
nuova per cui Napoli è tutta tristezza e rivolta latente» (p. 454).
Inoltre, lo scrittore ritiene che per conoscere Napoli sia conveniente
eludere qualunque mitologia: in primis quella ormai lontana del
colore locale, allignata ancora nei punti di vista più usitati e tradizionali;
ma anche quella politicamente aggiornata del popolino
sovvertitore, imbronciato e spietato, annidato nelle viscere tenebrose
della città. «Uno scrittore di sinistra» che si offre come guida di
turno al raffinato intellettuale vicentino nell’esplorazione del mondo
napoletano, durante una loro conversazione, esprime la «teoria»
delle due Napoli, divergenti vicendevolmente e totalmente infinite.
Sollecita a raspare la velatura infondata che ammanta il volto autentico
della città e a rivelare che, al di sotto delle parvenze artificiose
quanto insidiose, «“il senso della morte è forte ed assiduo”» e che,
invece, «“la morte è il vero re”» (p. 435). Ma l’opinione di Piovene
a riguardo non collima con quella dell’accompagnatore. Difatti, lo
scrittore ricorre a supplire la sua voce a quella dell’interlocutore,
informando che il suo fine non è quello di «affliggere il lettore con
un corso di letteratura neoverista su Napoli» (ibidem). Pertanto, preferisce
osservare «altri punti di una città sempre umanamente incantevole,
quella povera e quella ricca» (ivi).
Nel processo di ‘riedificazione’ postbellica, Piovene individua
principalmente segnali di recupero sagace, sorvegliato, tanto da poter
constatare e attestare che la spinta di «un’autentica vitalità» ha funto
da salvataggio per Napoli dalla «bruttezza» e «l’immensa espansione
edilizia» di cui è testimone accorda alla città il suo volto più
considerevole, «moderno, razionale» (p. 428)12.
12 Come è noto, i presagî degli anni Cinquanta, entusiasticamente banditi,
hanno sortito esiti diametralmente opposti. L’incontro con la modernità si verifica
sotto il segno del dissoluto sfruttamento, che ingombra penosamente
qualsivoglia giovevole fetta di spazio. Questo è il quadro che si presenterà agli
occhi di un altro viaggiatore, Guido Ceronetti, attraverso l’Italia circa trent’anni
dopo il viaggio di Piovene. Si tratta di un viaggio, per così dire, atipico, poiché
muove dall’intento di Cernetti di voler rintracciare una forma originaria dell’Italia,
astorica e incorruttibile, per cui si incammina nelle vesti di un esule in terra
patria, attribuendo al suo pellegrinare gli stessi connotati messianici del viaggio
dantesco. Inoltre, lo scrittore gioca deliberatamente con le plurimillenarie convenzioni
del codice per conferire voce alla consapevolezza della crisi del viaggio
e del genere nella forma stessa della scrittura. Il suo «pellegrinaggio iniziatico»
720 GIUSEPPE DE MARCO [9]
Non sono assenti, nel corso dell’itinerario campano, occasioni in
cui lo scrittore si ritaglia un piccolo spazio da dedicare ad un particolare
umano e comportamentale, atto a puntare i riflettori su uno
spaccato di semplice quanto umile momento di vita quotidiana, che,
in caso contrario, rischierebbe di restare convenzionale. In tale prospettiva,
si rivela piuttosto toccante lo sguardo con il quale ammira
la commessa di un negozio tutta intenta a leggere I Promessi Sposi e
che con voce candida gli confida che «è un libro di moda […] e lo
obbedisce ad una necessità urgentissima di ricognizione della ‘Verità’ del reale e
nella sua apocalitticità diventa atto di denuncia e di autocoscienza. Lo sguardo
dolente di Guido Cernetti narra Napoli come il preludio di una sorte comune, in
cui sopravvivono ataviche sopraffazioni e nuove alienazioni mentali. Da un canto,
la presenza imponente dei giovani senza legge, che si distinguono per il loro
abbigliamento di «canagliucoli» e che «cavalcano motorini, fanno evoluzioni,
lanciano petardi, gridano» (G. Ceronetti, Un viaggio in Italia. 1981-1983, Torino,
Einaudi, 1983, nuova edizione, da cui si cita, con supplementi 2004, ivi, 2004, p.
261). La città si trasforma irreparabilmente «dappertutto terrificante» (p. 261) e
«ogni attimo è un intoppo, uno scontro, un purgatorio…» (p. 262). Ceronetti
enfatizza e, nello stesso tempo, preannuncia una situazione comune: Napoli è
l’emblema di ciò che le altre città sono destinate a diventare, in termini di
sconcezza, di caos, di intorpidimento dell’anima. «Napoli – perviene a scrivere lo
scrittore – è uno dei peggiori luoghi d’Italia; ma tutta intera questa nazione non
è più che un sbubbonare di tante Napoli, che se anche non sanguinano come
Napoli, ne riproducono sintomi, crolli, abbrutimento» (p. 260). Napoli non ha
pareggiato con le altre città in termini di efficienza, bensì ha riassorbito le altre
all’interno del proprio disordine. Con uno stravagante sconvolgimento «il Sud
finirà per essere la rovina del resto d’Italia» (p. 244) e disseminerà ovunque il
livore di una sconfitta: della vita, dell’anima, dello splendore. Lo smarrimento di
qualsivoglia identità sarà, di conseguenza, l’esclusiva legge. Per Ceronetti i popoli
mediterranei, nella loro globalità, non risultano essere se non resti di
un’ecatombe, appellativi sopravvissuti di realtà da cui si è dileguata la luce:
«Non c’è nessuno, qui, che non sia un vinto, umano e storico, un messo a terra
per sempre. Tutti quanti, andalusi, cretesi, turchi, arabi, occitani, armeni, siciliani,
greci vixerunt, anche se di fuori sgambettano, la loro anima giace strangolata
nel sottosuolo della storia […]. Sono i Mediterranei, gli Atlantici della finestra di
fronte, morti come il loro mare […]» (p. 246, corsivo nel testo). Ovviamente, è
questa una conclusione pessimistica, secondo la quale in Italia la bellezza è,
ormai, una vittima; l’autore approda, altresì, a considerazioni relative al macigno
del Male, nel Paese. Viaggio di un apocalittico dunque, ossessionato dall’idea
della perdita della bellezza, attratto dal fascino dell’esoterismo, della malattia,
dal tramonto dell’Occidente, da immagini lugubri di morte, di sepolture e di
cimiteri, dalla presenza del maligno nel mondo. Napoli e, in genere, il Sud
dell’intero universo rappresentano la visione-limite di una realtà desacralizzata,
al cui strazio sembra non esserci più antidoto. (Cfr. M. Palumbo, Sguardi incrociati:
il Sud visto dal Nord, il Nord visto dal Sud, «Critica Letteraria», XXXVII, 142,
1, 2009, pp. 107-121, in partic., ai fini del nostro discorso, pp. 115-117).
[10] LA CAMPANIA NELLE PAGINE DI VIAGGIO DI GUIDO PIOVENE 721
leggono tutti» (p. 445): in questa risposta lo scrittore intravede i
segnali di un’ansia e di un desiderio della cultura, che comincia a
profilarsi e a propagarsi in Italia. Dalla pagina pioveniana trasuda,
qua e là, anche un giudizio di valore, secondo il quale il Sud in
generale, la Campania in particolare dovrebbero orientarsi in direzione
del liberalismo e degli studi tecnico-scientifici; non giova più
trincerarsi nel conflitto tra democristiani e marxisti, o ancora tra
una cultura crociana, tuttora vivace e dominante e una cultura
dannunziana carica di arida retorica e di sterile trionfalismo di
matrice nazionalistica. Inoltre, Napoli, come tutto il Sud in genere,
appare agli occhi del viaggiatore-scrittore come «la parte d’Italia
dove la lotta sociale non prende tutti i pensieri e tutti i minuti del
giorno. È una vita più ricca, con più imprevisti, più riserve e più
varietà di pensieri» (p. 454). Ed ecco che il Museo Nazionale della
città partenopea risulta solo uno scrigno di piccoli oggetti antichi,
ma di uso quotidiano:
La vita romana qui perde ogni solennità accademica, e si avvicina
con un realismo loquace; la confidenza subentra alla riverenza; non
si potrebbe pensare un museo come questo se non a Napoli, non
lontano da Spaccanapoli, vicino a via Costantinopoli con le bottegucce
antiquarie. Si ammira una civiltà che sentiva il bisogno di far nascere
tutto ornato, anche una stufa o una cucina; che in nessun caso
accettava la pratica disadorna. […] Da Pompei ed Ercolano viene la
maggiore raccolta […] di decorazioni murali ad affresco e a mosaico.
E non è vero, come dicono alcuni studiosi, che siano opera solo
artigianale. Vi è l’artigianato, ma anche qualche cosa di più. Non
certo d’artigiani, che lavorano di maniera, è quest’osservazione diretta
sulla natura, soprattutto sui frutti, sui fiori, sugli animali domestici
ed esotici, sui lini, sulle trasparenze e i riflessi delle coppe di
vetro. Il nostro gusto ci conduce se mai a trovare più stimolo in
queste sorprendenti nature morte che nelle regolari bellezze dell’arte
accademica (pp. 465-466).
E poco oltre, la visione di alcuni paesaggi campani richiamano
fulmineamente il nostalgico Veneto:
vedi alcuni paesaggi, alcune ville fantasiose e strambe, d’un estro
imprevedibile, somiglianti a pagode, che si rispecchiano nelle acque
tra i cipressi ed i salici. Si direbbero lacche venete, cineserie settecentesche,
e ci richiamano la riviera del Brenta. Un veneto come me, al
museo di Napoli, come del resto a Ercolano e a Pompei, sente alitare
intorno il chiacchiericcio di Goldoni (ibidem).
Tonalismo, luce soffusa, media giammai spropositata, profilo
722 GIUSEPPE DE MARCO [11]
pastoso e delicato della descriptio, natura che è di per se stessa arte,
risultano le caratteristiche di questo paesaggio – e non solo di questo
–. Invero, la percezione del paesaggio quale latore di significati
che trasmodano il dato realistico, informa e sostanzia, d’altro canto,
la scrittura pioveniana sin dagli esordî. Il paesaggio funge da elemento
intermediario che ammanta, e qua e là mina di rivelare,
tramite bagliori e luci inattese, verità che attengono a due sfere:
verità, in certo senso, metafisiche, o più specificamente verità del
proprio mondo interiore, celate dal consueto nodo di finzioni, di
ambiguità, di simulazioni. Questo culto per lo sguardo e del suo
rapporto con il paesaggio è individuabile già in una manciata di
liriche giovanili che Piovene serbò sempre con gelosia e con immane
cura tra le proprie carte13. In quelle prime prove giovanili, come,
poi, in gran parte della narrativa pioveniana, il paesaggio riveste un
ruolo fondamentale e non è preludio di stagioni epifaniche. La luminosità,
difatti, resta fissata all’interno delle cose, oppure tenta di
seguire i lineamenti del paesaggio. Indicativa, in tale prospettiva, la
descrizione di Sorrento e della costiera amalfitana:
Una delle bellezze di Sorrento sono i giardini di agrumi cinti da
mura. Passeggiando per la città si scorgono i rami carichi di arance
e di limoni, sormontare i muri di sasso. Sorrento ha una facciata
aperta sul mare, ma l’interno è segreto. Comincia, andando verso
sud, il tratto arabo-medievale della Campania. L’Italia è terra di
contrasti, ed ogni regione italiana li ripete dentro il suo limite: non
solamente la Campania cambia stile tra un luogo e l’altro, ma contrastante
è la fascia costiera. È classica la zona costiera a nord di
Napoli, con Cuma, Baia ed il Capo Miseno: così la zona a sud di
Napoli sotto il Vesuvio; un paesaggio dolce e leggero, dove tutto
sembra disciolto nei miti e nella storia romani e greci. La costa che
va da Sorrento a Salerno, e ha come centro Amalfi, è invece medievale,
romantica, monasteriale. Fu infatti un amore romantico. Rispetto
a Napoli, siamo in un altro mondo. Si direbbe che il facile contrasto
classicismo-romanticismo sia qui scritto nella natura sotto il comune
e felice sole del Sud. Tra Sorrento e Salerno, vedi rocce tagliate
a picco, spaccature orride tra i monti, case incastrate ed appiattite
sulla roccia da cui le distingue solo il colore, cadute di vigneti su
pendici impervie, ed i monasteri-fortezze appollaiati a metà costa (p.
475).
13 Cfr. M. Giachino, Versi giovanili di Guido Piovene, in Guido Piovene. Tra
realtà e visione, Atti della giornata di studi di Trento (maggio 1999), a cura di M.
Rizzante, Trento, Dipartimento di Scienze Filologiche e Storiche, 2002, pp. 41-
62.
[12] LA CAMPANIA NELLE PAGINE DI VIAGGIO DI GUIDO PIOVENE 723
Siamo davvero dinanzi ad una natura-quadro spettacolare. Un
paesaggio, classicamente armonizzato, razionale, con il senso della
litote, che ha riconciliato, per dirla con Fortini, i suoi «antagonismi
interni»14 e attenuato le ruvidezze, temperato le sdruciture. Sembra,
insomma, un paesaggio effigiato con meno natura che cultura ed
arte: ritorna, come dice lo scrittore per la sua Vicenza, «sempre lo
stesso paesaggio-quadro, con le sue tinte più pittoriche che naturali
» (Le tre Venezie, Vicenza, p. 52).
Sagace scrutatore, a volte mordace, Piovene intercala, con garbata
dose di discrezione, in queste pagine di viaggio campane – come, del
resto, in tutto il libro – considerazioni politiche e socio-economiche,
oltre a squarci di paesaggi e di città, incontri e conversazioni con
personaggi celebri e non, rilievi di costume, descrizioni di monumenti
e opere d’arte. Abile nel saper istituire una comparazione paesistica
basata sulla luce e sul colore – che solo dopo qualche sollecitazione
è in grado di sortire un effetto verosimile e allettante –, come quando,
ricorrendo ad una citazione da uno scritto dell’architetto Pane,
accomuna Procida a Pellestrina: «“al bianco prevalente a Capri,
Procida oppone i suoi rosa, i suoi gialli, e perfino l’azzurro, spesso
con toni molto accesi che ricordano le case di Pellestrina”» (p. 461).
In altri luoghi, invece, irrompe inopinatamente la vis comica, una
sorta di rimedio benefico alla trazione verso la poesia; si veda, in
proposito, lo scattante botta e risposta intercorrente tra lo scrittore
e il contadino nei pressi di Avellino, laddove è costume denominare
l’asino – esclusivo mezzo di trasporto – «la vettura»: «– Sono venuto
qui in vettura –, ti dice il contadino; ti guardi intorno, e gli
domandi dov’è; ti indica l’asino o il mulo» (p. 491). Così, proseguendo
il percorso campano, Salerno si presenta come una città
attiva, in cui «l’industrializzazione e il benessere sono in progresso
», nonostante «le antiche passività gravino ancora fortemente» (p.
478). La tendenza risulta identica a quella che lo scrittore ha osservato
a Napoli: «di rimettersi troppo alle iniziative del di fuori. Lo
spirito di associazione è scarso; l’industria non personale è poco
sentita» (p. 479). Secondo Piovene urge e necessita persuadere «il
Sud a impiegare di più i propri capitali, formati o in formazione, a
beneficio di se stesso. Una vera industrializzazione, che cambi la
faccia del Mezzogiorno, non può venire solamente da fuori, ma
esige la persuasione locale» (ibidem).
14 F. Fortini, Classico, in Id., Nuovi saggi italiani, Milano, Garzanti, 1987, p.
267.
724 GIUSEPPE DE MARCO [13]
Dopo aver constatato che la piana di Paestum è diventata produttiva
e dopo aver abbracciato con uno sguardo le rovine costellate
da una «spalliera di rose», Piovene viene attratto maggiormente
dall’area geografica che si estende a sud della città dei templi, dove
si profila la zona meno nota ed esplorata, ma più suggestiva per la
sua natura selvaggia, della costa campana e dove ancora alita una
tenera dolcezza virgiliana riverberata nell’incantevole paesaggio,
amalgamato di mito e magia:
Sotto Paestum inizia la parte meno conosciuta della costa campana.
Forse perché ancora semisegreta, è parsa a me la più bella. Piccole
baie solitarie, scogli e banchi di rocce cui scendono pini ed olivi,
soavi e primitive colture: la natura è ancora difesa da un’arcadica
arretratezza. […] È il Cilento […], dove le donne col pesante orcio
in bilico sulla testa appaiono per la prima volta, scendendo verso
sud, quale nota costante del paesaggio. […] il Sud della costa campana
è un misto di remota dolcezza virgiliana e di dolcezza tropicale.
[…] Sono tratti di sabbia lieve, chiusi da una muraglia di
piante grasse e di fiori selvaggi, e dietro ancora, sul pendìo, da
boschi fitti di grandi olivi contorti; banchi di roccia, su cui giocano
le piccole onde e le spume, portano alle acque del mare un azzurro
denso. Pensavo specialmente a Palinuro affermando che la Campania
è poco nota in quanto ha di più bello. […] Fino ad oggi vi ha
gravitato una piccola aristocrazia di abitudini semplici e d’indole
contemplativa, specie di stranieri e di artisti, quasi una compagnia
monastica che aborre gli intrusi e mantiene il segreto. Scoprono
invece Palinuro, come spesso accade, stranieri amanti più di noi
della natura (pp. 483-485).
In questa terra, come è noto, è custodito uno dei miti del Cilento,
quello del nocchiero di Enea, narrato nel VI libro dell’Eneide. Il
mare e il vento ricordano sempre che qui il mito è parte integrante
della storia, anzi che il mito è la storia, come il verso di Virgilio
testimonia: «Aeternumque locus Palinuri nomen habebit» (Aeneis,
VI, 381).
La visita a Palinuro, offre a Piovene, seppure a livello culinario,
un altro pretesto per rievocare il suo Veneto:
Vi è un alberghetto, che si sta trasformando; il padrone, che porta il
nome di Pacelli, vi narra aneddoti locali; una cuoca di Palinuro, ma
sposata ad un veneto, mescolava per me in piatti di alta cucina il
Veneto e la Campania, ed erano, anche queste, ghiottonerie e sapienze
da monaci. Ma, lasciando le piccole spiagge tropicali e gli olivi, la
natura tocca il suo vertice nella punta di rocce tra Palinuro e Camerota.
Sono strapiombi solitari tra due piccoli golfi, certo non meno
[14] LA CAMPANIA NELLE PAGINE DI VIAGGIO DI GUIDO PIOVENE 725
belli di quelli di Capri, e come a Capri sforacchiati di grotte dove le
acque e l’aria prendono colori strani (ibidem)15.
Non giornalista di professione, bensì «viaggiatore della scrittura
» – per ricorrere ad una felice quanto calzante espressione di
Ilaria Crotti16 – si rivela Guido Piovene in queste pagine di viaggio.
Al di là delle precise ed accurate informazioni, delle puntuali analisi
circa i caratteri socio-economici della regione, gli aspetti cruciali
come lo sviluppo industriale, le potenzialità, le risorse, gli ostacoli,
i rischi, i segnali di crisi e le speranze, il rapporto agricoltura-industria,
nelle pagine di viaggio s’impone pur sempre lo scrittore attento
e vigile, specie nelle occasioni più personali di vibranti emozioni,
di meditazioni, di assorta contemplazione; quest’ultima particolarmente
ammirata ed apprezzata in località in cui – Palinuro, Camerota,
Amalfi, Positano – incanto e magia sollecitano ad una quiete dell’animo:
Ho trovato in quelle oasi più numerosi gli stranieri che gli italiani.
Molti soprattutto gli inglesi, che amano vivere bene con semplicità.
Per gli italiani i pregi della tranquillità contemplativa esistono sempre
meno; essi li stimano contrari alla loro idea del moderno. Altri
popoli tuttavia, non meno moderni, sentono diversamente (p. 476).
Oasi contemplative non riscontrate, invece, dal viaggiatore veneto
durante il prosieguo del percorso campano in direzione dell’Irpinia.
In questa area geografica, lo scrittore, anziché osservare, privilegia
maggiormente ascoltare quanto gli viene illustrato e narrato dagli
15 Sia consentita qui una digressione leggendaria, riguardante Camerota. Una
tradizione orale, tramandatasi da secoli, legata alla vicenda del nocchiero di
Enea, vuole che Palinuro non abbia incontrato la morte vinto dal sonno, ma che
sia morto per lo smoderato amore. Difatti, al cospetto della attraente ninfa
Camerota, che si adagiava sulle acque spumeggianti della costa cilentana, se ne
invaghì follemente e, affascinato dalla sua voce ammaliatrice e dalla sua leggiadria,
non esitò ad inseguirla, non corrisposto, negli abissi del mare laddove
perì. Venere, avendo assistito a ciò, recuperò il corpo di Palinuro, offrendogli
degna sepoltura sul colle a strapiombo sul mare, che prenderà il suo nome; così
agendo, la dea intese punire con la morte la efferata ninfa, che mutò nello
sperone di roccia su cui si distende il paese che porta il suo nome. Per l’eternità
la ninfa, così collocata, avrebbe dovuto volgere lo sguardo in direzione del
promontorio, in cui riposa l’innamorato che aveva disdegnato (cfr. Il nocchiere di
Enea e la ninfa crudele, in Cilento. Miti e leggende, Milano, Touring Club Italiano,
2006, p. 99).
16 I. Crotti, Piovene viaggiatore della scrittura: «Viaggio in Italia», cit.
726 GIUSEPPE DE MARCO [15]
interlocutori-guida. Avellino appare una provincia prevalentemente
agricola e l’industria è quasi inesistente; la metà dei comuni irpini
abbisogna d’acqua, di reti fognarie, di istituzioni ed edifici scolastici,
specie nelle sparse campagne, laddove si registra un elevato tasso
di analfabetismo – circa il quaranta per cento –, nonostante la
presenza ad Avellino-città di «un buon liceo classico» e di una biblioteca
comunale che Piovene non indugia a considerare «uno di
quei monumenti dell’umanesimo meridionale» (p. 481). Ma la «vera
povertà» balza all’occhio nell’ex circondario di Ariano che si collega
con la Puglia e col Sannio e in quello di Sant’Angelo dei Lombardi,
che si raccorda con la Puglia e con la Lucania. Qui «anche i dialetti
mutano»; qui «l’industria non è mai esistita», tuttavia sopravvive
un «artigianato episodico, al quale i contadini dedicano le ore libere
» (p. 490): fabbri, falegnami, calzolai. La notorietà di queste zone
depresse si ravvisa nell’essere una popolazione ancorata alla pratica
di antichi riti, di superstizioni, di usanze primitive, di esperienze
magiche: «solo un lungo scandaglio in animi gelosi, che si sottraggono
allo sguardo del forestiero, potrebbe dirci con certezza quanto
tuttora ne rimanga e sia veramente sentito» (p. 491). Il viaggiatore
è giunto così in una terra di streghe – secondo la superstizione –:
Benevento; a rigore, puntualizza Piovene, «una fama mondiale è
data a Benevento, oltre che dai sanniti e dai longobardi, dalla leggenda
ch’essa fosse la capitale delle streghe» (p. 503). Anche se in
via di palingenesi, perdura nel popolo irpino una religiosità tra
cristiana e pagana, che lo scrittore ha riscontrato, seppure velatamente,
in personaggi di spicco con i quali ha dialogato, il professor
Zazo, direttore del museo, e Don Salvatore Biondi; difatti, dalle loro
conversazioni traspare «un piccolo spiraglio aperto alla magìa»:
Mi sono recato anch’io nella gola delle streghe, dove il fiume Sabato
scorre stretto tra le alte rupi. Era una bella notte, fredda e silente,
sotto la luna piena. È il luogo nel quale, secondo un famoso racconto,
il gobbo di Peretola fu scorto dalle streghe del Sabba mentre si
nascondeva tra le rocce tremante; ma le perfide donne lo presero in
simpatia, e gli tagliarono la gobba con una dolcissima sega di burro.
Ho chiesto che cosa rimanga a Benevento della vecchia superstizione.
Naturalmente nessuno acconsente di credervi. Magìa e spiritismo
però hanno lasciato qualche traccia. La notte di Natale si pone
fuori dell’uscio una scopa nuova. La strega, che vorrebbe entrare,
perde il tempo nel tentativo di strappare i fili a uno a uno, finché,
sorpresa dall’alba, è costretta ad andarsene. La stessa scopa, un po’
sciupata, serve poi a spazzare le impronte. Bambini spostati nel sonno,
e ritrovati per terra o sotto la culla, mi assicura qualcuno, sono
[16] LA CAMPANIA NELLE PAGINE DI VIAGGIO DI GUIDO PIOVENE 727
stregonerie minori, che però avvengono nel segreto delle famiglie (p.
504).
L’itinerario – non solo campano – compiuto da Piovene obbedisce
sempre alla forma del «viaggio di ricerca», con ricezione profonda
quanto elevata e culturale dell’esperienza. Il suo «inventario delle
cose italiane» si distingue per la scrittura limpida, esatta, ragionativa,
non giornalistica, ma neanche erudita e ricercata, malgrado un certo
sparso colore letterario. Ciò che colpisce oggi riaprendo il libro è la
monumentalità dell’ardua impresa di questo viaggio-inventario, la
sua compiutezza che non ha eguali nel genere odeporico. Giova
ricordare, infine, come l’autore del Viaggio in Italia adoperi intenzionalmente
il termine «inventario», per qualificare e, soprattutto, significare
con esso una sorta di giustificazione al proprio operare
(«Quest’inventario delle cose italiane fu fatto per incarico della Rai
e affidato, via via che lo andavo scrivendo, alle onde radiofoniche.
[…] Un inventario: col difetto d’ogni inventario: che le omissioni, le
lacune saltano all’occhio», Premessa, p. 7): un termine che, esteriormente
raschiato da referenzialità, sembra sottendere al proprio interno
una radice per eccellenza poetica: quell’invenire che si salda
con i più reconditi modi della creazione artistica. Di qui il piano,
per così dire, strategico adottato dalla voce narrante al fine di orchestrare
la propria presenza nelle pieghe della scrittura con un
costante «andirivieni dialettico», atto a tramare ordine e disordine
come sulla superficie di una tela infinita. Per questo – rileva efficacemente
la Crotti –, «se dichiara di rinunciare a un principio assoluto
di completezza […], ciò si verifica perché quell’io percepisce la
forma elenco in quanto costrittiva della propria libertà stilistica […];
mentre ricerca insistentemente uno sguardo straniato e primigenio
[…] quella voce percorre il paesaggio attenta a cogliere i conflitti
[…], consapevole di come senza opposizione, nella pura ed assoluta
bellezza […] prevalga l’indicibile […]»17. Di conseguenza, il narratore,
quand’anche palesi una programmatica ricognizione di oggettività,
contestualmente non si elude a scolpire una propria immagine
idiosincrasica all’interno della scrittura.
Giuseppe De Marco
17 Ibidem, p. 280.
Linguistica
MARIA MICHELA DI LIETO
Un contributo alla questione della lingua:
L’Infermità dell’Eloquenza di Luigi Serio
This essay analyses a manuscript by the Neapolitan author Luigi Serio,
written at the end of the eighteenth century (now in the National
Library of Naples). The manuscript is a mock-heroic poem in which
Serio explains his ideas about the Italian language of his time. At the
same time, he goes back to a dispute concerning the Neapolitan dialect
where he had opposed Ferdinando Galiani’s viewpoints.
1. La questione della lingua nel Settecento
«Amabilissima signorina
sto per dire che da’ Francesi abbiamo avuto il maggior bene del
mondo.»1
Così scriveva Luigi Serio a Maddalena Vestini alla fine del XVIII
secolo, sulla scia del sentimento di ammirazione che, in particolare
nell’ultimo squarcio del secolo, la classe intellettuale italiana aveva
nutrito nei confronti dell’Illuminismo francese.
Il rinnovamento sociale e culturale aveva attraversato l’intero secolo
e invaso i più svariati campi del sapere, dando un inedito impulso
alle scienze e portando in auge nuove discipline. L’incremento
degli studi scientifici, filosofici e critici aveva imposto all’attenzione
della parte colta d’Italia la presenza di una nuova figura di letterato,
che, come nota il Vitale2, è antitetica rispetto a quella tradizionale, in
quanto si lega più strettamente al rinnovamento della cultura e alla
sua divulgazione. Esemplificativi di questa nuova aspirazione intellettuale
sono in particolare la diffusione dei giornali e la riforma delle
1 La lettera si trova nella Biblioteca Nazionale di Napoli “Vittorio Emanuele
III”, Mss. Fusco, B. XLIV, cc. 16-17. Da essa sono tratte tutte le citazioni del
Serio riportate nel paragrafo.
2 M. Vitale, La questione della lingua, Palermo, Palumbo, 1984, p. 213.
[2] UN CONTRIBUTO ALLA QUESTIONE DELLA LINGUA: L. SERIO 729
varie attività accademiche, nell’ottica di un’apertura non solo ai diversi
campi del sapere, ma anche verso ceti differenti. Paesi come
l’Inghilterra e, soprattutto, la Francia, promotori di questo nuovo
orientamento culturale, erano ormai diventati l’imprescindibile punto
di riferimento per lo sviluppo intellettuale e sociale, mediante la diffusione
e la discussione dei loro testi in ogni stato della Penisola. Le
suggestioni provenienti d’Oltralpe avevano spinto numerosi intellettuali
italiani verso un cammino di riforme, nella consapevolezza del
nuovo ruolo che la cultura stava guadagnando all’interno della società.
Un ruolo di guida e di sostegno, che avrebbe operato a livello
politico e sociale, dando così inizio a una nuova età dell’uomo.
Ma, ovviamente, dalla filosofia francese non sono sorti solo benefici
per la nazione italiana.
L’ampliarsi delle scienze e delle discipline corrisponde a un incremento
della scolarizzazione e va di pari passo con lo sviluppo della
produzione editoriale, che per la prima volta scopre il vasto campo
della letteratura di consumo. E, come già osservava Vico3, la faciltà
della stampa dava voce anche a coloro che, pur avendo ben poco da
dire, hanno ormai i mezzi per farlo. Già l’Arcadia, con l’istituzione
delle sue Colonie, aveva operato per far affermare una più larga
divulgazione della poesia, ma fu con l’apporto delle culture straniere
che questa espansione alle diverse classi sociali coinvolse anche altri
campi del sapere, compresi quelli che fino ad allora erano rimasti a
margine o erano ignoti. La nascita di nuovi generi letterari e di nuove
discipline, maggiormente scientifiche, la diffusione della cultura sempre
più capillare tra i vari strati della popolazione, la possibilità di
produrre e pubblicare testi agisce così non solo sulle «anime grandi
e i talenti sublimi», ma mette in fermento anche «gli spiriti bassi e le
menti sciagurate». È contro costoro che si vuole scagliare il Serio,
sottolineando come, per dare un sostegno alla loro scrittura «di mille
frivolità che hanno un’apparenza d’ingegnoso e di gaio» hanno scelto
di utilizzare un «nuovo linguaggio, che si rende prezioso a forza di
gergo filosofico e di modi di dire strani e bizzarri»:
I poveri talenti sono ormai in ogni nazione in numero prodigiosamente
maggiore delle menti vaste e profonde, e perciò il contagio
dell’ingegnose frivolità s’è attaccato più rapidamente e in una terribile
estensione, ond’è che la genia della plebe letteraria in Italia, e in
specie tra noi, è diventata una società formidabile, che grida e giu-
3 G.B. Vico, Il metodo degli studi del tempo nostro, a cura di A. Corsano,
Firenze, Vallecchi, 1937, p. 90.
730 MARIA MICHELA DI LIETO [3]
dica dell’ingegno e dell’opere altrui secondo le qualità del proprio
spirito. Tra i principali e più grandi disordini che ha prodotti s’ha
da porre in primo luogo il disprezzo della lingua natia, poiché l’hanno
avvilita e discreditata in maniera ch’oggi quasi gli uomini grandi
stessi hanno a vergogna di valersene e spargono sul sermon puro
d’Italia una vernice di neologismo francese.
La questione della lingua e dell’apporto di termini provenienti
dalla cultura francese, che emerge con preponderanza dalle parole
che il Serio scrive alla Vestini, fu un argomento molto dibattuto nel
corso del XVIII secolo, anche sulla scia delle teorie che già nei secoli
precedenti avevano polarizzato l’attenzione degli intellettuali dell’intera
penisola. Al centro delle varie riflessioni era sempre presente
l’urgenza e la necessità di un rinnovamento che permettesse alla
lingua italiana di modificarsi in risposta alle mutate esigenze civili
e culturali. La cosiddetta «crisi linguistica» del Settecento si connota
così in un’accezione positiva, come già nelle intenzioni di Schiaffini4,
come fase evolutiva che preserva comunque una continuità con la
tradizione. Per questi stessi motivi, oltre che per la capacità espansiva
che la stessa lingua italiana continua a presentare, il Folena
preferirà invece parlare di un «rinnovamento»5, la cui spinta preponderante
rimane comunque l’influsso francese.
I problemi di fondo del dibattito riguardano in particolare la
lingua della prosa, maggior veicolo di diffusione delle nuove idee,
sia per quanto riguarda la costruzione che nei confronti del lessico.
È quasi universale, nei letterati italiani, il ripudio delle forme sintattiche
tradizionali di tipo boccaccesco, incapaci di generare una
scrittura fluida e persuasiva. Questo rifiuto nasce nel solco delle
riflessioni grammaticali sintetizzate nella voce Construction dell’Encyclopedie,
che tendevano a riconoscere come unico ordine «naturale»
del linguaggio la successione soggetto-predicato-complemento, e a
dare pertanto alla lingua francese lo status di lingua naturale, moderna
e anti-retorica. Dal punto di vista lessicale, invece, l’analisi si
pone su due binari che, per quanto all’apparenza antitetici, risultano
fra loro strettamente interconnessi: da un lato il particolarismo
tosco-fiorentino e l’arcaismo, e dall’altro l’adozione dei neologismi.
Entrambe le posizioni nascono infatti dalla necessità di svecchiamento
4 Cfr. A. Schiaffini, Aspetti della crisi linguistica italiana del Settecento [1937],
in Id., Momenti di storia della lingua italiana, Roma, Studium, 1965, pp. 91-132.
5 Cfr. G. Folena, Il rinnovamento linguistico del Settecento italiano [1965], in
Id., L’italiano in Europa, Torino, Einaudi, 1983, pp. 5-66.
[4] UN CONTRIBUTO ALLA QUESTIONE DELLA LINGUA: L. SERIO 731
della lingua italiana, e dal conseguente tentativo di rinnovarla con
apporti lessicali che secondo i tradizionalisti dovevano venire dal
bacino arcaico e toscano, e che invece i riformatori cercavano nelle
adozioni straniere e nei neologismi6.
L’identità della norma linguistica italiana era sottoposta a numerose
spinte evolutive. Il XVIII fu un secolo di trasformazione, in cui
le culture delle varie nazioni dialogarono continuamente fra di loro.
Il conseguente rapporto sempre più serrato con le altre lingue della
cultura europea, in particolar modo la francese, e la necessità che
avevano i letterati di conoscerle, ripresentarono l’urgenza di una
lingua capace di stare al passo con le innovazioni culturali in atto,
e suscitarono numerosi interventi da parte di svariati autori.
Alle soglie del XVIII secolo fu Lodovico Antonio Muratori a
porsi il problema dell’evoluzione linguistica. Nel suo trattato Della
perfetta poesia italiana egli, riportando in auge le teorie che appartenevano
alla corrente cortigiana del Cinquecento, osservò come la
lingua italiana dovesse liberarsi dalla sudditanza nei confronti del
toscano, affermando la necessità che essa non fosse imposta dall’alto,
ma tenesse conto di coloro che la parlavano comunemente. Consapevole
della stretta connessione fra l’evoluzione linguistica e i
mutamenti civili e culturali, il Muratori riconosce alla lingua italiana
il carattere di una realtà istituzionalizzata, da lui definita «grammaticale
», che non si distacca però dal suo valore di lingua viva e
nazionale. Egli afferma infatti che:
questo comun parlare italiano può chiamarsi grammaticale; ed è uno
solo per tutta l’Italia, perché in tanti diversi luoghi d’Italia è sempre
una sola e costante conformità di parlare e scrivere, per cagione
della grammatica. Questo dunque si ha necessariamente a studiar da
tutti, come comune a tutti gli Italiani, e come quello, che da ciascuno
si adopera nelle Scritture, nelle Prediche, ne’ pubblici ragionamenti,
e che in ogni Provincia, Città e luogo d’Italia è inteso ancor dalle
genti più idiote7.
A questa sua concezione si lega il rifiuto della tradizione cruscante,
che vedeva nel Trecento il secolo aureo della lingua, nell’affermazio-
6 Per una trattazione più approfondita del problema della costruzione e del
lessico e della dimensione sociale della questione della lingua, si rimanda a M.
Vitale, La questione della lingua, cit., pp. 217-229.
7 L.A. Muratori, Della perfetta poesia italiana […] Con le Annotazioni Critiche
dell’Abate A.M. Salvini, Venezia, appresso Sebastiano Coleti, 1730, 2 tomi, pp.
90-91.
732 MARIA MICHELA DI LIETO [5]
ne che la vivacità e dinamicità della lingua a lui contemporanea abbiano
infine realizzato una stabilità del linguaggio e «conferito il carattere
italiano e comune alla lingua»8. Nella sua riflessione sono
quindi possibili i neologismi e i dialettalismi, a patto però che questi
siano «già adattabili al patrimonio linguistico comune»9.
L’importanza dell’apporto di tutte le classi sociali nello sviluppo
di una lingua venne sottolineata anche da Gian Vincenzo Gravina10.
Il suo Della ragion poetica apparve solo due anni dopo l’intervento di
Muratori, e pose a sua volta l’accento sull’esistenza reale di una lingua
illustre, parlata da tutti gli italiani, pur riconoscendo alla base di
essa la presenza preponderante del toscano. L’importanza del fiorentino
sugli altri dialetti viene però vista dal Gravina non sotto la comune
ottica del primato letterario, ma come il frutto della civiltà
comunale. La partecipazione alla vita civile della Firenze medievale
era estesa a tutta la popolazione e, di conseguenza, la lingua di tutti
gli strati sociali si era mescolata, dando vita a quello che poi sarebbe
divenuto il toscano letterario. Solo grazie a questo processo aveva
potuto raggiungere quello status che per secoli l’aveva posta come
modello. Egli riteneva, inoltre, che l’evoluzione linguistica dovesse
procedere di pari passo con i progressi filosofici e culturali, nel rispetto
delle forme e dei caratteri ormai canonizzati della lingua italiana.
Nella prima metà del secolo si colloca anche la polemica Orsi-
Bouhours11, che ebbe inizio con la pubblicazione in Francia nel 1687
de La manière de bien penser dans les ouvrages de l’esprit, ad opera del
padre Domenico Bouhours. In quest’opera il francese affermava la
superiorità del proprio idioma natio sull’italiano, ritenendo inconciliabili
gli artifizi letterari italiani con la necessità di semplicità e
chiarezza del suo tempo. Secondo la sua riflessione, il francese era
invece libero dalle forzature sintattiche e poteva pertanto essere
considerato una lingua superiore, sia nei versi che nella prosa. Al
suo testo rispose nel 1703 il nobile bolognese Gian Giuseppe Orsi,
con le Considerazioni sopra un famoso Libro Franzese. La necessità di
difendere l’italiano dalle accuse mosse da Bouhours spinse gli intellettuali
della penisola, fra cui si schierò anche il Muratori, a operare
8 M. Vitale, La questione della lingua, cit., p. 231.
9 T. Matarrese, Il Settecento, in Storia della lingua italiana a cura di F. Bruni,
Bologna, Il Mulino, 1993, p. 139.
10 Per il Gravina si rimanda a A. Quondam, Nota critica all’edizione G.V.
Gravina, Scritti critici e teorici, Bari, 1973.
11 Cfr. M. Fubini, Dal Muratori al Baretti, Roma-Bari, Laterza, 1975.
[6] UN CONTRIBUTO ALLA QUESTIONE DELLA LINGUA: L. SERIO 733
una distinzione fra la lingua della prosa e quella della poesia, affermando
a loro volta la superiorità dell’italiano proprio in considerazione
della sua capacità di esprimersi in due diverse forme linguistiche.
La rivalutazione del carattere artistico della lingua poetica
portò comunque alla contemporanea considerazione della lingua prosaica
come la più aderente alla realtà, e di conseguenza a vedere la
necessità di rendere quest’ultima più semplice e vicina alle mutate
esigenze dell’epoca.
Con l’evolvere del secolo, la riflessione linguistica assume connotazioni
sempre più specifiche. Da un lato c’era l’Accademia della
Crusca che, sulla scia di quanto già fatto nei secoli trascorsi, continuava
a difendere il primato della lingua toscana del Trecento, unica
legislatrice della parola, dall’altro, su posizioni nettamente opposte, si
trovavano gli intellettuali illuministi. Le occasioni di contrasto sono
numerose, a partire anche dalla quarta edizione del Vocabolario della
Crusca12, che apparve a Firenze dal 1729 al 1738. Già uno degli stessi
collaboratori, Rossantonio Martini, proponeva criteri meno restrittivi
per la composizione della quinta edizione, mentre da numerose parti
d’Italia si alzavano voci di protesta contro la presenza dei princìpi
tosco-fiorentini e contro l’intolleranza dei forestierismi.
Fra le posizioni illuministe si colloca quella del veneziano Francesco
Algarotti. Il suo desiderio di una lingua rinnovata e viva
emerge fra le pagine dei suoi scritti e poggia sulla necessità di una
capitale o di una corte, che possa dare vita a una letteratura e una
lingua capaci di assecondare le mutate esigenze culturali. Per
Algarotti la ragione della decadenza della letteratura italiana è da
ricercarsi, oltre che dalla degenerazione delle Accademie letterarie
italiane, nell’assenza di un centro culturale e politico capace di «istruire
una nazione»13:
La vera Accademia è una capitale, dove i comodi della vita, i piaceri,
la fortuna vi chiamino da ogni provincia il fiore di una gran
nazione […]. Le poche viti spicciolate qua e là non si aiutano l’una
l’altra; dove le molte viti insieme ricevono e attraggono l’una dall’altra
qualità e sostanza di vino14.
12 Per un approfondimento delle critiche rivolte alla Crusca si veda M. Vitale,
La questione della lingua, cit., pp. 252-257.
13 F. Algarotti, Lettera al Signor Barone N. N. a Hertzogenbruck, in Illuministi
Italiani, tomo II, Opere di Francesco Algarotti e Saverio Bettinelli, a cura di E.
Bonora, Milano-Napoli, Ricciardi, 1969, p. 557.
14 F. Algarotti, Lettera al Signore di Voltaire a Parigi, in Illuministi Italiani,
tomo II, Opere di Francesco Algarotti e Saverio Bettinelli, cit., p. 549.
734 MARIA MICHELA DI LIETO [7]
Il termine di paragone è nelle grandi capitali d’Inghilterra e Francia.
Londra e Parigi, con le loro caratteristiche accentratrici e di
diffusione del sapere, hanno saputo produrre nelle rispettive nazioni
una lingua e una cultura moderne. Anche in Italia la presenza di
una capitale, e quindi di un’unità politica, potrebbe realizzare quell’idioma
ideale da lui ricercato, che sappia armonizzare la tradizione
con le necessità dell’epoca. La sua riflessione resta pertanto ben
lontana da un pedissequo francesismo, che è anzi per lui un danno
che fa mal conoscere la lingua italiana agli stessi parlanti. Il suo
obiettivo è la realizzazione di un equilibrio, di «una lingua pura
“tra lo stil de’ moderni e ’l sermon prisco” che non istonasse né alle
orecchie dei gentiluomini, né a quelle degli scienziati»15. Al 1750
risale inoltre il suo Saggio sopra la necessità di scrivere nella propria
lingua16, in cui egli difende l’uso dell’italiano piuttosto che del latino
e, dopo un escursus sulle lingue antiche, affermava che sono:
[…] mal consigliati coloro che si mettono a scrivere in altra lingua
fuorché nella lor propria e nativa. Diversi sono appresso nazioni
diverse i pensamenti, i concetti, le fantasia; diversi i modi di apprendere
le cose, di ordinarle, di esprimerle. Onde […] la forma di ciascun
linguaggio riesce specificamente diversa da tutti gli altri, […]
risultato della natura del clima, della qualità degli studi, della religione
del governo, dell’estensione dei traffici, della grandezza dell’imperio
[…]17
Algarotti riconosce alle lingue una propria specificità che difficilmente
può essere compresa da chi vive in un luogo diverso da
quello in cui la lingua stessa è parlata. Ancor di più egli riconosce
la distanza di ideologia, modi e costumi che separa il suo secolo dal
mondo greco e latino, oltre all’impossibilità oggettiva di conoscere
a fondo il loro linguaggio: «Dov’è colui che possa sedere a scranna
e farsi a decidere della Crusca Latina?». Le lingue morte sono ancora
più difficili da utilizzare, perché non sono «nelle bocche degli
uomini» e, conclude l’Algarotti, lo stesso Dante non avrebbe saputo
scrivere in uno «stile […] che si trasforma nelle cose medesime», se
15 F. Algarotti, Lettera al Signor Marchese D. Azzolino Malaspina […], in
Illuministi Italiani, tomo II, Opere di Francesco Algarotti e Saverio Bettinelli, cit., p.
570, con all’interno la citazione tratta dal Canzoniere del Petrarca, XL, 6.
16 F. Algarotti, Saggio sopra la necessità di scrivere nella propria lingua, in
Illuministi Italiani, tomo II, Opere di Francesco Algarotti e Saverio Bettinelli, cit., pp.
511-524.
17 Ivi, p. 5.
[8] UN CONTRIBUTO ALLA QUESTIONE DELLA LINGUA: L. SERIO 735
avesse deciso di imitare una lingua incapace di trasformare in parole
le immagini nate nella sua fantasia.
Un’altra posizione che vale la pena di ricordare è quella di Giuseppe
Baretti18 che esprime sia dalle pagine della Frusta Letteraria
che nelle Lettere familiari, la necessità di rinnovamento e svecchiamento,
adeguati agli ampliati bisogni sociali e culturali. Anch’egli
insiste sull’importanza di un centro politico capace di favorire questo
sviluppo, salvaguardando nel contempo i tratti caratteristici della
lingua italiana.
Su una posizione diametralmente opposta rispetto alla Crusca si
pongono gli intellettuali illuministi appartenenti all’Accademia dei
Pugni, i cui propositi sono ben sintetizzati nel Caffè. Da un lato c’è
una concezione della lingua e della scrittura elitaria, figlia di un
modello imprescindibile, legata strettamente a una circolazione tra
dotti, dall’altra invece si afferma l’idea della comunicazione aperta
a chiunque sappia leggere, che si adatti al pensiero al punto da farsi
intendere quasi universalmente. Non a caso i due prodotti letterari
più significativi sono da un lato un vocabolario, e dall’altro un
periodico aperto alle innovazioni e anzi pronto a introdurre nell’italiano
le espressione provenienti da qualsiasi nazione purché forniscano
«un’idea nostra meglio che con la lingua italiana»19.
Il rapporto fra le “cose”, intese come i concetti sottesi alle espressioni
verbali, e le “parole” è in realtà il vero fulcro della polemica
letteraria che animò la seconda metà del secolo XVIII, come appare
evidente dal pensiero espresso da Alessandro Verri fra le pagine del
Caffé. Non solo nella Rinunzia avanti notaio degli autori del presente
foglio periodico al Vocabolario della Crusca, ma anche in Dei difetti della
letteratura, e di alcune loro cagioni, il più giovane dei fratelli Verri
manifesta le sue idee anticruscanti, ponendo a confronto la lingua
italiana con la francese o l’inglese:
Si curano gli autori di queste due rispettabili nazioni di seguire nella
composizione le traccie de’ lor pensieri […] non sagrificano i concetti
alle voci, il genio al metodo, la robustezza dello stile alla languida
sua purità20
18 Per il Baretti si rimanda a M. Fubini, Dal Muratori al Baretti, cit., pp. 269-
333.
19 A. Verri, Rinunzia avanti notaio degli autori del presente foglio periodico al
Vocabolario della Crusca, in Il “Caffè” 1764-1766, a cura di G. Francioni e S.
Romagnoli, Torino, Bollati Boringhieri 1993, p. 475.
20 Ivi, p. 539.
736 MARIA MICHELA DI LIETO [9]
mentre gli autori italiani si lasciano vincolare dal linguaggio, dalla
scelta dei vocaboli e dalla cura della sintassi, tralasciando nell’intento
di scrivere bene la capacità comunicativa, al punto da voler «piuttosto
che il lettore conosca saper noi la grammatica, che la logica».
Verri cerca di spiegare come sia secondario il labor limae all’urgenza
dell’emozione che si comunica, arrivando addirittura a suggerire
una scrittura che in prima battuta ponga su carta solo le idee, senza
alcun riguardo per la forma grammaticale e sintattica, per impedire
che queste «ispezioni» possano vincolare la libertà e la spontaneità
dell’ingegno. Le sue posizioni estreme, che pure egli stesso non
seguì ed anzi rinnegò nelle opere successive21, furono solo in parte
condivise dagli altri esponenti di punta del giornale. Pietro Verri
era contrario ad un’eccessiva libertà linguistica, ma insisteva a sua
volta nel considerare le parole un «puro e meccanico strumento del
pensiero»22, mentre Cesare Beccaria si opponeva all’immobilismo
linguistico e alle troppo strette maglie della normativa propugnata
dagli ambienti vicini all’Accademia della Crusca.
Più moderata è invece la riflessione di Saverio Bettinelli. Egli nel
suo Saggio sull’Eloquenza, ed in particolare nel Capo Secondo23, afferma
che «il sublime sta nelle cose e nei movimenti dell’anima», ma
riconosce al contempo l’importanza dell’eloquenza, intesa come la
capacità di dire le cose in forma più espressiva, principalmente
attraverso le figure retoriche. Questa necessità è per lui legata strettamente
alla natura umana, perché: «il comune degli uomini più si
trattiene ed occupa nella veste che nella sostanza in ogni cosa, perché
è più materiale che spirituale in ogni azione». Il fine di ciò che
si scrive è quello di offrire diletto a colui che legge, e pertanto è
indispensabile che ognuna delle arti, cioè dei campi dello scibile
umano, si avvantaggi dell’eloquenza, come dovrebbe fare in particolare
la filosofia. Bettinelli si preoccupa di dare un chiaro significato
a questa parola, tanto abusata nel suo secolo:
Oggi tutto è filosofia, tutti sono filosofi e se gli effetti alle intenzioni
rispondono e ai nomi, il nostro secolo certamente è il più stimabile
di quanti fossero mai. Stabilir però devonsi in prima le vere nozioni
e le idee precise della filosofia ne’ suoi due primari e intrinseci
21 Si veda, ad esempio, Le avventure di Saffo, poetessa di Mitilene, del 1782.
22 Cfr. M. Vitale, La questione della lingua, cit., p. 260.
23 S. Bettinelli, Saggio sull’Eloquenza, Capo Secondo, Dell’Eloquenza in particolare,
in Illuministi Italiani, tomo II, Opere di Francesco Algarotti e Saverio Bettinelli,
cit., pp. 991-1004.
[10] UN CONTRIBUTO ALLA QUESTIONE DELLA LINGUA: L. SERIO 737
uffizi, che sono il primo di pensar giustamente, il secondo di rettamente
operare, e così divenir non filosofo dotto soltanto, ma morale
eziandio, come il furono, o voller parerlo que’ famosi maestri tra
Greci, da’ quali a noi vennero il nome insieme e la professione di
filosofo. Il che riguarda due facoltà umane da cotale filosofia dipendenti,
cioè l’ingegno e l’animo, tal che non merita nome di filosofo
chi l’uno disgiunga dall’altro, chi non accoppii il sapere colla virtù,
chi non combatta ad un tempo l’errore e il vizio24.
Il Saggio sopra la lingua italiana di Melchiorre Cesarotti, del 178525
aggiunge un altro punto di vista, quello di uno scrittore che fu
soprattutto traduttore dei carmi di Ossian. Egli aveva potuto sperimentare
in prima persona l’incongruenza fra la lingua letteraria
italiana, così come era propugnata dai cruscanti, e le nuove suggestioni
che provenivano dalla cultura inglese. Di fronte a questa difficoltà,
scelse una soluzione mediatrice fra le tendenze tradizionalistiche
e quelle innovatrici, introducendo sul sostrato linguistico tradizionale
le innovazioni della poesia sepolcrale. La volontà di teorizzare
la sua opera di traduzione è probabilmente alla base dei
suoi scritti linguistici che culminarono nel Saggio sopra citato che
fu, secondo il Vitale, «il momento più singolare e cospicuo»26 della
riflessione linguistica del XVIII secolo e si pone come un «punto
d’incontro tra riflessione teorica e linguistica normativa»27. Cesarotti
mira innanzitutto a smantellare «il principo della purità e della
perfezione linguistica»28, affermando decisamente che nessuna lingua
è superiore alle altre, pura, perfetta o inalterabile. Il suo saggio
si pone così come una disamina più ampia delle caratteristiche linguistiche
universali, ponendo l’accento sulla vita delle lingue. Riconoscendo
a ogni lingua la possibilità e la necessità evolutiva, e a
ogni parlante la facoltà della libera creazione individuale, anche
attraverso l’uso di innovazioni, il letterato padovano si propone di
«toglier la lingua al despotismo dell’autorità, e ai capricci della moda
24 Ivi, p. 995.
25 M. Cesarotti, Saggio sulla filosofia delle lingue, in Illuministi italiani, tomo
IV, Dal Muratori al Cesarotti, a cura di E. Bigi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1969,
pp. 304-456. Si tratta della ristampa del saggio che fece Cesarotti nel 1800,
ampliandolo e modificandone il titolo, ma il Serio poté ovviamente conoscere
solo l’edizione del 1785.
26 M. Vitale, La questione della lingua, cit., p. 272.
27 L. Serianni, La lingua italiana dal cosmopolitismo alla coscienza nazionale in
Storia della letteratura italiana vol. VI, parte 1, Roma, Salerno Editrice 1998, p. 209.
28 T. Matarrese, Il Settecento, cit., p. 144.
738 MARIA MICHELA DI LIETO [11]
e dell’uso, per metterla sotto il governo legittimo della ragione e del
gusto»29. Oltre al gusto, quindi, Cesarotti pone l’accento sulla necessità
dell’azione della ragione, come fonte di equilibrio della libertà
individuale, ritenendo questi due principi indispensabili per operare
quel rinnovamento necessario della lingua italiana. Essa ha diritto
sia a essere difesa nelle sue strutture basilari sia a essere innovata
attraverso le scelte degli scrittori; solo così potrà diffondere la cultura
nei vari strati della società, purché conservi le caratteristiche
chiave di «aver per base l’uso, per consigliere l’esempio e per direttrice
la ragione»30.
Il Serio conosceva sicuramente le teorie dei suoi contemporanei e
aveva ben chiara l’importanza che la tematica linguistica rivestiva in
quegli anni. Nella sua triplice veste di professore di Eloquenza e
poesia italiana, di poeta e di avvocato, non poteva non porre al centro
della sua riflessione il problema della lingua, e soprattutto del
ruolo che l’eloquenza rivestiva. Egli, più vicino alle posizioni del
Bettinelli e ben lontano dalle teorie del Caffè, vedeva nell’eccessiva
diffusione dei termini francesi e francesizzanti un attentato all’eloquenza
e coglieva il danno che, come un veleno, poteva espandersi
da chi mescolava insieme e senza criterio le due lingue, per un vezzo
o per una supposta inferiorità dell’italiano al francese. La sua lettera
a Maddalena Vestini, infatti, si chiude paventando i danni che potrebbero
derivare dall’atteggiamento di questi autori francesizzanti e
testimoniando quest’impegno di difesa e di diffusione del patrimonio
linguistico italiano, che egli ha già affrontato e che vuole rinnovare:
Ho tentato e dalla Cattedra e con versi e con un poemetto di screditare
e di porre in ridicolo codesti insetti importuni dell’italo-gallica
letteratura, e spero che tra non lungo spazio di tempo sarà per
vedersene buon effetto, ma ho stimato esser cosa molto opportuna il
fare una guerra più da vicino, producendo qualche cosa filosofica e
galante da leggersi anche dalle belle e spiritose Damine: quae legat
ipsa Lycoris. Scriverò dunque alcune lettere e le indirizzo a voi, perché
se guadagnerò il vostro voto darò forse per via di fatto a vedere
che in Italia per trattar belle questioni e di amorosa filosofia ci abbiam
pur una lingua che non ha bisogno né de’ vezzi, né de’ tesori della
lingua francese.
29 M. Cesarotti, Lettera a Napione, in Illuministi italiani, tomo IV, Dal Muratori
al Cesarotti, cit., p. 463.
30 M. Cesarotti, Saggio sulla filosofia delle lingue, in Illuministi italiani, tomo
IV, Dal Muratori al Cesarotti, cit., p. 318.
[12] UN CONTRIBUTO ALLA QUESTIONE DELLA LINGUA: L. SERIO 739
Il poemetto di cui parla il Serio è L’Infermità dell’Eloquenza31, opera
tutt’ora inedita, conservata alla Biblioteca Nazionale di Napoli. Ma,
prima di passare alla sua trattazione, converrà tracciare brevemente
il quadro del contesto culturale napoletano che portò alla sua redazione.
2. La situazione culturale napoletana
Nel 1779 Ferdinando Galiani pubblica un’opera destinata a fare
scalpore: Del dialetto napoletano. La polemica che ne scaturì è stata
ampiamente e dettagliatamente trattata da numerosi critici32. In
questo trattato il Galiani33 esprime il suo desiderio che il dialetto
napoletano possa assurgere al ruolo di lingua nazionale:
[…] andiam dicendo tra noi: – Chi sa che un giorno il nostro dialetto
non abbia ad innalzarsi alla più inaspettata fortuna: difendersi in
esso le cause, promulgarvisi le leggi, scriversi gli annali […]34
Il suo obiettivo principale è quello di «indicare la via per completare
sul piano linguistico il rinnovamento politico e culturale che
la restaurazione del regno ha avviato»35. Nella sua prospettiva, l’unico
modo che ha il napoletano per divenire una lingua degna di una
corte è quello di epurarsi, avvicinandosi quanto più è possibile alle
forme italiane, realizzando quindi una «controllata italianizzazione»36.
Pertanto la sua accusa si rivolge contro il napoletano parlato, che ha
31 Il titolo dell’opera non è riportato dal Serio, ma si è scelto di indicarla con
il nome che ne dà nella sua descrizione del manoscritto il suo allievo Salvatore
Fusco.
32 Cfr. F. Nicolini, Introduzione a F. Galiani, Del dialetto napoletano, Napoli,
Ricciardi, 1923; E. Malato (a cura di), F. Galiani, Del dialetto napoletano. In
appendice F. Oliva, Grammatica della lingua napoletana, Roma, Bulzoni, 1970; D.
Scarfoglio, G.A. Arena e S. Ferraro in Luigi Serio, Risposta al Dialetto napoletano
dell’Abate Galiani, Napoli, Colonnese, 1982; N. De Blasi, Notizie sulla variazione
diastratica a Napoli, in «Bollettino Linguistico Campano» 2002 – 1, e R.
Giglio, Un letterato per la rivoluzione. Luigi Serio (1744-1799), Napoli, Loffredo,
1999, pp. 182-199.
33 Per una più approfondita analisi della posizione del Galiani si rimanda a
Malato, Del dialetto napoletano, cit., e De Blasi, Notizie sulla variazione diastratica
a Napoli, cit.
34 E. Malato, Del dialetto napoletano, cit., p. 9.
35 Ivi, p. IX.
36 De Blasi, Notizie sulla variazione diastratica a Napoli, cit., p. 102.
740 MARIA MICHELA DI LIETO [13]
allontanato maggiormente la lingua dal suo ruolo ufficiale e l’ha
destinata «alla lepidezza e talvolta alla scurrile oscenità; e tanto si
sono incarnate le idee colle voci, che pare ormai che parlar napoletano
e buffoneggiare sia una stessa cosa»37, e di conseguenza contro
quegli autori che ne avevano consacrato le forme nei loro scritti.
Nella sua ricostruzione storica del dialetto, volta a riconoscere nel
passato le motivazioni della sua decadenza e le possibilità del suo
futuro sviluppo, Galiani individua come momento di maggior splendore
linguistico l’età aragonese e come inizio della decadenza il
periodo vicereale. Egli considera infatti, erroneamente, i faticosi tentativi
di avvicinarsi alla norma toscana come un naturale sviluppo
della lingua napoletana, e addita come suoi traditori autori come
Cortese e Basile, colpevoli di averla relegata in un ambito strettamente
regionale.
La riflessione linguistica non era però l’unico obiettivo del Galiani.
Nicolini per primo notò come quest’opera avesse lo scopo di
ridicolizzare i soci della Reale Accademia di Scienze e Belle Lettere.
In tempi recenti, Giglio ha evidenziato come la polemica abbia coinvolto
maggiormente Luigi Serio38, che proprio in quell’anno era
entrato a far parte dell’Accademia ed era anche professore di Eloquenza
e poesia italiana. Questi, come evidenziato dal De Blasi, si
pone nel solco della tradizione linguistica risalente al Cortese e al
Basile, in netta opposizione quindi rispetto alla prospettiva di un
napoletano illustre vagheggiata dal Galiani. Per il Serio la lingua
napoletana è quella prodotta dal popolo, e non la sua forma
italianizzata tipica dei parlanti dei ceti sociali più agiati. Serio rispose
quasi subito al libro galianeo, nel 1780, nonostante alcuni giudizi
sfavorevoli39, con un opuscolo anonimo intitolato Lo Vernacchio e
interamente composto in lingua napoletana, in cui attacca, con toni
fortemente polemici, l’opera del Galiani, analizzandola punto per
punto. Di questo pamphlet ci interessa particolarmente la riflessione
su Cortese e Basile40: il Serio afferma che le loro opere erano una
risposta alla moda del tempo di parlare toscano e di tirar fuori
37 E. Malato, Del dialetto napoletano, cit., p. 9.
38 Per le notizie biografiche e bibliografiche sull’autore si rimanda a R. Giglio,
Un letterato per la rivoluzione, cit., limitandoci qui a segnalare le opere e gli
eventi importanti per la comprensione de L’Infermità dell’Eloquenza.
39 Egli stesso ce ne dà notizia nelle Osservazioni critiche sul dialetto a cura di
S. Ferraro, Un inedito di Luigi Serio sul Dialetto di Galiani, in L. Serio, Risposta
al Dialetto napoletano dell’Abate Galiani, cit., pp. 96-100.
40 Ci riferiamo alle pp. 73-74 dell’op. cit.
[14] UN CONTRIBUTO ALLA QUESTIONE DELLA LINGUA: L. SERIO 741
“conciette nuove” per stupire la gente. E, aggiunge, sarebbe veramente
un bene anche per il XVIII secolo se rinascessero di nuovo
per poter fare un’ulteriore ramanzina alle
anime sensibili, all’umanità pensatrice, all’archivio dell’umana ragione, allo
scolo de’ secoli, all’atmosfera dell’idee, alli sviluppi, a’ rapporti, alle ragioni
inverse e composte, alle molle, alle vibrazioni, a’ centri, alla giurisdizione
de’ sensi, e alle immagini piene di cuore!41.
Parole che sono facilmente rintracciabili anche all’interno de L’Infermità
dell’Eloquenza e che mostrano come quest’opera si configuri
quale punto di raccolta di pensieri che già da anni maturavano
nell’animo del poeta, e ultimo atto di questa polemica, che amplia
e precisa le riflessioni presenti nelle opere precedenti.
Galiani rispose a sua volta a queste osservazioni del Serio e la
polemica proseguì, ampliandosi nei contenuti. Nel suo Dialetto napoletano,
Galiani aveva sottolineato la necessità di distinguere le “cose”,
proprie di filosofi e pensatori, dalle “parole”, caratteristiche dei
pedanti. Serio rispose anche a questa distinzione in tempi diversi:
dapprima con le Osservazioni critiche sul dialetto42 e più tardi con
altre opere, tra cui, nel 1782, un’operetta dal titolo inequivocabile:
Cose e non parole. Poesie per le anime sensibili43.
Nelle Osservazioni Galiani viene definito “Genio”44 e il Serio spiega
anche il motivo per cui è stato spinto a scrivere contro il Galiani:
poiché il mettere un poco la museruola a chi morde e lacera la fama
altrui, e volge in derisione presso gli stranieri la gloria della nostra
Patria non sarà mai un delitto45
Più avanti, aggiunge la seguente osservazione:
41 Ibidem.
42 Pubblicate da S. Ferraro in Un inedito di Luigi Serio sul Dialetto di Galiani,
cit., e da R. Giglio in Un letterato per la rivoluzione, cit.
43 Sofiopoli (Napoli), 1782.
44 L’uso di questa parola da parte dell’autore viene dettagliatamente spiegato
da Momo, protagonista del poemetto, nel Canto III de L’Infermità dell’Eloquenza:
“il genio è un letterato che fastoso / per la via del saper mai sempre passa,
/ ma tra gli amici dolce e manieroso / ogni erudizion rompe e sconquassa, /
e sol col meditar divien famoso. / Non ha pe’ dotti libri alcuna cura / e si
diverte ognor colla natura”.
Galiani è presente all’interno dell’opera anche con il nome di Poliperconte,
generale macedone vissuto nel IV sec. a. C., che fece uccidere il re che egli
stesso aveva sostenuto pur di potersi accordare con il suo nemico.
45 Cfr. S. Ferraro, Un inedito di Luigi Serio sul Dialetto di Galiani, cit., p. 98.
742 MARIA MICHELA DI LIETO [15]
Le parole vaglion meno delle cose, ma ciò si dee intender nel caso,
in cui se n’esamina separatamente il valore; poiché ove si tratti di
comporre un libro non si può il loro merito disunire giammai. La
proprietà delle voci è essenzialmente necessaria al filosofo, ed ogni
savio scrittore tien per legge inviolabile che le cose (cioè le idee)
esponesse con chiarezza, e senza viltà di frasi, con armonia, e senza
affettazione giungon più presto e con maggior efficacia nell’animo
altrui, e se si pon mente poi alle leggi grammaticali, e al genio ed
all’indole della lingua, chi ignaro se ne mostra anche nel trattare le
cose più gravi e sublimi, si fa degno di sommo vituperio46.
Oltre che nella già citata Cose e non parole. Poesie per l’anime sensibili,
la riflessione nata dalla polemica continua anche ne La mmesca
pe la Cortellina. Menesta poeteca de Ciullo, o sia Giulio Sire47.
La data di composizione di quest’ultima opera è incerta: Altamura
propone il 1786 per il riferimento che vi si fa ad una imminente
partenza della Coltellini. Ci limitiamo a segnalare i numerosi punti
di contatto con il poemetto, maggiormente con il Canto III e il
Canto VI, e a ritenere quindi verosimile una composizione nel cuore
degli anni ’80.
Entrambe le opere si propongono di porre in ridicolo la moda
francesizzante e toscanizzante del secolo (non a caso La mmesca è
per la maggior parte composta in dialetto napoletano) e l’abitudine
a comporre poesie che siano ricche di immagini delicate, capaci di
suscitare sensazione e di fare «un maraviglioso e seducente spettacolo
»48.
I presupposti ci sono tutti: il problema della poesia del tempo,
che degenera sempre più a causa del cattivo insegnamento; l’importanza
di difendere la poesia italiana dai vari attacchi ad essa rivolti
da autori italiani e stranieri49; la necessità di ridare dignità alla cultura
napoletana sempre più svilita dalle infiltrazioni straniere. Ce
n’era abbastanza per dichiarare lo stato di infermità dell’eloquenza
e per cercare un modo di restituirle l’antica salute.
46 Cfr. R. Giglio, Un letterato per la rivoluzione, cit., p. 196.
47 Pubblicata da A. Altamura in Luigi Serio e Celeste Coltellini in Id., Curiosità
letterarie napoletane, III serie, Napoli, Libreria Scientifica Editrice, 1972. Nella
Biblioteca Nazionale di Napoli ne esiste una copia manoscritta (Fondo S. Martino)
e un esemplare a stampa.
48 Cose e non Parole. Prolusione. p. A3.
49 Cfr. ad esempio di L. Serio, La Sherlock-Scarpelleide, ossia prodromo del Parnaso
italiano accusato e difeso, in Parnaso, s.t., 1779. Anche Scarpelli è presente come
personaggio del poemetto e, precisamente, nel Canto II, anche se con un ruolo
secondario.
[16] UN CONTRIBUTO ALLA QUESTIONE DELLA LINGUA: L. SERIO 743
3. L’Infermità dell’Eloquenza
Canto l’infermità dell’Eloquenza
e l’affanno de’ sudditi fedeli,
che, del Tonante all’immortal presenza,
chieser rimedio ai morbi aspri e crudeli.
Fin dalla protasi del poemetto, sono evidenti due degli aspetti
chiave dell’intero componimento: la decadenza dell’arte oratoria e
l’impegno che i suoi seguaci devono affrontare per restituirle l’antico
onore. L’amore per la letteratura classica e italiana e il desiderio
di difenderla dalla massiccia penetrazione delle idee illuministe e
delle letterature straniere; l’impegno sociale che il letterato deve
accettare per dare finalmente alla cultura napoletana uno status che
la ponga al pari delle altre nazioni: sono questi i due punti di partenza
dell’opera, scritta nell’arco di circa dieci anni, dagli anni ottanta
fino agli anni novanta del Settecento.
L’Infermità dell’Eloquenza è conservata nella Biblioteca Nazionale
di Napoli “Vittorio Emanuele III”, tra le carte Fusco, più precisamente
nella B. XLVI, di cui occupa le cc. 84r-180v. L’opera ebbe
almeno due redazioni, entrambe attestate nel manoscritto: i primi
due canti e parte del terzo risultano ricopiati in pulito, da c. 118r a
c. 136v, mentre gli altri canti sono sottoposti a numerose cancellature,
modifiche e correzioni che ne hanno resa difficile l’interpretazione.
L’opera, incompiuta, fu iniziata dopo il 1782, come ci segnalano
vari elementi, sia interni che esterni. Le cc. 85-87 e 89 sono il verso
di quattro documenti, di cui i primi tre sono delle lettere, e il quarto
un conto. La data più recente in esse riportata è il 22 marzo 1782.
Inoltre nel Canto IV si afferma che Metastasio è già morto, cosa che
accadde il 12 aprile 1782. Questo ci autorizza a pensare che l’opera
sia stata iniziata tra il 1782 e il 1785. Non più tardi per due motivi:
la nota all’inizio del Canto VII che riporta la seguente frase: «Scritto
in due giorni, 16 e 17 maggio 1785» e la vicinanza tematica e stilistica
con Cose e non parole. Poesie per le anime sensibili, del 1782.
Fu interrotta non prima del 1794, come ci testimonia l’ultimo
riferimento temporale presente. Esso si trova nel canto decimo, più
precisamente nel distico finale della seconda ottava:
un morto e un vivo che son bravotti
l’ombra di Beccaria e il Cerasotti50.
50 Risulta evidente in questa ottava la scelta del Serio di anagrammare, e
quindi in un certo modo ridicolizzare, solo i nomi dei personaggi viventi al744
MARIA MICHELA DI LIETO [17]
Cesare Beccaria morì il 28 novembre del 1794, Melchiorre Cesarotti,
che qui viene semplicemente anagrammato in “Cerasotti”
nel 1808, nove anni dopo la morte del nostro poeta, avvenuta il 13
giugno del 1799.
L’argomento del poemetto è il seguente: la decadenza dell’arte
oratoria ha tolto alla dea Eloquenza il suo ruolo di guida della società.
Pur di riottenerlo, ella non esita ad adeguare il suo comportamento
alla moda del tempo, circondandosi di coloro che prima le
erano nemici. Costoro la conducono in un giardino dove le offrono
dei frutti51 che, dicono, sono dotati di particolari virtù. I frutti sono
in realtà velenosi e l’Eloquenza si ammala gravemente. I suoi antichi
seguaci riescono a condurla al sicuro, a Itaca, ma non possono
impedire alla Ciarlataneria, sua rivale, di usurparle il trono. Decidono
quindi di inviare un messaggero ad Apollo perché lo convinca a
prestare soccorso alla loro dea. Luciano di Samosata si offre volontario
e vola all’Olimpo, dove incontra Ganimede, il quale afferma
che per ridare importanza all’Eloquenza bisogna convincerla a «dir
cose e non parole». Luciano raggiunge Apollo e con lui e con Momo,
unitosi a loro, lascia l’Olimpo per portare soccorso alla dea.
Il loro viaggio li conduce nella zona di Tespie, in Beozia, dove
incontrano un gruppo di poeti capeggiati da un uomo di nome
Nivildo, che cela chiaramente la figura di Gioacchino Pizzi, allora
custode dell’Arcadia con il nome di Nivildo Amarinzio. Momo lo
assale e Apollo cerca di fermarlo, ma uno dei poeti interviene, rivelando
loro come Nivildo sia indegno del ruolo che ricopre. Arrivano
poi al lido di Maratona, dove si fermano in una locanda. Essendo
privi di denaro, Momo decide di allestire una beffa ai danni
dell’oste.
L’indomani ripartono per Itaca e incontrano un giovane viaggiatore
francese di nome Carino. Egli discute con Momo, affermando
la superiorità del secolo presente sulla gloria degli antichi. Mentre
parlano giungono alla dogana, dove Carino si rifiuta di pagare il
dazio. Viene perciò arrestato e condotto dal giudice, che lo condanl’epoca
della redazione del poemetto. Il nome di Cesare Beccaria, morto prima
della scrittura di quest’ottava, si ritrova dapprima anagrammato in Berracca,
ma viene poi corretto trascrivendo di nuovo integralmente il suo cognome,
segno di una mutata volontà dell’autore.
51 È evidente, oltre alla citazione biblica, il riferimento al brano dell’Algarotti:
«[…] si mostri a’ nostri uomini un nuovo genere di poesia, che sotto i fiori delle
parole asconda i frutti delle cose», cfr. F. Algarotti, Lettera al Signor di Voltaire,
in Illuministi italiani, cit., p. 550.
[18] UN CONTRIBUTO ALLA QUESTIONE DELLA LINGUA: L. SERIO 745
na ad essere frustato. Intanto, sull’Olimpo, Ganimede è preoccupato
e decide di andare da Venere per convincerla a unirsi allo schieramento
della Filosofia, che ormai è diventata nemica dell’Eloquenza.
La dea accetta e chiama Marte; i tre lasciano insieme l’Olimpo, giungendo
in Grecia. Lì incontrano Carino, ancora dolorante per la punizione
subita, e decidono di dividersi i compiti: Carino, Marte e
Ganimede andranno dalla Filosofia per avvertirla del pericolo e
chiedere il suo aiuto e Venere andrà a cercare altri soldati.
Apollo, Momo e Luciano, intanto, sono giunti nel Pireo per imbarcarsi.
Dopo un alterco tra Momo e il nocchiere raggiungono Itaca,
dove Apollo visita l’Eloquenza. Momo propone di sconfiggere i suoi
nemici per restituirle l’antico onore e per fare ciò si reca nei Campi
Elisi per radunare combattenti a lei fedeli. Lì incontra i grandi del
passato, poeti, scrittori e oratori e li convince a seguirlo ad Itaca.
Marte, Carino e Ganimede giungono a loro volta nel regno di Filosofia
e le rivelano cosa sta succedendo. Ella chiama allora i suoi
soldati, che arrivano suddivisi in diversi drappelli dotati ognuno delle
proprie insegne, e li pone agli ordini di Poliperconte, rappresentazione
parodica di Ferdinando Galiani. Venere invece invita i “Geni”
francesi a raggiungerla per prestare il loro aiuto contro l’Eloquenza.
Luciano decide di cercare rinforzi a Napoli, ma la ritrova molto
cambiata rispetto ai suoi ricordi: l’ignoranza e la calunnia sono ormai
le padrone della capitale e sembra impossibile ritrovare seguaci;
egli riesce infine a scoprirne quattro in una taverna e chiede loro
informazioni sulla situazione napoletana. Filadelfo, uno dei quattro,
gli racconta dei mali della città con una lunga digressione sul problema
scolastico, ma gli rivela anche che lì ci sono altri intellettuali
che possono aiutarlo e insieme li convincono a raggiungere Itaca.
Prima di partire, Luciano li rassicura: se riusciranno a sconfiggere la
Filosofia, farà sì che Napoli torni agli antichi splendori e che il loro
re allontani dalla città tutti coloro che contribuiscono alla sua decadenza.
Anche Apollo parte e raggiunge il Parnaso, ma a sua volta incontra
non poche difficoltà. Infine riesce a ritrovare gli «spiriti eletti
» in una locanda e, rivelatosi a loro, li invita a seguirlo per combattere.
Durante il viaggio si ricongiungono fortunosamente con
Momo e Luciano. Insieme decidono di sferrare un primo assalto alla
«Città Calcolatrice» e la sconfiggono, facendo molti prigionieri che
Luciano propone di vendere. Dopo essersene liberati, s’imbarcano
di nuovo per tornare a Itaca.
Venere, Marte, Ganimede e Carino giungono intanto con il loro
746 MARIA MICHELA DI LIETO [19]
esercito nella città depredata e decidono di vendicare l’affronto.
Costruiscono delle mongolfiere e con esse volano verso Itaca. Sull’isola
si tiene un consiglio di guerra nel quale Momo viene scelto
come generale. Questi va allora nelle fucine per controllare quali
armi abbiano a disposizione, ma non ne ritrova nessuna e scopre
inoltre che tutti i boschi dell’isola sono andati distrutti. L’unico modo
per forgiare le armi è bruciare la raccolta di libri della dea. A questo
punto, per scoprire cosa si prepara nel campo nemico, Apollo e
Luciano cambiano aspetto e si dirigono verso le tende della Filosofia,
dove conquistano la fiducia di Poliperconte, che rivela loro i
propri piani di guerra. Mentre parlano, giunge Corisca, che adombra
la poetessa Maria Maddalena Morelli, più nota con il suo nome
arcadico: Corilla Olimpica, la quale viene scelta come ambasciatrice
presso l’Eloquenza. Apollo e Luciano si offrono di accompagnarla.
Giunta davanti all’Eloquenza, Corisca le consiglia di arrendersi,
ma Momo le risponde che loro preferiscono combattere. Le reca poi
in dono un rimario e un paio di occhiali. Corisca, offesa, chiede
aiuto ad Apollo e Luciano, ma scopre che l’hanno ingannata. Indignata,
torna al campo e, dopo aver chiesto al cavalier Gliupaca, in
realtà il suo amante Luigi Castiglione di Gonzaga, di vendicarla,
racconta a Poliperconte cosa le è accaduto. Al calar della notte, Venere
s’incontra con Marte e Ganimede e suggerisce loro di chiedere
aiuto all’Impostura. Carino si offre come ambasciatore e riesce ad
ottenere il suo esercito, comandato da Verasio Temati, dietro cui si
cela l’intellettuale napoletano Saverio Mattei.
Momo chiede a Luciano e Apollo cosa hanno scoperto nel campo
nemico e Apollo gli risponde elencando tutti i guerrieri che si
trovano nello schieramento avverso. Momo passa poi in rassegna le
proprie truppe.
A questo punto il poema s’interrompe.
Nell’opera si incontrano per la maggior parte persone realmente
esistite, spesso contemporanee del Serio, i cui ritratti offrono la chiave
per la comprensione dell’intento letterario e politico dell’opera.
L’autore ironizza su persone famose e apprezzate nel suo secolo e,
allo stesso tempo, mette in luce personalità di cui oggi si ricorda
ben poco. La linea di demarcazione tra i seguaci dell’Eloquenza e
quelli della Filosofia o dell’Impostura corre non solo nelle capacità
letterarie dei personaggi, ma soprattutto nel loro atteggiamento nei
riguardi della cultura classica, dell’arte italiana e delle nuove idee
illuministe. Serio riconosce le capacità di alcuni letterati schierati
nell’esercito “nemico”, prima di tutto quelle di Cesare Beccaria e
[20] UN CONTRIBUTO ALLA QUESTIONE DELLA LINGUA: L. SERIO 747
Melchiorre Cesarotti, ma non esita a rivolgere loro le accuse di cui
si fa portatore Momo in questo inequivocabile ritratto:
Beccaria ebbe mente assai sublime
e Cerasotti ha fantasie felici
e occupa per saper le scranne prime,
ma son Geni però, che distruttrici
penne oprar contra il gusto, in prose e in rime
e forse l’Eloquenza i più gran mali
l’ebbe dall’opre lor micidiali52.
Per quanto riguarda Galiani, il suo principale interlocutore, Serio
lo associa emblematicamente alla figura di un usurpatore e un traditore,
il generale macedone Poliperconte, riconoscendo anche a lui
un «non basso ingegno», ma precisando che queste sue doti sono
del tutto estranee a quelle poetiche:
ma quando versi fa, per sorte fella,
suole spesso patir di cacarella53.
Tra gli altri seguaci della Filosofia, spicca Maria Maddalena
Morelli, Corilla Olimpica, chiamata nel poemetto Corisca, la poetessa
che riuscì, con forti pressioni su papa Pio VI, a farsi incoronare
solennemente in Campidoglio nel 1776. L’evento provocò alcuni
tumulti e la creazione di un gruppo di dissidenti all’interno dell’Arcadia
romana, il gruppo dei “Forti”, di cui fu capo Giuseppe Petrosellini.
Questi ed altri componenti del gruppo sono a loro volta
presenti nell’opera, ma nello schieramento dell’Eloquenza. La Morelli
è quindi un personaggio chiave: coloro che la sostennero, come
l’allora custode dell’Arcadia, l’abate Gioacchino Pizzi e il suo amante
Luigi Castiglione di Gonzaga, appartengono alla Filosofia, quelli
che la osteggiarono, Petrosellini, Appiano Buonafede, Gaetano Golt
e altri, sono schierati con l’Eloquenza.
Il poemetto non tralascia personaggi napoletani: nel campo
dell’Impostura si trovano ad esempio Saverio Mattei, professore di
lingue orientali alla Regia Università di Napoli, con cui il Serio ebbe
motivi di contrasto già nel 177654, e Francescantonio Grimaldi, autore
dei poderosi Annali del Regno di Napoli.
52 Mss. Fusco B. XLVI, Canto X, c. 179v.
53 Ivi, Canto VIII, c. 146v.
54 Per la polemica sorta fra i due sulle traduzioni di opere classiche fatte dal
Mattei si rimanda a L. Serio, Osservazioni su di alcune operette del Sig. D. Saverio
748 MARIA MICHELA DI LIETO [21]
Schierati con l’Eloquenza sono invece Carlo Vespasiano e Pietro
Napoli Signorelli, collaboratori di Ferdinando Galiani nella preparazione
del già citato Dialetto napoletano.
Nell’esercito dell’Eloquenza compare anche Saverio Bettinelli, a
capo della prima schiera. La sua presenza è esemplificativa delle
posizioni che il Serio assunse nell’arco della lunga polemica sulla
lingua italiana. L’autore napoletano fu probabilmente vicino sia a
lui che all’Algarotti, con cui si notano numerosi punti di contatto, in
particolare nell’uso della figura di Proteo come metafora del linguaggio
che accomuna i Pensieri sulla poesia55 del Serio con il già
citato Saggio sopra la necessità di scrivere nella propria lingua.
L’Infermità dell’Eloquenza si propone due obiettivi principali, ai
quali si è già accennato: ridicolizzare gli atteggiamenti filo-francesi
delle classi medio-alte del Regno di Napoli, che impedivano l’affermazione
della cultura dell’infante stato napoletano, e dare forza a
questa cultura attraverso il problema chiave dell’insegnamento, volto
a formare una classe di letterati socialmente attivi.
La cultura napoletana del tempo era pronta a declassarsi, a disconoscere
i meriti propri e della tradizione italiana e a perdere la
propria autenticità nell’imitazione di modelli importati. La malattia
che ha colpito l’Eloquenza non deriva solo dalla preponderante
importanza che l’uomo ha accordato alle cose invece che alle parole.
Le parole di Luciano nel canto primo sono molto chiare:
Il mal dell’adorata mia regina
nasce, se il debbe dir, sol da se stessa:
ella si procurò la sua ruina,
ella bramò restar dal Fato oppressa56.
La colpa è anche della stessa malata, che non ha cercato di cambiare
lo stato delle cose, ma ha addirittura provato ad adeguarsi a
esso, ha abbandonato la sua virtù pur di riuscire a recuperare in
qualche modo il suo ruolo.
Durante il cammino i tre protagonisti, Apollo, Momo e Luciano,
incontrano numerose persone: Nivildo, un finto poeta che si è appropriato
dei meriti altrui; Carino, un giovane francese che esalta il
Mattei, Parte Prima, Napoli, Raimondi, 1776 e alcuni suoi appunti conservati fra
le carte inedite, Mss. Fusco, B. XLIX, cc. 116-199.
55 Pensieri sulla poesia. All’Abbate D. Ferdinando Galiani Consiglier del Commercio,
Napoli, s.t., 1771.
56 Ivi, Canto I, c. 122r.
[22] UN CONTRIBUTO ALLA QUESTIONE DELLA LINGUA: L. SERIO 749
proprio secolo e la propria patria e si rifiuta di pagare le tasse; un
nocchiere che vuole inventare un nuovo modo di viaggiare, ma più
di tutto incontrano persone incapaci, che occupano un posto nella
società di cui sono indegne; persone sfaccendate, intente alle più
insulse occupazioni, che sguazzano in un’atmosfera priva di morale.
Le parole rivolte dal giudice a Carino, che ha appena tentato di
dimostrare con le teorie di Rousseau come non gli competa il pagamento
del dazio, sono esemplificative da questo punto di vista:
pagate, dunque, e dimostrate a’ fatti
che di bella onestà cogliete i frutti57.
La cultura è decaduta nel momento in cui non si è associata alla
morale, all’impegno di guida della società. E non decade solo la
cultura, ma anche il linguaggio, destinato ad avvolgersi intorno a
immagini vuote, nate per l’orecchio e non per la mente. Il Serio ne
dà frequentemente la prova nel corso del poemetto: i personaggi
nemici dell’Eloquenza e seguaci della Filosofia o dell’Impostura
hanno un linguaggio diverso dai protagonisti, infarcito di parole ed
espressioni “alla moda”, in cui non mancano errori di grammatica,
il cui significato a volte resta oscuro. Lo dimostra Carino, nello
stesso canto nono, quando, per essere ammesso alla presenza dell’Impostura,
spaventa l’Ignoranza con le proprie frasi; e lo dimostra
Momo nel secondo canto, quando con intenzione satirica compone
una preghiera che l’oste e sua moglie sono costretti a recitare tutte
le sere. Il linguaggio diventa schiavo di concetti, le parole si svuotano
di significato. L’attenzione rivolta solo al contenuto e non al
modo di esprimerlo porta infine a questo: all’impossibilità della
comunicazione perché non esiste più un codice d’interpretazione
per ciò che viene detto.
Non c’è un luogo incontaminato: perfino il Parnaso è invaso da
“geni” e da gazzette e Apollo è costretto ad abbandonare il monte
per trovare chi possa aiutarlo.
Luciano, giunto a Napoli per cercare truppe che aiutino l’Eloquenza
contro la Filosofia, è costretto a rimangiarsi le sue speranze.
Il canto sesto, in cui avviene questo viaggio, è il punto in cui la
polemica tocca il suo vertice, accostando all’aspetto culturale anche
quello politico, ed è certamente il più complesso per quanto riguarda
la sua storia redazionale. Alla quinta ottava del canto, in c. 152v,
57 Mss. Fusco B. XLVI, Canto III, c. 105v.
750 MARIA MICHELA DI LIETO [23]
seguono quattro ottave cancellate. In queste Luciano, appena partito
dal suolo di Itaca, si lascia andare ad un’esaltazione della città,
descrivendola come un luogo di cultura e di giustizia: è la figlia di
Atene e la madre di Roma ed è ancora più felice perché ora ha
come sovrani Ferdinando IV e Maria Carolina.
Serio compose questo canto in due periodi successivi: le ottave
cancellate si concludono in c. 153v, che contiene solo due versi, e
dalla successiva c. 154r cambiano sia la filigrana che il fascicolo e la
numerazione ricomincia da uno. Potrebbe sembrare, dunque, che le
carte da 154r a 161v siano state aggiunte successivamente, in un
momento in cui il poeta non aveva sotto mano la parte precedente.
A un esame più attento, però, viene fuori un altro particolare: nella
c. 154r colui che compie il viaggio a Napoli non è più Luciano, ma
Momo, e questa differenza, debitamente corretta, dura fino a c. 157v,
dove il protagonista ritorna Luciano. Ma in c. 158r la numerazione
risulta ancora sfalsata di 5 e diventerà esente da cancellature solo in
c. 160v e cioè dall’ottava 34.
Un altro particolare importante è il seguente: il canto V si conclude
con due carte che formano un fascicolo diverso da quello che
contiene il resto del canto e che sono scritte con minor cura ed un
inchiostro più scuro. Si può provare a ipotizzare, a questo punto, la
storia redazionale del canto. Le ottave da c. 154r sono probabilmente
il primo inizio del canto VI, in cui Momo, dopo aver visitato i
Campi Elisi, giunge a Napoli. Non c’è traccia né nel canto IV né nel
V di un tale viaggio, ma potrebbe essere stato annunciato in una
prima redazione di uno di questi due canti, probabilmente il V, che
a noi non è giunta. In queste ottave Napoli viene descritta come il
luogo dove giustizia e cultura non hanno più valore. La delazione
regna al posto di Temi, dea della giustizia, e la calunnia stende
incontrastata la mano fino ad avere in suo potere tutta la città. I
giovani non si affaticano più nella ricerca della cultura. Sono appunto
i due pregi che Luciano rileva della città, la giustizia e la
cultura, – e, per inciso, sono anche i due ambiti in cui esercitò Luigi
Serio – che ora vengono messi in discussione. Mentre procedeva nel
poema, arrivato in c. 157v, l’autore deve aver deciso, per motivi che
restano ignoti, ma che si possono ipotizzare alla luce del finale dello
stesso canto sesto, che Luciano era un personaggio più adatto di
Momo per un tale viaggio e ha quindi iniziato la sua opera di
sistematica correzione del protagonista del canto. Più tardi ancora,
avrebbe deciso di iniziare il canto VI con l’annuncio del viaggio di
Luciano e ha aggiunto il foglio formato dalle carte 152 e 153. In
[24] UN CONTRIBUTO ALLA QUESTIONE DELLA LINGUA: L. SERIO 751
queste due carte si trovano, appunto, oltre alle prime cinque ottave
della redazione definitiva, anche le ottave cancellate e la nota autografa:
«Principio del Canto VI». A questo punto doveva decidere
quali ottave lasciare tra quelle riportate in queste due carte. La
scelta cade dapprima sulle prime quattro, poi include anche la quinta.
Le altre ottave non vengono numerate e vengono probabilmente
cancellate in una di queste due fasi.
Resta, però, il dubbio su quale sia il significato di questa cancellatura.
Per evidenziarlo, si tratterà brevemente degli argomenti principali
del canto e della scoperta polemica che li sostiene.
Si è già parlato della presenza preponderante della delazione e
della calunnia all’interno della città. Cuore del canto è la polemica
scolastica, dove, in un lamento che per certi aspetti ricorda quello di
Encolpio e Agamennone nel Satyricon, si accusano insegnanti e studenti
per la decadenza della cultura. Sono le immagini altisonanti,
prive di gusto per la misura, ad affascinare e stordire gli studenti,
è il miraggio di una fama facile, non conquistata col sudore e con
lo studio, che li induce ad abbandonarsi all’ozio. Luciano si scaglia
contro i maestri privati che, nell’intento di ottenere un maggior
numero di studenti, non esitano a parlar male dei loro colleghi e
impediscono quindi loro di ottenere una «Unità (…) di dottrina»58,
una cultura completa e senza pregiudizi:
Cotesta razza, insiem gonfia e rapina
de’ maestri privati fa spavento:
li divide la fame, e la conquisa
gioventù langue divisa.
Insulta il matematico al poeta,
il medico vitupera il legista,
eterna l’antiquario onta decreta
a chi in filosofia tesori acquista,
e in vece d’irne ad una stessa meta
l’oratore, il teologo e il cronista,
van per opposte strade i letterati
e fremono fra lor, cani arrabbiati59.
Questa lunga digressione sulla situazione del regno napoletano,
in cui alla degenerazione della cultura si associa quella della giustizia,
si conclude comunque con una speranza, con una promessa di
58 Mss. Fusco B. XLVI, Canto VI, c. 158r.
59 Ibidem.
752 MARIA MICHELA DI LIETO [25]
Luciano ai pochi spiriti eletti che è riuscito a reclutare: promette
loro che, se riusciranno a sconfiggere la Filosofia, non ne trarranno
solo la gloria, ma anche l’utile «che ignoto vi restò finora»60. Farà in
modo che il loro re, che ama il suo popolo come un padre, riesca ad
allontanare da Napoli la «genia sì infame»61 che turba la libertà
civile con le sue insinuazioni e che bagna «di sangue tai felici liti»62.
In questo contesto è importante sottolineare appunto l’immagine
di Ferdinando IV, ricalcata, anche se in misura ridotta, sull’elogio
che compare nelle ottave cancellate: un re che ama il suo popolo,
ma è influenzato da cattivi consiglieri, capaci di eclissarne le virtù.
Il messaggio è chiaro: i mali di Napoli non sono causati dal re, ma
da coloro che lo circondano e ne influenzano le scelte, portando in
questo modo il regno alla decadenza e diffondendone un’immagine
negativa, come appare evidente dal rifiuto di Cicerone nel canto
ottavo di accettare il contingente napoletano. Solo la guarigione
dell’Eloquenza modificherà questo stato di cose. Se ne deduce che
solo l’abbandono dei modelli filo-francesi, che declassano la cultura
napoletana, e il ritorno a un impegno sociale nell’istruzione e nella
letteratura costituiscono gli unici possibili rimedi ai problemi di
Napoli.
Resta comunque una discrepanza nel raffronto fra l’inizio depennato
e la fine del canto, e cioè l’assenza di Maria Carolina. Nelle
ottave cancellate l’elogio di Ferdinando IV si estende dapprima alla
moglie e poi ai figli. Nel finale, l’unico accenno positivo è al re. Il
nome di Maria Carolina non viene più pronunciato, la sua presenza
viene completamente taciuta. Cosa può essere successo per indurre
il poeta ad eliminare Maria Carolina dal poemetto? Tale scelta riflette,
evidentemente, un cambiamento di opinione maturato dal Serio
nei confronti della regina nel corso della scrittura del canto. Il canto
risale probabilmente il 1785, come indicato dalla nota in c. 162r,
«Scritto in due giorni 16 e 17 / maggio 1785», ed è quindi agli anni
’80 che bisogna guardare per capire cosa può aver portato a questo
distacco dalla sua figura. Certo, mal le si addiceva l’immagine ingenua
che alla fine del canto identifica Ferdinando IV e forse le si
addice di più quella di cattiva consigliera. Queste restano, però,
semplici congetture che studi più approfonditi potrebbero confermare
o completamente stravolgere.
60 Ivi, c. 160v.
61 Ivi, c. 161v.
62 Ibidem.
[26] UN CONTRIBUTO ALLA QUESTIONE DELLA LINGUA: L. SERIO 753
Infine, ci si può chiedere per quale motivo l’opera resti incompiuta.
Potrebbe essere stato interrotto a causa della morte dell’autore,
nel 1799, data non troppo lontana dall’ultimo post quem. Ma c’è
un’altra possibilità.
Riconsiderando il canto sesto come centro del poemetto, si può
ipotizzare che il finale previsto dall’autore coincidesse con la promessa
di Luciano: l’Eloquenza di nuovo sul suo trono e la possibilità
per Napoli di instaurare un nuovo regime in cui cultura e potere
andassero nella stessa direzione e in cui la giustizia tornasse a
fare il suo corso. Ma dopo il 1794, con la scoperta della congiura e
la svolta reazionaria che la seguì, quando l’interruzione di «ogni
possibilità di dialogo tra riformatori e corte»63 aveva portato ad un
punto di non ritorno nella storia del Regno di Napoli, questa speranza
diventava anacronistica e questo ipotetico finale perdeva ogni
significato. Non era più possibile ricomporre la frattura che si era
creata tra la corte borbonica e gli intellettuali napoletani e che negli
anni successivi non avrebbe fatto altro che dilatarsi maggiormente.
Di lì a poco, anche il Serio avrebbe perso il suo ufficio di Poeta di
Corte64 e il distacco fra lui e l’entuorage borbonico divenne definitivo.
Quattro anni dopo, il 13 giugno del 1799, avrebbe dato la vita
per l’idea repubblicana, combattendo al Ponte della Maddalena per
difendere Napoli dall’assalto dei Sanfedisti.
Maria Michela Di Lieto
(Salerno, Archivio di Stato)
63 A.M. Rao, La Repubblica napoletana del 1799, Roma, Newton Compton,
1997, p. 14.
64 Precisamente il 7 febbraio del 1795. Le ragioni di quest’esonero non sono
ancora state chiarite. Per ulteriori informazioni si rimanda a R. Giglio, Un
letterato per la rivoluzione, cit., pp. 87-92.
Meridionali
GIUSEPPE PESCE
Nicola Pugliese: dall’ambigua mitizzazione al recupero
di Malacqua
This essay starts up by discussing the ambiguous fortune of
Malacqua by Nicola Pugliese, a novel written in 1977 and from time
to time seen as a literary representation of Naples so powerful to
keep its up-to-dateness intact. Since a close critical reading of this
novel is still missing, this essay intends to free it from some misunderstandings
and identify its innovative literary coordinates.
Malacqua, in fact, though grounded on chronicle suggestions, swings
between La Capria and the most important European literary
tradition of XX century (Joyce, Kafka), ranging from the language
of D’Arrigo to Gadda’s “painful” autobiographical tendency.
Nicola Pugliese è forse qualcosa di più di uno dei «molti giovani
che hanno dato alla narrativa delle valide opere-prime e che poi si
sono dispersi»1: Malacqua2, suo primo ed unico romanzo, sembra
infatti condannato ad uno strano destino, tra oblio e periodiche
riscoperte, vivendo una durevole quanto ambigua mitizzazione.
L’interesse per questo libro è stato intermittente nell’arco degli
ultimi trent’anni: piacque ad Italo Calvino, che nel 1977 lo fece
pubblicare dalla Einaudi nonostante Pugliese avesse rifiutato i suoi
consigli, e a Luigi Compagnone, che ne fu il principale sostenitore
alla fine degli anni Settanta. Seguì un primo decennio di oblio, fino
al 1991, quando Silvio Perrella per primo ne propose il recupero3; e
poi ancora un altro decennio di silenzio, fino al 2002, quando un
intervento di Francesco De Core fu determinante per il suo rilancio4.
Fino ad allora, infatti, per molto tempo il nome di Pugliese si era
1 R. Giglio, Campania, Brescia, La Scuola, 1988, p. 70.
2 N. Pugliese, Malacqua, Torino, Einaudi, 1977, pp. 177.
3 Cfr S. Perrella, Il Napoletano che cammina, «Leggere», IV (1991), n. 33, pp.
48-53.
4 Cfr F. De Core, Cartoline da Napoli: Come pioveva…, «Lo Straniero», VI
(2002), n. 22, pp. 59-63.
[2] DALL’AMBIGUA MITIZZAZIONE AL RECUPERO DI MALACQUA 755
solo timidamente affacciato nel dibattito letterario napoletano, inaspettatamente
citato da Michele Prisco5, oppure ricordato da Cordelli
come l’unico narratore nato negli anni Quaranta6. Ma fu solo dopo
il 2002, che intorno a questo autore si animò un certo interesse,
soprattutto giornalistico, con sempre più frequenti citazioni e due
paginoni-intervista de Il Mattino7 e di Repubblica8.
Il ‘caso’ Malacqua si alimenta anche della poetica solitudine che
circonda l’autore, un intelligente ed apprezzato giornalista napoletano,
ritiratosi in un paesino ai piedi dell’Appennino dopo aver
attraversato alterne e poco felici vicende lavorative. Nel 2008, tuttavia,
Nicola Pugliese ha rotto il suo isolamento, pubblicando La Nave
Nera9, una piccola raccolta di racconti nei quali la critica ha subito
accertato saldi legami con il romanzo: trent’anni dopo, Malacqua si
è confermato una visione letteraria di Napoli di straordinaria attualità,
poiché «nella sua cupa visionarietà parla di una città paralizzata,
immobile, preda di mali immedicati e immedicabili, e […] oggi
risulta dunque obliquamente profetico»10.
Proprio la capacità di superare i limiti di spazio e di tempo è alla
base dell’ambigua mitizzazione di questo libro, che non è mai bastata
da sola, tuttavia, a trovargli una adeguata collocazione nella
tradizione letteraria italiana. Recuperare Malacqua, infatti, vuol dire
offrirne finalmente una lettura critica capace di liberalo da certi equivoci
(come l’abusato ‘realismo magico’ spesso attribuitogli) e di individuarne
quelle innovative coordinate letterarie che ne fanno un
piccolo capolavoro del Novecento.
Già alla sua uscita, nel 1977, Malacqua si presentava come un
testo assolutamente innovativo, frutto solitario nel panorama letterario
italiano e meridionale: su una scena napoletana dominata dal
vecchio ‘quadrumvirato’ Rea-Prisco-Pomilio-Compagnone, Nicola
5 Cfr M. Prisco, Una generazione senza eredi? in Il risveglio della ragione: quarant’anni
di narrativa a Napoli (1953-1993) [Atti del Convegno ‘Il mare non bagna
Napoli’, 15 aprile 1993], a cura di G. Tortora, Cava de’ Tirreni (Sa), Avagliano,
1994, pp. 123-130.
6 F. Cordelli, Napoli. Nei mille vicoli del romanzo. Maestri di ieri, speranze di
oggi: due generazioni a confronto, «Corriere della sera», 19 febbraio 1998.
7 P. Gargano, Malacqua, la mia città e la scelta del silenzio, «Il Mattino» (Napoli),
19 ottobre 2003, p. 43.
8 M. Carratelli, Nicola Pugliese: il marinaio che finì sugli scaffali insieme a
Borges, «La Repubblica» (Napoli), 11 marzo 2007.
9 N. Pugliese, La Nave Nera, Napoli, Compagnia dei Trovatori, 2008, p. 88.
10 F. Durante, I racconti di Pugliese, la cupa visionarietà prima di “Malacqua”,
«Corriere del Mezzogiorno», 27 gennaio 2008.
756 GIUSEPPE PESCE [3]
Pugliese tornava infatti alle scelte di La Capria, per proporre un
anti-romanzo dalle coordinate letterarie decisamente europee (Joyce,
Kafka), coniugandole con una scelta linguistica di forte originalità,
suggerita certamente da una lettura fresca del contemporaneo Stefano
D’Arrigo.
Il punto di partenza di Pugliese erano delle personalissime suggestioni
cronachistiche, dettate dal suo mestiere giornalistico: Malacqua
è il taccuino di Andreoli Carlo, un giornalista che appunta il
diario di quattro giorni di pioggia che mettono in ginocchio la città
di Napoli, durante i quali si susseguono inquietanti e misteriosi
eventi. Alla base della narrazione ci sono alcuni avvenimenti di
cronaca del 1969 (in particolare lo sprofondamento di via Aniello
Falcone, il 20 settembre) che portarono la città alla ribalta nazionale,
accendendo addirittura un animoso quanto inconcludente dibattito
parlamentare11.
La Napoli di Malacqua è dunque innanzitutto una città reale, che
abbandona la consueta oleografia di ‘paese del sole’; raccontata da
un giornalista-scrittore che amplifica e supera il dato di cronaca
introducendo fin dal sottotitolo del romanzo la misteriosa attesa di
un «accadimento straordinario». È questo il primo fondamentale
elemento letterario, che ha qualcosa del nonsense dell’attesa beckettiana,
ma soprattutto di un certo sentimento che La Capria aveva
ben delineato nel suo Ferito a morte: «il napoletano che vive nella
psicologia del miracolo, sempre nell’attesa di un fatto straordinario
tale da mutare di punto in bianco la sua situazione»12.
Nella Malacqua c’è dunque molto di più di un semplice temporale.
Luigi Compagnone, che per primo recensì il romanzo, parlò di
«un’impressionante metafora della vita di una città minacciata da
sempre dalla ‘malacqua’ della Storia o della sua particolare Nonstoria
»13. Nel 1977, la sua fu una delle poche voci che sostennero
Pugliese: e d’altronde, non ci si poteva nemmeno aspettare incorag-
11 Cfr Atti Parlamentari: Camera dei Deputati, V Legislatura, Discussioni, Seduta
del 23 ottobre 1969, p. 11459 e segg.; Seduta del 24 ottobre 1969, p. 11471 e
segg.; Seduta pomeridiana del 28 ottobre 1969, p. 11584 e segg.
12 R. La Capria, Ferito a morte, Milano, Bompiani, 1961, p. 118. La Capria è
autore caro al giovane Pugliese, e non è da escludere che lo stesso titolo di
Malacqua sia stato suggerito dalle prime pagine del suo capolavoro, dove si
incontra il vecchio Totonno che commenta la sua magra pesca proprio al grido:
«Malacque, malacque!» (cfr ivi, p. 8).
13 L. Compagnone, Cade su Napoli la Malacqua universale: Malacqua, opera
prima di Nicola Pugliese, «Corriere della sera» (Supplemento), 4 settembre 1977.
[4] DALL’AMBIGUA MITIZZAZIONE AL RECUPERO DI MALACQUA 757
giamenti da Prisco, Pomilio e Rea, gli stessi che al principio degli
anni Sessanta avevano difeso il genere-romanzo contro le nuove
tendenze ‘anti-umanistiche’, come quel Nouveau Roman al quale la
critica avvicinava ora Malacqua14. È questo un primo equivoco da
cui liberare Pugliese, che, pur cogliendo forse qualche suggestione
dei romanzieri del Regard, non mira ad alcun ‘primato dell’oggetto’,
costruendo invece un romanzo – ovviamente non tradizionale –
capace di offrire una rappresentazione complessa fino al barocco,
disarticolata ma mai eterogenea, fiabesca eppure credibile, di una
città e della sua storia.
Malacqua non ha una vera e propria trama: se infatti il ritrovamento
di tre misteriose bambole farebbe pensare inizialmente ad un
racconto ‘giallo’, il tema non viene poi adeguatamente sviluppato,
restando un enigma senza soluzione. E manca anche un vero e
proprio protagonista, poiché Andreoli Carlo è una figura baricentrica
(piuttosto che centrale) che emerge in un contesto corale di piccole
numerose vicende umane. L’abilità dell’autore consiste nell’aver
centrato un felice equilibrio, inquadrandole tutte nello svolgimento
di una ‘azione generale’ scandita nei quattro giorni di pioggia. Malacqua
si presenta, così, come una successione indolore di dettagliate
descrizioni, racconti di stati d’animo (ricordi, speranze, delusioni,
aspettative), digressioni più o meno lunghe, resoconti ai limiti della
cronaca, monologhi interiori.
I quattro giorni sono segnati anche da tre imprevedibili eventi, ai
limiti del fiabesco: «voci sovrumane e lunghi strazianti gemiti come
di moltitudine», monetine da cinque lire che suonano, il mare che
sale per le strade della città fino a Montedidio. L’atmosfera che si
crea è tipicamente kafkiana: queste situazioni sono talmente incomprensibili,
nella loro assurdità, che finiscono per essere accettate
come normali per l’impossibilità di opporvi un’adeguata reazione.
«Per quanto insolito e sovrannaturale addirittura si potesse definire
quell’accadimento, pure esso rientrava in qualche modo nell’ordine
naturale delle cose, ed aveva una sua specifica ragione»15 pensano
ad esempio tutti, quando il mare sale verso la città. Ed anche se, tra
bizzarri commenti giornalistici e ambulanti che vendono monetine
contraffatte, il genius loci di Napoli finisce per temperare anche le
situazioni più irrazionali, resta tutta intatta la kafkiana alienazione
14 Cfr Nicola Pugliese. Malacqua, «Libri e Riviste d’Italia», XXX (1978), n. 335,
p. 27.
15 N. Pugliese, Malacqua, cit., p. 91.
758 GIUSEPPE PESCE [5]
dell’io: la possibilità che all’improvviso, nella vita ordinaria di uomini
qualunque, possa manifestarsi una irreparabile perdita di contatto
con la realtà.
Questa misteriosa atmosfera ha spesso suggerito un facile parallelo
tra la Napoli di Malacqua e la Macondo di Cent’anni di solitudine16,
entrambe battute dalla pioggia, in nome di un ‘realismo magico’
che pervaderebbe le due opere. Se negli anni Venti Bontempelli aveva
rubato questa definizione al critico d’arte tedesco Roh, che per primo
aveva parlato di magischer realismus17, con Cent’anni di solitudine
(1967) il ‘realismo magico’ assunse una nuova particolare valenza,
legata alla letteratura sudamericana: la ribellione alla ‘storia ufficiale’
imposta dai colonizzatori e il recupero di un passato mitico attraverso
elementi magici e fantastici. Il Sudamerica e la Napoli di Malacqua:
due ‘Sud del mondo’; due luoghi che combattono con la forza cieca
della Storia, con la modernità seducente e disastrosa; che rivendicano
la dignità di uno ‘stato di natura’ corrotto, ormai non più componibile,
ma tuttavia indelebile, che si è rifugiato nei territori del
mito, nei luoghi dell’anima; pronto a prendere nuove forme, inusitate
ed incredibili, che lascino attonita la Storia stessa. Non c’è dubbio
che alla radice di queste due scritture ci sia una simile tragedia, di
straordinaria, meravigliosa, lacerante suggestione (mitica prim’ancora
che letteraria). Ma bisogna tuttavia notare che, in realtà, le pagine di
Pugliese non sono davvero così vicine al real meravilloso di Marquez,
che insiste molto sulla chiaroveggenza e sul rapporto con i morti (e
il cui frutto più maturo sarà poi La casa degli spiriti18 della Allende).
E che dunque, se proprio si vuol parlare di ‘realismo magico’ di
Malacqua, si deve intendere un ‘realismo magico’ proprio di Pugliese;
fatto di illusioni ed ambiguità, ma anche di assenze ed invisibilità, di
animismo bonario (il mare, le monetine che suonano) ma allo stesso
tempo crudele (la pioggia che cade, la città che uccide) che fa germogliare
nella gente e persino nei luoghi informi incertezze kafkiane.
Ma che non è il ‘realismo magico’ di Marquez, così come quello di
Marquez non era quello di Bontempelli.
Tuttavia, nonostante le marcate diversità, vale la pena di notare
qualcos’altro che hanno in comune Malacqua e Cent’anni di solitudine,
e cioè che sono entrambe una ‘storia di storie’. Se la Macondo di
16 G.G. Marquez, Cent’anni di solitudine, Milano, Feltrinelli, 1968.
17 F. Roh, Post-Espressionismo. Realismo magico. Problemi della nuova pittura europea,
a cura di S. Cecchini, Napoli, Liguori, 2007.
18 I. Allende, La casa degli spiriti, Milano, Feltrinelli, 1983.
[6] DALL’AMBIGUA MITIZZAZIONE AL RECUPERO DI MALACQUA 759
Marquez, immaginario paese della foresta colombiana, è infatti il
crocevia di centinaia di piccole storie che ruotano per generazioni
intorno alla famiglia Buendía, nella Napoli di Pugliese, moderna
città borghese fin troppo reale, scorrono invece parallele le storie
della gente, che hanno in comune solo l’angoscia della pioggia che
cade, cambiando la prospettiva della vita.
Fin dal primo giorno di pioggia, Pugliese sorprende la gente a
ragionare tra sé. Tratteggia i tentennamenti del fruttivendolo Di
Sepe Biagio prima che crolli il palazzo di via Tasso; i pensieri di Di
Gennaro Carmela, venditrice di sigarette di contrabbando, e del
brigadiere Della Valletta Vincenzo che attende sotto la pioggia senza
discutere; e poi le evasioni della stenografa della prefettura
Sorrentino Luisa, e la sfortunata storia di Savastano Aniello. Il terzo
giorno comincia con i pensieri del portiere Irace Salvatore, per passare
al lutto di De Filippis Luigi che ha perso la figlia sotto le
macerie, e poi alle evasioni di Speranza Giovannella, che lascia il
funerale per andarsene a fare l’amore. L’episodio del mare che sale
a Montedidio è rivissuto attraverso il maresciallo De Rosa Ferdinando,
preoccupato per la moglie fragile di nervi; mentre le monetine
sonanti sono una scoperta della piccola Cipriani Sara, nel silenzio
avvilente della sua casa. Sempre nel terzo giorno, Pugliese incastra
le storie di De Crescenzo Pasquale, che presenta le sue poesie; di
Picozzi Salvatore e del suo caffè ‘Susan’; e di Esposito Margherita,
che da quando suo figlio si è sposato si sente ‘diminuita’. Il quarto
giorno, invece, è la volta di due donne: la giovane Cuomo Adriana
che aspetta l’autobus, divisa una torbida storia e le lusinghe di un
giovane; e l’impiegata postale Lecaldano Paola che pensa alla sua
storia d’amore.
Colpisce subito, sfogliando Malacqua, che i personaggi siano sempre
identificati con cognome e nome, come in un verbale di questura;
talvolta addirittura con l’aggiunta di età e provenienza: «Annunziata
Osvaldo, di anni 27, da Boscotrecase»19, «Di Sepe Biagio, di
anni 35, da Avellino»20. Questa curiosa ossessione è un elemento
fondamentale e costante della scrittura di Pugliese, che trae origine
dal gergo burocratico di cui sono consumati esperti i giornalisti.
Sempre al ‘burocratese’, ma stavolta con malcelata ironia, si richiama
l’uso delle maiuscole, dalla «Politica con la maiuscola» della
prima pagina alla sfilza di cariche delle «Maggiori Autorità Cittadi-
19 N. Pugliese, Malacqua, cit., p. 9.
20 Ivi, p. 14.
760 GIUSEPPE PESCE [7]
ne» che popolano il racconto, ingessate in ruoli atrofici, alla formale
ricerca di improbabili soluzioni ai problemi della città. La maiuscola
è una convenzione sociale, appartiene al ‘mondo ordinato’ della
Storia e agli individui che, sentendosene parte, possono percepire la
propria esistenza; e per i quali, la burocrazia è una sorta di religione,
come suggerisce il Prefetto che nominando il Padreterno «lo
disse con la lettera maiuscola, che in effetti più andava avanti con
gli anni e più si convinceva dell’esistenza del Padreterno»21.
La cifra stilistica della scrittura di Pugliese va ricercata proprio
in questo gergo burocratico unito ad un linguaggio variato, vivo e
mobile, spesso vicino al parlato, che si basa su due fondamentali
operazioni di sottrazione e di ripetizione.
Pochissime volte, ad esempio, i dialoghi sono segnalati con i due
punti, talvolta sono preceduti o seguiti da una virgola, ma più spesso
introdotti senza alcun segno; al discorso diretto si innesta spesso
spontaneamente quello diretto, ed anche il discorso indiretto libero
è spinto al massimo delle potenzialità. La sottrazione, o meglio la
soppressione, dell’articolo conferisce poi ogni tanto una certa
indecifrabilità, che tende a sospendere le azioni, marcando «inattese
impennate di un’ermetica sostanza poetica»22.
Semplificata la sintassi con la sottrazione di punteggiature e la
soppressione di qualche articolo, Pugliese riesce ad infondere un
ritmo alla sua narrazione (che ne risulterebbe altrimenti appiattita)
con l’altra operazione fondamentale della sua scrittura: la ripetizione.
Fin dalle prime pagine di Malacqua, infatti, non è raro incontrare
innanzitutto una sorta di ‘gemmazione ecoica’: dai gabbiani «che
urlano e urlano» e l’umidità «che sale e sale» del prologo23 all’immancabile
«pioggia che cade e cade»24. A simili ripetizioni se ne
affiancano altre più articolate: Andreoli Carlo che nella prima pagina
ascolta «il silenzio del suo silenzio», o Irace Salvatore che «diceva
invece tutti i giorni io uno di questi giorni me ne vado»25. Fino
a raggiungere talvolta una certa ‘cantilena’ del fraseggio, col verbo
posticipato, quasi in quel continuo rimeditare di quando ripetiamo
gli stessi pensieri, che si sovrappongono con le stesse parole, come
per persuadere noi stessi: «Andreoli Carlo pensò a fuggire, certo a
21 Ivi, p. 33.
22 F. Durante, I racconti di Pugliese, la cupa visionarietà prima di “Malacqua”, cit.
23 N. Pugliese, Malacqua, cit., p. 5.
24 Ivi, p. 33.
25 Ivi, p. 55.
[8] DALL’AMBIGUA MITIZZAZIONE AL RECUPERO DI MALACQUA 761
fuggire […] e per la verità non rientrava nelle sue abitudini, non
rientrava per niente»26, perché in fondo lui «sapeva bene quanto
fosse attaccato alle sue pietre, a questa vita desolata e grigia del
mare in ottobre, oh certo lo sapeva bene»27.
Questo movimento di semplificazione/complicazione, sottrazione/
ripetizione, sollecita continuamente la cooperazione del lettore,
chiamato a collaborare anche stilisticamente, oltre che nella comprensione
e definizione dei significati. La padronanza della lingua e
dello stile, infatti, consente all’autore di dominare le forme (ritmi,
cadenze, nessi, voci, costrutti) fino ad ‘approfittare’, in qualche modo,
delle forme stesse; mutando nessi e costrutti normali, come notò
Carmine Di Biase, «in una nuova sintassi iterativa e discorsiva, ma
vigilata dall’interno e piegata alle varie esigenze dell’esperienza
creativa»28. Da queste ‘vigilate’ forzature sintattiche nasce quell’incipit
straordinariamente suggestivo, con «grigi pensieri fumiganti» davanti
allo scenario del lungomare inquadrato in una stretta di spalle,
ridotto ad appena un inciso: «Santa Lucia ristretta nelle spalle».
Di Biase è autore dell’unico contributo critico di una qualche
consistenza su Malacqua, un saggio breve del 1978, che contribuì
purtroppo a generare un equivoco dal quale è necessario liberare
l’opera di Pugliese; il critico credette infatti di vedere nel libro delle
inflessioni dialettali29, che in realtà sono perlopiù insignificanti. Raramente
Pugliese cede al napoletano, e se ne ritrova forse l’eco
lontana in qualche modo di dire: i «fatti e fatterelli della gente»30, la
pioggia che cadendo fa la «pastrocchia»31; o soprattutto in quella
causale introdotta talvolta da «per via di…»32. Ma si tratta di elementi
assolutamente secondari rispetto all’operazione fortemente
innovativa che l’autore compie sulla lingua, e che deve molto al
contemporaneo Horcynus Orca33. Malacqua si apre proprio con un
esergo tratto da questo straordinario libro di Stefano D’Arrigo, considerato
l’inventore di una lingua nuova, caratterizzata dalla compresenza
di discorso diretto e indiretto libero, dialetto, italiano comune,
26 Ivi, p. 136.
27 Ivi, p. 138.
28 C. Di Biase, Nicola Pugliese: Malacqua in Id., L’altra Napoli, Napoli, SEN,
1978, p. 52.
29 Ivi, pp. 49, 57.
30 N. Pugliese, Malacqua, cit., p. 3.
31 Ivi, p. 10.
32 Ivi, p. 64.
33 S. D’Arrigo, Horcynus Orca, Milano, Mondadori, 1975.
762 GIUSEPPE PESCE [9]
italiano letterario e neologismi. Anche se la compatta complessità, il
mirabolante laboratorio linguistico di Horcynus Orca rendono impossibile
ogni confronto, è innegabile un debito di Pugliese, che
poté leggere il libro di D’Arrigo non più di un anno prima della
stesura di Malacqua; e che proprio da quella lettura sembra aver
tratto la forza, la scioltezza necessaria al suo cimento letterario, maturando
la scelta determinante di uno stile.
Non c’è tuttavia alcuna diretta dipendenza imitativa: Pugliese ha
anzi avvertito spesso che Malacqua gli venne giù proprio come la
pioggia fitta e interminabile su Napoli che aveva raccontato34, e che
dunque non è un libro frutto del calcolo, di lungo lavoro preparatorio
o di successive limature; ma piuttosto l’effetto di un’ispirazione
ruminata per anni (alimentata dalle molteplici suggestioni letterarie
e cronachistiche di cui abbiamo finora parlato) e buttata sulla
carta in appena 45 giorni, nell’autunno del 1976. Un’operazione resa
possibile grazie ad un altro elemento fondamentale e determinante
di Malacqua: l’autobiografismo; poiché il giornalista Andreoli Carlo,
trait d’union delle storie di Malacqua, non è altro che l’alter ego del
giornalista Nicola Pugliese, ed il suo racconto non è altro che una
magistrale rappresentazione del dolore di un uomo e di una città, ai
limiti del tempo e della storia.
Sfogliando Malacqua, troviamo Andreoli Carlo puntualmente intento
al lavoro di sempre, nonostante i cupi presentimenti suggeriti
dalla pioggia, avvertendo «precisamente un attaccamento denso e
morboso a questa vita che se ne scorre[va] tra i fogli di giornale»35.
Alla fine del terzo giorno, tornando a casa tremolante, prima di
chiudere gli occhi, pensa stanco: «crollasse pure Napoli, oh sì, crollasse
»36. Comincia così il quarto giorno, con la lunga scena della
rasatura della barba suggerita dal celebre incipit dell’Ulisse37 joyciano.
Andreoli Carlo cerca una soluzione all’informe interrogativo che
mortifica il suo «povero cervello giornalistico», ma trova solo ricordi
e pensieri che si intrecciano, dubbi pirandelliani, desideri di fuga.
E ragionando, assume lentamente contezza di un sentimento familiare
e nemico: «non si può vivere nella provvisorietà, è scientificamente
dimostrato, ed annaspare nel vuoto è conseguenza inelutta-
34 M. Carratelli, Nicola Pugliese. Il marinaio che finì sugli scaffali insieme a
Borges, cit.
35 N. Pugliese, Malacqua, cit., p. 44.
36 Ivi, p. 122.
37 J. Joyce, Ulisse, Milano, Mondadori, 1960.
[10] DALL’AMBIGUA MITIZZAZIONE AL RECUPERO DI MALACQUA 763
bile quanto dolorosa»38. Siamo al punto cruciale del romanzo: per
quanto Andreoli Carlo continui a cercare delle ragioni, questa ‘cognizione
del dolore’ esploderà, dettando «tra singulti e tremendi
conati» due pagine tra le più belle che siano mai state scritte su
Napoli.
Già nel secondo giorno di poggia, le urla levatesi dai merli del
Maschio Angioino avevano lanciato uno «straziante messaggio che
rimase nascosto e rinserrato nella profondità dei petti»; e «la città fu
costretta allora ad abbassare gli occhi, e gli occhi si guardarono le
mani ferme in grembo, ferme e malate come per malattia e malattia
non era»39. Il quarto giorno, Andreoli Carlo esplode in un violento
moto d’ira (degno dell’hidalgo Gonzalo, protagonista della gaddiana
Cognizione del dolore40) che travolge passato, presente e futuro di
Napoli, facendone una suprema metafora del Dolore: della Natura
che rifiuta di divenire Storia, ma che tuttavia sa di poter esistere
solo come Storia. A causa della pioggia (che rappresenta insieme le
molte vicissitudini del passato e le ambigue speranze e pretese per
l’avvenire) in questa ‘città maledetta’ «la finzione allegra del fatto
collettivo si era trasformata adesso in dura constatazione di solitudine
»41. E il presente era fatto ormai di una «angoscia che oggi
mortifica e assedia il cuore»; di una «attesa dolorosa che oggi ramifica
ai nervi delle mani, che spinge spinge ed ha fermato tutto ed
ogni cosa»42. Ma tutto questo dolore è solo acuito dalla pioggia di
questi quattro giorni (riferimento alle storiche ‘quattro giornate’ di
Napoli del 1943). Poi, tutto ritornerà come sempre, per Napoli e per
Andreoli Carlo, «nel sovrapporsi disordinato inconcludente di una
vita che era certo disordinata ed inconcludente»43; e quando sarà
chiaro che non si verificherà mai alcun Accadimento straordinario,
di tanto dolore resterà «soltanto quest’eco flebile, questa malinconia
nell’iride dischiusa a verificare la luce»44.
Per capire quanto questo Dolore sia un elemento costitutivo
dell’uomo-Andreoli Carlo e della città-Napoli, sono fondamentali le
poche pagine del prologo45, dove il giornalista lascia i colleghi, con
38 N. Pugliese, Malacqua, cit., p. 143.
39 Ivi, p. 29.
40 C.E. Gadda, La cognizione del dolore, Einaudi, Torino 19702.
41 N. Pugliese, Malacqua, cit., p. 144.
42 Ivi, p. 145.
43 Ivi, p. 146.
44 Ivi, p. 172.
45 Ivi, pp. 3-7.
764 GIUSEPPE PESCE [11]
cui sta pranzando sul lungomare, per vagare (e divagare) davanti al
Castel dell’Ovo, per «interrompere il flusso indecifrato, creare la
frattura». Dentro il ristorante c’è la Storia: si parla del giornale e
della gente, di cose che hanno un senso solo nel vortice della
quotidianità borghese, nel ‘mondo ordinato’ della vita della redazione
e dei lettori. Fuori dal vetro, invece, c’è la Natura: il giornale
«se ne va arrotolato in cartaccia, odore dell’inchiostro, vapori di
piombo», si riduce ad essenza materica, mero oggetto. Anzi, là fuori
c’è il dissidio, il reciproco corrodersi tra Natura e Storia: «il tufo
scavato da quest’umidità che sale e sale» delle pareti del castello.
Un dissidio irrisolvibile sul quale poggia precariamente l’equilibrio
stesso della vita umana, «questo sibilo lungo che si porta di dentro
Andreoli Carlo»; moltiplicato in inutili interrogativi dalla pioggia e
dal suo ‘accanimento irreversibile’ (come l’inesorabile passare del
tempo) e avvertito come indefinibile disagio. Un dissidio insanabile,
che se diviene ossessione può spingere ad un impeto nichilista ed
auto-distruttivo, o al matricidio: un matricidio percorre tutta l’opera
di Gadda, presunto in Novella seconda46, ipotizzato verosimilmente
ne La cognizione del dolore47, compiuto forse da una serva-figlia adottiva
nel Pasticciaccio48. Pugliese sublima questo matricidio rivolgendo
il suo impeto contro la madre-città:
Appenderò le tue donne a gambe all’aria sul bastione più alto di
Castel Sant’Elmo e lascerò le loro teste a penzolare nel vuoto, mutilerò
i bambini delle gambe e degli occhi […] il tuo gran corpo abbandonato
di puttana sarà putrefazione, squallida vergognosa morte
inarrestabile49.
Più di tutto, pur senza alcuna diretta dipendenza imitativa, l’opera
di Pugliese sembra possedere proprio qualcosa di Gadda (così come
per Cecchi, Gadda aveva «qualche cosa di un Joyce»50), al punto che
lo stile e gli intendimenti di Malacqua potrebbero forse definirsi
‘gaddiano-rientrati’. Non parliamo qui dell’inarrivabile laboratorio
linguistico del Gran Lombardo, sprone del cimento di autori come
Arbasino e Manganelli. Il pastiche di lemmi (di lingue, di voci) di
Gadda, in Pugliese si trasforma piuttosto in un pastiche logico, di
46 C.E. Gadda, Novella seconda, Milano, Garzanti, 1971.
47 Id., La cognizione del dolore, cit.
48 Id., Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Milano, Garzanti, 1957.
49 N. Pugliese, Malacqua, cit., p. 145.
50 E. Cecchi, Prosatori e Narratori in E. Cecchi – N. Sapegno (a cura di) La
letteratura italiana, vol. 17, Milano, Rizzoli, 2005, p. 501.
[12] DALL’AMBIGUA MITIZZAZIONE AL RECUPERO DI MALACQUA 765
pensieri, sulla scia della grande tradizione novecentesca europea di
Joyce e Kafka.
Sensazioni, sentimenti, descrizioni, dialoghi, ragionamenti si aggrumano,
così, in questa cronaca-verbale di quattro giorni di pioggia
nella città di Napoli, infilati con una suspense da racconto giallo, in
attesa che si verifichi un Accadimento straordinario. Come nel Pasticciaccio,
il giallo resterà senza soluzione, confermando che la possibilità di
chiarire tutti i nessi di una vicenda, di trovare una soluzione unica
ed inconfutabile, è solo un’illusione, in un mondo complesso, confuso
e sfaccettato come quello reale. Ma questa dura constatazione,
che lascia parziali ed incompiute le opere di Gadda, non ferma
Pugliese, che riesce invece a superarla, aiutato certo dalla materia
stessa del racconto: il genius loci di Napoli. Ovvero la contraddizione,
la straziante convivenza della natura con la propria storicizzazione.
Come dice nelle prime pagine del libro, di «tutta questa vita
che se ne scivola via» e della gente che «vive interminabilmente,
giorno su giorno»51.
Quel dolore a cui l’ingegnere Gonzalo Pirobutirro – protagonista
autobiografico della Cognizione del dolore – si avvicina, di cui assume
lentamente contezza, è lo stesso sentimento, forte e confuso, del
giornalista Andreoli Carlo, altrettanto autobiografico protagonista
di Malacqua. Per lui e per gli altri abitanti di Napoli, però, il dolore
ha la forma di un miraggio: l’attesa, tra speranza e timore, che
«certo qualche accadimento straordinario si sarebbe verificato, in
qualche luogo della città»52.
E se si odono voci strazianti, e le monetine suonano, o il mare
sale per le strade, non c’è bisogno di ricorrere ad alcuna sospensione
del tempo e della storia: tutto accade nello stesso tempo in cui
sprofondano strade e crollano palazzi, uomini e donne muoiono,
mentre altri continuano uguale la propria vita. È la conferma che la
materia della fabula è proprio Napoli in quanto topos di contraddizione,
spazio-tempo in cui, per atroce scherzo dionisiaco, convivono
gioco e morte; e il dolore non rumina più nello stomaco (come
accadeva a Gadda-Gonzalo) ma rigurgita alla bocca, come il vino
all’ebbro. Scrive Pugliese:
[…] quell’accadimento tremendo sarebbe giunto, oh certo, sarebbe
giunto, era ciascuno pronto a giurarci, e delle cose avrebbe mutato
ogni prospettiva. Per queste strade nascoste umide della città altro
51 N. Pugliese, Malacqua, cit., pp. 4, 3.
52 Ivi, p. 107.
766 GIUSEPPE PESCE [13]
non sopravviveva che l’attesa, e provvisorietà sconcertante infida
scendeva a incidere i pensieri e niente scampava, niente tranne che
questo senso disperato e triste che adesso probabilmente ogni cosa
sarebbe mutata53.
C’è una vertigine, nelle pagine di Malacqua, che è la stessa che
turba la popolazione napoletana: che agita fantasie e miserie, e le
impedisce di accettare del tutto i moderni ritmi urbani e borghesi.
In una parola, la Storia.
Il recupero del romanzo di Pugliese, oltre che sugli innovativi
caratteri linguistici e le insolite coordinate europee, si fonda proprio
su questa capacità di aver saputo cogliere il genius loci di Napoli per
costruire un racconto che è insieme nella storia e fuori dalla storia;
confrontandosi con il modernissimo tema del Dolore, che riassume
e forse supera i più tradizionali temi della vita e della morte. Ed è
questa una capacità propria di un classico moderno, di un piccolo
capolavoro, ma che nel caso di Malacqua sembra aver prodotto finora
solo uno ‘splendido isolamento’.
Giuseppe Pesce
53 Ivi, p. 121.
Contributi
UGO DOVERE
La nascita di un best-seller ottocentesco.
I Misteri del chiostro napoletano di Enrichetta
Caracciolo di Forino
The study of unpublished archive materials enables the author to
reconstruct the story of the publication of Misteri del chiostro napoletano
(1864), the well-known autobiography of the ex-nun Enrichetta
Caracciolo di Fiorino. The essay concentrates on Spiridione Zambelli,
Adriano Lemmi and Stanislao Bianciardi’s editings.
Le molte traduzioni e le numerose recensioni che si susseguirono
in breve tempo fecero delle memorie autobiografiche di Enrichetta
Caracciolo di Forino, apparse a Firenze nel 1864 con il pruriginoso
titolo di Misteri del chiostro napoletano, un best-seller internazionale1.
Ad eccezione di qualche dura contestazione di parte ecclesiastica,
l’ex monaca napoletana fu universalmente esaltata come autrice colta
e sensibile e compianta per la sua vicenda personale2. Tuttavia, ri-
1 Cfr. Misteri del chiostro napoletano. Memorie di Enrichetta Caracciolo, Firenze,
G. Barbera, 1864, pp. VIII, 340. Si veda pure U. Dovere, Enrichetta Caracciolo
di Forino e i Misteri del chiostro napoletano, in Fede e libertà. Scritti in onore di
P. Giacomo Martina S.J., a cura di M. Guasco, A. Monticone, P. Stella,
Brescia, Morcelliana, 1998, pp. 255-276.
2 Per le recensioni favorevoli cfr. «Giornale di Napoli» (Napoli), 6 agosto
1864, n. 184, p. 797, e 13 settembre 1864, n. 214, p. 915; «La Nazione» (Firenze),
7 agosto 1864, n. 220, 20 agosto 1864, n. 233, 22 agosto 1864, n. 235, e 4 settembre
1864, n. 248; «L’Opinione» (Torino), 13 agosto 1864, n. 223, e 20 agosto 1864,
n. 230; «Pungolo» (Milano), 22 agosto 1864, n. 233; «La Perseveranza» (Milano),
1° settembre 1864, n. 1726; «Il Patriota» (Pavia), 3 settembre 1864, n. 20; «Il
Diritto» (Genova), 19 settembre 1864, n. 257. Una recensione di L. Settembrini,
apparsa su «L’Italia», fu diffusa con la quarta edizione dei Misteri, mentre una
recensione di L. Desanctis, apparsa su «L’Eco della Verità» del 27 agosto 1864,
è in appendice al saggio di A. Scirocco, Enrichetta Caracciolo di Forino, «Bollettino
della Società di Studi Valdesi», LVIII (1992), n. 171, pp. 27-40; ma si veda
anche M. Monnier, La Confession d’une nonne, «Revue Germanique et Française»,
XXXI (1864), pp. 364-376. Per le critiche di parte cattolica cfr. «La Discussione»
768 UGO DOVERE [2]
leggendone l’opera alla luce della contemporanea documentazione
superstite, non si può fare a meno di chiedersi chi ne sia stato davvero
l’autore. Diverse mani, infatti, hanno pulito e ripulito il canovaccio
embrionale dell’autobiografia, integrandolo con elementi di
fantasia, che la stessa Caracciolo ebbe modo di contestare in privato,
ma con asprezza, all’editore. In molti, insomma, – è proprio il
caso di usare l’espressione manzoniana – hanno «risciacquato in
Arno» l’incolto e farraginoso modo di esprimersi dell’autrice.
Le memorie della Caracciolo, nate verosimilmente come diario
privato di una sofferta esperienza di vita accompagnata nel tempo
da molto risentimento, ebbero così la ventura di diventare una dignitosa
e fortunata opera letteraria, intinta di romanzesco e di politico,
grazie alla «ricomposizione» di Spiridione Zambelli, alla «correzione
» di Adriano Lemmi e alle «carezze allo stile» di Stanislao
Bianciardi. Veniva costruito così, altrove e nell’ambiguità, un libro
che doveva mostrare – secondo un’espressione del giovane Ferdinando
Martini – «come e quanto efficacemente possano essere rivoluzionarie
le donne, quanta parte esse possano avere nella lotta
della verità contro l’assurdo»3.
1. La mediazione di Spiridione Zambelli
Spiridione Zambelli è un personaggio di tutto rilievo nella fortuna
dell’opera di Enrichetta Caracciolo. Nato in Grecia, studiò in
Italia, laureandosi in diritto a Pisa. In seguito si dedicò agli studi
filologici tra Parigi, Monaco e Berlino. Come molti intellettuali del
suo tempo, dalla viva sensibilità politica, girò in lungo e largo per
l’Europa, facendo ricerca scientifica e confrontando i sistemi politici
(Torino), 8 agosto 1864, n. 218, e 2 ottobre 1864, n. 271; «L’Osservatore Romano
», (Roma) 17 agosto 1864, n. 187, 23 agosto 1864, n. 192, e 30 agosto 1864, n.
198; «Stendardo Cattolico» (Genova), 21 agosto 1864, n. 192, p. 744; «Il Subalpino»
(Torino), 22 agosto 1864, n. 194, pp. 774-775; «Il Difensore» (Modena), 1° settembre
1864, n. 101, pp. 404-405; «Osservatore Cattolico» (Milano), 2 settembre
1864, n. 201, e 3 settembre 1864, n. 202; «La Correspondance de Rome» (Roma),
15 ottobre 1864, n. 322. Ma si vedano anche Risposta alla nobile autrice dell’opera
Misteri del chiostro napoletano: memorie di Enrichetta Caracciolo dei principi di Forino,
Napoli, Tip. Virgilio, 1864; G. B. Centurioni, Rivista dell’opera intitolata «Misteri
del chiostro napoletano, Memorie di Enrichetta Caracciolo dei principi di Forino, exmonaca
benedettina», Firenze, Tip. di Simone Birindelli, 1864.
3 F. Martini, «La Nazione» (Firenze), 20 agosto 1864, n. 233, e 22 agosto
1864, n. 235.
[3] LA NASCITA DI UN BEST-SELLER OTTOCENTESCO 769
e amministrativi del continente. Fu così in Francia, Inghilterra, Germania
e Turchia alla ricerca di antica documentazione sulla storia
greca, a cui dedicò studi fondamentali. Frutto di un lungo soggiorno
napoletano furono le Ricerche critiche sui manoscritti greci inediti
contenuti negli archivi di Napoli, apparso in greco, ad Atene, nel 1864.
Pubblicò in francese e in greco importanti opere di storia e letteratura
bizantina. Sull’esempio del padre, il drammaturgo Giovanni,
fin da giovane si impegnò contro il protettorato britannico sulle
isole jonie, per le quali fu parlamentare nel 18504.
Quando Zambelli incrociò la Caracciolo, era un personaggio
importante: un affermato studioso dagli ampi contatti internazionali,
politicamente orientato al liberalismo, economicamente indipendente,
anche se, a causa della sua visione politico-religiosa, non lo
ricorda con particolare stima Niccolò Tommaseo, che anzi lo definisce
«retore e senza testa»5. Con l’ex monaca egli strinse una cordiale
amicizia nell’estate-autunno del 1862, a Sorrento, dove si ritrovarono
a villeggiare nello stesso periodo, lui con la famiglia e i coniugi
de Greuther, che avevano villa nell’amena cittadina campana. Fece
da tramite la nipote ventenne di Zambelli, Marta, che da quattro
anni girava il mondo con lo zio e non molto tempo dopo sarebbe
andata in sposa al barone d’Estraignes e si sarebbe trasferita in
Germania. Guadagnatasi la confidenza e l’affetto dell’ex benedettina,
la giovane Marta ne cominciò a trascrivere le memorie, per le
quali ottenne anche l’autorizzazione a tradurle in greco. Coinvolto
4 Se ne veda la sintetica voce che dedicò a Spiridione Zambelli (Levkas, Grecia,
1815 – Zur, Svizzera, 1881), ancora vivente, A. de Gubernatis nel Dizionario
biografico degli scrittori contemporanei, Firenze, Coi tipi dei successori Le Monnier,
1879, p. 1077. Ma di recente: Ch. Soldatos, Spyridon I. Zampelios (1815-1881): ho
historikos tou Vyzantinou Helle\nismou, ho themelio\te\s te\s neoelle\nike\s historiographias,
ho architektonas te\s diachronike\s henote\tas te\s Helle\nike\s historias [in greco], Athe\na,
Poreia, 2003; I. Koubourlis, La Formation de l’histoire nationale grecque. L’apport
de Spyridon Zambelios (1815-1881), Athènes, Eie/Ine, 2005; Ch. Soldatos, Spyridon
I. Zampelios (1815-1881): ha istoriká kai philosophiká skepsa tou Zampeliou ste dia biou
evascholása tou me tá lamprá poreia tou Vyzantinou Helle\nismou [in greco], Athe\na,
Stamoule\s, 2009. Un accenno all’intervento di Zambelli sulle memorie della
Caracciolo è in Storia letteraria d’Italia, X/2: L’Ottocento, a cura di A. Balduino,
Milano, Vallardi – Padova, Piccin, 1990, p. 1186, nota 75; Letteratura italiana,
VIII/1: Gli autori [A-G], a cura di A. Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1990, p. 460;
F. A. Bassanese, s. v., in An Encyclopedia of Continental Women Writers, edited by
K. M. Wilson, I, New York-London, Garland, 1991, pp. 208-209.
5 Cfr. N. Tommaseo, Diario intimo, a cura di R. Ciampini, Torino, Einaudi,
19463, pp. 445-446, e Id., Cronichetta del Sessantasei, a cura di R. Ciampini, Torino,
Einaudi, 1939, pp. 180-181.
770 UGO DOVERE [4]
dai racconti della Caracciolo, pressato dalla giovane nipote e intuendo
l’interesse che la pubblicazione di quelle pagine avrebbe
potuto suscitare, Zambelli accolse l’invito della Caracciolo a rivedere
per le stampe il suo brogliaccio e a presentarlo a qualche editore
toscano disposto ad acquistarne i diritti di stampa.
Quali limiti siano stati dati al colto greco nell’opera di revisione,
non è dato sapere in dettaglio, né è possibile sapere quali accordi
precisi si stabilirono tra i due – se ci furono – in ordine agli aspetti
finanziari dell’operazione. Sta di fatto che dall’inedito connubio intellettuale
dell’ex monaca alla ricerca di rivincita morale con il brillante
filologo venne fuori una fortunata impresa editoriale dagli
strani e meschini retroscena, segnata da polemiche, contenziosi finanziari
e questioni di principio, ma pure da calcolati silenzi e
sapienti compromessi, che qui si cercherà di ricostruire6.
Nel giugno del 1864 Zambelli, da Livorno, contattò per lettera
l’editore Gaspero Barbera7. Da dieci anni ormai questo stampatore
di origini torinesi, allontanatosi da Felice Le Monnier con cui aveva
cominciato, insieme ai fratelli Beniamino e Celestino Bianchi aveva
avviato a Firenze, in via Faenza, una moderna tipografia, da cui si
era sviluppata presto una fiorente attività editoriale. Uomo dal forte
senso pratico, dalla scarsa propensione all’ideologia, dalle consolidate
amicizie culturali e dal notevole fiuto imprenditoriale, si era
6 Enfatizza l’apporto di Zambelli (insieme ad alcuni malevoli pettegolezzi sulla
Caracciolo) G. Th. Zo\ras, Heptanesiaka meletemata [in greco], II, Athenai, s.n.t.,
1959, pp. 189-190. Rifiuta l’idea di un intervento del filologo greco, invece, G.
Morandini, La voce che è in lei. Antologia della narrativa femminile italiana tra
’800 e ’900, Milano, Bompiani, 1980, p. 390, facendo derivare l’attribuzione del
merito letterario a Zambelli dal «malanimo» con cui fu accolta l’autobiografia.
7 Su Gaspero Barbera (Torino, 1818 – Firenze, 1889), che aveva appreso l’arte
tipografica presso i fratelli Pomba di Torino, per poi fare la sua fortuna di
editore a Firenze, cfr. G. Barbera, Memorie di un editore, pubblicate dai figli,
Firenze, G. Barbera, 1883 (19302, 19543); Id., Memorie, ridotte come libro di lettura
e di premio per le scuole da A. Alfani, Firenze, G. Barbera, 1905; P. Barbera,
Gli ultimi anni di un editore (Gaspero Barbèra), in Id., Editori e autori. Studi e
passatempi di un libraio, Firenze, G. Barbera, 1904, pp. 147-169; R. Mariano,
Scritti vari, VIII: Uomini e idee, Firenze, G. Barbera, 1905, pp. 445-482; P. Barbera,
Quaderni di memorie stampati ad usum Delphini, Firenze, G. Barbera, 1921; P.
Tentori, s. v., in Dizionario biografico degli Italiani, VI, Roma, Istituto dell’Enciclopedia
Italiana, 1964, pp. 153-155; C. Vasoli, Un editore fiorentino: Gaspero Barbera,
in Editori a Firenze nel secondo Ottocento. Atti del Convegno (13-15 novembre
1981). Gabinetto scientifico letterario di G. P. Vieusseux, a cura di I. Porcini,
Firenze, Olschki, 1983, pp. 21-41; G. Tortorelli, Studi di storia dell’editoria italiana,
Bologna, Patron, 1989, pp. 37-62; Storia dell’editoria nell’Italia contemporanea, a
cura di G. Turi, Firenze, Giunti, 1997, ad indicem.
[5] LA NASCITA DI UN BEST-SELLER OTTOCENTESCO 771
ritagliato un’ampia fetta di mercato indirizzandosi a un pubblico di
livello alto, interessato alla storia e alla letteratura. Egli intravide
subito, nella proposta che gli giungeva dall’Albergo della Patria di
Livorno, un buon affare da non lasciarsi scappare.
D’altra parte, l’abile Zambelli, presentandosi il 3 giugno 1864 come
plenipotenziario dell’autrice di cui illustrava l’opera, ne rimarcava
tutti gli aspetti più interessanti con parole lusinghiere, che a breve
però sarebbe stato costretto a rimangiarsi per descrivere con più
crudezza fatti e persone a difesa dei diritti che riteneva di rivendicare
legittimamente8.
[…] Una dama napoletana di illustri natali, di ingegno peregrino, di
non comune istruzione ebbe la sventura di provare per ben vent’anni
tutti i rigori della disciplina claustrale in differenti monasteri della sua
patria. In educazione e talento di gran lunga superiore alle sue compagne
di sequestrazione, che ha messo questo lungo tratto di tempo
a profitto, per raccogliere intorno all’organismo e a’ costumi monastici
di quel paese un insieme di esplorazioni, che fuso nel racconto delle
sue personali e toccantissime peripezie, forma uno scritto, altrettanto
pieno d’originalità, che opportuno alle attuali vertenze. Nulla
d’immaginario in esso: tutto reale, positivo, vero; tutto garantito dal
nome dell’autrice, che si rivela nella prima pagina. I fatti che vi sono
narrati, lo stile animato che li mette in rilievo, e la sana critica che vi
regna, lo rendono, credo, degno della Sua considerazione.
Esso porta per titolo: “Misteri del Chiostro Napoletano. Memorie di una
dama contemporanea”, può, a parer mio, formare un volume di 15 o
16 fogli di stampa.
Se V.a S.a ne volesse fare l’acquisto, dovrebbe compiacersi di parteciparmene
le condizioni. […]
Barbera, fiutato l’affare, si precipitò a Livorno. Prima di pronunziarsi,
chiese ovviamente di leggere il manoscritto, e Zambelli si impegnò
a fargliene avere copia direttamente a Firenze. Volle pure
qualche dettaglio in più su come il testo fosse giunto nelle sue mani,
ma qui – come confessò solo molto più tardi – ebbe l’impressione di
qualche imbarazzo da parte del mediatore. L’operazione era interes-
8 S. Zambelli a G. Barbera, Livorno 3 giugno 1864, in Firenze, Archivio
Storico Giunti-Barbera, Cass. XXXIII, Inc. 12: Enrichetta Caracciolo nei Gruthen
[sic] e Spiridione Zambelli. Carteggio relativo alla pubblicazione dell’opera I
misteri del chiostro napoletano. 1864-1865 (in seguito indicato come Archivio Giunti-
Barbera). Se ne veda uno stralcio manipolato in G. Barbera, Memorie di un
editore, cit., p. 280, e in Annali bibliografici e catalogo ragionato delle edizioni di
Barbera, Bianchi e Comp. e di G. Barbera 1854-1880, con elenco di libri, opuscoli e
periodici stampati per commissione, Firenze, G. Barbera, 1904, pp. 157-158.
772 UGO DOVERE [6]
sante, ma delicata. L’argomento, particolarmente scabroso, era di bruciante
attualità; necessitava di ogni cautela e di molte verifiche. Il
prudente editore, sempre bravo a tenersi lontano dalle invadenze
della censura, non intendeva, infatti, pubblicare anonimo il libro,
pretendeva, anzi, che in caso di stampa avesse recato sul frontespizio
il vero nome dell’autrice a garanzia della veridicità di quanto narrato.
Qualche giorno dopo, con poche pagine di anticipazione del
manoscritto, giunse a Barbera anche qualche ulteriore chiarimento
di Zambelli su come l’autobiografia della Caracciolo fosse giunta fra
le sue mani. L’accorto greco, che si mantenne in faticoso equilibrio
per non smentire le capacità culturali della Caracciolo, decantate
nella precedente lettera, ma anche per non sminuire il suo apporto
alla redazione del manoscritto, ne approfittò pure per candidarsi a
scrivere dietro compenso un’opera, poi mai pubblicata, sulla storia
italiana del XVI secolo9.
[…] La Sig.a Errichetta Caracciolo (oggi M.me Gruther) possiede in
Sorrento una villa amena. Ho villeggiato in quel luogo colla mia
famiglia lungo l’estate e l’autunno del 1862, ed ivi abbiamo avuto
l’occasione di stringere colla sud.ta Signora una cordiale amicizia,
cementata dalla scambievole stima. Ella è donna di alti sentimenti, e
d’ingegno non comune. Pensa molto rettamente, e parla meglio che
non scrive. Se il suo stile, o per meglio dire la sua locuzione non
appaga l’atticismo toscano, ciò debb’essere assegnato all’influenza
del vernacolo napoletano, dal quale ancora non ha potuto emanciparsi
la colta società di quella città.
Depositaria, ed editrice, delle Memorie in quistione è la mia nipote,
giovine di belle speranze, la quale viaggia già da quattr’anni seco
noi, ed ora è in procinto di sposare il Barone d’Estraignes, nella cui
compagnia partirà fra poco per la Germania. Essa conserva il ritratto
in fotografia della sua amica, e potrebbe quando che sia procurarglielo.
Ora è intenta alla trascrizione del rimanente lavoro, affine di
terminarla prima della sua partenza.
Per quanto concerne la revisione della dicitura, ampia facoltà è dall’autrice
data all’Editore. Ho pur io pensato che la locuzione avesse
bisogno d’una buona pettinata. Senonché, in una sua lettera di ieri
l’altro ella mi include la nota di alcuni vocaboli che desidera mutare,
prima che passato sia alle stampe lo scritto. È questo un affare che
facilmente si accomoda.
Vengo ora al compenso, intorno al quale ella può trattare direttamente
con me.
9 S. Zambelli a G. Barbera, Livorno 13 giugno 1864, in Archivio Giunti-
Barbera. I corsivi corrispondono al testo sottolineato.
[7] LA NASCITA DI UN BEST-SELLER OTTOCENTESCO 773
Dal saggio che le ho mandato ella può per approssimazione valutare
la portata dell’intero lavoro; se qualche dubbio le rimanesse riguardo
alla qualità della parte non ancora copiata, io vorrei dissiparlo.
Egli è perciò che per la posta di oggi le invio due altri fogli del
seguito, testé copiati, da cui ella sarà posta nel caso di giudicare
dell’uniformità. Me ne voglia accennare la recezione. […].
Barbera apprezzò le pagine inviategli, ma, con gli elogi, fece
subito garbatamente emergere alcuni limiti stilistici e, in vista della
trattativa finanziaria sul compenso, ridimensionò gli entusiasmi del
corrispondente, lagnandosi dei tempi poco favorevoli per un grande
smercio di «libri d’occasione» come quello che gli veniva presentato.
Offriva, perciò, 600 lire per i diritti sull’opera, che avrebbe
potuto vedere la luce tra la fine di luglio e l’inizio di agosto, se
presto «qualche mano delicata toccherà qua e là con discrezione e
con garbo la lingua»10.
Cominciava così un fitto scambio di corrispondenza fra Barbera
e Zambelli, e più tardi con la Caracciolo11. Non nuovo a delicate
trattative finanziarie in ordine al compenso per i diritti d’autore –
per una di queste, quando ancora lavorava per Felice Le Monnier,
aveva avuto a che fare addirittura con Manzoni12 –, l’editore si assunse
il complicato ruolo del mediatore. Egli, infatti, intuendo che
il nocciolo della questione vertesse intorno al compenso, che forse la
Caracciolo inizialmente nemmeno immaginava di poter ottenere, e
che il ruolo redazionale del colto greco non fosse stato affatto marginale,
cercò un accomodamento fra le parti, affinché andasse a
buon fine la stampa del libro sul quale stava investendo e non
divenissero di pubblico dominio i rimaneggiamenti redazionali non
autorizzati, che forse avrebbero fatto la fortuna della imminente
pubblicazione.
10 G. Barbera a S. Zambelli, Firenze 14 giugno 1864, in Annali bibliografici, cit.,
pp. 160-161.
11 L’affaire, in parte trattato con ampia documentazione da F. Medioli, Fortune
e sfortune europee di una monaca per forza: Enrichetta Caracciolo di Forino, in In
amicizia. Essays in Honour of Giulio Lepschy, edited by Z. G. Barae\ski & L.
Pertile, supplemento speciale a «The Italianist», XVI (1997), pp. 413-435, viene
qui integrato e riletto alla luce della nuova documentazione.
12 Cfr. A. Manzoni, Tutte le opere, IV: Saggi storici e politici, a cura di F.
Ghisalberti, Milano, Mondadori, 1963, p. 511. Si veda pure A. de Rubertis, Il
processo Manzoni – Le Monnier, in Id., Documenti manzoniani, Napoli, Perrella,
1926, pp. 5-59; R. Lucifredi, Alessandro Manzoni e il diritto, Milano, Società
Dante Alighieri, 1933, su cui A. De Rubertis in «La Rassegna», XLII (1934), pp.
287-290.
774 UGO DOVERE [8]
Contro l’offerta dell’editore, ritenuta troppo bassa, Zambelli
rilanciò, vantando la cura del dettaglio e minacciando di stamparlo
a sue spese13:
[…] In risposta alla sua riserva di voler vedere l’intero manoscritto,
prima di venire a conclusione definitiva, riconosco la sua ragione
appieno. Non posso per altro astenermi dal significarle, come io, il
quale credo di poter modestamente aspirare alla competenza, considero
il rimanente scritto non meno piccante, e di tratto in tratto
più animato ancora, di quello che trovasi presentemente in sua
mano.
In quanto al ritratto, le dirò, che la fotografia essendo stata fatta a
bella posta per l’edizione, la si presterà mirabilmente alla copia del
litografo.
Ma superflue riescono queste mie osservazioni davanti al prezzo
d’acquisto, che la mi propone. Ella compara queste Memorie Autobiografiche
alle produzioni di Monnier. Ma Monnier non le diede
che brevi scritti, sebbene interessanti: brochures, anzi che volumi;
mentre il manoscritto propostole sarà per formare, come suppongo,
un volumetto di 16, e forse di 20 fogli di stampa, il quale, arricchito
del ritratto, non sarà per certo venduto a meno di quattro lire.
Né, davanti alla sua proposta, mi resta speranza alcuna di contrattazione,
fermo essendo nel proponimento di pubblicare il manoscritto
a spese mie, quando non ne potessi cedere la proprietà, unitamente
al diritto di traduzione, al prezzo di £ 2,000.
Spero adunque, ch’ella, garbato come sempre, vorrà pigliarsi la molestia
di restituirmi i fogli trasmessile, sia per la posta, o per altro
mezzo sicuro, […].
Il giorno dopo, a Barbera che offriva 1.000 lire – la metà di
quanto richiesto –, Zambelli svelava subito a quale pubblico egli
avesse pensato di indirizzarsi, certo che le memorie dell’ex monaca
sarebbero piaciute, riscuotendo sicuro successo commerciale: protestanti
e scismatici14.
[…] In risposta all’ultima sua, duolmi significarle di non poter consentire
al prezzo di £ 1000, che le mi propone.
Ha ella fatti bene i suoi conti? Ha ella preso in considerazione, che
mille almeno esemplari saranno divorati dalla gente protestante e
scismatica?
L’unica ed ultima condiscendenza, cui mi sia lecito devenire, è la
13 S. Zambelli a G. Barbera, Livorno 16 giugno 1864, in Archivio Giunti-
Barbera. I corsivi corrispondono al testo sottolineato.
14 S. Zambelli a G. Barbera, Livorno 17 giugno 1864, in Archivio Giunti-
Barbera. I corsivi corrispondono al testo sottolineato.
[9] LA NASCITA DI UN BEST-SELLER OTTOCENTESCO 775
seguente; e ciò soltanto per cominciare ad iscrivermi nel numero
delle sue pratiche.
Le posso rilasciare la proprietà (riservando il diritto della traduzione
alla mia nipote) al prezzo di £ 1500.
Se ciò le conviene, ne prenda pure le preliminari misure di cui accenna
nella sua lettera: altrimenti non era scritto che ci ponessimo
d’accordo. […].
Raggiunto l’accordo per 1.400 lire, Zambelli approntò e spedì a
Barbera una lettera di presentazione del fotografo Alinari15, di cui si
serviva l’editore, per Enrichetta Caracciolo, affinché la fotografasse
per l’anteporta del libro.
2. La revisione di Stanislao Bianciardi
L’editore, trasmettendo la presentazione del «valente fotografo»
Alinari, si riservò il delicato compito, espletato con grande tatto, di
comunicare all’autrice che desiderava affidare al professore Stanislao
Bianciardi l’incarico di «far qualche carezza allo stile e alla lingua»
del suo lavoro autobiografico16.
[…] Il Signor Cavalier Zambelli le avrà scritto come io abbia assunto
l’incarico di stampare il suo bel lavoro auto-biografico; e le avrà
detto i patti tra noi convenuti; epperciò qui non li ripeto.
Premettendo che il lavoro suo è condotto egregiamente, pure al
momento della stampa l’autore o chi per esso non manca mai di far
qualche carezza allo stile e alla lingua. Non potendo ella rivedere le
stampe, ho procurato di affidare questa cura amorosa al professore
Stanislao Bianciardi toscano, il quale è invaghito al pari di me del
suo lavoro, ed è al pari di me commosso dal racconto di tanti
patimenti da lei sofferti.
Questo signore si restringe a fare poche correzioni, ma dice che ne
farebbe di più ove ella potesse venire qua per un mese, e vedere da
sé se le correzioni le piacciono, ricusare quelle che disdicessero al
suo gusto ed all’indole del suo animo e del suo ingegno.
Non potendo ottenere che ella venisse qua, pare a me il partito
migliore di restringersi a mutare il meno che sia possibile, per es.
15 S. Zambelli a G. Barbera, Livorno 23 giugno 1864, in Archivio Giunti-
Barbera.
16 Cfr. G. Barbera a E. Caracciolo, Firenze 24 giugno 1864, in F. Sciarelli,
Enrichetta Caracciolo dei principi di Forino ex monaca benedettina. Ricordi e documenti,
Napoli, Cav. Antonio Morano Editore, 1894, pp. 25-27.
776 UGO DOVERE [10]
rimarcare fran. in notare, osservare, considerare; dispiaciuta napol. in
dispiacente; domestica fran. in cameriera; ed altre cose simili. Quale
sarebbe dunque il suo desiderio riguardo a questa correzione più o
meno sostanziale? Io penso che se ella non può venir qua, sia meglio
far meno, e così non si correrà pericolo di dispiacerle in qualche
cosa, tanto più che quello stile e quelle locuzioni, qua e là, piaceranno
al lettore, più che sentire un po’ d’arte di scrittore.
Avendo avuto la fortuna di parlare di lei e del suo lavoro con Alessandro
Manzoni, col quale ho qualche famigliarità (se la parola non
è irriverente), il sommo uomo mostrò gran desiderio di leggere un
capitolo, e gli lessi a Pisa, ove dimora ancora per pochi giorni, La
Vestizione, e ne fu contentissimo; e gli ho promesso che la prima
copia sarebbe andata all’Autrice, e la seconda a lui.
Il Sig. Zambelli mi ha dato una lettera d’introduzione per il valente
fotografo Alinari, tanto stimato in Firenze. Egli la pregherà di volersi
prestare per un nuovo ritratto, poiché quello datomi dal Sig. Zambelli
non darebbe una riproduzione soddisfacente.
S’ella si decidesse di venir qua, la pregherei di avvisarmelo subito,
perché la si aspetterebbe; se no, si continuerebbe la composizione
incominciata, e la stampa si comincerà il 1° di luglio. Perciò prego il
Sig. Alinari di mandarmi un telegramma per avere un cenno della
sua risposta a questa mia. […].
L’ideale – suggeriva Barbera – sarebbe stato che autrice e revisore
avessero lavorato insieme per un mese, a Firenze, ma nell’impossibilità
di operare in questo modo, Bianciardi avrebbe potuto procedere
da solo «a fare poche correzioni». A controbilanciare la mortificazione
della forzata pulizia stilistica, l’accorto editore aggiungeva la lusinga
dei complimenti di Manzoni, con il quale egli qualche giorno
prima diceva di aver avuto la fortuna di parlare, a Pisa, leggendogli
il capitolo del libro dedicato alla vestizione monastica. Di un consenso
così importante all’autobiografia della Caracciolo, Barbera non parla
nelle sue memorie, e diverse incongruenze circa le date del soggiorno
toscano di Manzoni17 lasciano immaginare che l’incontro pisano con
l’illustre romanziere lombardo, seppur ci sia stato, non abbia avuto
per oggetto i Misteri del chiostro e che sia stato strumentalmente utilizzato
dallo scaltro editore per blandire l’inesperta autrice.
La lettera sortì l’effetto desiderato. Infatti, con i ringraziamenti a
lui per aver accettato di pubblicare il manoscritto e a Bianciardi per
essersi prestato a correggerlo, la Caracciolo dava a editore e revisore
le più ampie facoltà «di mutare non solo le parole ma bensì le
frasi», se lo avessero ritenuto necessario. Confessava i limiti della
17 Cfr. F. Medioli, Fortune e sfortune, cit., pp. 415-416.
[11] LA NASCITA DI UN BEST-SELLER OTTOCENTESCO 777
sua istruzione e il desiderio che aveva avuto non di fare opera
letteraria, ma solo di far conoscere la sua «dolente istoria». Esprimeva
gratitudine anche all’illustre Manzoni, «rimasto contento della
lettura» di un capitolo della sua opera. Comunicava, infine, che in
quello stesso giorno – era il 6 luglio 1864 – si sarebbe recata a
Napoli per farsi fotografare da Alinari con «il costume monastico»18.
Dal 1° luglio i Misteri del chiostro andarono in stampa nella tipografia
di via Faenza, e anche la revisione stilistica procedette spedita.
Forse su suggerimento del comune amico Niccolò Tommaseo,
che era a lui collegato in quanto esperto della lingua e delle tradizioni
popolari toscane, o forse solo perché era il professore di italiano
del figlio Piero presso l’Istituto Svizzero di Firenze, il manoscritto
della Caracciolo fu affidato da Barbera alla lima stilistica di Stanislao
Bianciardi19. Questi godeva a Firenze la stima di uomo molto
colto e buon conoscitore delle lingue straniere. Aveva studiato legge
a Siena, ma poi a Firenze si era dedicato agli studi letterari e pedagogici,
che aveva avuto modo di approfondire e di applicare nell’istituto
fondato a San Cerbone da Raffaello Lambruschini. Da questi
aveva acquisito la sensibilità per un rinnovamento cristiano delle
coscienze, che, però, nel tempo lo aveva allontanato dal suo antico
maestro, avvicinandolo piuttosto al mondo evangelico toscano. Era
sembrato prossimo al passaggio al protestantesimo20 – traduceva in
italiano scritti acattolici, insegnava in istituti protestanti ed israeliti,
polemizzava contro il clero cattolico –, quando, per influenza di
Bettino Ricasoli, era tornato su posizioni moderate, continuando,
tuttavia, a invocare una riforma interna della Chiesa cattolica, servendosi
di mezzi popolari di propaganda, come la ventina di Veglie
del prior Luca, che diede alle stampe tra il 1859 e il 1868, denunciando
la decadenza del clero e auspicando il ritorno alla semplicità del
Vangelo. Quando mise mano al testo della Caracciolo, Bianciardi,
che scriveva per diversi periodici politico-religiosi21, interpretava il
18 E. Caracciolo a G. Barbera, Castellammare 6 luglio 1864, in Annali bibliografici,
cit., p. 161.
19 Su Stanislao Bianciardi (Montegiovi di Castel del Piano, 1811 – Firenze,
1868), cfr. M. L. Trebiliani, s. v., in Dizionario biografico degli Italiani, X, Roma,
Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1968, pp. 217-219. Si veda pure P. Barbera,
Quaderni di memorie, cit., pp. 67-68.
20 Cfr. G. Spini, Risorgimento e protestanti, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane,
1956, pp. 176-177, 360.
21 Cfr. D. Bretoni Jovine, I periodici popolari del Risorgimento, Milano, Feltrinelli,
1959, ad indicem.
778 UGO DOVERE [12]
disagio politico dei cattolici italiani di fronte alla questione romana
ed esprimeva alcune timide aspirazioni culturali, che sarebbero poi
riemerse a qualche decennio di distanza nel clima modernistico. Per
Barbera, Bianciardi era la persona ideale per mettere mano con competenza
all’autobiografia della Caracciolo, che sembrava idealmente
ricollegarsi a certi temi cari a «L’Esaminatore», la cui stampa il
professore aveva avviato nel gennaio di quell’anno, e proprio nella
tipografia di Barbera22.
I Misteri del chiostro erano attesi in distribuzione per il 1° agosto.
L’editore, pronto a registrarne la proprietà e desideroso di non avere
sorprese da future rivendicazioni dell’autrice, dietro suggerimento
dei suoi legali chiedeva alla Caracciolo di confermare riservatamente
il contratto già concordato con il mediatore greco (diritti
d’autore a Barbera per 1.400 lire e riserva delle traduzioni a
Zambelli)23.
[…] Ebbi la cortese sua lettera del 6, e poco dopo ricevei dal Signor
Alinari le negative del suo ritratto, che si sta ora riproducendo colla
fotografia, e viene veramente bene, perché questo Stabilimento dei
fratelli Alinari è il migliore o de’ migliori d’Italia e anche d’Europa.
Colla stampa siamo al capitolo intitolato Mondragone. Ogni cura è
stata messa perché il lavoro riuscisse degno della materia, veramente
interessante; e forse qualche tono di tinta è stato scemato per
mettere in accordo questa e quella parte, e perché la quiete in alcuni
punti facesse più spiccare il racconto delle altre parti. Posso assicurarle
che il prof. Bianciardi ed io ci mettiamo più che diligenza,
amore; e sono desideroso di avere poi il suo giudizio schietto e
libero su questa parte delicata che ci è toccata, per non essere presente
l’autrice alla stampa.
Per il 1° di agosto io crederei che il volume potesse uscire. In quel
giorno debbo pagare al Sig. Cav. Spiridione Zambelli il prezzo convenuto
per avere la proprietà della edizione italiana, riservandosi
egli la proprietà delle traduzioni. Prima di fare questo pagamento al
Sig. Cav. Zambelli, sarebbe cosa regolare ch’ella mi scrivesse (senza
far cenno di ciò al suddetto Cavaliere, che io conosco da poco tempo,
ma a me pare un degno gentiluomo), autorizzandomi a far liberamente
questo pagamento, aggiungendo che approva il contratto
che detto Cav. Zambelli ha fatto con me, cioè della cessione della
22 Cfr. G. Spini, Risorgimento e protestanti, cit., pp. 372 ss.
23 G. Barbera a E. Caracciolo, Firenze 16 luglio 1864, in F. Sciarelli, Enrichetta
Caracciolo, cit., pp. 27-29. Nella lettera si fa riferimento al capitolo sulla residenza
coatta della religiosa presso il Ritiro Mondragone; sul fatto cfr. U. Dovere,
Enrichetta Caracciolo di Forino al Ritiro Mondragone di Napoli, «Archivio per la
Storia delle Donne», VI (2009), pp. 213-247.
[13] LA NASCITA DI UN BEST-SELLER OTTOCENTESCO 779
proprietà assoluta del suo manoscritto per l’edizione italiana. Senza
questa sua approvazione, dicono i legali amici miei consultati, che il
contratto non sarebbe abbastanza regolare. La prego di non far cenno
di ciò al Signor Cav. Zambelli per non correre pericolo di offendere
la sua suscettibilità, e io non cerco altro che di procedere con
quelle cautele che si richiedono quando si assumono impegni. […].
La lettera dovette aprire alla Caracciolo un orizzonte del tutto
inatteso, lasciandole intravedere la possibilità di un compenso a cui
forse nemmeno aveva immaginato di poter aspirare, ma sul quale
altri accampavano diritti. Malgrado la capziosa richiesta contraria di
Barbera, si mise subito in comunicazione con Zambelli per capire
bene come stava la situazione e quanti soldi erano stati richiesti e
da chi e a che titolo. Non soddisfatta dei chiarimenti ricevuti, sentendosi,
anzi, all’improvviso defraudata dall’antico amico greco che
voleva compensarla con pochi dei molti soldi richiesti, con un perentorio
telegramma scriveva all’editore: «Non mandi denaro al Sig.
Zambelli. Aspetti mia lettera»24.
Le lettera che seguì fu dura e amara. Da essa, infatti, emergeva
l’inesperienza dell’autrice, tradita da persone che solo alla fine dell’impresa
le presentavano il conto di un aiuto che ella aveva sempre
creduto disinteressato, continuando a tenerle nascosto quanto avrebbero
guadagnato con il suo lavoro25.
[…] Mi credo tradita dal Sig. Zambelli e la prego di farmi conoscere
con sollecito riscontro i patti fra loro due convenuti per la stampa
del manoscritto; poiché egli che si è ostinato nel silenzio per più
mesi, ora da me dimandato mi offre una somma di 4 in 5 cento lire,
ritenendo per lui stesso il resto che non so bene di quanto sia. La
prego dunque di nuovo di riscontrarmi subito, e dirmi tra le altre
cose Ella si è obbligata di consegnare al Sig. Zambelli il denaro, e
indicarmi il numero delle stampe dal medesimo chieste per conto
proprio. Senza mia autorizzazione egli fa comparire la sua nipote
come editrice, e mi scrive che devo a questa la somma di lire 700 per
l’incomodo di copiare il manoscritto, altra somma al Sig. Lemmi che
l’ha corretto; ed in fine le spese del suo viaggio a Firenze, quelle
della posta, ec., ec.
Tutte cose fatte senza prima domandarlo, e senza chiedere neppure
il mio parere allorquando seco Lei ha stretto il contratto. Il permesso
da me accordato alla Signorina Marta è stato di tradurre in greco le
24 E. Caracciolo a G. Barbera, Castellammare 20 luglio 1864 (telegramma), in
Archivio Giunti-Barbera.
25 E. Caracciolo a G. Barbera, Castellammare 19 luglio 1864, in Archivio
Giunti-Barbera.
780 UGO DOVERE [14]
Memorie, ed il favore domandato al Sig. Zambelli di farmi conoscere
un editore toscano, e il resto è stato tutto arbitrariamente da lui
fatto senza legale mia autorizzazione.
M’indichi un mezzo per far valere i miei diritti […].
3. La correzione di Adriano Lemmi
Nel conto delle spese affrontate, Zambelli, in una lettera purtroppo
non pervenuta, segnalava anche quelle per la «correzione» del
Signor Lemmi, l’ennesimo a mettere mano all’opera della Caracciolo.
Come suggerisce Francesca Medioli26, dovrebbe trattarsi del
livornese Adriano Lemmi27. Un personaggio di non poco conto nell’Italia
del secondo Ottocento, che collegherebbe Zambelli, e indirettamente
Enrichetta Caracciolo, agli ambienti della massoneria internazionale.
All’epoca, infatti, dopo giovanili disavventure giudiziarie
a Marsiglia e un lungo soggiorno a Costantinopoli, dove si era con-
26 Cfr. F. Medioli, Fortune e sfortune, cit., p. 431, nota 28.
27 Su Adriano Lemmi (Livorno, 1822 – Firenze, 1906), cfr. D. Margotta,
Souvenirs d’un Trente-Troisième. Adriano Lemmi, chef suprème des Francs-Maçons,
Paris, Delhomme et Brignet Editeurs, 1894 (trad. it. Ricordi di un Trentatré, Parigi-
Lione, Delhomme e Brignet, 1895 [rist. anast.: Cosenza, Brenner, 1988]); P. A.
Giorgi, Il trionfo del Grande Oriente in Italia. Adriano Lemmi, Roma, Tip. di Romeo
Della Casa, 1895; L. Bertelli, Adriano Lemmi. Di uomini e cose d’altri tempi in
un caffè che non è più, «Vita» (Firenze), 25 maggio 1906; «Rivista Massonica»,
XXXVII (1906), nn. 3-4 e 5-6, pp. 97-203, fascicoli monografici commemorativi
della morte e del trigesimo, a cura di U. Bacci; A. Luzio, La massoneria e il
Risorgimento italiano. Saggio storico-critico con illustrazioni e molti documenti
inediti, II, Bologna, N. Zanichelli, 1925 (rist. anast.: Sala Bolognese, A. Forni,
2005); G. de’ Neri, L’apostolato massonico di Adriano Lemmi e Giosuè Carducci:
Adriano Lemmi e le classi lavoratrici, Roma, La Poligrafica Nazionale, 1925 (Roma,
Tip. G. Bardi, 19462); E. Michel, Adriano Lemmi esule a Malta, 1852, Valletta,
Unione Tip. Maltese, 1927 (estratto da «Malta Letteraria»); A. Coromaldi, Adriano
Lemmi attraverso il suo carteggio con Kossuth, «Studi e Documenti Italo-Ungheresi.
Annuario della R. Accademia d’Ungheria di Roma», II (1937), pp. 169-176; Lettere
di Giosuè Carducci [ad Adriano Lemmi], «Rassegna Storica del Risorgimento
», XXV (1938), pp. 1023-1048; E. Morelli, L’archivio di Adriano Lemmi, «Rassegna
Storica del Risorgimento», XXV (1938), pp. 1729-1730; Lajos Kossuth nel suo
carteggio con Adriano Lemmi, 1851-1852, a cura di L. Pasztor, Roma, Accademia
d’Ungheria in Roma, 1947; Adriano Lemmi, gran maestro della nuova Italia (1885-
1896), a cura di A. A. Mola, prefazione di A. Corona, Roma, Erasmo, 1985;
Un’amicizia massonica. Carteggio Lemmi-Carducci, con documenti inediti e la
risposta della massoneria alla “Rerum novarum” di Aldo A. Mola, a cura di C.
Pipino, Foggia, Bastogi, 1991 [20064].
[15] LA NASCITA DI UN BEST-SELLER OTTOCENTESCO 781
vertito all’ebraismo, Lemmi era già organico alla rete massonica, a
cui si era avvicinato attraverso Giuseppe Mazzini e Lajos Kossuth,
per diventare, a distanza di qualche decennio, nel 1885, gran maestro
del Grande Oriente d’Italia. L’avventurosa figura di questo
«banchiere romantico» – come troppo benevolmente è stato definito
da qualcuno28 – godeva già di ampia notorietà per il sostegno finanziario
offerto a Mazzini nel 1848, imbarcando la Legione Manara
diretta alla difesa di Roma, e nel 1857 in occasione della sfortunata
spedizione di Carlo Pisacane. E contatti con lo stesso Barbera dovevano
già essercene, se di lì a poco cominciò a collaborare alla sua
«Nazione». La Caracciolo, tuttavia, allora non sembrava conoscerlo
personalmente, anche se più tardi, quando quegli sarà in auge, si
farà premura di contattarlo per questioni relative alla sua famiglia.
Mancando il manoscritto originale, non è possibile sapere quali
correzioni egli abbia apportato, ma è difficile credere che siano state
di carattere letterario. È più facile immaginare che il suo contributo
sia consistito nel rimarcare lo spirito anticlericale dell’opera in funzione
del dibattito politico del tempo circa la soppressione degli
ordini religiosi e l’incameramento dell’asse ecclesiastico29.
A libro praticamente già stampato, l’autobiografia dell’ex monaca
napoletana rischiava di diventare, per Barbera, una rognosa grana
legale. Egli temeva sia le impreviste rivendicazioni finanziarie
dell’autrice sia gli accordi già stipulati con un mediatore ritenuto
affidabile, ma di fatto privo di deleghe a trattare. Era necessario fare
subito chiarezza, dal momento che le Memorie della Caracciolo, forse
proprio perché ritoccate da tante mani, si presentavano come un
caso letterario e un sicuro successo commerciale. Con una delicata
mediazione si dovevano soddisfare le aspettative finanziarie dell’autrice
senza ulteriori esborsi da parte della casa editrice: era
Zambelli che doveva ridimensionare le sue pretese di fronte alle
accuse della Caracciolo di aver tradito la sua buona fede e di aver
travalicato i limiti del mandato affidatogli.
Alla ricerca della faticosa conciliazione, Barbera scrisse a Zambelli,
in vacanza a Montecatini, trasmettendogli la lettera della Caracciolo.
Ma, se aveva sperato di vedere il greco recedere dalle sue richieste
perché colto in fallo, dovette ricredersi. Indignato e sorpreso per le
28 Cfr. M. Vinciguerra, Carducci uomo politico, Pisa, Nistri-Lischi, 1957, p. 45.
29 Cfr. A. Scirocco, Il dibattito sulle soppressioni delle corporazioni religiose nel
1864 e i Misteri del chiostro napoletano di Enrichetta Caracciolo, «Clio», XXVIII
(1992), pp. 215-233.
782 UGO DOVERE [16]
rivendicazioni economiche della Caracciolo e il misconoscimento della
sua opera redazionale, Zambelli si sentì costretto a raccontare crudamente
la vera storia dei Misteri del chiostro, citando lettere in suo
possesso, giammai smentite in precedenza. Non si può credere che
per spirito polemico calcasse la mano più del vero sui limiti dell’autrice
ed enfatizzasse il suo contributo nella risposta all’editore30.
La lettera sua, ricevuta or ora, e la lettera che a lei scrisse la Sig.a
Caracciolo, sono veramente inesplicabili per me. Da quel poco che
posso raccapezzare la Sig.a Caracciolo vorrebbe sospendere la pubblicazione
del libro, infino a che non abbia avuto l’assicurazione che
il prezzo dell’acquisto da lei fatto passerà per intero nella di lei
tasca.
Con tale tratto di slealtà, che non avrei giammai immaginato, la Sig.a
Caracciolo mi porta ad inevitabilmente mettere in luce come le cose
stiano fra lei e me. Senza questa emergenza, che compromette il mio
carattere di gentiluomo, non avrei mai rivelato un affare, che credeva
dovesse rimanere un segreto fra lei e la mia famiglia.
Più e più volte la Sig.a Gruther mi pregò di voler ridurre il suo
manoscritto presentabile alla stampa. Alla vista di quell’orrenda
farragine di fatti, rozzamente redatti, e barbaramente esposti, non
mi son sentito mai il coraggio di imprendere la fatica. Alla fine,
pregato dalla mia nipote, che alla Sig.a Caracciolo interessatasi,
mi determinai di affrontare l’immensa pena. Il manoscritto originale
esiste nelle mie mani, e da quello si può vedere se vi sia stile,
e idea o composizione, che meritino, nonché l’onore della stampa, quello
di sopportabile cronaca del medio evo. Esistono pure due lettere
della detta Sig.a in mia mano, con una delle quali mi autorizza di
farle più onore che mi sarà possibile, coll’altra cede il diritto della traduzione
alla mia nipote.
Ridotto che il manoscritto fu nello stato in cui Ella lo ha avuto, ho
reso conto alla Sig.a Caracciolo, non omettendo pure di parlarle del
prezzo convenuto, ed annunziandole che per compenso alle mie
fatiche (le quali io cedeva del tutto alla nipote) io mi riservava la
metà dei fr. 1400. Dimenticava di aggiungere che in risposta alla
lettera da me indirizzatale col Sig.r Alinari, ella mi dice letteralmente
così: Riconosco Sig.r Zambelli che il mio manoscritto non era punto
presentabile alle stampe nello stato in cui ve l’ho dato: l’onore che me ne
deriverà sarà tutto vostro, e ve ne professerò eterna gratitudine. Cotesta
lettera potrò mandarla a lei, acciocché se ne convinca della mia lealtà,
e dell’inqualificabile comportamento della Sig.a Caracciolo. Dimentico
di aggiungere un altro fatto: nella lettera in cui cede il
30 S. Zambelli a G. Barbera, Montecatini 23 luglio 1864, in Archivio Giunti-
Barbera. I corsivi corrispondono al testo sottolineato.
[17] LA NASCITA DI UN BEST-SELLER OTTOCENTESCO 783
diritto di traduzione alla mia nipote, soggiunge ancora formalmente,
che ove mi decidessi di pubblicare le sue memorie, da me rifatte in
italiano, ella non domandava altra cosa, se non una ventina di esemplari
ad uso suo.
Ora essa muta parere. Ora essa pretende di impadronirsi delle mie
fatiche, e perfino di negarmi il diritto della traduzione.
Mi rincresce per lei, Sig.r Barbera, mi rincresce altrettanto per me,
che per la prima volta nella mia vita sono esposto a fare brutta
figura.
Scrivere a lei sul proposito in cerca di conciliazione, non mi degno.
Soccomberò piuttosto.
Zambelli si stava rivelando un osso duro. Non potendo risolvere
per lettera, Barbera si recò personalmente da lui (alla Caracciolo scrisse
di averlo incontrato a Pistoia, mentre era in procinto di partire per
San Marcello nell’alta Val di Lima), per chiedere di dividere bonariamente
il compenso pattuito in parti eguali con l’autrice. Stando a ciò
che l’editore avrebbe prudentemente raccontato alla Caracciolo di là
a qualche giorno, non dovette essere un incontro sereno: confrontando
il testo che aveva tra mano e il manoscritto originale, egli doveva
riconoscere che solo le molte migliorie apportatevi lo avevano fatto
diventare una vera opera letteraria, ma non poteva negare il diritto
dell’autrice a un equo compenso. Era necessario, inoltre, che autrice
e redattore trovassero un accordo anche per evitare che, in caso di
vertenza legale, la «ricomposizione» dell’opera non divenisse di dominio
pubblico, vanificando l’atteso successo letterario, il perseguimento
del fine politico e i conseguenti lauti introiti. E con la onorevole
proposta di divisione in parti eguali dei frutti economici dei
diritti di autore scrisse alla risentita Caracciolo31.
M’affretto a dirle che ieri mi recai dal Sig. Cav. Zambelli che è a
Pistoia per andare a San Marcello (in Toscana), e quanto alla sua
pretesa di riservarsi la proprietà delle traduzioni, egli di buon grado,
senza alcuna difficoltà, ha rinunziato a questo vantaggio. Persiste
solo nel chiedere un equo compenso delle sue fatiche, che vuol
cedere alla sua Nipote, e prega che la breve Prefazione sottoscritta
dalla Baronessa d’Estraignes rimanga.
Il Sig. Cav. Zambelli per giustificare il suo lavoro letterario intorno
alle Memorie di lei, ha pensato di mandarmi la copia del lavoro
originale di V.S., ed avendolo io percorso ed esaminato nei vari
punti più delicati della narrazione, mi faccio un debito di dichiarare
31 G. Barbera a E. Caracciolo, Firenze 27 luglio, in Annali bibliografici, cit., pp.
162-163.
784 UGO DOVERE [18]
che il lavoro di ricomposizione fatto dal Sig. Cav. Zambelli è molto
accurato, senza che io abbia veduto alterazioni notabili. Il disegno
del ms. di V. S. è mantenuto; soltanto è più colorito, è più lavorato,
è innalzato al grado di lavoro letterario, con ordine, con movimento
regolare, e ben graduato, tale che il libro si leggerà con molto piacere
e produrrà salutari effetti.
Al capitolo dell’Abiura è stato (com’Ella sa) sostituito il tratto, non
ancora stampato, che le mando in bozze; e se debbo dire quello che
penso, io trovo opportuna la modificazione suggerita, anzi eseguita,
dal Cav. Zambelli. In questo modo si dice lo stesso, od almeno
ognuno l’intende, e il lettore cattolico non rimane urtato. Che direbbe
il Manzoni, a cui manderò la seconda copia che avrò pronta, se
avesse letto il capitolo come stava prima?
In compenso di queste fatiche, io mi permetto di consigliarla a contentare
il Cav. Zambelli in due modi: 1° dividendo il compenso in
denaro e in libri; cioè lire 700 per uno, e 25 copie del libro. Sarebbe
un modo pulito e da buoni amici; 2° permettendo al Sig. Zambelli di
pubblicare la prefazioncella dell’amica di lei, signorina Marta. Le
accludo le bozze di questa prefazioncella: è cosa innocente, gentile,
che piuttosto giova a Lei, e al libro. Sembra ch’Ella abbia ceduto alle
istanze di un’amica per far di pubblica ragione le sue Memorie.
Infine deve importare a Lei moltissimo che il Sig. Cav. Zambelli,
depositario di questo segreto della ricomposizione, rimanga contento
e soddisfatto in tutto e per tutto; e io oso sperare che quando Ella
vedrà e leggerà il libro qual è, ringrazierà vivamente il Sig. Cav.
Zambelli della preziosa sua assistenza, quantunque avesse potuto
spiegarsi meglio con Lei prima per ciò che concerne il compenso.
Ma è uso non raro tra letterati di aver ripugnanza a parlare d’interessi
sino al momento ultimo del loro lavoro.
Ora che le ho esposto con schiettezza lo stato vero delle cose, pare
a me che Ella possa con animo tranquillo rispondermi per telegrafo:
Approvo tutto, pubblichi. Se poi io mi ingannassi, ed Ella fosse di
contrario avviso al mio, io dichiaro di mettere in un canto la stampa,
e aspettare che Ella recandosi qua possa da sé chiarire ogni cosa
secondo il piacer suo, ed in tal caso il compenso promesso scemerebbe
secondo l’indugio messo alla pubblicazione. Ma spero che ciò
non accadrà, parendomi ora le cose ben schiarite, e gli interessi di
tutti abbastanza assicurati.
Porgerò i suoi saluti al sig. prof. Bianciardi, che è direttore dell’Esaminatore,
giornale inteso a promuovere la concordia fra la religione
e lo Stato.
La lettera era un capolavoro di scaltrezza col suo tono allusivo.
Zambelli veniva presentato come un uomo disinteressato, preoccupato
solo di garantire un qualche guadagno alla nipote, amica dell’autrice.
La «ricomposizione» non aveva intaccato il disegno origi[
19] LA NASCITA DI UN BEST-SELLER OTTOCENTESCO 785
nario dell’opera, innalzata piuttosto «al grado di lavoro letterario».
Le sostituzioni introdotte sarebbero piaciute a Manzoni. La prefazione
di Marta d’Estraignes era da mantenere, perché avrebbe dato
al volume il tono di una memoria confidenziale più che di un risentimento
a lungo covato o di una strategia politica. L’accordo con
Zambelli conveniva a tutti per evitare lo scandalo…
Enrichetta Caracciolo non poteva a questo punto fermare l’impresa
così laboriosamente avviata. L’ultima sottile minaccia dell’editore,
cioè di accantonare la stampa del libro, giunto pressoché alla
fine, e di ridimensionare il compenso in ragione del ritardo sull’uscita
doveva costringere l’indignata autrice a uscire da qualsiasi
titubanza e a dare il “Si stampi!”.
E di fatto così fu. Una «convulsa» Enrichetta tornò a denunziare il
tradimento subìto, pur tuttavia acconsentì alla stampa; non per denaro
evidentemente, – dichiarava – ma solo per non danneggiare l’editore32.
Oggi ho ricevuta la sua lettera, oggi giorno 30 rispondo. Il danno
suo unicamente mi spinge ad acconsentire che si pubblichi il libro,
ma le giuro che da stamane sono convulsa. La lettura delle paginette
ricevute, nelle quali ho trovato adulterata la verità de’ fatti, non una
sola parola che fosse mia, non una cosa che fosse vera mi ha oppressa,
e convinta che sono stata tradita da Zambelli. L’ideale, il poetico,
non è adattato al racconto di una istoria, la letteratura mal si addice
allo scritto di una donna chiusa a diciotto anni in un Chiostro, dove
non si ha più nozioni di lettere. I preti che aspettano con premura
la pubblicazione delle Memorie per attaccare di falso i fatti de’ quali
non si poteva niegare l’autenticità nel modo veridico che io li citava,
cosa diranno adesso già lo suppongo. Avrei col mio libro trionfato
di loro, adesso sarò umiliata senza aver che rispondere. Ho lasciato
il velo nero sull’altare il giorno dell’entrata di Garibaldi, nel mentre
l’aveva depositato da quattro anni! Ho domandato facendo pratiche
e suppliche alla Chiesa pel consenso al matrimonio, nel mentre ero
già protestante! Ho conosciuto mio marito in un Ospedale, e noi
abitavamo allo stesso piano al Palazzo Schiavone! Ho fatto da infermiera
e farmacista ai Garibaldini, i quali non hanno ricevuto da me
altro che bende! Ed in fine Garibaldi si è occupato a vedere i tesori
di San Gennaro, nel mentre invece al suo arrivo tutti i preti si nascosero
e dovette aspettare un pezzo, finché non si fosse trovato uno
che avesse cantato il Te Deum! Che sarà dell’intero libro se in due
pagine vi sono tante menzogne? Spero, caro Signore, che non mi
darete torto se sono oppressa dal dispiacere e se ascrivo questo
32 E. Caracciolo a G. Barbera, Castellammare 30 luglio 1864, in Annali bibliografici,
cit., pp. 163-164.
786 UGO DOVERE [20]
lavoro del Sig. Zambelli una disgrazia per me. Avrei preferito che
mi fosse stato detto con chiarezza che non era possibile stampare il
mio manoscritto, anziché cambiarlo da capo a fondo senza permesso.
Io desiderava che il lavoro del Sig. Zambelli si fosse esteso a
correggere gli errori di ortografia, a mutare lo stile, le frasi, infine
renderlo presentabile al pubblico; non già formare un romanzo delle
mie Memorie. So che la legge mi dà il diritto contro Lei e il Zambelli,
ma ripeto che unicamente per Lei cedo, che non ha commesso che lo
stesso mio peccato, la buona fede nel Sig. Zambelli.
Un ultimo favore le chieggo se mai fosse possibile farsi quello che in
questo punto mi passa pel pensiero. Si potrebbe dare altro titolo al
libro di già stampato; cambiare la prefazione con la mia firma, e
serbare il titolo e il ritratto per l’altro? Se si può si faccia, se non si
può pubblichi senz’altro indugio.
Pel denaro faccia quello che creda. Il Sig. Zambelli che per delicatezza
non ha voluto parlare sin oggi di niente, delicatamente si prenderebbe
pure tutto.
L’amarezza della Caracciolo, più che l’ingenuità della proposta
editoriale da lei avanzata, cioè di fare, di uno, due libri, suggerì
all’editore qualche estremo ritocco sulle ultime pagine ancora sotto i
torchi, con l’aiuto di Stanislao Bianciardi: qualcosa effettivamente scomparve,
come i racconti del servizio da infermiera garibaldina, per
esempio, e dell’incontro con il futuro marito in ospedale, ma l’impostazione
generale restò. Quest’ultimo limitato ricorso alla lima fu
comunicato a Zambelli, che rispose con una ulteriore risentita lettera
chiarificatrice a difesa dei suoi interventi redazionali, rimarcando con
acredine le incoerenze già presenti nel manoscritto originale33.
[…] Mi congratulo seco Lei pel prossimo termine de’ suoi imbarazzi.
Benché piena d’amarezza, com’ella mi scrive, la lettera della Caracciolo
l’autorizza di procedere alla pubblicazione delle Memorie.
Ne godo di cuore, poiché per tale modo ella al fine uscirà sano dal
prunaio, dove la condusse un concorso di circostanze, non meno
rincrescevoli che inaspettate.
Ma cotesta amarezza della Napoletana donde mai deriva? Forse perché
fra letterati si trovò un minchione, che pose e mente, e cuore, e
sapere, e borsa al di lei servizio, e pel di lei maggior lustro? Forse
perché la è in procinto di fruire di onori e di felicitazioni, che non
le spetterebbero punto, o perché sta per imborsare alcune centinaja
di franchi, cui (com’ella stessa confessa nella sua lettera) non avrebbe
sognato mai?
33 S. Zambelli a G. Barbera, Bagni di Lucca 6 agosto 1864, in Annali bibliografici,
cit., pp. 164-166.
[21] LA NASCITA DI UN BEST-SELLER OTTOCENTESCO 787
No – è evidente che questa amarezza si risolve in questione di denaro.
Virtus post nummos.
Pretendeva quella signora, che autori, traduttori, editori, correttori,
giornalisti, tutti di comune accordo ponessero gratuitamente l’opera
loro al suo maggior profitto; pretendeva, che la letteratura e la stampa,
trattala dall’oscuro uffizio di Dogana, ove dimora, andassero a
gara per esaltarla al trono della celebrità, e soprattutto per arricchirla.
L’amarezza non sarebbe più ragionevole dal canto mio? Dal lavoro,
che ho impreso in buona fede, ed ho condotto con affetto, con zelo,
con probità, col vivo desiderio di moralmente e materialmente pur
migliorare la condizione dell’amica, che altro ne ritraggo finora se
non dispiaceri, e molestie, ed immeritate umiliazioni? Nell’intervallo
che separa le prime proteste della Napoletana e l’epistolare mia rivelazione
de’ fatti, come realmente stanno, non ho dovuto, Sig.
Barbera, soggiacere agli occhi suoi perfino all’imputazione di furfante?
Sì: ella si è comportato meco urbanamente: lo so; ma nel modo
ch’io veniva a lei rappresentato, era ben naturale di suppormi poco
meno che un avventuriere, un mariuolo.
Ah, signor Barbera, un dolore gravissimo mi pesa sull’animo, triplice
dolore, che non mi è lecito di confidare che a lei solo: il dolore,
che a quarantotto anni, e dopo lunga esperienza degli uomini, io mi
sia con soverchia sconsideratezza lasciato gabbare da persona che
calpestò i voti clericali, e rinnegò la religione della sua nazione con
quella medesima disinvoltura, con che domani scivolerebbe dal protestantesimo
al giudaismo, se per avventura i rabbini le promettessero
una sensualità superiore a quella, che probabilmente percepisce
dai ministri della Chiesa Evangelica in Napoli: il dolore di avere
trascinato l’editore nella mia propria trappola, e ciò per effetto della
stessa sconsideratezza: finalmente il dolore di avere ingannato il
pubblico, presentandogli rivestito di poetici colori un essere impastato
d’egoismo, di sordida avidità, d’ingratitudine, di frode, quale
esser doveva per necessità il monaco sfratato, e l’apostata.
Non mi rimane che un solo conforto: quello di avere delineato, sebbene
imperfettamente, un tipo ideale sul ruvido canovaccio, e di
poterlo offrire, io forestiero, all’Italia, che amo non meno della mia
propria nazione.
Vengo ora al fatto dell’ospedale de’ Garibaldini in Napoli, fatto che
quella signora volle togliere dal testo, come inesatto.
In questo di lei tratto si rinchiude un insidioso cavillo: chiaro ch’essa
vorrebbe con ogni mezzo scemare il pregio al mio lavoro, onde
credersi meglio autorizzata in seguito di sofisticare sulla gradazione
della dovutami ricompensa. In prova della di lei incoerenza le invio
per la posta d’oggi il fascicolo dell’originale manoscritto, ove a chiare
note è ripetuto dalla Caracciolo il fatto, che viene imputato d’inesattezza.
Esso sta nella pag. 350.
E profittando dell’ospitalità, si compiaccia, egregio amico, di ritorna788
UGO DOVERE [22]
re un’altra volta sul racconto dell’originale, quale è condotto dall’Autrice
in questo fascicolo.
Posteriormente al fatto degli spedali, l’ex monaca briga presso le nuove
autorità di Napoli per ottenere il posto di Ispettrice de’ Reali
Educandati. A tale voce, le direttrici delle scuole firmano una petizione
di protesta contro la Caracciolo, e molte madri ritirano dalle scuole
le loro figliole per tema che l’ex monaca raggiunga il suo scopo. Fino
qui la confessione dell’Autrice, che a sua difesa taccia di fanatismo le
sue concittadine… Ma queste concittadine, ma le direttrici avevano
esse torto di sospettare la buona fede della Caracciolo, e l’onestà dell’ambita
sua ispezione? Lo dica il lettore del libro, arrivato che sarà al
punto, ove l’eroina fa larghissima ostentazione della sua religiosa
apostasia. – Una protestante in petto, che voleva porsi alla testa della
pubblica istruzione femminile in Napoli! – Così la Caracciolo si compromette
ad ogni passo nell’originale racconto. Gliene potrei citare
cinquanta casi somiglievoli, l’uno più rivoltante dell’altro.
Questo fascicolo ella lo potrà ritenere bene custodito appresso di sé,
a sua norma, infino a che io glielo richieda insieme al ritratto della
ingrata amica, ritratto che in parentesi mi costò fr. 25, e che mi
riserbo di distruggere. […].
Come previsto, malgrado i ritocchi degli ultimi minuti, il volume
apparve nei primi giorni dell’agosto 1864 con il titolo Misteri del
chiostro napoletano. Memorie di Enrichetta Caracciolo de’ principi di Forino
ex-monaca benedettina; fu preannunziato con sapiente pubblicità
sulla «Nazione» e registrato il 9 agosto alla Prefettura di Firenze,
presso la quale il 30 novembre 1865 fu nuovamente registrato in
ottemperanza della nuova legge del 25 giugno 1865 sui diritti spettanti
agli autori delle opere dell’ingegno34. E subito l’editore ne rimise
copia a Spiridione Zambelli, rimasto sdegnato per la minaccia
di sequestro dell’opera giuntagli da Enrichetta Caracciolo35.
34 Se ne veda la documentazione legale in Archivio Giunti-Barbera. La legge
fu pubblicata in Raccolta ufficiale delle leggi e decreti del Regno d’Italia, Torino,
Stamperia Reale, 1865, n. 2337, e nella «Gazzetta Ufficiale», 5 luglio 1865, n. 162.
Entrò in vigore il 1° agosto 1865, e più tardi fu estesa a vari altri territori:
Mantova e Venezia (legge 30 giugno 1867, n. 3769); province romane (regio
decreto 13 novembre 1870, n. 6045, e legge 30 marzo 1871, n. 143); nell’ex Regno
delle due Sicilie era già in vigore (legge del Prodittatore 18 agosto 1860, e
decreto luogotenenziale 17 febbraio 1861, n. 264). Fu modificata da alcune norme
successive: legge 10 agosto 1875, n. 2652; legge 18 maggio 1882, n. 756; regio
decreto 19 settembre 1882, n. 1012. Fu finalmente abrogata dal regio decreto
legge 7 novembre 1925, n. 1950, convertito con legge 18 marzo 1926, n. 562.
35 S. Zambelli a G. Barbera, Bagni di Lucca 9 agosto 1864, in Archivio Giunti-
Barbera. I corsivi corrispondono al testo sottolineato.
[23] LA NASCITA DI UN BEST-SELLER OTTOCENTESCO 789
[…] Le porgo i miei ringraziamenti per i due esemplari inviatimi,
che ho ricevuti ieri sera, e non so congratularmi abbastanza della
buona riuscita dell’edizione. È un volumetto di apparenza veramente
seducente.
Per riguardo a lei non ho scritto, né scriverò alla Caracciolo; attenderò
il probabile suo ravvedimento. Benché lo sleale e sconcio processo,
che presso l’editore ella mi aprì, stracci l’amor proprio mio, e
reclami pronta soddisfazione, pure, fattomi superiore al non meritato
oltraggio, e presi in considerazione gli altrui interessi, aspetterò in
silenzio che giustizia mi sia resa per via di lettera. Se, coerente alla
reciproca amicizia, se coerente alla fiducia che in me ripose nell’atto
di affidarmi il rimpasto delle sue Memorie, si fosse quella signora
rivolta direttamente a me, ogni questione di compenso, ogni difficoltà,
proveniente dalla mutazione del testo, si sarebbe confidenzialmente
e all’insaputa di tutti appianata. Ma ella preferì la via opposta a
quella della scambievole fiducia: m’instaurò un atto d’accusa presso
l’editore, inscio tuttavia della mia segreta collaborazione, accusa in
cui cercò di rappresentarmi, non altrimenti che come un incaricato,
un semplice copista, un ammanuense, intento a defraudarla delle
sue fatiche, ad abusare della sua ingenuità. Né a questo si limitò
quella signora, perché, messo in non cale ogni riguardo, dovuto
senon altro alla civiltà, mi rinfaccia, in piena contraddizione a’ suoi
detti, e alle sue lettere, l’aver chiuso contratto con l’editore, e termina
col minacciarmi il sequestro dell’edizione stessa.
Come ho risposto io al primo annunzio ch’ella, Sig. Barbera, mi
diede di questo strano procedere della Caracciolo? – “Metterò giudizio
nell’avvenire, pagando per ora le spese di stampa”.
Se la Caracciolo avesse avuto notizia di tale generosa determinazione,
non avrebbe ardito mettere in carta quella meschina idea del
sequestro, idea pur sang Napolitana, ingrato prodotto anche questo
della terra sacra alla Camorra e al brigandaggio… Ma basta. Ricadano
sui di lei l’avidità e la perfidia; io ho la coscienza ferma nel
sentimento di averla servita con affetto e con lealtà. Non meno vanto
del disinteresse, poiché non è in mano mia di darne incontestabili
le prove. Ma nell’animo della Caracciolo deve pure esistere incolume
la rimembranza del patto verbale contratto con la mia nipote,
che il profitto da trarsi dall’edizione sarebbe stato diviso fra loro a
metà, e conservo una lettera della medesima, da cui risulta che il
diritto della traduzione (senza alcuna riserva di esemplari) rilasciasi
totalmente all’amica. Ora cotesti accordi sono sconfessati! L’ex monaca
vuole tutto per lei, nulla per l’amica. Egregiamente. Ciò mi
rammenta il motto di Fra Jacopo: Pro omnium manduco.
Da questa succinta, ma sincerissima, esposizione de’ fatti, quali stanno,
e quali possono di leggieri essere messi in evidenza col confronto della
corrispondenza, corsa fra la Caracciolo, mia nipote, e me, risulta che
nell’argomento dell’interesse io non ho, né reclamo parte alcuna. Ho
perfino rinunziato al rimborso delle spese, che di diritto mi rivenivano.
790 UGO DOVERE [24]
Non è però così per quanto riguarda la mia delicatezza. Non avendo
l’uso di offendere alcuno, non permetto che alcuno si pigli giuoco
del mio amor proprio, e non è certamente, se non in grazia de’
riguardi, dovuti all’Editore, che, armatomi di pazienza, io aspetterò
dalla Caracciolo una lettera soddisfacente, quale credo di meritarmela.
Sarà ella paga del mio letterario sussidio? Non lo so. In ogni caso,
miglior giudice di lei sarà il Sig.r Barbera, né dovrà ascrivere a colpa
mia se non ha cercato essa d’un amico più capace di me nel disimpegno
di quell’opera. […].
Barbera, sperando di far opera di riconciliazione per evitare il
rischio di uno scandalo pubblico, quando inviò all’autrice le prime
copie del libro e le 700 lire del compenso, le sollecitò una lettera di
riavvicinamento, falsamente rappresentandole uno Zambelli pentito
di non essersi comportato in maniera corretta, ma soddisfatto della
segreta revisione compiuta36.
[…] Mi ha fatto proprio consolazione più che piacere ricevere la sua
ultima del dì 8 corrente, dalla quale scorgo ch’Ella si è calmata
alquanto, e giovami sperare che avendo a quest’ora il libro tra mani,
avrà visto che poi il diavolo non è così brutto com’Ella forse immaginava
dopo quanto accadde tra lei e il Sig. Zambelli. Ma che cosa
dico io di diavolo: tutt’altro che cosa brutta, il suo piace immensamente
e a uomini e a signore, e in Firenze non si parla d’altro nelle
conversazioni che del suo libro e dei suoi casi strani e pietosi. Dalle
lettere del Sig. Zambelli scorgo che sente di non essere proceduto in
regola, non le avendo parlato subito del compenso: del lavoro letterario
non sa pentirsi, perché crede di aver lavorato con affetto, e di
esserne stato autorizzato.
Poiché Ella è stata così gentile da ascoltarmi finora senza conoscermi,
e senza avermi mai veduto, dia retta a me: finita la lettura del
libro, scriva una lettera al Sig. Zambelli, e la mandi a me: in essa
lettera, Ella deve procurare di calmare l’animo commosso di quel
signore, che possiede un segreto prezioso, e che mi scrive non avere
avuto più quiete per la triste figura fatta con me.
Scriva, la prego, una lettera come il cuore di una gentil donna sa
scrivere, e allora vedrà che tutti i dispiaceri saranno sepolti, ed Ella
rimarrà contenta di aver quietato l’animo di un signore che non
seppe (forse per inesperienza) compiere l’opera con quella abnegazione
con cui l’aveva cominciata. Io vivo fiducioso che Ella mi vorrà
contentare, e in tal modo io sarò compensato delle afflizioni che
provai per le divergenze avvenute tra lei e il suo amico Zambelli.
36 G. Barbera a E. Caracciolo, Firenze 11 agosto 1864, in Annali bibliografici,
cit., pp. 166-167.
[25] LA NASCITA DI UN BEST-SELLER OTTOCENTESCO 791
Eccole in due vaglia postali le lire 700, per sua parte del compenso
fissato per la cessione della proprietà assoluta dell’edizione italiana
del suo lavoro: Misteri del chiostro napoletano.
Le mando ancora 19 copie del suo libro, ed in tal modo ho compiuto
al mio debito verso di lei; e verso il Sig. Zambelli lo adempirò in
persona domani l’altro, recandomi personalmente ai Bagni di Lucca,
dove egli ha preso stanza per tutto il 15 di settembre. […].
Il 15 agosto Zambelli accusò ricevuta del compenso di 700 lire,
pattuito come parte sua per i diritti d’autore37.
Alla fine del 1864, grazie alle molte copie vendute, l’editore pagò
alla Caracciolo un compenso extra di 200 lire, che le inviò insieme
a quattro copie della quarta edizione del libro, ben gradite dall’autrice,
assillata da richieste di omaggi38.
Ho ricevuto con piacere il dono delle quattro copie della 4ta edizione
del mio libro, e La ringrazio. Giunsero molto a proposito essendone
senza; ed ogni giorno mi arrivano domande, massimamente di scrittori
che inviandomi copia de’ loro lavori mi dimandano in ricambio
una del mio munita della mia firma. Appago il di Lei desiderio che
vuol conoscere gli encomî che la pubblicazione delle Memorie mi ha
procurati. Infatti, messi in bilico la lode ed il biasimo del partito
clericale, posso essere contenta del doppio peso nella coppa della
lode. Mi giungono ogni giorni [sic] lettere d’ispirata simpatia, ricevo
visite di personaggi distinti o loro carte di visita, i giornali non
finiscono di parlarne; ed il Governo mi assicura della sua protezione.
Molte Signore si sono raccomandate alle mie sorelle per sapere
con precedenza il giorno che potrò portarmi in Napoli onde conoscermi,
e siccome non tutte le copie della 4ta edizione hanno la fotografia,
esse mi vengono continuamente domandate.
Poiché qui si ferma lo scambio epistolare documentato dall’archivio
Barbera e dalle memorie dell’editore, non è dato sapere se la
Caracciolo e Zambelli si siano riconciliati o almeno abbiano ristabilito
civili, se non amichevoli contatti tra loro. Ma è lecito dubitarne,
per come le vicende della pubblicazione furono poi ricostruite
trent’anni dopo da Francesco Sciarelli, direttamente informato sui
fatti dalla ormai anziana scrittrice. Mentre è certo che – come anno-
37 S. Zambelli a G. Barbera, Bagni di Lucca 15 agosto 1864, in Archivio
Giunti-Barbera.
38 E. Caracciolo a G. Barbera, Castellammare 7 ottobre 1864: Firenze, Biblioteca
Nazionale Centrale, Raccolta Barbera, cassetta 1, n. 34: Enrichetta Caracciolo
in Greuther a Gasparo Barbera.
792 UGO DOVERE [26]
tava ruvidamente Tommaseo – «il sudicio Barbera fece con quel
libro quattrini»39.
★ ★ ★
La vicenda qui ricostruita, sebbene racchiusa nell’arco di poco più
di due mesi, fu complessa. Elementi caratteriali e interessi economici
emergono prepotenti fra i protagonisti e si intersecano in continuità,
lasciando purtroppo insoddisfatta la naturale curiosità di sapere quanto
c’è della Caracciolo nelle sue memorie e quanto è invece frutto della
penna e della lima altrui. La revisione delle sue memorie, infatti, non
aveva riguardato solo lo stile, anzi aveva intaccato i fatti. Si era trattato
davvero – come diceva Barbera con termine ambiguo – di una
«ricomposizione», ma nel senso che parti intere erano state stravolte
per accontentare il gusto del pubblico, e di un pubblico ben identificato,
forse per rispondere a un progetto politico, certamente non rispettando
il resoconto e i propositi dell’ex monaca, che non aveva
ancora cominciato a coltivare velleità letterarie, ma che solo desiderava
dare libero sfogo alla memoria per raccontare le prepotenze che
riteneva di aver subìte prima di abbandonare la vita consacrata.
I dubbi avanzati da Enrichetta Caracciolo sull’andamento letterario
dell’ultimo capitolo devono necessariamente proiettarsi su tutta
questa singolare autobiografia, togliendo a questo punto – come peraltro
già temeva l’autrice – valore storico e documentario a molti
degli episodi narrati, specie a quelli più letterariamente elaborati.
Certo, alcune soluzioni narrative dei Misteri sono particolarmente
suggestive – come, per esempio, quella del velo deposto su un altare
del duomo di Napoli il 7 settembre 1860, mentre Garibaldi assisteva
al Te Deum –, e perciò trent’anni dopo trovavano accoglienza anche
nella biografia di Francesco Sciarelli, orientata dalla stessa Caracciolo,
ma non per questo i fatti narrati diventavano più “storici”, più veri.
Ugo Dovere
(Università Suor Orsola Benincasa – Napoli)
39 N. Tommaseo, Diario intimo, cit., p. 446.
ROSSELLA ABBATICCHIO
Nell’inferno della grande guerra.
In margine a una novella di Federico De Roberto
A short tale by Federico De Roberto, first published in 1920 on a
periodical review, Il rifugio (The haven) is part of a group of tales
published by De Roberto between 1919 and 1923. It analyzes deeply
and from various perspectives the topic of desertion: but the main
character, the deserter, son of a peasant family of northern Italy, who
writes nothing but lies to his parents about his glorious behaviour as
a soldier, but shows a certain boldness when he’s being justiced, far
from being by no means despicable, could maybe represent the natural
human opposition to the war logic and to its absurd “sacred duties”.
“Dovendosi stasera, alle ore quattro, nella località denominata Pra’ Maggese,
eseguire la fucilazione alla schiena del soldato Bardelli Giuseppe, cotesto comando
provvederà perché nell’ora indicata si trovi sul posto un plotone per compagnia
dei reparti dipendenti, allo scopo di presenziare la detta esecuzione”1.
Queste le parole che, richiamate dall’innocente burla di alcuni
compagni, tornano a riecheggiare nella mente del capitano Evangelisti,
protagonista-narratore de Il rifugio, una novella di Federico De
Roberto pubblicata per la prima volta ne «L’illustrazione italiana»
tra il settembre e l’ottobre del 1920: partecipe di un gruppo di novelle,
«tardivo e inaspettato sussulto d’artista»2, che De Roberto
pubblicò, fra il ’19 e il ’23, su diverse riviste. Novelle che, è stato
1 F. De Roberto, Il rifugio, in Id., «La cocotte» e altre novelle, a cura di S.
Zappulla Muscarà, Milano, Armando Curcio Editore, 1979, p. 165. Tutti i passaggi
testuali contenuti nel presente saggio sono tratti da questa edizione, e
saranno d’ora in avanti segnalati nel corpo del saggio con l’indicazione del solo
numero di pagina. Una nuova edizione delle medesime novelle è in corso di
stampa con il titolo Novelle di guerra (Prefazione di N. Zago, Schede introduttive
ai testi di R. Abbaticchio) per i tipi di Palomar (Bari).
2 Mutuo questa cogente definizione da N. Zago, Introduzione a F. De Roberto,
Novelle di guerra, Bari, Palomar (in corso di stampa).
794 ROSSELLA ABBATICCHIO [2]
osservato, «sparse in una frastagliata tessitura di testate» appartengono
all’ultima stagione dello scrittore siciliano, quella in cui il
particolare scrupolo documentaristico e la continua commistione di
analisi linguistica e psicologica che caratterizzano l’intera sua opera
affiorano in una veste nuova, più intensa3. Queste novelle, «mentre
paiono suggerire una restaurazione di tipo naturalista, in realtà
prospettano innovazioni», le migliori almeno, che ne fanno l’ultimo,
interessante frutto del cosiddetto «sperimentalismo derobertiano»4 e
rappresentano un cospicuo contributo dello scrittore alla letteratura
di guerra allora assai in voga. Una chiave di lettura per queste
novelle può essere data – come ha rilevato Paolo Sipala – dalle
prose giornalistiche che De Roberto compone nel periodo della Grande
Guerra e pubblica successivamente, durante il quale lo scrittore
«sospende ogni attività creativa e fantastica, appende alle fronde
dei salici la propria cetra e si volge alla storia e alla memorialistica
per trarne “ammaestramenti e conforti”» – una fase di cui fanno
parte anche i forse più noti Al rombo del cannone e All’ombra dell’ulivo5.
Sono pagine in cui De Roberto ricostruisce, sulla traccia di
pubblicazioni recenti, il profilo di personaggi storici o la condotta
strategica di battaglie memorabili, e vi inserisce riflessioni morali
che appunto alimenteranno, di lì a poco, tutte le sue novelle di
guerra6.
Per tornare al Rifugio, la fronda benedetta che inavvertitamente
scivola fuori dal portafogli del capitano Evangelisti nel corso di una
serata conviviale, scambiata da alcuni convitati per il pegno d’amore
di una innamorata lontana, riporta all’orecchio dell’ufficiale le
parole contenute in quella sorta di ordine di servizio, citato qui in
apertura, con il quale egli era invitato, appunto in qualità di ufficiale,
ad assistere ad una esecuzione.
Il rifugio affronta, dunque, con grande efficacia e pluralità d’accenti,
il tema della diserzione7. La vicenda, di cui l’esecuzione costituisce
solo un primo epilogo, non suona da principio insolita: presso
il battaglione 309, dislocato in località Pra’ Maggese, una pendice
3 S. Zappulla Muscarà, Introduzione a F. De Roberto, «La cocotte» e altre
novelle, cit., p. 6.
4 Cfr. N. Tedesco, Federico De Roberto e la linea analitica e plurilinguistica del
realismo siciliano, in Storia della Sicilia, vol. VIII, dir. da N. Tedesco, Roma, Editalia-
Domenico Sanfilippo Editore, 2000, p. 62.
5 Paolo M. Sipala, Introduzione a De Roberto, Bari, Laterza, 1988, p. 136.
6 Ivi, pp. 136-37.
7 N. Zago, Introduzione a F. De Roberto, Novelle di guerra, cit.
[3] NELL’INFERNO DELLA GRANDE GUERRA 795
delle dolomiti bellunesi, viene condotto un giorno un soldato, Giuseppe
Bardelli, «accanto al cui nome, nel ruolino di marcia – narra
de Roberto – si leggevano due sole ma molto eloquenti parole: da
sorvegliare» (p. 157). Di non maggiore conforto i dettagli contenuti
nella lettera di accompagnamento: «due volte disertore, due volte in
osservazione per lesioni procurate, condannato quindi ad una serie
di pene da scontare a guerra finita». Il soldato viene condotto di
fronte al colonnello, descritto da De Roberto come «[…] un pastore
che guida la sua greggia, si mescola ad essa, la riordina a un cenno
della verga, richiama le pecorelle sbandate, sceglie per loro il sito
della sosta, resta in piedi a vigilare mentre meriggiano» (p. 156), e
che evoca dunque nella narrazione, è stato osservato, l’immagine
dell’evangelico Buon Pastore, istituendo di conseguenza un diretto
rapporto tra la sfera militare e quella religiosa8. Il colonnello, il cui
ruolo di ufficiale, è stato altresì rilevato, consiste di fatto nell’essere
responsabile «della vita, della organizzazione, della tenuta, del
morale, della coscienza, soprattutto della coscienza, di decine e centinaia
d’uomini»9, con il suo fare consueto di guida benevola chiama
in disparte il Bardelli e pronuncia parole che, effettivamente,
sembrano dette da un padre per riprendere e rincuorare un figliolo
discolo, piuttosto che da un ufficiale per ammonire un soldato pluridisertore:
Saprai che non tutte le pallottole colpiscono nel segno […]; si è fatto
il conto che se ne perdono un centinaio per ognuna che arriva a
destinazione; ciò vuol dire che la maggior parte di noi ce ne torneremo
con la pelle intatta, o alla peggio con qualche rattoppatura, a
goderci la santa pace della casa e le care gioie della famiglia. Ma chi
non fa il suo dovere, quello è certissimo di non tornarci tanto presto,
e fors’anche mai più: hai capito? […] (p. 157);
e al «Sissignore, signor colonnello» diligentemente pronunciato dal
8 Cfr. L. Sannia Nowè, Le voci dell’onore e della paura. Le novelle di Guerra di
F. De Roberto (1919-23), «Italianistica», IX, 2-3, 1982, pp. 309 ss. Una riflessione
generale sulla struttura e sulla genesi delle novelle di guerra è pure in A.
Navarria, Le novelle di De Roberto del 1910 e della Grande Guerra, «L’osservatore
politico-letterario», anno XIV, n. 11 (novembre 1968), pp. 58-73; e nella recente
riedizione del pregiato studio di A. Di Grado, La vita, le carte, i turbamenti di
Federico De Roberto, gentiluomo, Acireale-Roma, Bonanno 2007 (1998), in part. nel
cap. XIII Ebbrezza di naufragi, alle pp. 319-21.
9 Si veda già a questo proposito l’assai documentato studio di M. Isnenghi,
Il mito della Grande Guerra, Bologna, il Mulino 2007 (1989), in part. la p. 273.
796 ROSSELLA ABBATICCHIO [4]
soldato, l’ufficiale pospone solo un ultimo monito: «Giudizio dunque,
che non occorre altro!».
Alla benevolenza paterna del colonnello, il Bardelli risponde però
con una serie di comportamenti vili e offensivi per il colonnello stesso
e per i soldati più coscienziosi di lui: mandato a compiere una
missione di altissima fiducia, simula una cardiopatia e batte in ritirata
proprio mentre il fuoco nemico si apre sui compagni. «Non si dirà –
è il commento benevolo del colonnello a questa prima diserzione –
che un uomo sarà perduto perché non avremo saputo come prenderlo
né ricorso a tutti i mezzi capaci di salvarlo» (p. 159): destinato
lontano dal fuoco nemico, ai lavori di sistemazione della linea, «il
primo giorno che fu condotto al lavoro, costui [cioè il Bardelli] diede
si e no qualche dozzina di colpi di piccone, e poi si lasciò cadere lo
strumento dalle mani, dichiarando di non poterne più» (p. 160). «Che
posso dirvi ancora? – narra il capitano Evangelisti ai suoi convitati –
Tutto quanto si fece per ridestare quella coscienza riuscì vano»: al
punto che persino il colonnello, un padre per tutti i suoi soldati,
«montò in una di quelle collere mute che mettevano spavento».
Senonché, anche di fronte alle punizioni più dure, le peggiori, cui il
colonnello decide, sebbene a malincuore, di ricorrere,
quel briccone [opponeva] ai sanguinosi rimproveri il suo eterno sorriso,
qualunque cosa dicessero, in qualunque fallo lo cogliessero:
Sissignore signor tenente…sissignore signor capitano…sissignore signor
dottore…; [un fare che] avrebbe fatto propriamente dannare un santo,
nonché uomini di carne ed ossa, esposti ai pericoli come lui, più
di lui, eccitati dalla continua tensione dello spirito, gravati da mille
responsabilità (pp. 159-160).
Al terzo tentativo di fuga, più grave degli altri perché causa di
una improvvisa e inaspettata apertura del fuoco da parte delle linee
nemiche, ogni residuo di compassione viene però meno: «Il disgustoso
avvenimento fu denunziato ai comandi superiori; la divisione
ordinò che il disertore fosse attivamente ricercato […]», finché «ci fu
condotto un soldato arrestato nelle retrovie, del quale si sconosceva
il nome e il numero del reggimento, avendone dati quattro o cinque
falsi. […] Quando udii questa storia – prosegue il capitano Evangelisti
– pensai con raccapriccio che […] dovesse essere il nostro fuggiasco
» (p. 162). E si tratta in effetti del Bardelli, il quale anche in
questa occasione tragicamente solenne non rinuncia all’«eterno,
ambiguo sorriso vagante sulle labbra e sugli occhi». Ma è la voce
tonante, amara, improvvisa del colonnello, avvertito del ritrovamento
[5] NELL’INFERNO DELLA GRANDE GUERRA 797
del disertore, che fa sussultare il capitano Evangelisti: «Ah, sei tu?»;
e alla consueta risposta «Sissignore, signor colonnello», «proferita
con voce untuosa, [con un] falso sorriso che accompagnava le parole
e dava loro un senso di improntitudine, quasi di sfida, il nostro
capo adorato, quell’uomo dal cuore d’oro, il Nonno, il padre, levò il
bastone [sul soldato] e ne lasciò cadere un colpo tremendo». Ora,
nella logica della guerra, questo gesto ha un che di ‘abusivo’10: come
spiegato da De Roberto, «Il disertore […] era inesorabilmente condannato
a morte. Avrebbe dovuto esser sacro. Come incrudelire
sopra un morituro?» (p. 163). Ed è pure interessante osservare come
De Roberto, il quale, spinto dalla rinnovata poetica naturalistica
sottesa alle novelle di guerra, si era documentato puntigliosamente
sulla vita in trincea, e dunque sul diritto penale militare e su quello
civile11, spiega l’inaspettata reazione del colonnello:
Nel vedersi improvvisamente dinanzi lo schernitore, rammentandone
la protervia, scorgendone il sorriso beffardo, colui che aveva tanto
perdonato non si era potuto difendere dallo scatto della passione
umana (p. 163).
Il comandante resta anzitutto un uomo: ed è proprio l’uomo che,
rientrato in sé dopo l’impeto di collera, prende coscienza di avere
contravvenuto alla tacita sacralità riservata ad un condannato a
morte. Le mani del colonnello «tremarono, e lo sguardo si spense»:
mentre il disertore, dopo aver appena accusato il colpo con una
«tacita smorfia di dolore», aveva immediatamente ripreso «il suo
freddo sorriso», dimostrando come «il colpo non avesse fatto tanto
male al colpito quanto a chi lo aveva tratto».
Il capitano Evangelisti, giunto presso quel comando per adempiere
a tutt’altro ufficio, assiste dunque alla «tristissima scena» del
tormento di chi il colpo lo aveva inferto:
Quell’uomo – narra il capitano riferendosi al colonnello – era in preda
ad una commozione violenta. Andava rapidamente, a capo basso,
come chiamato, come aspettato, o come fuggendo. Fermatosi ad un
tratto […] alzò il bastone, ne afferrò anche la punta con l’altra mano,
lo spezzò d’un colpo […] e ne scagliò lontano i due pezzi (p. 163).
Il capitano Evangelisti assiste immobile, da lontano, a quel tormento:
«Se non fosse stata la soggezione della gerarchia – spiega ai
10 Rinvio a M. Isnenghi, Il mito della Grande Guerra, cit.
11 L.Sannia Nowè, Le voci dell’onore e della paura, cit.
798 ROSSELLA ABBATICCHIO [6]
suoi ascoltatori – lo avrei raggiunto», probabilmente con l’intento di
dargli un conforto, di mostrargli l’assoluta giustificabilità del suo
gesto. Ma la gerarchia militare impone che il capitano sia inadeguato
al compito di ‘consolare’ un ufficiale di più alto grado, e Evangelisti
non può fare altro che attendere in silenzio che il suo superiore
si riabbia dal turbamento.
Intanto, le disposizioni del caso non tardano ad arrivare: la costituzione
del tribunale militare, mera formalità: «[…] diserzione in
presenza del nemico: l’ultimo soldato sapeva la pena inevitabile»; la
condanna del Bardelli, cui neanche «[…] la tremenda maestà della
giustizia […] valse a strappare il sorriso tra ebete e dileggiante»; e
poi l’ultimo, accorato ordine del colonnello agli ufficiali dei diversi
distretti:
[…] intendo che lor signori raccolgano a gruppi le truppe e illustrino
le ragioni che hanno indotto i giudici a pronunziare la sentenza…
[non riesce a dire di morte] … che hanno pronunziata. Dimostrino la
gravità del caso, rammentino le continue recidive, l’oblio di tutti i
perdoni ottenuti, il disprezzo di ogni sentimento di dovere, l’ignominia
della fuga, l’obbrobrio dei travestimenti, l’insulto fatto alla
bandiera, il tradimento commesso contro la patria… (pp. 165-66);
a spiegare a tutti che, prima di giungere all’atto gravissimo della
diserzione, a fare un cattivo uomo e un cattivo soldato ci sono
«tutte le varie forme di indisciplina e insubordinazione che esprimono
l’insofferenza del soldato, […] la sua refrattarietà: ora segni
impercettibili, ora gesti clamorosi»12. E mentre tutti, commilitoni e
superiori, sentono risuonare come campane a morto le indicazioni
di rito – l’ordine di disposizione del plotone e del condannato,
l’obbligo di assistere all’esecuzione per almeno un battaglione di
ogni distretto –; e cercano, senza riuscirci, di non badare alle ore
che passano, di ignorare quel tragico conto alla rovescia che inesorabile
condurrà alla esecuzione della sentenza, il capitano Evangelisti
viene convocato dal colonnello per ricevere le disposizioni per le
quali era stato originariamente chiamato. Ma giunto presso l’ufficio
del colonnello, gli toccherà ancora di assistere impotente al tormento
che affligge l’ufficiale più di tutti gli altri, poiché interiormente
dilaniato dalla consapevolezza (seppure scevra da colpa) di non
essere riuscito a salvare uno dei ‘suoi ragazzi’:
12 Cfr. A. Gibelli, L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni
del mondo mentale, Torino, Bollati Boringhieri, 1998 (1991), p. 142.
[7] NELL’INFERNO DELLA GRANDE GUERRA 799
Solo, seduto dinanzi al tavolino dove teneva appoggiati i gomiti, il
colonnello si reggeva la fronte con le mani; immobile, astratto, estraneo
alla circostante realtà, tutta la sua vita pareva concentrata nello
sguardo col quale seguiva il moto della lancetta dell’orologio deposto
dinanzi a sé, sulle sue carte…In quel preciso momento il braccio
dell’ufficiale che comandava il plotone d’esecuzione si abbassava, la
scarica partiva… (p. 169).
È la voce del capitano Evangelisti, chiamandolo più volte, a scuotere
il colonnello: il quale, rientrato in sé, consegna al capitano una
busta di documenti riservati da consegnare al Comando d’armata. Il
capitano si allontana spedito, pronto a svolgere il compito affidatogli,
segretamente sollevato di non dover più assistere a quell’indicibile
tormento: ignaro di quello che di lì a poco avrebbe assalito lui,
inaspettato, fatale, proprio mentre si accingeva a svolgere questa
missione.
Evangelisti si avvia, dunque, con l’importante plico affidatogli
dal colonnello sottobraccio, per andare incontro al sottoufficiale che,
a bordo di una macchina militare, lo avrebbe rilevato e condotto
presso il Comando d’armata. Ma se l’ordine del colonnello era servito
a risparmiarlo dall’assistere alla esecuzione capitale del disertore,
questo non basta ancora ad evitargli di discendere le pendici del
Pra’ Maggese proprio nel momento in cui, narra De Roberto, «[…]
in un velo da tenda, sulla barella, dinanzi alla quale il cappellano
recitava l’ultima preghiera, la salma del soldato giustiziato veniva
sepolta». E non riesce, Evangelisti, nemmeno a non udire gli ultimi
commenti dei soldati incaricati del triste ufficio: «È morto com’è
vissuto…Non un lampo di ravvedimento; non un pensiero per i
suoi cari…Lo stesso atteggiamento sprezzante, lo stesso falso sorriso
sul viso appena più pallido…» (p. 170). Il capitano prosegue
oltre, spedito: per andare a svolgere il suo compito, ma anche – si
può pensare – in un ultimo tentativo di sfuggire a quello spettacolo
angosciante.
Giunto al luogo dell’incontro, dopo un percorso cui De Roberto
dedica una suggestiva descrizione paesaggistica13, il capitano Evangelisti
dovrà però aspettare più di un’ora prima di veder giungere
13 Sull’attenzione riservata da De Roberto agli elementi paesaggistici, e più
in generale sul suo naturalismo si vedano ancora A. Di Grado, La vita, le carte,
i turbamenti di Federico De Roberto, gentiluomo, cit. e C. A. Madrignani, Introduzione
a F. De Roberto, Romanzi novelle saggi, Milano, Mondadori (Serie “I Meridiani”),
2004 (1984).
800 ROSSELLA ABBATICCHIO [8]
l’automobile con il sergente incaricato di accompagnarlo: e nel frattempo,
come nella più documentata tradizione delle narrazioni ‘cupe’
e drammatiche, iniziano a manifestarsi con crescente intensità i segnali
d’arrivo di un tremendo temporale:
Ma ecco: un sordo fragore… sono carri di munizioni…Ma questa è
una più formidabile voce: è il tuono! E non sono più le fiammelle
dei colpi: sono i lampi che incendiano il velario del cielo. Una battaglia
vi s’impegna, e quella degli uomini ne resta come annullata.
La terra trema allo scroscio dei fulmini, il cielo si squarcia al guizzo
delle saette. Che cosa valgono più i nostri piccoli arnesi di morte?
(p. 172).
A questa descrizione bene si attaglia quella seguente, non meno
suggestiva, dell’arrivo dell’automobile:
Eccoli, gli occhi di fuoco ardente che rompono il buio della notte e
bagnano di luce il suolo e le siepi […]. Riprendono a brillare più
vive, più vicine, nelle tenebre rifatte, ed io mi fermo in mezzo alla
via, con una mano levata verso la bestia sopraggiungente nel fiotto
luminoso che spande dinanzi a sé.
È forse interessante qui rilevare come questa descrizione sia speculare
rispetto all’incipit di un’altra, forse più celebre novella di guerra,
La paura, in cui si legge: «Nell’orrore della guerra l’orrore della
natura», con un riferimento alla desolazione del panorama che lì De
Roberto usa come ambientazione («un paese fantastico, uno scenario
da Sabba romantico, la porta dell’Inferno»14). Nel Rifugio si vuole che
sia l’orrore della natura in tempesta a contenere quello della guerra:
la quale – se dobbiamo stare a De Roberto – non può, per quanto
fragorosa, pareggiare l’orrore delle più tremende tempeste.
Evangelisti riesce dunque ad avviarsi, assieme al sergente incaricato,
alla volta del Comando d’armata: ma un ulteriore imprevisto
14 F. De Roberto, La paura, in Id., «La Cocotte» e altre novelle, cit., p. 207.
Apparsa per la prima volta in «Novella» (Milano, 15 agosto 1921) e poi
ripubblicata come postuma ed inedita ne «La fiera letteraria» del 31 luglio 1927,
La paura resta ad oggi la novella di guerra più investigata dell’autore siciliano.
Alcune fini letture su questo testo sono in A. Di Grado, L’ultimo De Roberto, in
Società e letteratura a Catania tra le due guerre, a cura di C. Musumarra, Palermo
1978; Id., Ebbrezza di naufragi, in La vita, i turbamenti, le carte di Federico De
Roberto, Galantuomo, cit.; e P. Guaragnella, Il teatro della Grande Guerra nel De
Roberto postremo, «Belfagor», anno LXIV n. 4 – 31 luglio 2009, pp. 393 ss. La paura
è stata di recente riedita a cura di A. Di Grado per i tipi di E\O (2008).
[9] NELL’INFERNO DELLA GRANDE GUERRA 801
giunge a intralciare il suo percorso. L’automobile, la «bestia» sopraggiunta
nel «fiotto luminoso» manifesta presto un guasto, non
riparabile a causa dell’imperversare del temporale: avuta conferma
dal sergente della necessità di aspettare l’indomani mattina per
proseguire, il capitano prende «rapidamente la sola risoluzione adatta
alle circostanze: “Cerchiamo se c’è una casa, un cascinale, un tetto
qualunque dove ripararci”» (p. 175). Avendo scelto il sergente di
restare a guardia dell’automobile, Evangelisti si avvia da solo attraverso
i campi bui sul limitare della strada.
È lo stesso De Roberto a denunciare, in una sorta di inserto
metanarrativo, lo stile quasi fiabesco della vicenda: «Come nelle
fiabe: cammina cammina, ecco risplendere un lumicino». Affrettato
il passo, il capitano giunge all’uscio di una dimora contadina dove,
al grido di «“Aprite! Ufficiale dell’esercito! Servizio di guerra!” […]
un uomo incappottato e incappucciato, con una lanterna cieca in
mano, venne ad aprirmi» (p. 176). E se di stile fiabesco deve parlarsi,
almeno per questo passo della novella, dietro quell’uscio aperto
di fretta e furia non può che esserci, assieme all’uomo, tutta la
famiglia «[…] levata incontro all’ospite inatteso»: la quale, sotto le
direttive del padre, si prodiga per offrire la più generosa ospitalità:
«Prima de tuto, l’è meio ch’el se cava i panni e i stivali…Togna, tu
intanto impissa el ciaro e inasialo su in camera…Vecia, ti prepara
qualcosa da magnar…El sior capitano el gavarà bisogno un po’ de
ristorarse…» (p. 176).
Si manifesta qui per la prima volta nel racconto quella che altrove
è stata definita la cifra distintiva delle novelle di guerra rispetto
alla precedente narrativa derobertiana: l’adozione del plurilinguismo,
ovvero l’uso esteso dell’elemento vernacolo. «Dopo aver rinnegato
ciò che avvertiva come riduzione delle possibilità della lingua madre,
De Roberto dà diritto di cittadinanza […] all’imitazione dei
dialetti, o di un italiano popolare […], termine medio tra lingua e
dialetto». Nel caso del Rifugio, «l’italiano popolare o il vernacolo
[…] sono l’espressione di attività primitive e naturali (quali la pastorizia
e l’agricoltura); e insieme della sacralità dei vincoli familiari
»15. V’è di più: la scena in cui questa famiglia di contadini accoglie
con affetto ‘vernacolare’ il capitano, l’alto ufficiale, neutralizza quella
forma di bipolarismo – narrativo e non solo – secondo cui il
valore militare parla e comprende l’italiano, mentre il dialetto, o la
15 Cfr. L. Sannia Nowè, Le voci dell’onore e della paura, cit.
802 ROSSELLA ABBATICCHIO [10]
lingua popolare, resta la lingua della natura opposta alla cultura16.
De Roberto, è stato pure osservato, manifesta una schietta adesione
alle sofferenze dei proletari buttati nel gran rogo guerresco. Lo spazio
accordato ai linguaggi regionali caratterizza le dimore reali da
cui provengono i nuovi protagonisti, ribaltando il nazionalismo sul
quale si fondava l’ultima impresa dell’unitarismo17. Non v’è momento
in cui l’ufficiale si lamenti o manifesti di non intendere quanto
gli viene detto dai suoi generosi ospiti: e se un sentimento peculiare
viene esternato, questo è il conforto di trovarsi, nella temperie
della guerra e insieme del temporale, in un autentico, caldo, sicuro
rifugio:
Riscaldato, riposato, rimesso dalle tante commozioni, feci onore alla
cena improvvisata. […] Mai latte m’era parso più dolce di quello che
la Vittorina venne a portarmi, caldo e spumante; mai avevo trovato
un così grato sapore alla polenta e all’arrosto freddo […] I miei
ospiti m’affettavano il pane, mi ricolmavano il bicchiere, […] mi
servivano a un cenno, attenti e premurosi come se fossi stato il loro
padrone reduce da un viaggio (p. 178).
Sarà sempre quel vernacolo genuino, generoso, sincero a rivelare
al capitano Evangelisti il sentimento autentico che muove la famiglia
a tanta generosità: «Ora go anca mi –dirà il vecchio padre
mentre lo serve a tavola – el me’ fiol più vecio al fronte…El capirà,
sior capitano, ogni solda’ che se vede pasar el ne par el nostro Bepi,
el nostro proprio sangue…» (p. 179). Dopo questa confidenza, il
capitano accetterà, nonostante la stanchezza, di prestarsi a ‘conoscere’
il figlio al fronte mediante la lettura delle sue lettere – anch’esse
rigorosamente in vernacolo – che la madre orgogliosa gli porge;
apparentemente il solo modo che egli abbia per sdebitarsi con quella
famiglia:
«“Cari genitori, vegno cola presente a farvi cognoser qualmente che dopo
che ci abbiamo dato quela lessione a qui cani de Todeschi, il mio colonelo
mi ha fatto proposta per la medaglia a valore, mi credo che siete contenti
e mi mandate qualcosa di denaro, perché quello l’altra volta l’ho bello che
speso tutto e sono vostro affezionatissimo figlio Bepi”»;
o ancora un’altra:
16 Ibidem
17 Cfr. N. Tedesco, La norma del negativo. De Roberto e il realismo analitico,
Palermo, Sellerio, 1981, p. 176.
[11] NELL’INFERNO DELLA GRANDE GUERRA 803
«“Cari genitori, cola presente vi facio cognoser che state contenti, parché il
regimento ha fatto avansata, ma mi no son ferito, che ansi ci ho preso due
prigionieri al nemico, e il signor colonelo mi ha fatto dar un premio di
cinquanta franchi ma sono belli che andati, perché qui tutto caro, e ansi ci
devo quindesi franchi a un patriotta, percui se mi mandate qualcosa di bezi
mi fate un piacer al vostro affezionatissimo figlio…”» (pp. 180-81).
A proposito delle scritture epistolari è opportuno annotare qui,
seppure brevemente, che «prima ancora che testimonianze e fonti,
queste forme di scrittura (sono) parte integrante dell’evento guerra,
fatti di cui occorre dare una spiegazione». L’evento della Grande
guerra, è stato osservato, supera ogni possibilità di racconto18; ma il
desiderio di raccontare appare nondimeno coessenziale all’evento
stesso: ecco «perché tanta gente cui la scrittura costava sicuramente
fatica, lontana com’era, benché non del tutto estranea, dalle forme
abituali della comunicazione, ne adottò la pratica con tanta frequenza
[…]»19. Per tornare alle lettere del soldato, all’affettuoso rimprovero
del capitano – «Bussa a denari, il giovanotto» – riferito alle
continue richieste di “franchi” da parte del giovane, la madre risponderà
semplicemente «Putei i xe! – i figli son così»: e come
negare ad un giovane al fronte, per giunta così valoroso, il piccolo
conforto di qualche svago?
L’epilogo ad una serata così serena, al riparo dagli orrori della
guerra e della natura, non può che essere per il capitano quello di
«lunghe ore di ristoro»: un sonno profondo, interrotto all’alba solo
dal timido bussare, alla sua stanza di ospite, del vecchio genitore, il
quale lo avverte che la macchina è quasi riparata dal sergente –
anche lui ristorato a dovere dalla famiglia –; che presto potranno
rimettersi sulla strada; che la moglie e le figliuole stanno diligentemente
spazzolando e stirando la sua divisa, sostituita nel frattempo
da un costume da caccia del figlio soldato, che il capitano è felice di
indossare: «Per adesso – lo esorta il padre – el se meta pure il
vestito del me putelo, ch’el ghe sta benissimo!».
Il capitano Evangelisti scende ad incontrare la famiglia: la colazione
è già pronta sul desco. Sa che presto dovrà lasciare quel luogo
confortevole, quel rifugio generoso e sicuro; e da uomo grato e
consapevole del valore di tanta non scontata generosità, pronuncia
semplici, quasi banali parole, che paradossalmente saranno il deto-
18 Cfr. ancora P. Gibelli, L’officina della Grande Guerra nella ri-edizione Bollati
Boringhieri, 2003, in particolare alla p. 47.
19 Ivi, pp. 43 ss.
804 ROSSELLA ABBATICCHIO [12]
natore del suo più terribile incubo: «Non so davvero come ringraziarvi.
Se potessi fare qualcosa per voi…». Segue un momento di
silenzio carico di aspettativa; una tacita comunicazione tra quel padre
e quella madre, interrotta da un altro scambio in quel vernacolo
sincero:
El scusa, sior capitano! Le done, de le volte, le se mete nela testa
serte idee! La me vecia ghe par ch’el fronte el sia come la piassa, che
a la festa se caten tutti! Mi ghe lo dito, che lu podarà mai più
incontrarlo, el nostro putelo…
Pronta giunge la replica della madre:
Ma de le volte no se sa mai… E po, ei sior capitano el pole ser
amigo de un qualche ufficial del nostro Bepi…El po sempre dirghe
una qualche parola de recomandassion… (p. 183).
Uno scambio anche questo tipico del De Roberto ‘seconda maniera’:
come si è osservato con riferimento alle novelle di guerra, la
narrativa di questi scritti, oltre ad assumere come punto di forza
l’uso del dialogo, si prefigge una tecnica più fotografica, meno
ellittica, di efficacia mimetica assoluta; e questo, concordemente con
quanto si è già rilevato in precedenza, richiede d’obbligo di ricorrere
ai dialetti20.
Dopo questo scambio, la vicenda scivola rapida verso il suo tragico
epilogo, preannunciato stilisticamente da un intensificarsi del
ritmo della narrazione. Il capitano domanda ai genitori in quale
reggimento si trovi dislocato il loro valoroso figlio: la risposta giunge
a una voce, e gli rivela che il reggimento è lo stesso suo proprio.
Rispettando il copione consueto in simili conversazioni, Evangelisti
chiede ai genitori il nome del ragazzo: e la risposta suona al suo
orecchio come i rintocchi di una campana a morto. «“Come si chiama
vostro figlio?” – Rispose prontamente il vecchio: “Bardeli Giuseppe”
– Credetti di aver frainteso: – “Come?” – “Giuseppe Bar-deli!”
». I pensieri del capitano precipitano vorticosamente nell’abisso
di quel ricordo terribile, vicino nonostante egli avesse cercato di
allontanarsene: «Non potevo credere […]. Lo sciagurato che aveva
pagato con la vita le sue colpe non si chiamava Bardelli Giuseppe?
Bardeli non era la pronunzia veneta di Bardelli?». La mente del
20 Rinvio a C. Madrignani, Introduzione a F. De Roberto, Romanzi novelle
saggi, cit., p. LXIII.
[13] NELL’INFERNO DELLA GRANDE GUERRA 805
capitano vaga frenetica alla ricerca di un’altra spiegazione, una
qualsiasi che non sia quella, tragica, infernale, che quel cognome gli
figura:
[…] avevo conosciuto molti soldati che si chiamavano così. Come
mai poteva trattarsi del disertore tante volte recidivo […] se il figlio
dei miei ospiti aveva fatto magnificamente il suo dovere, se si gloriava
d’esser stato proposto per la medaglia? (p. 183).
Ma neanche l’equivoco linguistico – giocato ancora una volta sul
‘doppio binario’ italiano-dialetto (Bardeli-Bardelli), quell’equivoco
che solo avrebbe potuto trarre il capitano in salvo da quel piccolo
inferno può ‘raddrizzare il tiro’ del finale. La vecchia madre mostra
ad Evangelisti una foto del figlio: e qui la narrazione di De Roberto
si fa così intensa che consente propriamente di percepire il senso di
vertigine che assale l’ufficiale.
Scotendo il capo, con gli occhi inchiodati sull’effigie, come per tentar
di ritrovarla in fondo alla memoria, potei appena nascondere l’orrore
che mi gelava…La figura del ritratto, lo sciagurato che avevo
visto sotterrare dopo l’esecuzione, portava il costume da cacciatore
che mi stava addosso, la biancheria che sentivo attaccata alle mie
carni! Mi parve improvvisamente che quei panni mi stringessero e
mi soffocassero […] (p. 184).
Ma prima ancora che dalla foto che la povera mamma corre a
prendere per mostrarla al capitano, Evangelisti riconosce «lo sciagurato
al segno che m’aveva dapprima fuorviato: alla finzione, alla
menzogna, all’ostentazione del patriottismo e del coraggio, alle fiabe
delle medaglie e dei premi, alle richieste di denaro che li smentivano…
». L’abito diviene cilicio; il rifugio, nell’animo turbato del
capitano, diviene un piccolo inferno: perché
[…] quell’ospitalità, quelle cure, quelle premure mi erano state prodigate
per amor suo [del disertore giustiziato], perché appartenevo
come lui alla grande famiglia militare, perché speravano che potessi
vederlo, recargli notizie dei suoi, raccomandarlo ai miei compagni,
evitargli un pericolo! (p. 184).
E mentre questo pensiero gli affanna la mente, Evangelisti va
con il ricordo alla «salma rigidamente modellata dentro il telo da
tenda [che gli] sorgeva dinanzi agli occhi, sotto il ciglio del Pra’
Maggese, nell’alpe insanguinata…» (Ibid.).
Il dramma giunge al suo epilogo: l’infinita attesa per l’auto ripa806
ROSSELLA ABBATICCHIO [14]
rata provvidenzialmente viene interrotta dal sopraggiungere del
sergente; il commiato dalla generosa famiglia si svolge brusco, rapido
più dell’immaginato, nel tentativo di fuggire via da quel rifugio
divenuto una specie di prigione: «Grazie a voi, buona gente». E a
chiudere il cerchio ‘umanamente infernale’ giunge l’ultima, timida,
accorata richiesta della madre:
El toga, sior capitano…Se el vede il mio putelo, el ghe diga che
questo chi el ghe le manda la so mama…L’è l’oliva benedeta de
Pasqua…El ghe diga ch’el le porta indoso, ch’el ghe portarà fortuna…
(Ibid.).
Al di là delle ideologie, a De Roberto non sfugge – è stato osservato
– che «la guerra è nella sua realtà effettuale un incontro con la
morte, un’insana, estrema sfida, le cui motivazioni non giustificano
mai la perdita di una vita»21. Questa triste consapevolezza è vera
anche per il disertore Bardelli: questo «veneto figlio di contadini
senza mai ravvedimento, che scrive balle convenzionali alla famiglia
secondo il modello ‘patriottico’ del buon soldato, che nega di
farsi fucilare legato e proprio allora mostra di essere “un ragazzo di
fegato”, nel commento in vernacolo di un soldato testimone» può
piuttosto assumere, è stato osservato, «l’aria di un obiettore, di uno
che rifiuta la guerra imposta e i suoi “sacri doveri»22. De Roberto, in
questo modo, accosta in un unico testo le due condizioni estreme
del coraggio e della viltà: «Le due facce dell’uomo in guerra esistono:
[…] specialmente nel Rifugio, in cui il soldato indisciplinato,
riottoso ad ogni richiamo, abbandona il reparto, viene catturato e
fucilato per diserzione, mentre nelle immediate retrovie la sua famiglia
ignara di tutto lo attende con affettuosa trepidazione»23.
Sia come sia, De Roberto trasferisce la consapevolezza dell’insana
sfida che la guerra rappresenta nell’animo del capitano Evangelisti:
ecco che l’unico modo per sdebitarsi con la famiglia diviene, per
l’ufficiale, il tacere loro la tragica, ingrata verità a proposito del
figlio disertore. Il capitano non potrà fare altro che serbare tra i suoi
oggetti quel ramoscello d’olivo. E nel fruscio di quelle fronde benedette,
a perenne ricordo di quel pezzetto di ingiustificabile inferno
creato dalla modernità di cui pure egli è figlio, il soldato, l’uomo,
udrà sempre riecheggiare, come il più lugubre dei suoni, l’ultima
21 Ivi, p. LXIV.
22 G. Grana, “I Viceré” e la patologia del reale, Milano, Marzorati, 1982, p. 645
23 P.M. Sipala, Introduzione a De Roberto, cit., pp. 138-39.
[15] NELL’INFERNO DELLA GRANDE GUERRA 807
voce di una madre sopra il rombo della sua automobile che si allontanava
velocemente; della «bestia sopraggiunta», paradossalmente,
a trarlo in salvo dalla voce della povera donna che gli ripete «Bardeli
Giuseppe: el se regorda…». Come se a lui, povero uomo, il tempo
potesse concedere, per dirla con Weinrich, la salvifica arte del dimenticare24.
Rossella Abbaticchio
(Università di Bari)
24 Cfr. H. Weinrich, Lete: arte e critica dell’oblio (titolo originale Lete. Kunst
und Kritik des Vergessens), Bologna, il Mulino, 1999.
Recensioni
Donato Pirovano, Dante e il vero
amore. Tre letture dantesche, Pisa-
Roma, Fabrizio Serra Editore, 2009,
pp. 138.
Il volume Dante e il vero amore. Tre
letture dantesche di Donato Pirovano
raccoglie tre studi incentrati sulla
concezione dantesca dell’amore quale
emerge dai canti VIII, IX e XXVI
del Paradiso. Tuttavia, come chiarisce
l’autore nell’Introduzione (pp. 11-
31), l’importanza di questo tema era
tale per Dante da aver dedicato ad
esso i tre canti centrali del poema,
cioè XVI, XVII e XVIII del Purgatorio,
nei quali si delinea l’idea portante
di tutta l’opera, cioè che «l’amore
è il principio creatore e l’energia
vitale dell’intero universo, e che
il senso della vita dell’uomo e il suo
stesso destino dipendono dal suo
modo di amare» (p. 11).
La questione fondamentale, per
Dante, è come l’uomo utilizza la
propria libertà: infatti, poiché è stato
creato a immagine e somiglianza
di Dio, l’uomo non è dotato soltanto
dell’amore sensitivo, ma anche
della «capacità di amare per scelta»
(p. 11) e, quindi, della possibilità di
orientare la forza innata dell’amore
verso il bene o verso il male.
Rispetto alla tradizione dell’amor
cortese per cui l’amore è passione,
per Dante non è possibile che l’amore
sia sottratto al dominio della ragione.
L’espressione più alta dell’amore
è la caritas, grazie alla quale
Beatrice si muove dalla sua sede di
beatitudine per recarsi nel Limbo a
richiedere l’intervento di Virgilio,
allo scopo di salvare Dante; in questo
senso, nella donna amata dal
poeta, l’amore si manifesta nella forma
più nobile «cioè nella sua profonda
natura divina. […] Se l’amore
per Beatrice è carità, significa che
esso inizia e finisce in Dio» (p. 18).
Questa concezione segna il consapevole
distacco di Dante non soltanto
dalla concezione trobadorica dell’amore,
bensì anche dall’ideologia
di Guido Cavalcanti: tale allontanamento
«si compie sul piano della
scoperta della bontà ontologica della
spirazione d’Amore, ma anche e
soprattutto della conquista della
perfetta gratuità d’Amore» (p. 20).
La novità, espressa nella canzone Voi
che ’ntendendo il terzo ciel movete e,
compiutamente, nel Paradiso, sottolinea
la responsabilità dell’uomo, che
deve comprendere che esiste un solo
amore, vivifico e salvifico: dopo esRECENSIONI
809
sersi perso dietro errate immagini di
bene, Dante deve purificare il suo
amore e trasfigurarlo, finché «da personale
diventa sacramentale» (p. 23).
La celebrazione dell’amore perfetto,
la caritas, avviene nella cantica
del Paradiso: all’amore gratuito di
Dio, l’uomo non può che corrispondere
e questa risposta è la sua partecipazione
all’agape divina: nel regno
del Paradiso «si compie la comunione
nel segno della carità tra
un Dio che dona il suo amore e un
uomo che risponde, uscendo da se
stesso e amando Dio più che se stesso
» (p. 24).
È lo stesso Amore che imprime ai
diversi cieli il movimento: il moto
cosmico è infatti una risposta d’amore
al dono gratuito di Dio; nell’essere
umano, il movimento d’amore
diventa libero mediante la grazia:
l’amore finito per una donna può
condurre all’amore infinito: «l’indicibile
grazia, che Dante un giorno
incontrò sulla terra in Beatrice, era
veramente il trasparire di quell’eterna
grazia che per prima ha amato
l’uomo dall’eternità» (p. 27).
In quest’ottica, appare chiara la
contrapposizione con il “folle amore”
che aveva condizionato la vita
di Francesca da Rimini: tale cupiditas,
cioè un amore incontrollato e rivolto
a un fine non voluto da Dio, l’ha
condotta alla dannazione; l’autore
approfondisce la questione nel saggio
Nel cielo del «bel pianeto che d’amar
conforta»: Paradiso VIII (pp. 33-70),
chiarendo che, nella visione dantesca,
l’uomo può dominare l’amore
sensuale grazie alla parte più elevata
di se stesso, ovvero la ragione. Sulla
scorta della filosofia di San Tommaso
d’Aquino, il poeta è consapevole
della libertà dell’uomo, mediante la
quale l’amore acquista una dimensione
etica: il «vertice della vita morale,
ma anche del senso della vita
umana, è la comunione tra un Dio
che dona il suo amore e un uomo
che risponde uscendo da se stesso e
amando il suo creatore più che se
stesso» (p. 40). Il critico pone in rilievo
che questa verità era già stata
anticipata nel Convivio (ad esempio
in II, 5, 14-15), che segnava il distacco
di Dante dalle teorie dell’amor
cortese e, soprattutto, da Guido Cavalcanti.
Inoltre in Dante, come illustra
ampiamente Pirovano, è vivo il
senso della responsabilità individuale
nella scelta di orientarsi al vero
Bene, cioè Dio: se è vero che la carità
è un dono ed è infusa nell’uomo
dalla Grazia, non c’è però determinismo,
perché l’uomo è libero ed ha
un ruolo attivo nell’esercizio del libero
arbitrio donatogli da Dio.
Nel saggio l’autore vaglia con acume
tale problema: Dante è infatti
giunto nel cielo dell’amore, quello di
Venere e «si chiede come l’uomo
possa orientare la propria disposizione
naturale all’amore in un itinerario
salvifico» (p. 43). A tal proposito, personaggio
centrale del canto è Carlo
Martello d’Angiò, con cui Dante
intesse un dialogo e che delinea «una
sorta di programma politico per il
monarca ideale: in profondità ciò che
deve animare l’azione di governo è
la caritas, l’amore disinteressato per i
propri sudditi» (p. 49).
L’accurata analisi di Pirovano delle
terzine dantesche, con dettagliate
citazioni dalle fonti medievali a cui
il poeta attinse, si sofferma in particolare
sulla questione della degenerazione
dell’influsso celeste, di per
810 RECENSIONI
sé sempre positivo; l’errore è responsabilità
dell’uomo, delle sue libere
scelte: «il seme della bontà divina
[…] può fruttificare solo se ben coltivato
e maturato all’interno della direzione
stabilita provvidenzialmente:
solo la buona consuetudine rafforza
e rafferma le inclinazioni naturali
buone» (p. 53).
Altro tema fondamentale è la decisiva
svolta compiuta da Dante nel
proprio itinerario poetico, cioè dall’amore
della tradizione cortese alla
caritas, il cui momento cruciale è la
canzone Voi che ’ntendendo, ove il
poeta attua una scelta rivoluzionaria
nel rivolgersi non a una o più
donne, bensì direttamente alle intelligenze
angeliche. Pirovano, analizzando
attentamente le possibili fasi
del dissidio tra Dante e Cavalcanti,
mette in luce la decisiva novità della
poesia dantesca, ovvero la «dimensione
teologica dell’amore» (p.
60). La parte conclusiva del saggio
si occupa della natura dell’indole
umana: un’approfondita disamina
delle terzine in cui Carlo d’Angiò
propone le sue argomentazioni porta
a mettere in luce che la «storia è
teleologicamente orientata secondo
un progetto d’amore, dove però ciascuno
ha il suo compito, dove l’uomo,
ogni singolo uomo, ha la sua
precisa responsabilità» (p. 68).
Il dialogo tra Dante e Carlo Martello
prosegue nel canto IX, ancora
dedicato al cielo di Venere e analizzato
nel saggio «Mi vinse il lume
d’esta stella»: Paradiso IX (pp. 71-89):
dopo l’apostrofe conclusiva di Carlo
agli uomini, che non si orientano
all’unico Bene, avviene un cambio
di scena, per introdurre il colloquio
tra Dante e Cunizza da Romano;
dopo aver ricordato le opinioni di
diversi critici (come Pietro Alighieri,
Ugo Foscolo, Adolfo Bartoli, Benedetto
Croce) in merito alla scelta di
questo personaggio, l’autore chiarisce
che Cunizza, dopo essersi abbandonata
agli amori terreni, in seguito
«ha saputo riconoscere, grazie alla
sua ragione, la strada del vero Amore
» (p. 75): in talo modo, l’inclinazione
amorosa è diventata caritas e,
quindi, causa della sua beatitudine.
Dopo aver rilevato i legami tra i due
canti del cielo di Venere e il canto V
dell’Inferno, Pirovano, con precisi richiami
alla Summa Theologiae dell’Aquinate,
approfondisce il discorso
sui frutti dell’amore, esemplificati
dall’anima di Folchetto da Marsiglia,
vescovo di Tolosa; anche questi
è passato da venus a caritas e,
come Cunizza, «non si pente di quell’amore
che lo arse in gioventù, ma
gioisce di quella virtù divina che
dispose e ordinò al bene la sua inclinazione
naturale» (p. 84).
Esaltata da Folchetto, come questi
era stato esaltato da Cunizza, viene
poi presentata l’anima di Raab: come
sottolinea il critico, la scelta di Raab
«la meretrice santificata, è quanto
mai significativa da parte di Dante,
e illumina tutto lo svolgersi del canto
» (p. 86).
La conclusione del saggio, con il
riferimento al solenne incipit del canto
X del Paradiso, verte sulla creazione,
definita come «un grande progetto
d’amore, il trionfo della caritas»
(p. 89): ma, come annota finemente
Pirovano, «anche l’atto creativo della
poesia, della stessa poesia della
Divina Commedia, è sempre più intriso
di questa idea di Amore che
informa e dona vita» (p. 89).
RECENSIONI 811
L’ultimo saggio «A la riva del diritto
amore»: Paradiso XXVI (pp. 91-
126) inizia dal confronto tra l’esperienza
di Dante, accecato dalla luce
dell’Empireo, e quella di San Paolo:
anche in altri passi del poema Dante
era rimasto nell’impossibilità di
vedere, ma ora «l’accecamento si
configura ben più drammatico» (p.
92) e per di più coincidente con un
lungo silenzio da parte di Beatrice:
ora il poeta deve affrontare da solo
e privo della vista l’esame sulla carità,
condotto da San Giovanni che
lo ha abbacinato con il fulgore della
sua luminosità. Dante può compensare
la mancanza della vista sensibile
utilizzando quella intellettuale, per
arrivare a confessare e a dimostrare
che il vero amore è soltanto caritas,
cioè «l’amore che viene da Dio, è in
Dio e va verso Dio» (p. 98).
Se l’amore è la sostanza di Dio, è
anche un dono che Egli elargisce
gratuitamente all’uomo, sua creatura:
questi, che ha comunque ricevuto
il dono della libertà, è responsabile
e «nel proprio modo di amare
esprime compiutamente la pienezza
del proprio essere» (p. 99).
Le argomentazioni di Dante, fondate
sia su argomenti filosofici sia
sulla rivelazione, vengono approvate
da San Giovanni, le cui parole
sono «un’autorevole, la più autorevole,
approvazione del fatto che
Dante ha saputo riconoscere e poi
seguire la strada verso il vero amore
» (p. 110).
Pirovano mette in luce che Dante,
nella conclusione del suo discorso,
non argomenta ma professa la sua
fede, lasciando trapelare il suo sentimento:
nei suoi versi «non si avverte
infatti la freddezza della dimostrazione,
ma l’afflato della poesia
» (p. 113).
Infine l’autore analizza con acribia
l’incontro di Dante con Adamo,
«momento solenne, pervaso di religioso
stupore» (p. 117) poiché di
fronte al poeta non c’è semplicemente
l’anima del primo uomo, «ma un
lume, dentro il quale si coglie l’eterno
rapporto d’amore tra Dio e l’uomo
» (p. 117).
A proposito di questo passo, Pirovano
sottolinea il senso di commozione
trasmesso dalle terzine dantesche,
per concludere con una riflessione
sul linguaggio «concepito come
un libero prodotto umano, che ha la
sua genesi nella creatività del primo
parlante» (p. 123): le forme linguistiche,
scelte dall’uomo, sono pertanto
un fatto storico. Questa tesi, circa
la mutabilità della lingua adamitica,
si discosta da quella sostenuta nel
De vulgari eloquentia (I, 6, 4-7), in cui
tale linguaggio era considerato incorruttibile,
poiché di origine divina;
ciò indica «l’evoluzione del pensiero
dantesco da una concezione
ancora in parte sacrale, formulata nel
trattato, a una visione storica e naturale
dello sviluppo delle lingue»
(p. 126).
Maria Cristina Albonico
Gianluca Genovese, La lettera oltre
il genere. Il libro di lettere, dall’Aretino
al Doni, e le origini dell’autobiografia
moderna, Roma-Padova, Antenore,
2009, pp. 260.
Alla luce delle recenti acquisizioni
della teoria della critica e della teo812
RECENSIONI
ria letteraria, uno studio su di un
‘genere’ o un ‘microgenere’ si presenta
senza dubbio ricco di problematiche,
che coinvolgono la legittimità
stessa, ma anche il metodo, il
percorso di un tale tema critico e
storico.
Questo recente volume di Gianluca
Genovese, quindi, si presenta senza
dubbio come coraggiosa e solida
indagine su quella che trent’anni fa,
nel suo notissimo Patto autobiografico,
Lejeune individuava come «illusione
»: la «naissance du genre». Genovese
dunque inizia la sua indagine
sulle «scritture dell’io» e sulla nascita
dell’autobiografia moderna ben
consapevole di tutte le complesse
problematiche epistemologiche di un
tale studio.
Attingendo ad una fittissima messe
di studi critici internazionali (da
Georg Misch a Stephen Greenblatt,
da Marziano Guglielminetti ad Andrea
Battistini) l’ampia introduzione
già presenta una prima, utilissima,
rassegna critica ragionata sul
genere autobiografico e quindi anche
sui «libri di lettere», cercando
di ripercorrere il tortuoso percorso
di un dibattito affollato, acceso e, si
direbbe, ancora «aperto».
Dopo l’accurata introduzione metodologica
che segna i confini spazio-
temporali, nonché le guide teoriche
che sorreggono le ‘scelte di
campo’, Genovese entra nel vivo di
questo singolare genere letterario dai
discussi e labili confini: la «letteratura
della soggettività», le «scritture
dell’io», nonché i «libri di lettere»
come microgenere archetipo della
autobiografia moderna, appunto,
anche quest’ultima presentata in tutte
le sue complesse problematiche.
Il percorso parte quindi dal Rinascimento,
inteso come categoria storica
ma anche come svolta culturale
e sociale, inizio della modernità, individuando
il Cinquecento, con Agnes
Heller, come «l’età delle grandi
autobiografie», scoperta dell’Io ed
irruzione prepotente del soggetto
nella scrittura letteraria. Con lo
sguardo sempre rivolto al «contesto
», nella convinzione – assunta a
presupposto metodologico – della
ormai logora traccia di confine tra
«testo» e «contesto», il percorso
diacronico di Genovese si impone
come «storia» di un genere letterario
ben radicata nella evoluzione
della cultura e della storia delle idee.
Lo stesso Rinascimento viene riletto
come tessuto interconnettivo e
insieme fondativo del genere di
scrittura autobiografica, epoca di un
nuovo individualismo, non scevro di
echi classicisti, ma aperto alle suggestioni
di una visione ‘laica’ della
realtà e della stessa creazione artistica.
In una centralità dell’uomo-io
che fa cadere le remore e censure a
«parlar di sé» di eco dantesca e
medievale in genere.
Lo studio si concentra, quindi,
sulla triade Cardano-Cellini-Montaigne,
divenuta ‘canonica’ per gli studi
sull’autobiografia già a partire da
Goethe. In questa triade, grande
spessore e pregnanza acquista il testo
di Montaigne, come ‘genetico’
per una concezione moderna di autobiografia.
In questa delimitazione di indagine,
Genovese rinviene topoi, canoni,
artifici retorici, individuati grazie ad
una lettura sinottica dei testi, interpretando
e dando senso anche alle
confluenze di svariate fonti classiRECENSIONI
813
che, al rinvenimento delle quali Genovese,
come ogni accorto studioso
cinquecentista, non si sottrae.
Sono tanti tasselli, offerti per la
ricostruzione delle componenti genetiche
dell’autobiografia. In questo
ampio mosaico, posto di primo piano
occupa Pietro Aretino, il «bestiale
anticristo» (Doni), il discusso autore
dei Sonetti lussuriosi cui è dedicato
il secondo capitolo del volume,
con numerosi spunti attinti anche
all’iconografia, in un dialogo tra le
arti che festeggiava in quel Cinquecento
una delle stagioni più feconde.
E proprio il rapporto tra parole e
immagini guida il percorso alla scoperta
dell’autobiografismo nei testi
di questo irregolare intellettuale antipapale,
eterodosso e ribelle, che nelle
sue Lettere segna la definitiva caduta
delle remore a «parlar di sé».
A questo ampio e ricchissimo capitolo
sull’Aretino segue quindi il
quadro della scrittura dell’io postaretiniana:
Niccolò Martelli, Niccolò
Franco, Anton Francesco Doni, attraverso
i quali Genovese fa penetrare
nel cuore del Rinascimento, nel
quale già si registra la codificazione
a «modello» delle Lettere di Aretino.
Dell’Aretino rimane, forte e dichiarata,
la missione per lo scriver lettere,
costruire un monumentale autoritratto
in parole, una «immagine»
di sé, da comunicare ai contemporanei
e ai posteri. Mettere a punto
quindi una dotta e ragionata ‘strategia
di comunicazione’, cui la cultura
cinquecentesca era tanto sensibile,
sempre sul difficile e affascinante
crinale tra «essere» e «apparire»,
tra realtà e immagine che arricchisce
gli stimoli del «contro-rinascimento
», o «rinascimento della contraddizione
», da Castiglione a Machiavelli.
È una strada che conduce direttamente
ad un altro grande personaggio
di frontiera (frontiera spaziotemporale
e si direbbe culturale),
Tommaso Campanella, cui è dedicato
il secondo capitolo del volume.
Quella attenzione alla costruzione
dell’immagine apre cioè la strada ad
una ‘estetica della percezione’ che
trovava in Campanella, prim’ancora
che nel Marino, una matura elaborazione.
Era il sensismo magico applicato
alla retorica che già si rinviene nel
Senso delle cose e nella Retorica, scritti
che vengono individuati come
fondamenti e chiavi di lettura per le
lettere di Campanella, che si offrono
nella loro consapevole e dichiarata
complementarietà rispetto ai
testi ‘ufficiali’, dai Discorsi agli scritti
Antiveneti. Sono «raffinate strategie
testuali», spiega Genovese, che
giustificano l’uso della lettera come
«proteiforme genere letterario». Ricco
di sollecitazioni in tal senso è il
paragrafo dedicato agli scrittori di
epistole incluso nel De libris propriis,
l’autobiografia intellettuale scritta su
sollecitazione del grande libertino
Naudé.
Prima di licenziare il lettore, Genovese
lascia numerose pagine dedicate
alla ‘forma’ lettera come strumento
molto usato dal grande letterato
e scienziato della modernità:
Galilei.
Grazie agli ampi approfondimenti,
alle dotte e ricche riflessioni, al
lettore appare ben chiara la tesi dello
studio, e cioè che «la forma-lettera
svolge una funzione molto diversa
dall’effusione spontanea di senti814
RECENSIONI
menti intimi alla quale il Romanticismo,
con la sua commistione di arte
e di vita, ci aveva abituati».
Paola Villani
Lavinia Spalanca, I fiori del deserto.
Sbarbaro tra poesia e scienza, con
testimonianze inedite, introduzione
di P. Modenesi, Genova, Fondazione
Giorgio e Lilli Devoto – Edizioni
San Marco dei Giustiniani, 2008, pp.
188.
Dopo l’ampia antologia di lettere
a Lucia Rodocanachi (2007) e prima
degli Atti del Convegno nazionale
di studi Camillo Sbarbaro in versi e in
prosa (2009), nei preziosi «Quaderni
sbarbariani» di Giorgio Devoto è uscita
la più recente monografia sul poeta,
dovuta a Lavinia Spalanca. Già il
titolo (che – e non sarebbe dispiaciuto
a Sbarbaro – contamina con
eleganza il titolo baudelairiano con
il sottotitolo della Ginestra) annuncia
che si tratta di uno studio dedicato
in gran parte allo Sbarbaro
lichenologo. Se da una parte, infatti,
sempre più studiosi si interessano
oggi dell’attività del traduttore dal
greco e dal francese, dall’altra registriamo,
infatti, anche un risveglio
d’interesse per l’attività scientifica
del poeta: e, dopo i primi, amichevoli
e ormai antichi interventi di
Falqui, della Lagorio e di Galardi,
dopo i più recenti contributi di Meschiari
e di Giusti (se ne veda l’attento
regesto alle pp. 175-176), lo
studio della Spalanca viene a costituire
la ricerca più ricca e approfondita
disponibile sull’argomento. Non
casualmente l’introduzione al volume
si deve a Paolo Modenesi, professore
di Botanica generale presso
l’Università di Genova, già presidente
della Società lichenologica italiana;
e lo scritto dell’illustre lichenologo
introduce come meglio non si
potrebbe, con estrema precisione e
insieme con mirabile chiarezza, allo
studio dedicato da un’italianista all’attività
scientifica (apprezzata in
varie parti del mondo, in Italia misconosciuta)
di un poeta. Già, perché
di attività scientifica, scrive Modenesi,
propriamente si tratta: «È
come se mi chiedessero se sono uno
scienziato, non potrei mai rispondere
con una secca affermazione, risponderei
che mi occupo con metodo
scientifico di un settore delle Scienze,
che è la definizione di scienziato
che si applica ovviamente anche a
Sbarbaro» (p. 12).
Allo Sbarbaro lichenologo la Spalanca
dedica il terzo, ultimo e maggiore
capitolo del suo studio, eponimo
del volume (I fiori del deserto, pp.
107-158): contribuiscono a renderlo
particolarmente prezioso l’indagine
sulle fonti scientifiche del poeta e
l’attenta considerazione dell’intreccio
fra l’amore per i licheni, le ragioni
della poesia e le ragioni della vita
(nonché la riproduzione di alcuni documenti
inediti). Nondimeno, per
dirla con il vecchio Montale di Quartetto
(negli Altri versi), il libro è dedicato
a «Sbarbaro / briologo e poeta
». Ovvero, pur senza perdere mai
d’occhio l’attenzione di Camillo al
mondo vegetale, ed anzi facendo di
essa (sempre legata al tema complementare
del deserto) il filo conduttore
del suo discorso, la Spalanca
ripercorre l’intera opera di Sbarbaro
da Resine ai Fuochi fatui. Così il priRECENSIONI
815
mo capitolo («Il fior che allegra gli
orridi dirupi», pp. 21-65) propone una
lettura dell’opera in versi dal libretto
d’esordio, passando per Pianissimo,
fino a Rimanenze; il secondo
(L’eldorado del collezionista, pp. 67-
106) si sofferma invece sull’opera in
prosa: dai primi Trucioli a Liquidazione,
dai secondi Trucioli fino ai Fuochi
fatui (e anzi fino all’Ultimo scritto
di Camillo Sbarbaro). Con grande finezza,
così, la studiosa ci offre una
inedita e preziosa lettura complessiva
dalla specola privilegiata dello
studio del lichenologo, nel corso
della quale allinea fra l’altro numerose
tessere, talvolta folgoranti: basti
il solo esempio del riconoscimento,
così carico di significato, dell’attacco
della Ginestra («Qui su l’arida
schiena / del formidabil monte…»)
nell’incipit di «Scarsa lingua di terra
che orla il mare, / chiude schiena
arida dei monti» (ma sono anche
molto interessanti, aggiungerei, i rinvii
all’opera di Francesco Pastonchi
e ai Murmuri ed echi di Mario Novaro).
Il volume, infine, è concluso e
arricchito da una Bibliografia molto
ben ragionata (pp. 159-177).
Paolo Zoboli
Alessandro Parronchi-MarioTutino,
«Arte nata dall’arte». Carteggio
1956-1966, a cura di Paola Baioni,
Pisa-Roma, Fabrizio Serra, 2009, p.
244.
Il carteggio Parronchi-Tutino, ‘sepolto’
per oltre quarant’anni (le ultime
lettere sono del 1966, ma vedono
la luce solo nel 2009), è una fonte
preziosa di notizie sull’arte e la
letteratura, con particolare riferimento
alla poesia italiana e francese.
«Ogni lettura è un incontro» scrive
Tutino, e proprio dalla lettura
delle epistole si evince lo spessore
culturale dei protagonisti, il «sostrato
filosofico, filologico, artistico» sotteso
alle loro disquisizioni.
Il volume consta fondamentalmente
di tre parti: la prima relativa all’interesse
del critico fiorentino per
il Libro del Collare di Guido Pereyra,
il quale, a sua volta, aveva parecchio
discusso con Mario Tutino (questo
è, infatti, il ‘movente’ della corrispondenza),
la seconda parte riguarda
gli studi d’arte di Parronchi
con dibattute documentazioni di opere
di grandissimi autori del calibro
di Michelangelo, per esempio, e la
parte finale riservata alle traduzioni
dal francese, con particolare riferimento
a Valéry (Tutino traduce il Cimetière
marin e la Jeune Parque, che
uscirà postuma).
Per quanto riguarda le attribuzioni
artistiche, basti come esempio quella
eclatante riguardo a un Crocifisso
ligneo scoperto da Parronchi nella
chiesa di San Rocco di Massa. Lo
studio si è rivelato, ovviamente, molto
complesso e ha innescato una polemica
tra i critici che non concordavano
con il fiorentino, il quale scrive
all’amico Tutino: «pensavo che
siccome Michelangelo era Michelangelo
non poteva non aver voluto
staccarsi da tutte le altre interpretazioni.
Dunque: anche da quella del
Bargello. Ma… non poteva per caso
essere stata un’opera di Michelangelo
senza grandezza. E quindi,
niente San Giovannino Rosselmini,
niente San Giovannino di Ubeda,
Morgan Library, ecc. e niente Croci816
RECENSIONI
fisso attualmente nel coro di Santo
Spirito… Quello dei Fiorentini?
Quando ho terminato l’articolo non
è che credessi ancora fermamente
nell’autografia michelangiolesca. […]
È un problema molto difficile, e che
mi attira, una volta o l’altra, a tentarne
la soluzione. È una statua molto
bella e complessa» (pp. 73-74). La
tenacia che distingueva Parronchi,
tuttavia, alimentata dall’amore per
la ricerca (dei grandi autori, soprattutto,
dai quali era attratto in quegli
anni), spinse il critico fiorentino a
studiare ogni particolare, tanto da
identificare (con certezza, per lui) la
mano dell’autore del Crocifisso in
quella di Michelangelo: «Sono convinto
che il Crocifisso di Michelangelo
è quello trovato da me a Massa.
La prova – esterna, materiale – è
data dalle misure. Per il Vasari, che
nella prima e nella seconda edizione
dice semplicemente “Un (il) Crocifisso
di legno”, vuol dire che si
tratta di dimensioni naturali. Il Condivi
precisa: “poco meno che ’l naturale”.
Ora il Crocifisso trovato dalla
Lisner misura m 1,35. Quello trovato
da me a Massa, dal calcagno
alla sommità del cranio m 1,75. Questa
è, per me, la misura “poco meno
che ’l naturale”. E se rileggi il mio
estratto vedrai che, alla prima pagina,
il Baldinucci – che dell’opera
scrive per sentito dire – la dice “grande
quasi quanto il naturale”. Io credo
che quel Camillo Berzighelli sapesse
che il Crocifisso di S. Rocco era
quello di Michelangelo, e pur senza
svelare il segreto si adoprasse presso
il Baldinucci perché egli ne facesse
adeguata menzione. Onde il rilievo,
insolito e inadeguato al Palma,
che l’opera ebbe nelle Notizie. Questa
delle misure per me costituisce
una prova esterna. Ma la dimostrazione
che l’opera trovata dalla Lisner
non è di Michelangelo è nell’opera
stessa, e per conto mio la cosa si
dimostra da sé. Ma per la Lisner è
vero il contrario» (p. 171).
Non meno interessante si rivelano
le disquisizioni relative alla poesia
e alle traduzioni dai poeti francesi.
Tutino, incuriosito dal poeta fiorentino,
chiede di leggere le sue traduzioni
da Mallarmé, Nerval e poi
Baudelaire e Rimbaud. Di qui nasce
un fitto scambio di pareri sul lessico,
al fine di non opacizzare il testo
tradotto, anche e soprattutto riguardo
a Cimetière marin e alla Jeune Parque
che Tutino ha tradotto. Il letterato
milanese riteneva, a ragione, che
la poesia fosse intraducibile, come
scriveva in una sua lettera del 1963:
«la poesia (ma tutta la poesia, non
solo Cimetière marin) è intraducibile.
E per mio conto, parlandone o scrivendone
per mio diletto, ho formulato
la mia teoria del tradurre così:
ogni lettura di poesia è traduzione;
quando leggiamo una poesia, in
qualsiasi lingua, sia pure la nostra,
la traduciamo nel nostro individuale
linguaggio, più o meno consapevolmente;
per leggere (tradurre) veramente
una poesia è necessario tradursi
nella lingua in cui quella è
sentita; è il solo modo di leggere con
qualche approssimazione. […] Quel
che si mette sulla carta è sempre
qualche cosa di libresco, di comune;
di trito; nel caso più decoroso, è letteratura;
ma l’attimo incomunicabile
e raro in cui ci si ritrova in perfetto
accordo con una verità poetica, in cui
la prossimità con quella poesia diventa,
miracolo sonante, accordo soRECENSIONI
817
nante perfetto, comunione totale di
sentimento e origine…» (p. 19).
Il carteggio, oltre alle preziose informazioni
a cui sopra ho solo accennato,
reca testimonianza di valori
in cui i due amici hanno profondamente
creduto, come per esempio
la passione per la ricerca e l’amore
per la cultura. Tutino, nella sua paterna
saggezza, condivideva il principio
parronchiano di dare il massimo
spazio agli studi che suscitavano
maggiore interesse personale,
anzi lo raccomandava: «Ti vedo…
preso da mille diavoli; ma vedrai che
tutto andrà per il meglio, pian piano.
Conserva la calma; e dai sempre
la precedenza a ciò che ti attira più
nel momento; vorrei dire: che ti tenta.
La tentazione è una fresca sorgente:
sapervi attingere; lì è il segreto.
Ma a respingerla, a passarvi
avanti indifferente; a postergare, c’è
da perdere doni preziosi».
Il volume è corredato da un Indice
dei nomi, oltre che da note esplicative
di mano di Parronchi stesso, che
la Baioni ha provveduto a integrare,
ove ha ritenuto opportuno. L’impostazione
scarna della curatrice, che
punta all’essenziale, porta il lettore
a non ‘perdersi’ negli apparati, ma
a focalizzare l’attenzione sulle lettere.
Annalisa Zanotti Fregonara
Antonio Palermo, I miti della società
e altri saggi alvariani, a cura della
Fondazione Alvaro, Rubbettino,
Soveria Mannelli, 2008, pp. 234.
Nella collana di “Studi e testi alvariani”,
diretta da Aldo Maria Morace,
trova finalmente una giusta collocazione
l’ultimo volume saggistico
di Antonio Palermo. Si tratta di
un’opera postuma, fortemente voluta
dal presidente della Fondazione
Alvaro come omaggio all’intellettuale
napoletano, scomparso nel marzo
2006, che molti dei suoi studi dedicò
alla rivalutazione critica dello
scrittore calabrese.
Il volume, davvero esaustivo, è la
concreta testimonianza dell’appassionato
lavoro che impegnò Palermo
dal 1956 (sulle colonne di “Nord
e Sud”) fino all’ultima relazione del
2004, letta al convegno napoletano
Alvaro in Campania, la Campania in
Alvaro.
Documenta pertanto la esemplare
fedeltà dello studioso verso un maestro
del Novecento con cui egli si
trovava in particolare sintonia, sia
per la lucidità dello sguardo, sia per
la severità dei bilanci nei confronti
delle illusioni e dei miti della contemporaneità.
Nella prima parte del libro, nella
sezione I miti della società, figurano i
capitoli che costituirono la monografia
omonima edita da Liguori nel
1967; mentre nella seconda sezione,
intitolata Altri saggi alvariani, possiamo
leggere scritti, finora, mai raccolti
insieme, eppure vitalissimi, nonostante
l’occasionalità dei pretesti
da cui nacquero (si tratta di recensioni,
interventi accademici, bilanci
congressuali). Essi ci sembrano anzi
i necessari tasselli che hanno consentito
la ridefinizione dell’apprezzato
autore di Gente in Aspromonte.
A ben vedere infatti il lirismo delle
sue prose, tanto esaltato dai primi
lettori (Pancrazi), non offuscò mai
lo sguardo del moralista, anzi contribuì
ad accrescere, sulla pagina
818 RECENSIONI
scritta, l’intensità delle emozioni provate
di fronte agli scenari mutevoli
della storia, tra le due guerre, dai
tempi delle Poesie grigioverdi fino a
quelli di Roma vestita di nuovo, in
epoche di transizione e di trasformazioni
antropologiche, attraverso
momenti cupi, densi di paure e sospetti,
la cui memoria ancora oggi
pesa sui nostri destini e richiama alle
responsabilità verso il futuro, mostrando
l’attualità e l’importanza
delle intuizioni dello scrittore/saggista.
Del resto proprio grazie alla
tempestività ed alla intelligenza con
cui, dagli anni Cinquanta in poi, Antonio
Palermo intervenne nel dibattito
critico che accompagnò le riletture
o le riproposte editoriali di Alvaro,
nelle nostre lettere si è assistito
ad una mutata valutazione della
sua opera. Infatti alla immagine dell’artefice
di raffinata prosa d’arte,
modello esemplare, riconosciuto e
antologizzato da Falqui, già nel 1938,
sembra ormai subentrata quella dell’intellettuale
di forte caratura europea,
capace di misurarsi con l’altrove
(la Francia, la Germania, la Russia,
la Turchia), pur rimanendo ben
radicato in un suo nucleo di valori
forti.
Per i più moderni lettori (Scrivano,
Tedesco, Faitrop-Porta…) l’universo
di provenienza di Alvaro, la
Calabria contadina, povera, spesso
ai limiti della sopravvivenza, continua
ad essere un polo importante
del suo percorso, ma, non consente
solo la mitizzante nostalgia del ricordo.
Essa funge piuttosto da personale
ancoraggio per la sua esperienza
di scrittore che, nell’impatto
con la modernità, sotto altri cieli, come
un vero moralista giunse a temere
la individuale perdita di senso
di responsabilità, riconoscendo ora
il cinismo e la furia inquisitoria dei
regimi totalitari, ora la facile attenuante
del collettivo cedimento ad
edonistici miti consumistici.
L’ostinato misurarsi di Alvaro con
i labirinti urbani e lo spaesamento
dei suoi personaggi, simboleggia agli
occhi di Antonio Palermo il disagio
di un uomo attento alle impercettibili
trasformazioni degli stili di vita,
ma desideroso di reggere il fatale
confronto con la novità dei tempi al
punto da ipotizzare spiegazioni e
possibili previsioni sui comportamenti
collettivi del futuro. Spesso il
critico sottolinea la forza di quel nucleo
di riferimenti morali, irrinunciabili
per il narratore che consapevolmente
alle forme del racconto e
del romanzo volle affiancare quelle
brevi delle notazioni autobiografiche,
per icasticità e rapidità di giudizio
tanto vicine al genere dell’aforisma,
praticato dagli intellettuali europei,
tra le due guerre.
Deciso a sottrarsi alla minaccia
dello smarrimento della propria identità
e della perdita della memoria,
Alvaro gli appare tanto più laconico
e profondo quanto più egli aspira al
controllo di una realtà complessa e
sfuggente, connessa al prevalere dei
ritmi veloci e superficiali della sopravvenuta
civiltà di massa.
Discorso culturale e forme letterarie
risultano pertanto strettamente
connesse tra loro e lo studioso mira
a sanare l’apparente distanza tra le
varie fasi della produzione alvariana,
puntando sulla permanente tensione
saggistica della sua pagina, scoprendo
un elemento di progettualità,
saliente per la comprensione di tutRECENSIONI
819
ta la sua opera. Egli infine lo individua
nella particolare sospensione/
apertura dell’autore verso il futuro,
comunque e nonostante tutto. Ravvisa
proprio nella “speranza” – finalmente
da Alvaro menzionata in
modo esplicito nel titolo di un volume
del 1952 (Il nostro tempo e la speranza)
– quella dimensione “altra”
cui rapportare l’esperienza del presente
e quella di un drammatico passato,
ancora troppo vicino nel ricordo
per il dolore delle sue ferite.
Quando, per la prima volta, Antonio
Palermo definiva lo scrittore
un «uomo di transizione», si era
ancora negli anni difficili del secondo
dopoguerra. Ma proprio allora
Alvaro consentiva personalmente col
suo lettore. In una lettera autografa
del 27 gennaio 1956, ora riprodotta
nel volume, egli ne accettava le interpretazioni
che confermavano quei
suoi difetti di calabrese «capotosto»,
troppo spesso incapace di risolvere
«ciò che tanti risolvono con estrema
facilità» (p. 112). Anzi, nel “far buon
viso” al giudizio del critico, Alvaro
ne leggeva le parole come un «augurio
» a finalmente «concludere un
discorso tanto tortuoso».
Al di là della giusta focalizzazione
del carattere, al di là della smania
di completezza che induceva il giovane
Palermo a valutare con minuziosa
attenzione le svariate tappe del
giornalista e/o narratore calabrese,
i suoi saggi successivi miravano ad
una indagine più ampia sul clima
culturale del nostro Novecento. Essi
ancora oggi ci interrogano sugli scenari
complessi della vicenda storica
di Alvaro, perché toccano problemi
centrali sui rapporti dello scrittore
col suo pubblico; sulle ragioni del
mercato editoriale, sulla fortuna critica
e il destino degli scritti postumi,
sul perdurare di medesimi nuclei
tematici nonostante il variare dei
generi, sulla tradizione italiana e sul
suo ruolo nel confronto con la contemporanea
cultura europea.
Riaffiorano così nella riflessione
critica i grandi temi del ventesimo
secolo, quello della solitudine dell’intellettuale
e dei suoi rapporti col
regime, quello delle sue valutazioni
eticamente impegnate, tra memoria
e utopia, quello dei mutamenti sociali,
talora connessi alla emancipazione
femminile e alla liberalizzazione
dei costumi.
Il risultato finale ci porta a conoscere
in Alvaro uno straordinario
testimone cui l’esperienza del viaggio
e del reportage giornalistico permise
di riconoscere il volto della
dittatura, pur nel variare delle coordinate
geografiche, sì da fare della
paura e della angoscia esistenziale
il motivo ricorrente della sua prosa.
Nel tentativo di trovare spiegazioni,
l’autore spinse il suo sguardo sull’impietosa
logica dell’organizzazione
sociale che, nell’esaltare la ragione,
a vantaggio del più forte, finiva
per negare spazio e diritti ai più deboli
ed emarginati. Alcuni titoli proposti
da Palermo per i suoi saggi ci
colpiscono per la loro lungimiranza,
grazie ad essi finalmente ci troviamo
a parlare di un Alvaro “aperto”,
di un Alvaro “dentro e fuori le mura”,
o ancora di “uno scrittore senza
romanzo” e molto pirandellianamente
di un “meridionale” fascinato dalla
“magia della donna”. È certo che
dalla prospettiva metafisica creata
attraverso le pagine de L’uomo è forte,
lo schivo memorialista di Quasi
820 RECENSIONI
una vita gradualmente si disponeva
alle fantascientifiche previsioni di
Belmoro. Edito postumo, con criteri
filologici ancora oggi in attesa di definizione,
il libro propone una ipotetica
immagine dell’assetto raggiunto
dal mondo, all’indomani della
terza guerra mondiale, quando in un
unico stato, sotto la direzione dell’Opera
mundi, tutta la vita viene organizzata
con scientifico rigore, ad
eccezione della contrada di Lipona
popolata da poveri, deformi, prostitute,
residui umani di precedenti
civiltà. In questo confronto con il
totalizzante ordine scientifico e con
le ultime, superstiti resistenze degli
uomini ad una nuova forma di razionalistica
civiltà, Antonio Palermo
riconosce l’intensità delle visioni di
Alvaro, pervenuto alle utopie negative,
nella sua ansia di comunicare
il senso dell’impossibile resistenza
alle logiche del profitto che sempre
più gli apparivano una offesa sistematica
ai valori della cultura e della
civiltà.
Caterina De Caprio
Roberto Mosena, Fenoglio. L’immagine
dell’acqua, Roma, Studium, 2009,
pp. 126.
«Scrivo per un’infinità di motivi.
Per vocazione, anche per continuare
un rapporto che un avvenimento e
le convenzioni della vita hanno reso
altrimenti impossibile, anche per giustificare
i miei sedici anni di studi
non coronati da laurea, anche per spirito
agonistico, anche per restituirmi
sensazioni passate; per un’infinità
di ragioni, insomma. Non certo
per divertimento. Ci faccio una fatica
nera. La più facile delle mie pagine
esce spensierata da una decina
di penosi ripensamenti. Scrivo with
a deep distrust and a deeper faith».
Scrivere è come arare la terra, dura;
specie quando si alza verso il cielo
e diventa scoscesa. Scrivere è cambiarne
il volto a forza di lavorarla,
testardi di orgoglio. Per il langarolo
Beppe Fenoglio la scrittura non è divertimento,
semmai scommessa con
i letterati di professione e i plurilaureati.
Vinta nettamente, fino a
meritarsi un solido posto tra i classici
del Novecento e una serie di
studiosi attenti, da Maria Corti a
Lorenzo Mondo, da Saccone alla
Lagorio, da Luca Bufano a Walter e
Gabriele Pedullà, fino a Roberto
Mosena, arrivato allo scrittore di
Alba attraverso Davide Lajolo, di cui
ha pubblicato la sceneggiatura rimasta
inedita del Partigiano Johnny. Il
brano iniziale, tolto dal biglietto da
visita consegnato a quell’ancora utilissimo
volume di Elio Filippo Acrocca,
Ritratti su misura, viene citato da
Mosena all’ingresso di questa raccolta
saggistica. Ritratto su misura e
ritratto di una terra: geografia autentica
e sentimentale insieme, dove
rivivono, diversamente e perfettamente
integrabili il mito, l’epica, i
personaggi dei romanzi, specialmente
anglofoni: «Pavese ha fatto scendere
dall’Olimpo e salire agli inferi
gli dèi per farli muovere sulle
Langhe, in mezzo a vigne, contadini,
rive, titani; Fenoglio vi convoca
Omero, Virgilio, Tasso, Foscolo, intorno
ai “ventitré giorni” di Alba,
tanto pochi certo, di fronte ai dieci
anni di Troia e alle stagioni di Gerusalemme
e anche alla guerra fra
RECENSIONI 821
troiani e italici, ma pur essi fatti
degni della sublimità epica», scrive
Giorgio Bárberi Squarotti. Se è un
classico, ed è qui l’asse portante
delle brillanti analisi di Mosena, lungo
la quasi totalità dei percorsi
fenogliani, si rende capace di creare
un universo immaginario, riconoscibile
attraverso dei segni unici, un
mondo a parte, dentro la vivace ricostruzione
della realtà della guerra
partigiana, dove si muovono personaggi
autentici, dominati dalla temperie
assoluta del vivere per qualcosa
di memorabile, consapevoli o
no di questo marchio destinale. Se
la collina resta la madre della scrittura,
da arare con fatica e durezza,
cavandole dal profondo le storie e il
sangue di uomini, si tratta di «una
geografia anche metereologica»: Fenoglio
possiede la straordinaria capacità
di descrivere la luce, la pioggia,
la neve, la nebbia, così potentemente
barbara e originaria, frutto
della invenzione sudata di uno stile,
«frutto di un attaccamento alla
terra, alla grande madre e del suo
gesto per evocarla e fissarla sulla pagina
». Si pensi, allo sforzo compiuto
nel caso dell’incipit della Malora,
che tenne impegnato Fenoglio per
una settimana, capolavoro di equilibrio
di chiaro scuri, interiorità ed
esteriorità. Fedele alla lezione del
maestro Emerico Giachery, e attraverso
di lui alla critica degli elementi
di Gaston Bachelard, Mosena insegue
tra le colline e i sentieri narrativi
la «materia della Langa, di volta
in volta l’acqua, il vento, il fuoco, la
terra», assumendo come chiave di
lettura il primo di queste elementi,
divagante tra la nostalgia del mare,
la distruzione dell’improvvisa grandine,
la rinascenza colorata di arcobaleno
di un senso mattutino, velo
perennemente misterioso, distesa delicatamente
nebbiosa tra la brutalità
della storia e la gloria eroica della
tragedia, dove vive le sue esperienze
una umanità altissima, in bilico
tra la vita e la morte, come in uno
tra i racconti acutamente analizzati
da Mosena: Ma il mio amore è Paco.
Nell’acqua «Fenoglio trova un elemento
della poesia universale. È
un’immagine molto semplice, ma
una volta che l’assume, lo scrittore
è in grado di darle nuova vita e mostrarne
l’elementare potenza cosmica.
Quell’acqua è da sempre fonte
di riflesso e dunque specchio per la
conoscenza di sé, di profondità di
abisso, di ciò che passa come il fiume
che continua a scorrere». Così
l’acqua è la grande tentazione di
Fenoglio, una questione «stavolta
davvero privata e sotterranea, che
lo attrae completamente, ma che rimane
irrisolta: una cosa sognata»,
tanto che dichiarerà a Bevilacqua di
voler riscrivere un «lungo racconto
marinaro o, più esattamente, oceanico
».
Sotto questo scorrere, limpido o
fangoso, con la guerra, come è noto,
regna, al modo di un demone indomito,
incrociandosi alle imboscate,
alle fughe, alle fucilazioni, la tentazione
dell’amore assoluto, nel cui
alveo l’eroismo, privato, raggiunge
termini parossistici e stupendamente
ossessivi. Se Calvino parlava dell’Orlando
Furioso delle Langhe, Mosena
non ha dubbi su Una questione
privata: «il più grande romanzo
d’amore del Novecento», accostabile
per atmosfera ad un altro romanzo
di guerra, di morte e di passione Il
822 RECENSIONI
diavolo in corpo di Raymond Radiguet.
Su questo versante, a mio giudizio
il tratto migliore di Fenoglio,
non si devono trascurare, ed è giusto
il richiamo di Mosena a partire
dalla edizione recente a cura di Elisabetta
Brozzi, le opere teatrali, dove
spicca Serenate a Bretton Oaks, che
«presenta vari aspetti di notevole
forza», e dove avviene una potente
trasfigurazione del «paesaggio secondo
cui il villaggio inglese può
stare benissimo a un qualsiasi paese
delle Langhe». Teatro, però, più da
leggere, in questo caso, o da portare
in scena cercando un linguaggio
drammaturgico sintetico, dove invece
Solitudini aderisce perfettamente
ai tempi teatrali, asciutti e penetranti,
dove il fantasma dell’amore e
della morte si rende capace di inabissarsi
nei gorghi dell’anima comunicandosi
soltanto attraverso la nuda
catena degli eventi, con quell’assordante
sensi di minaccia che preclude
alla catastrofe.
Fabio Pierangeli
Toni Iermano, Geografie e storie del
Novecento letterario. Profili critici e proposte
di lettura, Atripalda (Avellino),
Mephite, 2009, pp. 522.
Questo volume di Toni Iermano
evidenzia, già nel titolo, il suo carattere
innovativo nell’ambito della
critica italiana, che, facendo propria
una visione distorta dello strutturalismo,
ha considerato l’opera letteraria
come “autosufficiente”, completamente
slegata dal mondo esterno,
e, quindi, tale da essere studiata
“tecnicamente” nella sua “struttura”.
I danni prodotti da questo estremismo
strutturalista, soprattutto sui
giovani, sono stati denunciati da
Tzvetan Todorov, che, erroneamente,
è stato presentato come uno dei
padri del “formalismo assoluto”. Per
chiarire la sua posizione, lo studioso
bulgaro si è visto costretto a scrivere
un saggio, pubblicato in Italia
col titolo significativo di Letteratura
in pericolo (Milano, Garzanti, 2008).
E il pericolo è costituito proprio dal
fatto che l’opera letteraria è stata
presentata «come un oggetto linguistico
chiuso, autosufficiente, assoluto
» (p. 30). Di conseguenza, “i liceali
apprendono il dogma secondo cui
la letteratura non ha alcun rapporto
con il resto del mondo e studiano
soltanto le relazioni che intercorrono
tra gli elementi dell’opera” (ibidem).
Todorov così precisa la sua posizione
e quella di coloro che, negli
anni ’60, si incontrarono a Parigi per
contestare lo “storicismo assoluto”:
«A mio modo di vedere oggi – come
un tempo – l’approccio interno (studio
della relazione che esiste tra gli
elementi dell’opera) doveva completare
l’approccio esterno (studio del
contesto storico, ideologico, estetico)”
» (p. 28). Ma la critica italiana,
per giungere a questa conclusione,
non aveva bisogno di “rifugiarsi all’estero”.
Bastava che guardasse alla
sua migliore tradizione. Come ebbe
a sottolineare per primo Gramsci, nei
Quaderni del carcere, la necessità di
una lettura unitaria delle opere letterarie,
nella forma e nel contenuto,
fu ravvisata dal De Sanctis, del quale
Toni Iermano è uno dei più autorevoli
studiosi.
L’opera letteraria non è solo legata
al contesto storico, ma anche a
RECENSIONI 823
quello geografico, come ha ben
evidenziato Carlo Dionisotti. La letteratura
italiana lo dimostra ampiamente.
Basti guardare al rilievo che
in essa hanno assunto i poeti dialettali,
come Giuseppe Gioacchino Belli,
Carlo Porta, Delio Tessa, Salvatore
Di Giacomo, e, più avanti nel tempo,
come, Pier Paolo Pasolini, Virginio
Giotti, Biagio Marin, Cesare
Zavattini, Tonino Guerra. Ma si
guardi anche a scrittori che dialettali
non sono, ma sono strettamente legati
al territorio, come Cesare Pavese,
Beppe Fenoglio, Corrado Alvaro,
Francesco Jovine, Rocco Scotellaro,
Fortunato Seminara, Saverio
Strati, Vincenzo Consolo, Gesualdo
Bufalino.
Toni Iermano ha sottolineato con
forza questa dimensione geografica,
che, però, non trasforma gli scrittori
sopra menzionati in “provinciali”.
Lo dimostra anche il successo che
molti di essi hanno avuto a livello
nazionale e internazionale, e che si
giustifica col fatto che hanno saputo
coniugare dimensione “particolare”
e dimensione “universale”, come
accade sempre alle grandi opere dell’ingegno,
che parlano all’intera
umanità. Per dirla con Lukacs, hanno
saputo evidenziare, accanto all’“
uomo storico”, l’“eterno uomo
ideale”. Così si spiega, ad esempio,
la rivalutazione, da parte di Iermano,
di autori come Beppe Fenoglio,
sul quale ha pesato per lungo tempo
il giudizio di Vittorini (ma anche
quello di Calvino), che lo considerò
un “naturalista di provincia”, rifiutandosi
di pubblicare La paga del
sabato, un’opera che, negli ultimi
anni, è stata rivalutata dalla critica
più avveduta, soprattutto anglosassone
(si vedano, ad esempio, gli studi
di Philip Cooke), assieme al complesso
dell’opera dello scrittore piemontese.
Così si spiega, inoltre, il
giusto riconoscimento tributato da
Iermano a Nuto Revelli, che al mondo
contadino piemontese ha dedicato
opere come Il mondo dei vinti e
L’anello forte, imperniate sulle testimonianze
dirette dei protagonisti e
sul concetto di “etnostoria”, cioè di
storia che attinge a varie fonti, comprese
quelle orali.
Ma il riferimento a Revelli ci spinge
ad affrontare un altro aspetto del
volume che qui presentiamo. Occupandosi
del neorealismo, l’autore dà
ampio spazio non solo alle opere dei
grandi scrittori ormai riconosciuti
come caratterizzanti il movimento,
ma anche alle memorie, ai diari di
centinaia di scrittori “non professionali”,
che hanno voluto far conoscere
la loro esperienza diretta sulla
guerra, sulla prigionia nei lager,
sulla Resistenza. Nuto Revelli, con
La guerra dei poveri, è uno di questi.
Carlo Levi ha rilevato che uno dei
meriti del neorealismo è stato proprio
quello di aver coinvolto, non
solo come lettori, ma anche come
autori, tante “persone comuni”. Alcune
di esse, come Revelli, appunto,
come Mario Rigoni Stern (Il sergente
nella neve), come Primo Levi
(Se questo è un uomo; La tregua), sono
poi diventati scrittori a pieno titolo.
Vittorini riteneva che questa memorialistica
rappresentasse il frutto più
fecondo del neorealismo, tanto che,
nella sua qualità di consulente, proponeva
alla casa editrice Einaudi di
pubblicare prioritariamente diari ed
autobiografie. Di questi documenti
l’Autore fa nel suo volume un’am824
RECENSIONI
pia rassegna, citando pure dei nomi
che sono purtroppo ignoti al grande
pubblico.
Passando in rassegna i “maggiori”,
egli ha voluto mettere in evidenza,
per quanto riguarda Vittorini,
il suo grande contributo al rinnovamento
morale del Paese. Siamo con
Vittorini in presenza di un messaggio
che rimane attuale. Scrive, difatti,
Iermano: «Si tratta comunque di uno
scrittore che ha fermamente creduto
nell’utopia di poter assistere alla costruzione
di una nuova civiltà e di
redimere il mondo offeso; e ha perseverato
in questa sua drammatica
speranza con inquietudine e sofferenza
interiore, ma anche con decisione
rivoluzionaria, tragicamente
avvolto dal dubbio che forse non ogni
uomo è uomo; e non tutto il genere
umano è genere umano» (pp. 45-46).
Ancor oggi attendiamo invano quella
“riforma intellettuale e morale”
del Paese, fortemente auspicata da
Gramsci.
Di Pavese Iermano ha messo in
risalto la posizione particolare rispetto
al neorealismo, la dimensione simbolica
che affianca quella reale.
Secondo Iermano, è difficile collocare
Cesare Zavattini nell’ambito del
neorealismo, anche se lo scrittore
emiliano è stato «costretto a subire
la consumata e disattenta etichettatura
di neorealista ad oltranza» (p.
171). Scrive il critico: «Za rivendicava
la sua appartenenza alla famiglia
degli scrittori del nonsense e del fantastico,
disubbidendo e disertando
ogni socievole comandamento, non
lasciandosi intrappolare, da grande
mentitore ed inventore di storie, nei
modelli della consuetudine e del
prevedibile. Le sue antinomie giocano
sul rapporto con il reale, terreno
di giochi infiniti ma anche di
acuta, tragica osservazione dei suoi
paradossi» (p. 172). Ma occorre sottolineare
che per Zavattini la surrealtà
non è qualcosa che sta fuori
della realtà, ma l’“altra faccia della
realtà”, quella che sfugge all’uomo
della strada, che è osservatore superficiale.
Il surrealismo di Za è
quello della povera gente, dei “fabulatori”
del Po, dei quali parla anche
Dario Fo, ne Il paese dei Mezaràt
(Milano, Feltrinelli, 2002). Costoro,
con le loro trovate iperboliche, vogliono
dire la tragicità della vita attraverso
il comico. Importante per
capire la posizione di Zavattini nei
confronti del movimento neorealista
è il suo intervento al convegno di
Parma del 1953, intitolato significativamente
Il neorealismo secondo me,
per sottolineare, appunto, la singolarità
di un’appartenenza, che, pure,
viene rivendicata.
Fedele al suo progetto di descrivere,
oltre che le “storie”, le “geografie”
letterarie, Toni Iermano dedica
particolare attenzione agli scrittori
di confine, dell’estremo nord e
dell’estremo sud. Di Sgorlon evidenzia
il mito di un Friuli preservato
dalle contaminazioni della società
consumistica. Di Tomizza sottolinea
il dramma della convivenza tra etnie
diverse.
Passando all’estremo opposto dell’Italia,
Iermano presenta la letteratura
siciliana del secondo Novecento
nella dimensione trasnazionale
ch’essa ha assunto grazie ad autori
come Leonardo Sciascia, Gesualdo
Bufalino, Vincenzo Consolo, Giuseppe
Bonaviri e Beniamino Joppolo.
Viene così smentita l’immagine, acRECENSIONI
825
creditata da Giovanni Gentile, di una
Sicilia chiusa in se stessa, attaccata
come ostrica al proprio scoglio, così
come la raffigurava anche Verga. Al
contrario, la letteratura siciliana è
“permeata da una cultura vigorosa,
impegnata a raccontare nei suoi mali
quelli del mondo” (p. 341). La Sicilia
è dunque, secondo la felice definizione
di Sciascia, “metafora del
mondo”. Paradossalmente, l’autore
più “trasnazionale” è quello maggiormente
dimenticato dalla critica:
Beniamino Joppolo.
Iermano approfondisce particolarmente
l’aspetto linguistico. A proposito
di Consolo, ad esempio,
evidenzia la contestazione, da parte
dello scrittore siciliano, dell’italiano
medio, con un ritorno al dialetto ma
anche alla lingua aulica. Quest’ultima
“accoppiata” potrebbe sembrare
contraddittoria, ma non lo è. Ad
un’analisi più approfondita emerge
che spesso il lessico dialettale ha
delle origini auliche, non solo in Sicilia,
ma anche altrove: si pensi a
Pavese.
Chiusa in se stessa appare, invece,
la letteratura calabrese. Scrive
Iermano: «La letteratura calabrese
del Novecento racconta un mondo
periferico ed emarginato, fuori dai
grandi flussi culturali che investono
il paese nelle fasi di maggiore trasformazione
sociale ed economica.»
(p. 265).
La cifra distintiva della letteratura
napoletana della seconda metà del
Novecento è rappresentata, secondo
Iermano, dallo sperimentalismo linguistico,
che costituisce lo strumento
originale, utilizzato da una generazione
di giovani scrittori, per dare
voce alla realtà “magmatica” uscita
dalla guerra. I fermenti culturali erano
molto forti: «Le riviste letterarie
e politiche contribuivano in maniera
determinante ad aprire un dialogo
tra i giovani e gli orientamenti
della cultura post-bellica. Tanti avevano
seguito negli anni della formazione
gli insegnamenti etico-civili di
Benedetto Croce, ma non avevano
trascurato la poesia di Montale, la
grande narrativa europea (Joyce e
Proust), la nuova cultura letteraria e
cinematografica americana. Le immani
distruzioni della guerra e l’attivismo
ideologico del Partito Comunista
indussero i più promettenti
scrittori napoletani ad adottare il parametro
esclusivo della nuova realtà,
operando parallelamente una riduzione
del linguaggio realistico,
tipico del neorealismo meno accorto,
in direzione di espressività meno
idiomaticamente localizzate e maggiormente
disponibili a supportare
contesti emblematici» (pp. 283-284).
Va, infine, sottolineato che Toni
Iermano ha corredato i capitoli relativi
ai vari autori, trattati nel presente
volume, di un’ampia e aggiornata
bibliografia, dando così conto al lettore
dell’evoluzione della critica.
Antonio Catalfamo
LIBRI RICEVUTI
Ajello Epifanio, Il racconto delle immagini. La fotografia nella modernità
letteraria italiana, Pisa, Edizioni ETS, 2009, pp. 238.
Bellini Eraldo, Stili di pensiero nel Seicento italiano. Galileo, i Lincei, i
Barberini, Pisa, Edizioni ETS, 2009, pp. 250.
Capovilla Guido, Dante e i “pre-danteschi”. Alcuni sondaggi, Padova,
Unipress, 2009, pp. 236.
Caputo Vincenzo, La «bella maniera di scrivere vita». Biografie di uomini
d’arme e di stato nel secondo Cinquecento, Napoli, Esi, 2009, pp. 292.
Celli Carlo, Il carnevale di Machiavelli, Firenze, Olshki, 2009, pp. 216.
«Collettanee» in morte di Serafino Aquilano, edizione a cura di Alessio
Bologna, Lucca, Libreria Musicale Italiana, 2009, pp. XII-530.
D’Annunzio Gabriele, La fiaccola sotto il moggio, edizione critica a cura
di Maria Teresa Imbriani. Edizione Nazionale delle opere di Gabriele
d’Annunzio, 26, Il Vittoriale degli Italiani, 2009, pp. CLXXIII-
230.
De Cristoforo Francesco, Manzoni, Bologna, Il Mulino, 2009 (Profili
di storia letteraria a cura di A. Battistini), pp. 166.
Delcorno Carlo, «Quasi quidam cantus». Studi sulla predicazione medievale,
a cura di Giovanni Baffetti, Giorgio Forni, Silvia Serventi,
Oriana Visani, Firenze, Olschki, 2009, pp. XXII-394.
Doglio Maria Luisa, Giovanni Getto. Il suo stile critico, Alessandria,
edizioni dell’Orso, 2009, pp. 78.
E se permette faremo qualche radioscopia: letteratura e medicina, a cura di
Giorgio Barberi Squarotti, Valter Boggione, Barbara Zandrino,
Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009, pp. 278.
Ferroni Giulio, La passion predominante. Perché la letteratura, Napoli,
Liguori, 2009, pp. 110.
Giannone Antonio Lucio, Modernità del Salento. Scrittori, critici, artisti
del Novecento e oltre, Galatina, Congedo, 2009, pp. 236.
Guzzi Anna, La teoria nella letteratura: Jorge Luis Borges, Pisa, Edizioni
ETS, 2009, pp. 216.
Iermano Toni, Geografie e storie del Novecento letterario. Profili critici e
proposte di lettura, Atripalda, Mephite, 2009, pp. 526.
Imbriani Vittorio, Merope IV. Sogni e fantasie di Quattr’Asterischi, a
cura di Rinaldo Rinaldi, Roma, Carocci, 2009, pp. 450.
La retorica dell’Eros. Figure del discorso amoroso nella letteratura europea
moderna, a cura di Stefano Manferlotti, Roma, Carocci, 2009, pp.
232.
Labirinti di Psiche. Interpretazioni e variazioni sul mito. A cura di Anna
Maria Pedullà, Roma, Carocci, 2009, pp. 152.
Liuzzo Maria Teresa, Miosòtide (Non ti scordar di me), giudizio critico
di Giorgio Barberi Squarotti, pref. di Mauro Decastelli, Reggio
Calabria, Agar editrice, 2009, pp. 2004.
Malaguti Andrea, La svolta di Enea. Retorica ed esistenza in Giorgio
Caproni (1932-1956), Genova, il Melangolo, 2008, pp. 324.
Marchese Dora, La poetica del paesaggio nelle Novelle rusticane di Giovanni
Verga, Acireale-Roma, Bonanno, 2009, pp. 300.
Mosena Roberto, Fenoglio. L’immagine dell’acqua, Roma, ed. Studium,
2009, pp. 124.
Natale Massimo, Il canto delle idee. Leopardi fra «Pensiero dominante» e
«Aspasia». Presentazione di Alberto Folin con una nota di Gilberto
Lonardi, Venezia, Marsilio, 2009, pp. 160.
Rovetta Gerolamo, I disonesti, a cura di Fabio Pagliccia, Lanciano,
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Scognamiglio Giuseppina, Come (ri)leggere “La lupa” di Giovanni Verga.
Dal testo alla scena, Caserta, Spring, 2009, pp. 144.
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